Monica Vitali

 

Monica Vitali

 

Riprendo il filo della riflessione mai interrotta sulle ricadute della riforma governativa del mercato del lavoro nell’ambito del lavoro penitenziario, con una particolare attenzione al sistema dell’area penale esterna: il punto di partenza deve essere il contenuto necessario della misura alternativa, che rappresenta, utilizzando le parole di un maestro come Sandro Margara, “un processo, lo sviluppo di un percorso di riacquisizione di un ruolo sociale, fatto del recupero di relazioni e condizioni, responsabilità familiari, risorse formative, intellettuali e pratiche, lavoro, con processi adattativi a ritmi e modalità di rapporti”, che la qualifica come un sistema di prova controllata ed assistita, orientata alla ricostruzione del ruolo sociale della persona non attraverso una modificazione morale e puramente soggettiva, bensì attraverso l’intervento assistito sulle sue relazioni e le sue condizioni, dunque fortemente oggettiva.

Questa lettura della misura alternativa, vale la pena ribadirlo ancora una volta in questo clima istituzionale in cui i principi della nostra Carta Costituzionale sono messi in discussione, talora dimenticando, come ricorda ogni intervento della Corte Costituzionale, che nel nostro sistema esiste una gerarchia delle fonti alla cui sommità stanno appunto le norme di rango costituzionale, è diretta conseguenza del principio costituzionale dell’articolo 27 III Costituzione: il fine ultimo della pena è tendere al recupero sociale del condannato, così che quest’ultimo è titolare del diritto soggettivo a veder valutato durante l’esecuzione della pena, con le modalità e i tempi fissati dall’Ordinamento Penitenziario e dalle altre leggi ordinarie, se la parte di pena già espiata abbia raggiunto o meno il suo fine rieducativo.

Se così è, il sistema penale non può essere autoreferenziale, ma deve relazionarsi con il patrimonio di solidarietà della società civile e con le risorse del territorio: ecco il passaggio cruciale del reperimento dell’attività lavorativa, sia in termini di presupposto per l’accesso alla misura alternativa sia, più in generale, come percorso di vita alternativo alle pratiche illegali, una volta espiata la pena.

Può sembrare superfluo ricordare ancora una volta la difficoltà di conciliare la rigidità del sistema penitenziario con la flessibilità del mercato del lavoro, ma mondo carcerario e mondo del lavoro al momento non solo viaggiano a velocità diverse, ma il secondo sta accelerando in modo esponenziale la propria mutazione genetica con l’obiettivo dichiarato dell’incremento dell’occupazione attraverso l’emersione del lavoro irregolare e la tutela dei soggetti svantaggiati.  

Quest’ultima affermazione potrebbe indurre ad una prospettiva ottimistica, dato che detenuti ed ex detenuti sono un tipico esempio di soggetto svantaggiato: la realtà, tuttavia, e mi riferisco alla realtà normativa, non certo a quella fattuale, non induce a rosee previsioni  e cercherò di chiarire il perché in questo intervento

Prima di tutto i riferimenti normativi: la legge delega 14 febbraio 2003 nr. 30 in materia di mercato del lavoro si è posta come obiettivi la realizzazione di un mercato del lavoro trasparente ed efficiente, il perseguimento di efficaci politiche di occupazione, l’introduzione di tipologie contrattuali utili a realizzare l’adattabilità delle imprese e dei lavoratori e ad allargare la partecipazione al mercato del lavoro di soggetti a rischio di esclusione sociale. Nella relazione alla legge si precisa come il governo ritenga che la legislazione in materia di lavoro si limiti a garantire la protezione del lavoratore in quanto titolare di una posizione lavorativa, a scapito di coloro che sono inoccupati, così che l’intervento legislativo deve non solo rimodulare l’iperprotezione accordata a chi un lavoro lo possiede, ma anche assicurare una effettiva tutela dei disoccupati sottotutelati.

Lo strumento individuato è la flessibilità, intesa come mobilità nelle transizioni tra scuola e lavoro, tra lavoro e non lavoro e tra lavoro e formazione, che consente anche di limitare la divaricazione crescente tra la manodopera sul mercato del lavoro e le necessità delle imprese.

Dopo l’approvazione della legge delega è stato adottato il decreto delegato 10 settembre 2003 nr. 276 che conclude la fase di riforma del mercato del lavoro, riscrivendo a tavolino istituti e discipline dei rapporti di lavoro, nella convinzione che la progettazione normativa di nuovi istituti possa produrre efficaci mutamenti della realtà sociale.

Certamente non è questa la sede né il momento per affrontare i complessi problemi interpretativi relativi ai singoli aspetti del decreto delegato in grado di incidere sul mondo del lavoro penitenziario, ma alcuni punti di partenza, sia pure a livello di prima analisi e riflessione, devono essere fissati.

In primo luogo, l’articolo 2 che esplicita, dopo la definizione di “lavoratore: qualsiasi persona che lavora o è in cerca di lavoro”, quella di “lavoratore svantaggiato” identificato in due tipologie, e cioè qualsiasi persona appartenente a una categoria che abbia difficoltà a entrare senza assistenza nel mercato del lavoro ai sensi di una norma del regolamento (CE) 2204/2002, nonché “ai sensi dell’articolo 4 comma 1 della legge 8 novembre 1991 nr. 381”.

Questi sono i soggetti elencati nella legge che disciplina le cooperative sociali, e cioè sia le persone svantaggiate “originarie”, cioè quelle che erano previste originariamente nella L. 8 novembre 1991 nr. 381, gli invalidi fisici, psichici, sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici non giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcooldipendenti, i minori a rischio in età lavorativa, i condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione di cui agli articoli 47, 47 bis, 47 ter e 48 L. 354/75, sia i soggetti che sono stati aggiunti al catalogo della L. nr. 381/91 dalla Legge Smuraglia, e quindi gli ex degenti degli ospedali psichiatrici giudiziari, i detenuti negli istituti penitenziari, gli internati in esecuzione delle misure di sicurezza detentive, i detenuti e gli internati ammessi al lavoro all’esterno ex articolo 21 O.P. nonché a tutte le misure alternative alla detenzione che, nel frattempo, si sono aggiunte a quelle originariamente previste dalla L. nr. 381/91, e cioè gli affidati in prova al servizio sociale e gli affidati tossicodipendenti, gli ammessi alla detenzione domiciliare e alla semilibertà ex articolo 48 O.P.

La definizione rileva per le altre norme del decreto legislativo da esaminare, e cioè l’articolo 13 sulla somministrazione di lavoro per l’inserimento di soggetti svantaggiati e l’articolo 14 sulle cooperative sociali e l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. Gli articoli 70/74 invece si riferiscono alle prestazioni occasionali di lavoro accessorio, che possono essere rese solo da soggetti a rischio di esclusione sociale, categoria nella quale, tra gli altri, rientrano i soggetti in comunità di recupero e i disoccupati da oltre un anno. 

Ora, l’articolo 13 prevede al I comma che, al fine di garantire l’inserimento nel mercato del lavoro dei soggetti svantaggiati, come sopra definiti, attraverso politiche attive e di workfare, alle agenzie autorizzate alla somministrazione di lavoro, cioè a quelle che forniscono professionalmente manodopera a tempo indeterminato o a termine, sia consentito: “a) operare in deroga al regime generale della somministrazione di lavoro ai sensi dell’articolo 23 II comma, ma solo in presenza di un piano individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, con interventi formativi idonei e il coinvolgimento di un tutore con adeguate competenze e professionalità, e a fronte della assunzione del lavoratore da parte delle agenzie autorizzate alla somministrazione, con contratto di durata non inferiore a sei mesi; b) determinare, altresì, per un periodo massimo di dodici mesi e solo in caso di contratti di durata non inferiore a nove mesi, il trattamento retributivo del lavoratore, detraendo dal compenso dovuto quanto eventualmente percepito dal lavoratore medesimo a titolo di indennità di mobilità, indennità di disoccupazione ordinaria o speciale, o altra indennità o sussidio la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione o inoccupazione, e detraendo dai contributi dovuti per l’attività lavorativa l’ammontare dei contributi figurativi nel caso di trattamenti di mobilità e di indennità di disoccupazione ordinaria o speciale”. Ciò significa per l’agenzia di somministrazione poter superare il principio della parità di trattamento economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte, e godere di una riduzione delle aliquote contributive. Analoga deroga alla parità di trattamento retributivo è assicurata nel caso di contratti di somministrazione conclusi da soggetti privati autorizzati nell’ambito di specifici programmi di formazione, inserimento e riqualificazione professionale erogati, naturalmente sempre in favore dei soggetti svantaggiati, in concorso con regioni, province ed enti locali.

Si tratta in poche parole, al di là della ridondanza della norma, dell’ennesimo incentivo, in termini di convenienza economica e normativa, offerto alla imprese a fronte di una occupazione neppure stabile, ma largamente precaria, vista la previsione di legittimità di un termine, purché non inferiore a sei o nove mesi, al prezzo di un indebolimento del livello di tutela salariale e dei diritti rispetto al lavoro standard.

Dal canto suo, l’articolo 14 prevede l’inserimento nel mercato del lavoro dei soggetti svantaggiati attraverso un meccanismo che postula la loro adesione alle cooperative sociali. La norma consente, infatti, la stipulazione di convenzioni quadro su base territoriale che coinvolgano le associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nonché le associazioni di rappresentanza, assistenza  e tutela delle cooperative sociali, convenzioni il cui oggetto è il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali da parte delle imprese associate o aderenti.

Le convenzioni, previa convalida della Commissione Provinciale del Lavoro, dovranno regolare le modalità di adesione alle stesse, i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati, la promozione e lo sviluppo delle commesse nelle cooperative, l’eventuale costituzione di una struttura tecnico-operativa di supporto e la definizione del valore complessivo delle commesse che le imprese conferiscono, nonché altri elementi rilevanti nel caso che i soggetti svantaggiati siano disabili.

Terminato l’esame delle norme, verrebbe da dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole: ancora una volta, gli strumenti scelti dal legislatore delegato sono quelli che abbiamo già visto prescelti ed applicati con scarsi risultati nella Legge Smuraglia, approvata da oltre quattro anni nel giugno 2000, e dunque incentivi alle imprese e  facoltà di stipulare convenzioni per le cooperative sociali.

A ben guardare, tuttavia, la novità esiste e non è rassicurante per i detenuti, ma non solo per loro: il sacrificio che viene richiesto è quello dell’abbattimento delle tutele economiche e normative rispetto al contratto di lavoro standard in nome di un presunto innalzamento della quantità, ma certamente non della qualità, dell’occupazione dei soggetti svantaggiati.

 

 

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