L'opinione dei detenuti

 

Un sorriso è solo un sorriso, anche se di Erika

 

Ha senso immergere una persona in una situazione giocosa e poi scandalizzarsi se viene anche a lei da sorridere? E che rapporto c’è, fra elaborazione interiore del pentimento e sua manifestazione esterna? Ed è accettabile, infine, che quattro riprese durante una innocente partita di pallavolo siano state sufficienti a riattizzare lo scandalo e la sete di pubblica vendetta di cinque anni fa, quando il "mostro" Erika fece la sua mostruosa comparsa sulla scena?

 

Marino Occhipinti, redazione di Ristretti Orizzonti, giugno 2006

 

Nonostante sia passata ormai qualche settimana, non si è ancora spenta del tutto l’eco suscitata dalla prima uscita dal carcere di Erika De Nardo. Alle molte cose che già sono state dette in televisione e scritte sui giornali, vorrei aggiungere qualche considerazione personale, che ha se non altro la pretesa di fare un po’ di chiarezza su alcuni punti secondo me essenziali.

Anzitutto l’orrore, certo, l’orrore. L’orrore del duplice delitto che Erika ha commesso è fuori discussione, e sicuramente non basta la manciata d’anni trascorsa da quel pomeriggio di sangue del 2001 per attenuarlo, o per renderlo più "comprensibile". Data la natura del reato posso anche capire – sebbene non l’apprezzi per niente – quella sorta di sete di pubblica vendetta che all’epoca spinse molti a invocare il massimo della pena se non addirittura la morte per Erika e il suo fidanzatino-complice Omar, e a manifestare sdegno poi per condanne ritenute eccessivamente miti. In un paese civile, però, quando si imbocca la via della giustizia (processo, condanna, esecuzione della pena) la si dovrebbe perseguire poi con coerenza e condiviso senso della legalità; con pieno diritto di criticare, certo, ma anche con il dovere di attenersi alle circostanze reali, e di ragionare su di esse con mente fredda, facendo prevalere la serena valutazione degli elementi di fatto sul subbuglio degli umori e delle reazioni "a caldo".

Erika, tanto per cominciare, non è uscita dall’istituto di Verziano a titolo di premio "personale" –come ripetutamente si è fatto intendere – ma nell’ambito di un’iniziativa "di gruppo" organizzata dal carcere, ovvero insieme ad altre sue giovani compagne di pena, con un programma preciso, rigorosamente delimitato e sotto nutrita scorta di agenti della Polizia penitenziaria. E c’è una differenza sostanziale, fra le due cose. Il permesso premio personale è infatti un investimento fiduciario che la magistratura di Sorveglianza può decidere di fare su un condannato che ha scontato già una parte consistente della sua pena e che ha dato segni di ravvedimento, nell’ambito di un percorso personale di rieducazione e di progressivo reinserimento nella società; il permesso di gruppo, finalizzato a un’attività cosiddetta "trattamentale" (che può avere carattere sportivo, come nel caso di Erika, ma anche culturale, di studio) consiste invece nel momentaneo trasferimento "in esterni" di un blocco di detenuti che continuano però a essere "ristretti" a tutti gli effetti (e infatti a Boffalora, per la famosa partita di pallavolo, Erika e le sue compagne ci sono andate sul "cellulare" della Penitenziaria, mica con mezzi propri). Nel primo caso, tanto per capirci, uno "va a casa" (anche se magari per restarci chiuso, ai "domiciliari"), e quindi esce per quel breve lasso di tempo dal controllo e dalla responsabilità diretta dell’istituzione-carcere; nel secondo invece, per quanto goda per qualche ora di un’apparente libertà, non smette per un attimo di sottostare a quel controllo e a quella responsabilità.

Stando così le cose, la prima domanda da porsi secondo me è questa: perché sono stati così gravemente sottovalutati i prevedibilissimi rischi di spettacolarizzazione (e di fatale, conseguente strumentalizzazione) a cui sarebbe andata incontro Erika alla sua prima uscita dal carcere? Si poteva fare qualcosa, per evitarle le luci della ribalta in un momento così inopportuno? Oppure, se proprio non era possibile tener fuori da quell’oratorio telecamere e macchine fotografiche, non era il caso di sfilare per una volta Erika dal gruppo delle pallavoliste di Verziano, rinviando la sua prima uscita a un’occasione meno pubblica, o quantomeno un po’ meno giocosa?

Questo genere di cautela sarebbe stato tanto più opportuno se si considerano – oltre ovviamente alla "sinistra" notorietà della ragazza – i connotati narcisistici della sua personalità che sono emersi dalle perizie psichiatriche all’epoca del processo, e che rendono con tutta evidenza assolutamente sconsigliabile una sua ulteriore sovraesposizione. (Interpellata in proposito, nei giorni scorsi una nota psicoterapeuta ha osservato che puntare nuovamente i riflettori su Erika, farla sentire importante, ripresentarla nella luce in cui cinque anni or sono fu data in pasto ai mass-media, potrebbe essere gravemente controproducente per lei. Le immagini creano il personaggio, e in questo caso il modello che ne deriva rappresenta un regresso rispetto al complesso percorso di recupero intrapreso dalla ragazza in questi anni di carcerazione).

Altro aspetto da tenere in considerazione, e sul quale fare un po’ di chiarezza: la festosità della cornice in cui è avvenuta la sua prima uscita, che ha inevitabilmente finito per avvolgere Erika e per riproporla agli occhi del mondo (errore clamoroso, ma non suo) in versione giocosa e sorridente. Personalmente non ho alcun dubbio che, per una ragazza di quell’età, anche lo sport e soprattutto il gioco di squadra abbiano un’importante funzione "risocializzante", tanto più se si considerano gli allarmanti aspetti di anafettività che caterve di psichiatri e psicologi – nelle sedi competenti ma anche sui giornali e in televisione – hanno concordemente sottolineato nell’abbozzare il profilo psicologico di Erika. Impegnarsi in uno sport di squadra, come la pallavolo, significa mettersi in relazione stretta e competitiva con i compagni e con gli avversari, e implica quindi una salutare tensione alla socializzazione; implica anche, di conseguenza, la disposizione a dare sfogo corale alla propria emotività individuale, tant’è che tutti assieme si esulta se si segna un punto e tutti assieme ci si stizzisce se a mettere a segno il punto, invece, sono gli avversari. Se sono queste, come io credo, le dinamiche psicologiche ed emotive del gioco, penso che a inquietare, semmai, avrebbe dovuto essere una Erika immersa in quella situazione di vitalità gioiosa a muso duro, senza una traccia di sorriso e di condivisione delle emozioni e dei sentimenti delle sue compagne. Pretendere in una persona reazioni diverse, o addirittura opposte, rispetto a quelle normalmente suscitate dalla situazione in cui effettivamente si trova, è negare la natura umana.

 

È davvero così inquietante, un sorriso?

 

E poi: è davvero così inquietante, un sorriso? È davvero così improprio e sconveniente, sulle labbra di una persona che pure si è macchiata cinque anni fa di reati gravissimi? Ed è davvero così certa e implacabile l’equazione: sorriso = assenza di senso di colpa? Piaccia o no riconoscerlo, il sorriso è comunque un’espressione di emotività, e non esclude affatto la lacrima. Anzi, in un certo senso addirittura ne sottintende la possibilità, perché è quantomeno indice di sensibilità, di emotività non pietrificata. E nessuno di noi ha il diritto – per aver visto in quel particolare momento fiorire il sorriso sulle labbra di Erika – di escludere che sia in atto in lei una tormentata e dolorosa presa di coscienza rispetto ai terribili delitti di cui si è macchiata, e il cui peso si porterà comunque addosso per sempre, anche quando avrà scontato per intero la sua pena e tornerà a calcare in mezzo a tutti noi le strade della vita.

Un’ultima annotazione, solo apparentemente "di colore". Che riguarda i fin troppi commenti che sono stati riservati in televisione e sui giornali all’abbigliamento alla moda, rigorosamente griffato, sfoggiato dalla ragazza in occasione della sua prima uscita. Io per ovvi motivi non sono mai entrato in un "femminile", posso assicurare però che anche qui a Padova e negli altri istituti di pena maschili in cui sono stato c’è una tendenza molto spiccata, anche in chi di suo non potrebbe, a "vestirsi firmato". Al punto che c’è gente che preferisce andare in doccia con un accappatoio Missoni di sesta o settima mano, e ormai sbrindellato, piuttosto che accontentarsi di un analogo capo nuovo di pacca o quasi ma, ahimè, "anonimo". È un fenomeno che non mi rallegra, ma che certamente non appartiene allo specifico carcerario: è, semmai, un fatale riflesso del condizionamento che la società della visibilità a ogni costo esercita su tutti i suoi figli, compresi quelli che tiene al chiuso delle proprie galere.

Che c’è di scandaloso quindi se l’ingegner De Nardo – persona che merita l’incondizionato rispetto di tutti, per la generosità e il coraggio che l’hanno spinto a non abbandonare la propria figlia, nonostante abbia ucciso sua moglie e l’altro suo figlio – cerca di vestire la carcerata Erika come una qualsiasi altra ragazza della sua età? Certo, ammesso che gliel’abbia regalata lui, poteva evitare di comprarle una maglietta (quella che indossava a Boffalora) su cui campeggia, in inglese, una scritta che grosso modo significa "sono una ragazza fatta per le cose forti". Scritta innocentemente provocatoria, se appare sulla t-shirt di una qualsiasi altra ragazza, ma inquietante invece se portata a spasso da una che le "cose forti" le ha scritte con il sangue, come Erika. Ma se ha colpa lei ad avere indossato quella sfrontata maglietta, se non ci è arrivata da sola a capire che un capo del genere lei non se lo può proprio permettere (e non solo in un’occasione pubblica, ma nemmeno nel chiuso della propria cella), possibile che nessuno nel suo istituto gliel’abbia fatto notare? Mettiamocelo in testa: non bastano le periodiche sedute con lo psichiatra e con lo psicologo, ammesso che ci siano, e neppure i colloqui di rito con le educatrici. Le persone (e in special modo quelle giovanissime e già "perdute", come Erika) si educano, e rieducano, anche a partire dalle piccole cose della quotidianità.

 

 

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