Stefania Chiusoli

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

Stefania Chiusoli (Autrice del libro "Quasi tutto ancora da vivere")

 

Incominciate dalla meno autorevole, anche se da quella che senz’altro ha frequentato di più le galere in questi anni. Mi sorprende che facciano fare una testimonianza a me che sono la meno autorevole fra questi signori, perché dovrei essere l’ultima a parlare. Però, che dire, io ho questa esperienza affettiva perché ho seguito una persona in carcere per 23 anni. Il presidente Margara lo sa bene, perché negli Uffici di sorveglianza si sa sempre tutto.

Allora non c’erano ancora le normative della legge Gozzini, che è venuta in soccorso per il perdurare di un affetto, per avere un poco di speranza. Allora, io incontrai questa persona, raccontata in un testo che si chiama "Quasi tutto ancora da vivere".

Il mio parlare è impoverente, rispetto a quello che è scritto nel libro, perché naturalmente quando una vicenda si basa soprattutto sull’affetto è abbastanza ineffabile, quindi lo scritto appunto si scrive per non parlare. Comunque gli anni sono stati incredibilmente lunghi. Questa persona l’ho conosciuta in tribunale, quando fu condannato all’ergastolo, quindi si apriva uno scenario cupissimo e lungo, senza speranza, perché, ripeto, allora non c’era questa stupenda legge Gozzini che ha permesso di sperare in qualche cosa, ha dato un orizzonte, ha dato qualche cosa da attendere, perché voi sapete che laddove c’è scritto "fine della pena mai" lo scenario si fa terribilmente cupo e sembra di non avere nulla da perdere, quindi nulla in cui sperare.

Io non sapevo che questa giornata fosse così estesa, pensavo che ci fossero solo i detenuti e non immaginavo una manifestazione così vasta. Pensavo che sarebbe stato bello dare voce ai detenuti e che loro avessero fatto delle domande, che le avesse fatte chi aveva letto questo testo e volesse chiedere qualche cosa.

Questo è un luogo di pena e quindi io ci sono venuta con un cauto rispetto, perché comunque è un luogo di sofferenza e quindi pensavo alla voce dei detenuti come alla cosa più importante. Poi ho capito che, forse, la vastità della manifestazione impedisce un po’ questo e quindi io vi dico solo che ho fatto questo itinerario nelle galere italiane con tutto il non sapere che accompagna l’istituzione detentiva e che dovrebbe (sappiamo benissimo) rieducare.

Ma di rieducativo, almeno nei termini finora vissuti da me, ho visto ben poco, se non questa legge e questa normativa, di cui il presidente Margara sa bene più di me dire, e che ha profilato un orizzonte che mi ha dato la forza di resistere, di attendere questa persona che era stata condannata all’ergastolo, questo giovane che allora aveva 26 anni e che adesso ne ha 53/54. Quindi voi capite che è stato un percorso molto lungo, in tutte le carceri italiane, con tutta questa angoscia che accompagnava questo percorso affettivo, senza sapere poi, con questo salto nel buio, come un detenuto, come un essere umano, esca da questa vicenda.

Adesso siamo alla fine di questo lungo percorso, la libertà condizionale ha delle condizioni, quindi siamo arrivati alla fine, ma quando lui uscì dal carcere e in questi permessi incominciava ad assaporare, a sentire la vita, e c’erano tutti questi stridori terribili del ritorno, del rientro nel carcere.

Comunque questa legge è stata bellissima, perché ha dato modo alle persone di credere in se stesse, di responsabilizzarsi, di fare passi di nuovo nella vita con grande forza, di rientrare nel carcere e, quindi, è stata un graduale passaggio verso la libertà. La libertà poi ha comportato, nella convivenza con me (perché questo il libro racconta), questo incontro con due persone che in fondo non avevano mai potuto conoscersi nella quotidianità, nelle piccole cose di ogni giorno che hanno messo alla prova questo nostro sentimento, quindi anch’io forse ero impreparata, perché naturalmente la galera l’aveva fatta lui, il carcere lo aveva fatto lui, io avevo solo fatto un percorso difficile ma parallelo, seppur difficile.

L’incontrarsi ha significato tutte queste cose. Comunque, per quanto riguarda l’affetto, è stata una disperazione, una disperazione così grande da non poter dire, se uno l’ha provata, anche perché c’erano le carceri speciali, con i vetri divisori al colloquio che impedivano una carezza, l’impossibilità di sentire gli odori, di portare a casa qualcosa di lui; poi tutta la mia storia è raccontata nel libro.

 

Giovanni Anversa

 

Saluto e do il benvenuto al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, dott. Alessandro Margara. Premetto che io non conosco tutti, mi scuso con qualcuno che presenterò male o in maniera non degna. È vero che da dieci anni mi occupo di sociale (qualcuno dice di sfighe, quando vede i mie programmi) ma spesso non conosco l’universo delle vicende umane che tratto. Quella parola "disperazione", mi sembra aleggi dopo l’intervento introduttivo di Stefania Chiusoli. Livio Ferrari, visto che sei lì vicino e che sei tra i promotori di questa giornata…

Abbiamo iniziato con questo spaccato, con questo vissuto, adesso facci entrare nel problema in chiave più sociologica e politica, anche perché l’intervento della nostra amica poi è andato a parare sul discorso delle leggi e delle opportunità, che si danno in qualche modo per rimettere al centro questo diritto all’affettività.

 

 

 

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