L'opinione dei detenuti

 

Uscire dal carcere senza rete di salvataggio

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 27 agosto 2007

 

 

Di questi tempi, un anno fa, mentre sui giornali imperversavano le polemiche sull’indulto, associazioni di volontariato ed enti locali cercavano di far fronte alle difficoltà di chi usciva dal carcere senza una «rete di salvataggio». Oggi bisognerebbe avere il coraggio di dire che l’ indulto non è stato affatto la catastrofe annunciata, per molti è stata la possibilità di sperare che ci possa essere l’opportunità di provare a ripartire perché è la società libera che ti invita a farlo. Quello che bisognerebbe far capire ora è che un utilizzo serio delle misure alternative è più efficace e meno costoso del tenere semplicemente la gente in galera: le testimonianze che seguono raccontano proprio di questo, di quanto è importante e delicato il momento di passaggio tra il dentro e il fuori.

 

La vera fatica comincia a fine pena

 

Sono diversi i modi di reagire ad un periodo di privazione della libertà: si può restare in branda a fantasticare, c’è chi ne approfitta per andare a scuola, chi si impegna in qualche attività. La realtà è che fuori il mondo va avanti veloce, mentre dentro il mondo sembra fermo, statico, e simile rischia di diventare la vita di chi si trova chiuso in gabbia con la sola televisione a ricordargli che fuori c’è un’altra vita. E dopo il carcere cosa fare?

Il carcere non è mai stato il luogo della crescita personale in funzione di un diverso rapporto con la società. Esiste solo la capacità individuale di trasformare il tempo dietro le sbarre in una possibilità di rielaborazione di sé, di verifica della propria storia, di ipotesi di cambiamento. Ma questo presuppone degli stimoli che il regime carcerario fatica a dare. In questo quadro il giorno dell’uscita diventa velocemente uno scontro frontale con se stessi e con gli altri. Anche il proprio fisico fatica a riprendere ritmi, rumori, distanze, odori. Gli affetti, la sessualità, le amicizie sembrano spariti. Per moltissimi poi non c’è una rete di relazioni che ti facciano sentire il nuovo stato di persona libera come realmente differente dall’isolamento vissuto per l’ultimo periodo della tua vita.

Nei confronti di chi ha scontato una pena c’è sempre una diffidenza, che rende tutto più complicato, tranne riprendere la vecchia strada, di cui conosciamo la triste destinazione, che però ti garantisce relazioni, soldi e un’identità chiara. La questione del reinserimento dopo il carcere rimane un tema discusso su cui tanti luoghi comuni la fanno da padrone. Io credo per esempio che il paradigma libertà - casa - lavoro sia quanto di più illusorio si possa immaginare per consentire ad una persona di tornare in libertà, e rimanerci ovviamente.

Se dentro le carceri si continua a vivere isolati dal mondo, poco si potrà ottenere dopo. Il mondo dietro le sbarre dovrebbe avere un confronto continuo con il fuori, imparare a farsi ascoltare in maniera diversa da quella gestita dall’informazione ufficiale. Il confronto crea stimoli, quindi serve un tessuto sociale allenato a confrontarsi con chi ha avuto o ha tuttora situazioni di disagio, che di solito invece tutti sono troppo abituati ad emarginare. Perché se è scattata una benché minima voglia di cambiare il proprio stile di vita e nel contempo uno spazio per te non è previsto, poco dureranno la casa ed il lavoro, se si avrà la fortuna di trovarli. Ricordo delle lunghe chiacchierate in cella, ad alleviare la sofferenza di essere lì immaginando un futuro fuori dove le cose si sistemavano quasi da sole, ma alla fine eravamo tutti coscienti che la vera battaglia comincia in quel giorno che si chiama fine pena. 

 

Stefano Bentivogli

 

La condanna non è perdere gli affetti

 

Sono stato condannato a scontare la mia pena e non a perdere famiglia, amici, lavoro. Quello che il condannato non riesce mai a quantificare è la portata della pena che deve affrontare, e quello che il comune cittadino non sa è che all’interno di una condanna detentiva si nascondono pene non sancite dal Codice, che tuttavia esistono e diventano pene nella pena. Prima di entrare in carcere una persona normalmente ha una rete di relazioni sociali, famigliari, di amicizia; naturalmente nessuno pretende che la detenzione mantenga tutto questo, anzi io stesso come detenuto lo troverei non giustificabile di fronte alla società che pretende la punizione di chi ha commesso il reato. Ci sono però altre cose che effettivamente non si capisce perché debbano venire negate.

Il condannato, una volta in carcere, per alcuni anni deve rimanere lontano dalla società, per essere rieducato e accompagnato in un percorso di reinserimento. Le regole all’interno degli istituti di pena però sono rigide e limitano fortemente alcuni aspetti fondamentali nella vita di una persona, come la famiglia ed i rapporti sociali, che di fatto non dovrebbero venire intaccati dalla privazione della libertà. Il detenuto può avere colloqui con i propri famigliari per sei ore al mese, durante le quali non sono autorizzati gesti di affetto con la propria compagna, né gesti di tenerezza con i figli.

Sembra quasi che un padre o una madre detenuti potrebbero in qualche modo contaminarli, quei figli...! Se poi il carcere si trova lontano dall’abitazione dei famigliari, bisogna accontentarsi di un paio di colloqui al mese. E’ chiaro che, dopo aver scontato una pena, è fortunato chi si ritrova ancora una famiglia, e questa è una cosa singolare in una società che fa dei valori della famiglia un punto fermo da salvaguardare. Se poi per caso capita che un amico desideri venirti a trovare, cosa che potrebbe anche aiutarti ad avere poi meno difficoltà nel reinserimento, siccome sai che ci sono un’infinità di difficoltà burocratiche da superare, per non parlare spesso anche di pressioni ed umiliazioni, preferisci essere tu a dirgli di lasciar perdere.

Eppure, sono stato condannato a scontare la mia pena e non a perdere famiglia, amici, lavoro, e tutto ciò che avevo prima. E’ vero che comunque dovrei essere stato rieducato e pronto per rientrare nella società, ma cosa ci rientro a fare se non ho più nessuno? Credo che più o meno il pensiero delle persone libere rispetto al carcere ed ai detenuti sia «Te la sei voluta, fatti la galera e non ti lamentare!», con la convinzione che non sia un problema che le riguarda perché a nessuno di loro né ad un loro famigliare capiterà mai di finire in carcere; naturalmente io glielo auguro, però... Non bisogna avere troppe certezze, può capitare a tutti.

 

Maurizio Bertani

 

Fuori in una società che non ti vuole

 

Parto dalla felicità che provo a sentirmi di nuovo una persona libera, dopo sei anni e mezzo di galera. Libera di farmi un documento d’identità; libera di portarmi a casa da mangiare quello che voglio e non solo «le cose nella lista»; libera dalle perquisizioni delle celle, dal vedersi le proprie cose toccate, spostate. E felice anche perché tutta la fatica di questi sei anni e mezzo è stata riconosciuta con l’accoglimento della mia richiesta di affidamento ai servizi sociali. Ma è stata davvero una fatica. In carcere non vi sono sufficienti educatori, non vi sono sufficienti psicologi, non vi sono figure che sostengano e che tengano monitorato il reale percorso di un detenuto. Non si fanno grandi sforzi per far decollare questo benedetto «recupero», c’è, anzi, chi rema contro, non per volontà ma per semplice ignoranza o impreparazione. Il detenuto che vuole «riemergere» deve affidarsi soprattutto al volontariato o a coloro che con spirito quasi masochistico credono ancora di poter cambiare qualcosa, come gli insegnanti che lavorano in carcere.

E soprattutto deve affidarsi a se stesso. Il che, assicuro, non è assolutamente facile, e chi non ha alle spalle un carattere, una volontà molto forti cederà. Ma proprio il fatto di essere finiti lì è una dimostrazione che forse chi è da recuperare questa gran forza non ce l’ha! Io credo che soprattutto le misure alternative siano necessarie, direi essenziali per un reale processo di reinserimento nella società. E per darle i magistrati dovrebbero tenere un po’ meno in conto l’opinione pubblica che, gonfiata da media ogni giorno più superficiali nel dare le notizie, diviene sempre più giustizialista senza peraltro conoscere veramente ciò di cui si parla. Il processo di reinserimento deve essere graduale, perché, comunque, non è semplice neppure per chi è stato per del tempo dentro una istituzione così «totale» rapportarsi nuovamente con il mondo esterno.

Quindi ben venga prima il permesso premio, seguito dal lavoro esterno dove il denaro dello stipendio te lo gestisce ancora l’istituzione, per poi però passare all’affidamento ai Servizi sociali, perché solo così si arriva a gestire, almeno in parte, la propria vita, ad imparare a camminare di nuovo con le proprie gambe, a vivere cioè una vita «normale», con qualcuno, nella fattispecie l’assistente sociale, che ti aiuta, che ti sta vicino. Immaginiamo infatti una persona che per anni è rimasta fuori completamente dal mondo, e immaginiamo che sia improvvisamente «scaraventata» in una società che, oltre al fatto che lei stessa non la riconosce più come sua, - perché forse anche prima ne era un po’ ai margini, - non la vuole, la vede come «diversa», come elemento da emarginare. Come reagirà questa persona se non tornando ai «margini» e quindi tornando a vivere come o forse peggio di prima? No, c’è bisogno assoluto di queste benedette «misure alternative»!

 

Paola M.

 

 

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