Franco Fasolo

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Franco Fasolo, Direttore Dipartimento di Salute Mentale di Padova

 

Purtroppo siamo nell’epoca della riproducibilità tecnica del manicomio e, negli ultimi tempi stiamo assistendo, sia a livello nazionale sia a livello padovano, ad una crescente criminalizzazione dei malati mentali. Io spero vivamente che questo seminario, insieme al libro di Laura Baccaro, promuova un effetto di rispecchiamento tra l’attuale situazione evolutiva delle carceri e l’attuale situazione evolutiva dei Dipartimenti di Salute Mentale di tutta Italia. Quando dico che stiamo assistendo, non voglio dire solo che vediamo, senza riuscire a fare nulla di più che continuare a lavorare cercando di agire sui fattori che ostacolano l’attuazione coerente ed efficace della normativa sulla salute mentale, normativa che non si esaurisce nella legge 180: noi stiamo pensando di fare la celebrazione dei 25 anni della "533", che dà senso alla "180". Dentro alla "533" c’è anche la "229", che è la legge che ha istituito i libretti sanitari, e la "328", che è la legge che ha istituito l’integrazione sociosanitaria. Stiamo assistendo all’attiva e maligna assistenza che un numero anche troppo elevato di psichiatri sta dando alla criminalizzazione dei malati mentali. Ci sono alcuni psichiatri, in Italia, che preferiscono, al complesso contatto di cura con i pazienti, nel loro contesto socioculturale di vita, l’osservazione semplificata in qualche istituzione psichiatrica o carceraria.

La mia relazione sarà in gran parte incentrata sul Protocollo tra il Ministero della Giustizia e la Regione Veneto, siglato a Venezia l’8 aprile 2003. Un Protocollo molto articolato, che impegna i firmatari anche alcuni punti che riguardano la psichiatria: qui stiamo parlando di prospettive della salute mentale e di quello che significa il Dipartimento di salute mentale in Italia.

Il primo punto riguarda un accordo per adeguare e potenziare i servizi psichiatrici di diagnosi e cura e le strutture terapeutiche, atte al ricovero dei detenuti. Qui farò solo delle osservazioni sparse, che voi potete ricomporre con tutto quello che si sta dicendo oggi. Per esempio, qual è il bisogno prevedibile di posti letto in quei reparti di cure intensive, specializzati in malattie psichiatriche acute? L’osservazione e la cura specialistica di un carcerato è fortemente limitata a causa del piantonamento, quindi bisogna anche mettersi d’accordo su questo. Ricordo a tutti i cittadini che il regime di trattamento sanitario obbligatorio non impone l’obbligo della custodia dei malati sottoposti al trattamento stesso. Come la mettiamo con queste cose?

Dato che finora la collaborazione con gli psichiatri del carcere è stata molto costruttiva, anche se in pochi casi, devo dire, dovremmo perciò parlarne con i colleghi. Dalla letteratura – se ne è parlato anche stamattina – risulterebbe che gli psichiatri del carcere debbano, coerentemente con le regole di quella istituzione, utilizzare dosaggi pieni di farmaci tranquillanti (gli antipsicotici sono solo farmaci tranquillanti).

D’altra parte, da una ricerca che si è conclusa recentemente, risulterebbe che dai "Diagnosi e cura" psichiatrica i pazienti - detenuti escono più tranquilli e collaboranti, se sottoposti ad un regime farmacologico. Un regime farmacologico che, dall’inizio alla fine del ricovero, è molto cresciuto, in termini di dosaggi e di numero di medicinali prescritti. Non si sa dove vengono prescritti i farmaci, se in carcere o nei "Diagnosi e cura", quindi anche qui bisognerà che si prenda qualche decisione.

In una riunione di riflessione, che abbiamo fatto nel Dipartimento di salute mentale di Padova, abbiamo pensato che anche il carcere è una struttura residenziale presente nel territorio dove sono previsti i servizi del Dipartimento.

Quindi dovrebbe essere seguito in termini puramente consuleziali, nel totale rispetto delle regole dell’istituzione carceraria? Nel qual caso, però, queste regole dovrebbero essere semplificate e dovrebbero essere condivise.

Oppure intendendo il carcere come una particolare comunità, chiusa, con regole proprie, con scopi istituzionali parzialmente riscritti, quindi intervenendo di conseguenza secondo le metodiche tipiche della psichiatria di comunità? Ma anche questo pone dei problemi, ad esempio la psichiatria di comunità interviene sempre tenendo conto non solo della persona, del paziente, ma anche del contesto nel quale vive.

Perché anche gli operatori penitenziari sono, in qualche modo, detenuti, e gli effetti della desensibilizzazione umana coinvolgono, ad esempio, un certo numero di operatori, soprattutto giovani che, mentre prima erano lavoratori soddisfatti, poi improvvisamente lasciano questo lavoro. Ad ulteriore esempio, qualche cosa che riguarda gli psichiatri. È noto che gli psichiatri pubblici, nelle more di una più completa comprensione della mission specifica della psichiatria di comunità, delegano volentieri ad altre agenzie, registi teatrali, etc., l’attivazione eventuale di gruppi terapeutici. Questi gruppi di pazienti, oltre a garantire pari opportunità di accesso ad una forma di psicoterapia efficace per tutti gli utenti - e qui voglio ricordare che l’equità di salute è un’altra cosa che l’equità della cura -, comporta il vantaggio di costituirsi come germi di comunità sane.

L’unica ipotesi plausibile, rispetto al fatto che gli psichiatri di una struttura pubblica non promuovono la partecipazione dei cittadini all’attività della struttura stessa, potrebbe essere – lo dico in maniera davvero dubitativa, perché non faccio il sociologo – l’idea che, dato che la formazione di gruppi è necessaria per i cambiamenti sociali, uno psichiatra che lavori in un contesto istituzionale, che è delegato a contenere gli effetti dei cambiamenti sociali presumibilmente collegati con la devianza sociale, non si sente autorizzato a fare dei gruppi con i pazienti. Quindi, il problema in questo caso è il seguente: quando cominciamo a collaborare, gli psichiatri del carcere si sentirebbero autorizzati a fare gruppi terapeutici allargati ai ristretti?

L’altro punto previsto nel Protocollo è di promuovere la realizzazione di strutture residenziali, o semiresidenziali intermedie, rivolte ai dimessi dagli istituti penitenziari e dagli ospedali psichiatrici giudiziari. Di strutture residenziali psichiatriche, con svariati gradi di protezione, ma con livelli bassi di efficacia dal punto di vista psico-sociale, in Veneto e a Padova ne abbiamo più che a sufficienza. Allora dovremmo rifiutare l’equivoco che la sicurezza dei cittadini sia tutelata da pene, più che da interventi di trattamento adeguati.

 

 

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