L'opinione dei detenuti

 

Il carcere "stritolato" dai luoghi comuni

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 10 luglio 2006

 

Che c’entra il reality in carcere di Maurizio Costanzo con l’ex terrorista Sergio D’Elia e le "stanze del buco" di cui s’è parlato in questi giorni? C’entra che tutto quello che ha a che fare con il carcere, il disagio, la tossicodipendenza finisce stritolato in luoghi comuni e pregiudizi. Se a "mostrarsi" in televisione sono i detenuti, ma la regia è di Maurizio Costanzo, va tutto bene. Invece, a un uomo con una condanna per terrorismo scontata fino in fondo in carcere, il diritto di avere un ruolo pubblico non viene riconosciuto, come è successo a Sergio D’Elia. Ci sono nella nostra cultura dei tabù, che l’informazione contribuisce a rendere insormontabili: lo è, in fondo, quello che chi ha tolto la vita a un altro essere umano debba sempre e solo portare il marchio dell’assassino, così come lo è, in un altro campo, quello che aiutare una persona distrutta dalla tossicodipendenza a farsi meno male, dandole in modo controllato la sostanza, sia una sconfitta dello Stato. Le riflessioni che seguono possono essere interessanti proprio perché vengono da persone, tenute ai margini da quei tabù che non riusciamo mai a mettere in discussione.

 

Il carcere, quello vero, è assai poco telegenico

 

Era inevitabile che a qualcuno venisse in mente di piazzare le telecamere dentro un carcere per "spiare" la vita dei detenuti. Ovviamente lo spirito dell’iniziativa è lodevole: "Non sarà il Grande Fratello" ha spiegato Maurizio Costanzo, che ne è il responsabile, al Corriere della Sera. "Per reality si intende realtà e cioè documento/documentario che racconta la vita delle persone detenute e quella della polizia penitenziaria". Per raccontare questa "realtà" ha scelto il carcere di Viterbo, ed ha selezionato 50 detenuti. Però, ci rassicura, dal programma saranno esclusi i condannati per reati di sangue e pedofilia. Che sospiro di sollievo! Ma la prima domanda che viene in mente è: che criteri sono stati usati per selezionare questi detenuti? Dovendo scommetterci sopra qualcosa si potrebbe puntare sui cosiddetti "zanza", cioè i condannati per truffa, che proprio per il loro "mestiere" sono degli attori naturali, capaci di interpretare questo "documentario reale" che presupporrà copioni scritti da professionisti..

I copioni saranno necessari. Il carcere, quello vero, è assai poco telegenico. Per parafrasare quello che è stato detto della guerra, la galera è noia, noia, noia, inframmezzata da attimi di autentico terrore. La noia non è "televisiva" e il terrore non si può far vedere. Per questo Costanzo sarà costretto a inventare il "suo carcere". Per far vedere quello vero avrebbe dovuto piazzare le telecamere nelle celle dove sei o più persone sono costrette a stare in branda tutto il giorno perché non c’è spazio per stare in piedi. Avrebbe dovuto riprenderle mentre liberano l’intestino sedute su un water in un angolo della stanza, senza nemmeno un paravento a garantire un po’ di intimità. Dovrebbe riprendere i reclusi catatonici sui loro letti, schiantati da quantità industriali di psicofarmaci. Perché è soprattutto questa la realtà quotidiana del carcere. Una realtà che non si può far vedere al pubblico nemmeno in "fascia protetta".

Cosa vedremo allora? Rischieremo di vedere situazioni costruite apposta, insomma tutto tranne il carcere vero. Forse assisteremo anche a dialoghi del tipo: "Mi scusi, signor agente, lo so che l’orario è scaduto, ma sarebbe così gentile da concedermi ugualmente di recarmi nel locale docce?" "Certamente, signor detenuto. Le apro senza indugio la cella per consentirle di fare la doccia con comodo".

Questa però non è galera, è teatro di Jonesco. E se è vero, come ha dichiarato il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che "Il silenzio è nemico del carcere" è altrettanto vero che parlarne male può arrecare più danni che benefici. E da questo punto di vista si può stare certi che se il "reality" non mostrerà la vera vita dei detenuti, non ci farà neppure vedere la vera vita degli agenti.

 

Graziano Scialpi

 

Una persona che ha ucciso non può perdere il senso della propria "diversità"

 

Ogni qualvolta una persona che ha violato il quinto comandamento – non uccidere – espiata la propria pena si riaffaccia in società in una dimensione pubblica, si ripropone una polemica come quella esplosa con la nomina a segretario di presidenza della Camera del deputato radicale Sergio D’Elia, ex terrorista di Prima Linea. Ma un omicida, una volta che abbia saldato il suo debito con la giustizia, torna a essere una persona in tutto e per tutto uguale alle altre o continua a portare il peso di una diversità irrimediabile?

A questo quesito – che mille volte mi sono posto come parte direttamente in causa, essendo io stesso un omicida – rispondo che chi uccide i conti non può mai saldarli fino in fondo. Sia perché il male che ha commesso ha la prerogativa dell’irrimediabilità (l’espiazione della condanna anche più pesante non restituisce la vita a chi l’ha persa), sia perché uccidendo ha infranto quello che per tutti è il valore più alto: il primato della vita. Per questo credo che la pena scontata e il pentimento sincero possono restituire alla società degli "ex" ladri, degli "ex" rapinatori, non degli "ex" assassini. Chi ha ucciso ha comunque e per sempre ucciso, e dell’ombra della propria colpa non potrà mai liberarsi, né agli occhi del mondo né agli occhi di se stesso.

Questo non vuol dire che una volta tornato libero dopo anni di galera un omicida debba ridursi a una vita da eremita, ma che non può perdere il senso della propria "diversità" e , quantomeno, deve imparare a mettere la sordina alle proprie esuberanze. Non è una questione di auto-censura ma di misura e, semmai, di auto-educazione, perché tornare a vivere fra gli altri dopo essersi macchiati di un delitto così grave è un po’ come rinascere dal proprio stesso massacro, e occorre "rieducarsi" molto di più di quanto faccia la galera.

Per quel che mi riguarda, in questi anni di carcere, se nella redazione di Ristretti Orizzonti, nella quale svolgo la mia attività di redattore-detenuto, entrava un giornalista o una tv, mi rendevo "invisibile". Adesso però penso che forse è più dignitoso "mostrarsi" e fare i conti con la realtà piuttosto che continuare a tenere la testa infilata sotto la sabbia. Però, per arrivare a maturare tale comportamento, ho dovuto imparare ad accettarmi, e anche questo è un cammino doloroso.

In carcere ci sono poi persone che hanno ucciso magari in giovane età, e dopo avere espiato una lunga condanna tornano in società con l’idea di avere ancora cose importanti da dire e da fare. Sono persone che hanno saputo distillare dal male che hanno fatto risorse di sensibilità, di maturità, di passione civile che possono tornare utili anche agli altri. Ciò non di meno anche su di loro continua a gravare il peso di una colpa che non si estingue, ed è giusto pertanto che al coraggio di esporsi uniscano la prudenza e il buon gusto di non sovraesporsi.

 

Marino Occhipinti

 

Per favore, non chiamiamole "stanze del buco"

 

Di recente ci sono state le prime dichiarazioni, da parte di membri del nuovo esecutivo, in materia di droga e carcere. Una, la più criticata, parla di aprire le "stanze del buco".

Ovviamente è esplosa la polemica, e intanto le carceri si riempiono sempre di più e fuori, negli anfratti più luridi delle città, ci si droga, ci si ammala, si muore. A questo si arriva col piccolo spaccio, rubacchiando tutti i giorni, prostituendosi, tanto che cresce l’odio nei confronti dei consumatori perché rendono insicure le case e le strade. Non dimentichiamo mai che i tossicodipendenti sono una miniera di denaro quotidiano che finanzia le narcomafie: con la droga la mafia compra immobili, attività commerciali, imprese.

Credo che occorra allora qualche soluzione coraggiosa, e mi domando perché, avendo a che fare con persone che hanno un problema di dipendenza e sapendo che non si può obbligare a "guarire" nessuno che non riesca a deciderlo spontaneamente, non si possa arrivare a fornirgli, in modo controllato, anche la sostanza: non è forse più immorale regalare queste persone ad un sistema che le renderà macchine per delinquere?

Ma il problema è anche culturale, e su questo la comunicazione sbagliata, relegando ai margini l’elemento umano, rischia di fare il gioco del proibizionismo. "Le stanze del buco", per esempio, è un’espressione schifosa. Un luogo sanitariamente controllato, dove si è assistiti, è invece un luogo per aiutare le persone, proprio perché va oltre l’immagine del "buco", che è malattia, sporcizia, siringhe usate mille volte. È più facile instaurare una relazione con chi continua ad iniettarsi droga in un posto costruito per persone che non stanno bene, piuttosto che nella situazione di oggi, quando la persona che usa stupefacenti, nascosta tra i cespugli di un parco pubblico, cerca di sciogliere l’eroina usando il fondo di una lattina, mentre è lì che impreca perché tra l’ago spuntato e le vene indurite non riesce a iniettarsela, e dopo vari tentativi si accorge che la vena si è rotta ed il braccio fa un male cane. Il percorso di liberazione è una scelta personale che ha bisogno di tempi lunghi, e l’azione d’aiuto, soprattutto per i casi più difficili, è efficace quando chi ne ha bisogno non si trova nella condizione di essere illegale, braccato dalle forze dell’ordine, e poi allontanato da ogni contesto relazionale che non sia quello di chi ha i suoi stessi problemi.

Mi si dirà che con le "stanze del buco" non c’è garanzia di cambiamento del tossicodipendente, ed è vero, ma c’è una questione di civiltà che non si può eludere con il moralismo che identifica il male con la sostanza e chi la usa. Oggi ci si accanisce contro persone, in balia della miseria, della criminalità, della galera, e intanto su di loro il disprezzo sociale aumenta di giorno in giorno.

 

Stefano Bentivogli

 

 

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