Articolo di Sergio Segio

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

L’affettività come diritto

di Sergio Segio

 

Fuoriluogo, maggio 2002

 

Un carcere più aperto: è questo il faticoso e annoso obiettivo perseguito da tante associazioni, da molti volontari, da rari esponenti politici e da ancor più sparuti parlamentari. Specie in questa legislatura, "decimata" com’è di senatori e deputati attenti e impegnati sui temi dei diritti e delle pene. Aperto nel senso di trasparente e di collegato alla società esterna, innanzitutto. Ché i segnali di opacità e di ripiegamento dell’istituzione (e dei singoli istituti) su se stessa sono frequenti.

Aperto anche nel senso di un minor ricorso alle pene reclusive, di carcerazioni più brevi e in condizioni più civili, di maggiore impulso alle misure alternative e alla depenalizzazione di taluni reati, a partire da quello (art. 73 della legge sugli stupefacenti) che porta in galera circa 30.000 persone l’anno per sola e semplice detenzione e possesso di droghe. Dunque, un carcere dove si entri il meno possibile, con maggiori garanzie, sulla scorta di puntuali verifiche e per reati di effettiva pericolosità e dal quale si esca più facilmente, sulla base di quanto previsto dall’ordinamento.

Per una volta, tuttavia, fa piacere vedere un carcere dalle porte aperte anche in entrata; tale è stato quello di Padova, che il 10 maggio ha visto l’ingresso di centinaia di persone. Non in virtù di reati commessi ma della partecipazione alla giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti", promossa dagli infaticabili redattori di "Ristretti orizzonti" e del "Centro di documentazione Due Palazzi", dal Coordinamento Nord-Est dei giornali dal carcere, dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e dalla Casa di Reclusione di Padova. La cui direzione, unitamente al Magistrato dì Sorveglianza padovano e al Provveditore degli Istituti di Pena, ha indubbiamente il merito di aver sempre favorito il collegamento dei detenuti con la società. Con i fatti e non solo con le buone parole o le democratiche pacche sulle spalle, pratica assai diffusa nei penitenziari: costa poco, però non produce cambiamento e non incrina il velo dell’opacità e dell’indifferenza. Nel caso specifico, il merito è di aver consentito l’ingresso e la partecipazione di così tanti "esterni" senza rifugiarsi in immobilismi burocratici, diversamente assai consueti tanto da rendere rarissime iniziative simili in altri penitenziari e città.

Il tema, del resto, non è dei più facili. Eppure risulta tra i più coinvolgenti. E in questo modo, oltre all’ ottima organizzazione e, appunto, alla collaborazione delle autorità competenti e del personale dell’istituto, particolarmente degli agenti penitenziari, che si spiega una partecipazione veramente straordinaria: 400 persone esterne fra cui famigliari, detenuti di altre carceri, ex detenuti, operatori e volontari, 120 detenuti di Padova ammessi all’incontro.

Lavori lunghi (piacevolmente interrotti dall’ottimo spuntino multietnico preparato da reclusi e volontari) ma sicuramente produttivi: si veda qui la scheda dell’avvocatessa Alborghetti riguardo la proposta di legge illustrata alla fine dei lavori. Un gruppo di lavoro misto (cui, tra gli altri, oltre a detenuti ed ex detenuti, hanno partecipato anche Sandro Margara, già direttore generale delle carceri e Marco Boato, deputato da sempre impegnato su questi temi) ha elaborato un articolato su cui saranno ora raccolte le firme di parlamentari per avviarne l’iter.

Anche questo, in fondo, è stato fatto eccezionale da rimarcare: di fronte a un legislatore troppo spesso disattento al mondo penitenziario e ai suoi cronici problemi, i reclusi in prima persona, sostenuti da tecnici e da operatori motivati, si fanno carico non solo di chiedere o di sollecitare, ma pure di indicare le risposte possibili. In questo caso, una proposta assai semplice nei suoi fondamenti, ancor prima che nelle sue formulazioni: l’affettività va concepita, dichiarata e normata come un diritto della persona reclusa e di coloro che sono in relazione con lei. Ne premio, ne concessione, dunque. Gli spazi di mantenimento, crescita ed espressione delle relazioni sociali, degli affetti e anche della sessualità sono un fattore potente e imprescindibile dell’identità di ciascuno. Perciò hanno a che fare con la dignità umana.

Gli spazi per l’affettività devono allora essere intesi e rispettati quali diritti incomprimibili della persona. Anche di quella reclusa. I cui diritti, questo compreso, vanno anzitutto registrati dalle norme, ovvero scritti sulla carta, come si propone di fare l’iniziativa cominciata il 10 maggio a Padova. Possibilmente con l’inchiostro indelebile. Datosi che leggi infine e pur faticosamente varate, quali quella sulle detenute madri e sui bambini in carcere (ma anche tante parti del nuovo regolamento penitenziario), sembrano essere state scritte sulla sabbia, da quanto scarsa o nulla è stata la loro applicazione.

 

 

 

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