Renzo Pegoraro

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Renzo Pegoraro, Fondazione Lanza, Padova

 

Ci sono filoni di studio, nell’ambito della medicina, poco o per niente esplorati. Ma resta anche da capire il concetto stesso di salute. A me va bene anche la definizione dell’O.M.S., il "completo benessere fisico, psichico e sociale". Ma so anche che il competo benessere fisico, psichico e sociale non esiste, se esistesse la chiamerei felicità, se io ho tutto questo sono felice, non sano. Oppure la salute vuol dire felicità. La definizione mi va bene, se considero che la salute è frutto di tutte queste componenti, cioè dell’aspetto fisico, dell’aspetto psichico e dell’aspetto sociale, che sono tutti ingredienti della salute.

Ma considero che la salute è sempre una realtà molto precaria, un equilibrio molto instabile, continuamente da raggiungere e mai raggiunta definitivamente, anzi superando una certa età sicuramente declina e peggiora.

Quindi, come fare per promuovere la salute, o garantire una buona salute, vuol dire anche quanto pesano questi ingredienti e come li valutiamo e capire qual è il ruolo della medicina in tutto questo, che ha una sua presenza ma non può pretendere di esaurire tutte queste realtà. In termini più semplici, chiaramente quando uno vive in una situazione carceraria soffre determinati disagi psichici e sociali. Non vuol dire che sia immediatamente malato perché, se tutto quello che vuol dire disagio diventa malattia, vuol dire che tutto va sotto i medici e medicalizziamo ancora di più la vita della gente.

Se poi va in mano agli psichiatri la cosa diventa ancora più complessa, perché chi è infelice vuol dire che è malato, oppure che va curato. Quindi non tutta l’infelicità vuol dire malattia, non tutta la sofferenza vuol dire malattia, cioè soffrire non vuol dire essere immediatamente malati. Bisogna stare attenti a certi passaggi, altrimenti con i trattamenti farmacologici risolviamo tutti i problemi! Oggi abbiamo possibilità farmacologiche molto potenti, possiamo cambiare l’umore di tutti quelli che vogliamo, come e quando vogliamo.

Quindi certi disagi non vanno assolutamente solo medicalizzati, ma se vogliamo contribuire a una buona salute dobbiamo accettare che altri componenti diano il loro apporto, quindi l’elemento relazionale, l’elemento affettivo, l’elemento sociale, l’elemento culturale, l’elemento spirituale, etc.. quindi non è solamente un problema medico in senso sanitario e, questa, credo sia una prospettiva che vada evidenziata. Se vogliamo aiutare la persona diamo delle risposte in termini di servizi sanitari, ma cerchiamo di dare delle risposte in termini più umano – relazionali, che possono aiutare a trovare un equilibrio e una serenità maggiori.

E concludo dicendo che tutti sono protagonisti nei confronti della salute, quindi anche il detenuto. Non vorrei che ci fosse l’idea solo di fornire determinati servizi, determinate strutture, ma ricordiamoci che anzi tutto è il soggetto ad essere il primo responsabile di se stesso e della propria salute. E quanto uno può essere aiutato ad assumere fino in fondo la propria responsabilità.

E qui, talvolta, ci sono anche delle componenti difficili su cui intervenire. Cioè, uno che fuma, quanto è responsabile della propria salute? E quanto lo penalizza se si ammala? Uno che beve, o ha disturbi alimentari in un certo modo, che tipo di responsabilità ha, nei confronti della sua salute? E quanto gioca della sua libertà? E che tipo di responsabilità ha la collettività, nei confronti di questi comportamenti? Senza moralizzare assolutamente tutto quanto.

Oggi siamo spesso in difficoltà a interpretare queste dinamiche, perché uno spazio di libertà e responsabilità può essere interpretato che ciascuno si prende anche le conseguenze dei propri comportamenti. Oppure rimane anche un vincolo di solidarietà, per cui si aiuta anche chi si è malato per sua colpa?

Cioè, quando uno, pur limitato, come in carcere, ha uno spazio nella cura della propria salute che dipende da lui e quanto va aiutato perché possa prendersi cura di se stesso, che allora non diventa solo un fatto sanitario ma vuol dire forse recuperare il senso della propria dignità. Certe volte, quando uno si lascia andare, perché non vede prospettive, non vede un senso alla propria vita, alla cura di se stesso. Avere cura di sé tante volte diventa anche espressione della propria identità ed è un segno di speranza.

Per cui, ecco, direi che anche parlando di queste tematiche, come aiutare ciascuno a giocare fino in fondo la responsabilità che ha. Credo che un detenuto conservi comunque uno spazio che dipenda anche da lui e deve esserci, perché se è persona vuol dire che qualcosa ancora dipende da lui. Se niente dipendesse da lui non ci sarebbe più persona.

È una stima, un riconoscimento della sua dignità, che anche lui può fare la sua parte, limitata ma la può fare. Questo può fare in modo che ci possa essere un dialogo più costruttivo con tutti coloro che aiutano, con diverse competenze, sanitarie, psicologiche o sociali, perché si raggiunga il massimo di salute possibile in quel contesto.

E sarà sempre questa la sfida, non sarà mai una salute assoluta. Sarà il massimo possibile in quel contesto, in quel momento, con quell’età, in quelle circostanze, etc., etc., e credo questo sia già un traguardo significativo.

 

 

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