L'opinione dei detenuti

 

Il "permesso" a Erika

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 5 giugno 2006

 

La nostra Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione, e la legge prevede che le persone che sono in carcere a un certo punto della pena possano iniziare un percorso graduale di reinserimento attraverso i permessi premio e poi la semilibertà, che significa lavorare fuori dal carcere e rientrare in carcere alla sera. Eppure permessi e misure alternative è sempre più difficile ottenerli, e notizie come quella delle poche ore passate fuori dal carcere per una partita di pallavolo dalla giovane Erika, responsabile dell’omicidio della madre e del fratellino, sembrano fatte apposta per far scattare nella gente una reazione di irrigidimento. Le testimonianze che seguono, di una detenuta della Giudecca, di un detenuto e di un ex detenuto, spiegano bene che proprio queste notizie, gonfiate ed esasperate, rischiano di minare alla base il principio del reinserimento, di cui i permessi premio sono un momento fondamentale.

 

Non si può "fare spettacolo" di un pentimento

 

Di questa notizia di Erika che esce dal carcere abbiamo parlato molto tra di noi in carcere. La maglietta griffata, il sorriso sulle labbra, le sopracciglia ridisegnate… così hanno presentato Erika in televisione. Insistere sul sorriso, poi, è evidente che ha questo effetto: guarda quella, ha ammazzato la madre e il fratello e non si è neanche pentita.

Tutti ne parlano come se avessero a che fare con una persona assolutamente normale: a me la cosa che colpisce molto di questa storia invece è proprio questa idea che lei sia in un carcere "normale", e che le sia stato rifiutato il permesso di andare in comunità con la motivazione che non ha mostrato pentimento e sensi di colpa. Ma io credo che per mostrare sensi di colpa uno si deve rendere conto di quello che ha fatto, e lei invece secondo me non se ne rende ancora conto. Di storie così ne ho viste altre qui, è gente che avrebbe probabilmente bisogno più di cure che di galera.

Ma come si fa a pretendere che lei si penta e stia male e pianga sempre, non sorrida mai e, a poco più di vent’anni, non pensi anche a truccarsi e vestirsi come una qualsiasi ragazza delle sua età?? E poi bisogna anche ricordarsi come sono fatte le donne, nella donna è una valvola di sfogo, quella di sentirsi messa bene, è una forma di compensazione: una donna anche se sta male, se ha un grande dolore, magari va fuori e si compera qualcosa da vestire, non è una dimostrazione di malvagità la sua, è una reazione istintiva, un modo di "salvarsi la vita".

La cosa assurda è che questa pretesa di vedere il pentimento solo nelle persone che piangono e fanno mostra di grande sofferenza la troviamo anche all’interno del carcere, dove a volte ottengono di più quelle che sono sempre lì a dirsi pentite, e invece se una si vive il suo dolore senza mostrarlo tanto passa per insensibile e viene ritenuta incapace di rivedere criticamente il suo passato.

Il padre di Erika continua a starle dietro proprio perché ha capito che si tratta di una persona malata e vuole aiutarla. E forse lui sì avrà anche dei sensi di colpa, forse penserà: "Qualcosa di sbagliato l’ho fatto anch’io se mia figlia si è comportata in questa maniera". A volte come genitori commettiamo degli errori, o magari la nostra è una mancanza di attenzione, nel senso che non ci accorgiamo del malessere di un figlio, dei messaggi che lancia, fino a che lui non fa una cazzata davvero pesante. Ho sentito qualcuno dire di Erika: "Aveva tutto, una buona famiglia, la scuola, il fidanzatino, come ha potuto fare quel che ha fatto?". Ma perché, dico io, pensate davvero che le persone che manifestano un disagio psichico o che fanno le cose più efferate siano per forza di famiglie disgraziate?

 

Paola

 

Erika, forse qualcuno voleva seppellirla viva?

 

Quando si discute di fatti di cronaca particolari, come quello che ha visto coinvolti i "due fidanzatini di Novi Ligure", tanto per usare uno dei nomignoli con i quali sono stati etichettati Erika e Omar, non si dovrebbe fare del semplice pettegolezzo. Non lo si doveva fare prima, quando il fatto era appena accaduto, né a maggior ragione ora, dando notizie e immagini che a null’altro servono se non a distruggere i risultati conseguiti da Erika nel suo percorso di presa di coscienza, ma anche il lavoro degli operatori penitenziari, psicologi, educatori, che stanno cercando di ridare una consapevolezza di sé e una vita non solo a lei, ma anche a suo padre, che a mio parere merita il rispetto di tutti per la coraggiosa scelta che ha fatto, di "riappropriarsi" di sua figlia, di cercare di curare e conservare quello che della sua famiglia gli è rimasto.

Sono passati 5 anni dall’orribile giorno del massacro, ora televisione e giornali ci ripropongono Erika in un campo di pallavolo, sorridente, certo, sportiva, nel suo look da ragazza normale, spingendo così la gente che guarda quelle immagini a indignarsi per un presunto mancato ravvedimento. Ma che cosa si aspettavano di vedere le persone che mandano lettere di indignazione ai giornali? Forse avrebbero voluto vedere Erika piangente, trasandata, sofferente. Forse era meglio seppellirla viva. Erika certo è stata la protagonista di una storia che definire atroce è poco, ma io credo che non serva né a lei, né a noi, né al pubblico televisivo mostrarla così in televisione e parlarne come se fosse uno dei personaggi del Grande Fratello. Lei è stata condannata a 16 anni di carcere e ne uscirà quando ne avrà poco più di 30. Avrà probabilmente il tempo e i mezzi a disposizione per rendersi conto di quanto ha fatto. E quando ciò avverrà, si porterà dietro il dolore per il resto della vita.

Oggi, dopo circa 5 anni di carcere, sta dimostrando di reagire bene al percorso riabilitativo previsto dalla condanna che le è stata inflitta. Se un’equipe di persone che lavorano all’interno del carcere ritiene che per la riuscita del suo recupero siano previste delle uscite, allora lasciamo che facciano il loro lavoro e non cerchiamo a tutti i costi di sostituirci a loro semplicemente per poter dire la nostra, come se si trattasse di dare un’opinione su una partita di calcio.

Su un giornale ho letto la lettera indignata di una madre che si lamentava del fatto che Erika in galera potesse studiare, diplomarsi e forse anche laurearsi, mentre lei, fuori, ha dovuto far interrompere gli studi a suo figlio perché il suo stipendio non le consente di mantenerlo. Posso comprendere che questo la faccia star male e che chieda di essere aiutata di più da chi ci governa, ma non credo che la soluzione sia privare chi è in galera di qualsiasi possibilità di diventare una persona migliore. Erika prima o poi uscirà dal carcere, facciamoci tutti un bell’esame di coscienza e chiediamoci che cosa vorremmo che il carcere ci restituisse.

 

Flavio Zaghi

 

Quei permessi premio che fanno tanta paura

 

"Dopo così pochi anni è già fuori dal carcere": così titolano spesso i giornali la notizia di permessi premio che riguardano detenuti particolarmente noti, lasciando intendere che lo scontare la pena sia finito e che il detenuto sia pressoché libero. È successo con Erika, o quando Omar, suo coimputato, sembrava volesse chiedere un permesso premio, e già i titoli erano "Omar esce dal carcere". Solo leggendo meglio si capiva che invece si trattava di passare qualche ora presso una comunità.. Ma la stessa cosa avviene quando qualcuno accede alla semilibertà o all’affidamento in prova, e i giornali ne parlano come se si trattasse realmente di riottenere la libertà, e non piuttosto di scontare la pena in maniera diversa.

Il fatto di poter accedere ad una misura alternativa al carcere cambia radicalmente la vita del condannato, a seconda del tipo di misura concessa il legame col carcere diminuisce ed aumentano gli spazi di libertà, di autonomia. Ma tutto prevede delle regole e limitazioni, un vero e proprio contratto sul quale si valuta la buona riuscita o meno del percorso di reinserimento sociale.

Un discorso simile vale per i permessi premio, per i quali comunque non si è mai liberi di uscire e scorrazzare ovunque e di fare quello che si vuole. Quando un detenuto arriva a ottenere permessi premio o misure alternative, accade invece spesso che la televisione annunci che X, famoso per aver commesso questo e quell’altro reato, torna a casa. Magari ha ottenuto mezza giornata per andare a trovare l’anziana madre, ed invece sembra che sia uscito dal carcere libero, e non che abbia un percorso obbligato, degli orari da rispettare, il divieto di incontrarsi con pregiudicati, di usare stupefacenti, di abusare con l’alcol, che debba passare in Questura per l’obbligo di firma, che non possa uscire dal Comune presso il quale si reca, e che infine debba tornarsene in cella.

Ma la questione delle misure alternative e dei permessi è spesso mal spiegata proprio perché è mal digerita ed accettata, soprattutto quando il reato ha lasciato ferite aperte e rancori non superati.

Difficilmente i parenti delle vittime, ma anche i mezzi di informazione in genere, accettano che il responsabile, ad esempio, di un fatto di sangue possa ad un certo punto della sua pena cominciare a riaffacciarsi gradualmente alla libertà. Questo è previsto dalla legge, che però non può sanare anche il conflitto che si è creato al momento del delitto. Di qui deriva che il recupero alla libertà di una persona, che sta scontando o ha scontato una pena, non è quasi mai visto come l’atto conclusivo di quel conflitto. Al contrario, ogni occasione che porti a ricordare il delitto riapre le ferite, e invece bisognerebbe arrivare davvero a una mediazione tra chi ha subito un reato, chi l’ha commesso e la società che lo deve riaccogliere.

 

Stefano Bentivogli

 

 

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