Sandro Libianchi

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Sandro Libianchi, medico penitenziario a Rebibbia (Roma)

 

Cercherò di dare il contributo su un argomento che ci vede impegnati quotidianamente. Io lavoro in un carcere di Roma, quello di Rebibbia, che ha un numero di detenuti rilevante. Oggi si considera ancora il carico di lavoro determinante per i risultati, quindi Rebibbia ha 2.300 – 2.400 detenuti, raggruppati in quattro strutture differenti e separate ed è di grosso impegno, sia per la Regione, sia per la USL competente per territorio.

Questo lavoro è stato alla base dell’incarico che ho avuto dal Ministero della Sanità - Salute, per mettere a fuoco quello che è il nodo cruciale della legge 419, una legge delega, e del decreto 230, che tutti conosciamo. Il punto chiave di questa normativa era di riuscire a dirimere il dubbio, previsto dalla 419 e dal 230, se tutto quello che avevamo messo in atto, le forze in campo, l’impianto della legge e la sua applicazione, avessero avuto o potrebbero avere un risultato considerato positivo, o meno.

In un caso o nell’altro, correttivi normativi sarebbero stati adottati in modo tale da avere un "riordino" della cosiddetta medicina penitenziaria. Ed è una specifica di non poco conto, perché la parola "riforma" non compare: è un "riordino".

Un riordino, così è il titolo dell’articolo 5 della 419, della medicina penitenziaria, perché uno dei principi base è che fosse di sue risorse, che significa: c’è qualcosa da riordinare, rimettiamolo con un ordine differente, probabilmente potremo anche risparmiare qualche cosa. Questo nel 1999. Oggi già il discorso è più difficile, perché i fondi che c’erano a quell’epoca non ci sono più, nonostante i costi siano aumentati, quindi il discorso si è fatto tecnicamente più complesso.

Quindi il punto cruciale di questo riordino è proprio il risultato, che sarà appunto quello di cui parleremo adesso, dando alcune brevi delucidazioni. Parleremo brevemente dei principi che hanno cominciato a mettere in atto questa normativa nuova, del personale sanitario, dei detenuti e dell’attività del Comitato, dei risultati della "famosa" sperimentazione prevista e dei problemi che oggi rimangono aperti.

Un breve cenno sui principi. La medicina penitenziaria è un residuo, abbastanza limitato, di 30 anno fa – 1970 – quando veniva definito che il detenuto aveva diritto a ricevere cure in carcere. Nel ’70, quindi, si disse: è vero, il detenuto ha diritto a ricevere delle cure e queste cure gliele deve dare un medico. Sembra assolutamente banale, però nel 1970 non era così, tant’è vero che c’è voluta una legge. Questa legge, nel 1998, dopo quasi 30 anni, è stata considerata totalmente insufficiente, per la sua configurazione proprio operativa: in questi 30 anni il comparto sanità non penitenziario ha viaggiato tantissimo. A livello internazionale ci sono state tantissime determinazioni, che hanno fatto sì che il quadro cambiasse completamente i diritti dei detenuti, messi in discussione migliorativa in maniera radicale.

Quindi, da un concetto di medicina penitenziaria, restando proprio alla terminologia usata nei testi di legge, si passa ad un concetto molto differente, che è quello della tutela della salute in carcere. Questo proprio a sottolineare che, probabilmente, fino a questo punto non era stata molto tutelata. Ci sono state quattro determinazioni, un Progetto Obiettivo, una sperimentazione in tre regioni, che poi sono diventate sei, è stato istituito un Comitato di valutazione di quello che è stato portato avanti dalle regioni e dai ministeri, è stato anche identificato il personale penitenziario da trasferire di comparto, è stato detto che le attrezzature, gli arredi, e ogni bene strumentale passasse alle regioni. Perché le regioni erano quelle competenti alla salute del cittadino, anche detenuto.

Parliamo brevissimamente del personale sanitario: al settore sono addette circa 6.500 persone, quindi non sono poche, la cui caratteristica fondamentale è che il 99% ha un contratto di tipo libero professionale, o equiparato a libero professionale, quindi un contratto abbastanza fuori dal mercato attuale, a mio avviso.

Questo personale sanitario lavora nelle strutture penitenziarie, che sono configurate secondo legge: ci sono delle Casa Circondariali, delle Case di Reclusione, Istituti o Sezioni femminili, delle Case mandamentali che, sebbene siano state riordinate anche quelle per legge, ancora esistono e sono attive, delle Case di lavoro e degli Istituti per minori, a riguardo dei quali c’è un altro punto debole della legge.

Addirittura per alcuni settori, come la tossicodipendenza, sono state identificate e create delle strutture apposite, delle custodie attenuate, che tutti conosciamo, come Istituto separato o come Sezione. Ci sono poi dei Centri di Accoglienza per minori, dove si vede una maggior parte dei minori dediti all’uso di sostanze stupefacenti o di alcol, che è la nuova problematica emergente in questi ultimi 5 anni.

Abbiamo i Centri Diagnostici e Terapeutici, che sono una dozzina, che chiudono e riaprono con varie ristrutturazioni, dove molto spesso vengono utilizzate terapie di livello, anche chirurgico, molto importante. Non sono noti i risultati dell’attività di questi Centri. Non è una battuta, realmente i risultati non sono noti. Abbiamo una possibilità di ricovero intra-carceraria distribuita abbastanza omogeneamente da nord a sud.

Cito anche i Nidi penitenziari, che sono una ventina (anche questi subiscono chiusure e aperture), dove molto spesso vengono allocate donne con bambini, affette frequentemente da patologie da dipendenza.

Gli Istituti, sia per adulti, sia per minori, sia Centri di prima accoglienza, sono distribuiti in varia maniera nelle regioni italiane: la Toscana, tra tutte, è quella che ne ha di più, insieme alla Sicilia e alla Campania. La Valle d’Aosta ne ha uno soltanto, il Veneto ne ha 14, considerando anche le strutture per i minori, non solamente quelle per adulti, di cui normalmente si parla.

Dati che abbiamo aggiornato al 15 maggio ci vedono impegnati fortemente, come sistema penitenziario, con dei numeri che fanno pensare: il Veneto, in questo momento, ha circa 2.500 detenuti, il che va ben oltre la capienza degli Istituti. In totale, per una capienza regolamentare di 41.000, che è considerata tollerabile fino a 60.000 circa, in Italia abbiamo una presenza di quasi 56.000 detenuti.

Speco un minuto per fare un commento sulla capienza degli Istituti penitenziari: se noi vediamo questo dato nell’ultimo anno - anno e mezzo, ci accorgiamo che ha avuto delle modificazioni importanti. Ovvero, gli Istituti sono rimasti quelli che erano, ovviamente, perché qualcuno è stato aperto ma qualcuno è stato chiuso, quindi come capienza fisica non sono cambiati, quello che è cambiato è la tollerabilità di un numero. Questa tollerabilità è un concetto che è stato elasticizzato, fino a farla diventare una tollerabilità tollerabile: sono cambiate le riparametrazioni degli Istituti, ovverosia, riparametrando (e non è noto il parametro usato, appunto, per riparametrare) si è arrivati a una tollerabilità differente, per decreto. Questo è un punto importante, perché apparentemente non c’è problema, invece qualche problemino chi lavora e vive in carcere lo vede.

In Veneto, in questo momento, il rapporto tra condannati e imputati, quindi tra definitivi e non definitivi, è molto a favore dei condannati, quindi evidentemente c’è un lavoro dei tribunali abbastanza importante. Non era così fino a 5 - 6 anni fa, quando il rapporto era diverso, ovvero erano molti più gli imputati che i condannati.

La capienza regolamentare del Veneto – sono tutti dati ministeriali, quindi non metto nulla del mio, in questo – è di 1.421, la tollerabilità è fino a 2.100, la presenza è di 2.485, quindi il Veneto in questo momento ha grossi problemi di capienza, con una tollerabilità superata.

L’andamento dei nuovi entrati nelle carceri italiane è abbastanza prevedibile e questo è un buon punto per la programmazione, perché si può programmare con attenzione. La suddivisione anche è abbastanza prevedibile e costante nel tempo, con dei lievi ritocchi. Il punto cruciale delle patologie è quello delle alcol e tossico dipendenze, al cui riguardo i dati ufficiali ci danno un valore pari al 30%. Probabilmente – sicuramente a nostro avviso – questo valore è ampiamente sottostimato, per carenza di diagnosi effettuata a livello penitenziario, per varie problematiche diverse di cui ora non stiamo a vedere. Comunque è un dato che può arrivare intorno al 50% effettivo e, questo, la dice lunga anche sulle difficoltà di programmazione di fronte a un dato che non è corretto nella sua origine, quindi con i suoi corrispettivi di costi ed i suoi corrispettivi di tutto ciò che è organizzazione.

Anche gli straneri sono in lieve ma regolare aumento, attualmente sono circa un quarto della popolazione totale. Le donne si attestano sempre intorno a un 5%, i minori sono un problema stabile e sono circa 4.000 entranti nei circuiti, ogni anno, con circa 500 presenza a una certa data.

Anche le entrate dei tossicodipendenti sono abbastanza regolari, con una tendenza effettiva al calo in quest’ultimo biennio. I tossicodipendenti sono per la maggior parte uomini, i sieropositivi stanno decrementando, mentre sui minori c’è un dato assolutamente carente. Fino a due anni fa il Dipartimento per la giustizia minorile non censiva il minore tossicodipendente, che quindi non veniva neanche considerato. Venivano considerate terminologie abbastanza arcaiche, tipo la tossicofilia, la dedizione all’alcol, che da un corrispettivo clinico avevano poco di sostanziale. In realtà si sta incominciando a fare anche questa classificazione grazie agli operatori che lavorano nei rispettivi settori.

E veniamo alla conclusione dell’argomento, ovvero all’attività del Comitato ed ai risultati che si sono ottenuti. Questo Comitato, ricordo, è costituito da tre membri del Ministero della Salute, tre membri del Ministero della Giustizia e tre membri (che poi sono diventati cinque) delle Regioni.

La relazione finale è stata consegnata il 16 giugno 2002, quindi circa un anno fa. Queste persone hanno considerato questi parametri, che il modello organizzativo che andavano a esaminare, ovvero sia quello che era stato fatto, avesse tenuto conto di alcuni punti fondamentali e irrinunciabili, che erano il testo di legge, cioè che qualsiasi modello organizzativo fosse stato messo in atto abbia un rispetto totale dei criteri di sicurezza degli Istituti, che avesse dato garanzie di continuità terapeutica, sia all’interno, ma anche all’esterno, dopo la dimissione, che avesse preso atto di una forte integrazione tra carcere e territorio. E riprendevo il discorso del dottor Fasolo, sull’importanza della "328", che è proprio l’espressione normativa efficace dell’integrazione socio sanitaria tra carcere e territorio.

Che fosse stata stabilita una parità di livelli assistenziali tra cittadino detenuto e non detenuto, che il livello di sistema offerto fosse non uguale per tutti i settori, ma fosse differenziato per problematiche specifiche, ad esempio quello che si faceva in un carcere femminile non poteva essere identico, ovviamente, a quello che veniva fatto in un carcere maschile.

La partecipazione di rappresentanze dei detenuti è stata forse uno dei punti più carenti di questa valutazione, perché non c’è stata documentazione, o ce n’è stata molto poca.

L’ultimo punto, è che fossero stati scelti degli indicatori, quindi dei valori numerici, possibilmente, che avessero dato una misura anche quantitativa di quello che era stato fatto.

 

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