L'opinione dei detenuti

 

Le vite complicate dei migranti, tra ansie e preoccupazioni

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 3 settembre 2007

 

Queste discussioni feroci sui lavavetri, che attraversano la società, tra i detenuti stranieri suscitano ansia e paura. Paura, perché la sensazione è che «fuori» ci sia poca voglia di pacificazione e di accoglienza, e molta di vendetta. Eppure, il male non si può distinguere in modo così semplificato dal bene, e anche in galera non ci stanno semplicemente gli immigrati «delinquenti», ci stanno persone che hanno commesso reati, ma che raramente sono partite dal loro Paese con l’idea di andare a delinquere. Le testimonianze che riportiamo sono esattamente questo, pezzi di vite complicate, come sempre complicate sono le vite dei migranti, ma che non possono essere ridotte ai soli reati commessi dalle persone che le raccontano. 

Guardavo con stupore i tanti turisti europei 

A scuola in Tunisia ci insegnavano che la patria ha bisogno di ciascuno di noi e io pensavo che «la patria» ci dovesse anche aiutare, invece, crescendo, mi sono accorto che non era vero: i miei genitori si dovevano privare di tutto, per cercare di darmi una vita migliore della loro. Iniziai a lavorare molto giovane, facevo il cameriere, in quel bar ho assistito a tante cose schifose: poco più che bambino, vedevo il peggio che gli uomini possono esprimere sotto l’effetto dell’alcool. 
Volevo però a tutti i costi aiutare la famiglia, così continuai a lavorare, tutti i giorni, senza neanche un riposo, e soprattutto durante l’estate, quando arrivavano i turisti, io dovevo massacrarmi di fatica. Guardavo con stupore i turisti europei e gli emigranti che ritornavano in Tunisia per le vacanze. Arrivavano con automobili di lusso, con vestiti all’ultima moda, e io non riuscivo a comperarmi un paio di pantaloni o di scarpe decenti, perché sarebbero costati più del mio stipendio. Questi paragoni hanno rovinato la mia vita, come hanno rovinato quella di tanti altri ragazzi tunisini. Ricordo il giorno in cui presi la decisione di emigrare: mentre servivo due clienti, che sapevo che lavoravano come scafisti, sentii che stavano per partire con un «carico» di 50 persone. 
Quella sera la trascorsi in una ricerca frenetica del denaro per partire. Quello che conoscevo dell’Italia l’avevo visto per la televisione. Sono partito senza dire nulla ai miei familiari: quattro giorni in mare, su una barca che sembrava piuttosto una scatola di sardine. Alla fine siamo arrivati a Lampedusa. Gli scafisti ci consigliarono di dividerci in piccoli gruppi, per non essere notati. Ma Lampedusa è piccola e presto ci siamo ritrovati tutti in una caserma, dove siamo rimasti per due giorni, mentre facevano accertamenti sulla nostra identità. Lì ci diedero un foglio di via e e ci lasciarono liberi, dicendoci che dovevamo andarcene. Siamo rimasti, invece... 
Anni di lavoro in nero, e poi la consapevolezza che i soldi mi bastavano appena per la sopravvivenza, e in nessun modo potevo pensare di aiutare i miei, e allora la tentazione di fare soldi in fretta è stata forte, e alla fine però mi ha portato dritto in carcere. E adesso non so immaginare cosa ne sarà della mia vita, dopo anni di galera l’idea di tornare al mio paese in queste condizioni mi terrorizza. 

Karim 

Ho trovato il lavoro ma senza una garanzia 

Avevo un amico che lavorava da un paio di anni a Parma, in una fabbrica, e durante il periodo estivo tornava spesso giù al paese, in Marocco. Il suo aspetto rifletteva un benessere indiscutibile. Lui ogni volta mi stimolava a partire, nonostante l’opposizione dei miei genitori, che erano preoccupati per l’esistenza della mafia in Italia, e poi avevano paura delle droghe: molti ragazzi erano partiti e non erano mai tornati, per motivi inspiegabili.

Comunque alla fine riuscii a convincerli, e partii col mio amico. Arrivati a Genova, proseguimmo il viaggio in macchina fino a Parma. Dopo pochi giorni, ero già impiegato in uno scatolificio di pomodori. Il mio amico mi aveva aiutato a sistemarmi, ma non mi aveva spiegato però che il lavoro era stagionale, durava solo quattro mesi. 
Ogni tanto andavo alla stazione dove incontravo qualche paesano, la stazione era in qualche modo il loro posto di riunione, lì ci si scambiava le notizie. Qualcuno mi disse che era meglio scendere a Napoli, dove era già cominciata la stagione delle fragole, e così ho fatto. Il lavoro era faticoso, la mattina presto nella piazza si radunava una folla di stranieri in attesa di essere ingaggiati come braccianti a giornata, nelle campagne i contadini dividevano il pranzo con i lavoratori stranieri, ma il problema era che una stagione lavoravi e un’altra ti fermavi, la sopravvivenza era sicura, ma il futuro incerto. E così sono risalito sul treno, e sono andato al nord. Ogni mattina con il pullman mi spostavo da Brescia fino a un cantiere vicino a Desenzano, preparare la malta: un lavoro faticoso, ma la paga era buona. 
Allora era uscita una sanatoria, avevo un paio di mesi di tempo per regolarizzarmi, al titolare avevo spiegato la mia intenzione, e lui sembrava contento. Tra l’altro, doveva ancora darmi i soldi che mi spettavano, cosi mi sono messo d’accordo che mi avrebbe preparato sia i soldi sia il contratto di lavoro, e però da quel giorno non si è più fatto vedere, l’ho cercato disperatamente, ma il tempo filava velocemente, e sfumava la possibilità di mettermi in regola. Un paio di giorni prima della scadenza della sanatoria, l’ho incontrato, ma lui ha finto di non conoscermi, e a me non è rimasto nulla da fare. Quando sono tornato a casa ho chiesto a un amico di mostrarmi come «accedere alla piazza», e ho cominciato anch’io a spacciare, da lì al carcere la strada è stata breve. 

Alì L. 

Da una vita da regolare a una di strada in Italia 

Quando i miei genitori sono venuti a sapere che ero in carcere, si sono ammalati. Non si sarebbero mai aspettati un figlio che finisse in galera, loro che si sono sempre ritenute persone dalla correttezza e onestà inattaccabili. Ricordo che, appena finito il liceo, ho festeggiato il mio diciannovesimo compleanno a Tirana, e dopo dieci giorni ero già in Italia, a casa di una zia sposata a un italiano. Volevo iscrivermi all’Università, ma dopo due mesi di vani tentativi mi sono arreso, perché allora non era possibile venire in Italia con un visto turistico e restarci per studiare. I miei zii mi suggerirono di tornare a Tirana e cercare di ottenere un visto per motivi di studio, ma io non ho capito allora che quel consiglio era prezioso, anzi credevo che stessero cercando di disfarsi di me. Il pomeriggio che sono andato via dalla casa di mia zia, invece di imbarcarmi per Durazzo ho preso il treno per Milano. Ricordo le giornate trascorse in giro per la città, cercando un lavoro e osservando con invidia la frenesia delle persone che correvano intorno a me, la loro indifferenza verso la mia necessità di parlare con qualcuno, di raccontare la mia miseria, di chiedere una mano.
Finché cominciai a conoscere persone dai sorrisi apparentemente gentili, che si guadagnavano da vivere commerciando tutto quello che poteva essere venduto. Finalmente delle facce conosciute, delle persone che parlavano la mia lingua. Loro si erano inseriti bene nel giro della ricettazione, e mi fecero scoprire un mondo nuovo, che non avevo mai conosciuto nemmeno nei romanzi. Ho scoperto che la ricettazione è un mestiere che ti permette di incontrare tutte le persone che «lavorano» di notte e che avevano sempre le tasche piene di soldi, erano vestite bene e guidavano delle belle macchine. Mentre io dormivo in un vagone. 
Non rifiutai l’invito dei miei due amici ad andare a vivere da loro, e non mi sono mai posto il problema che mi stavo incamminando su una strada pericolosa: ero lontano da casa, libero dal controllo dei miei genitori, ed ero convinto che anche i miei valori erano rimasti a casa mia, custoditi tra i libri di scuola in una vita abbandonata. «Tu studierai e diventerai un uomo rispettato come tuo padre», sosteneva sempre mia madre, ed io ero sicuro che sarebbe andata così, una volta ritornato a casa, ma non finché rimanevo in Italia. Forse in quel momento non c’era soltanto una crisi di valori in me, ma una vera metamorfosi mentale, dovuta a un anno di vita di strada in mezzo a ladri, rapinatori, prostitute, protettori, dove mi ero convinto di essere ormai invincibile. 
Invece ero un povero stupido, che liberato dalle catene di una vita molto controllata, ma moralmente pulita, mi sono lasciato affascinare da una vita orribilmente libera e moralmente stravolta. E così alla fine ad aspettarmi c’era solo il carcere. 

E. K. 

 

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