L'opinione dei detenuti

 

Erika ed Omar: informazione, disinformazione o speculazione?

 

Alcune riflessioni sulle notizie distorte, inesatte o travisate, che i media diffondono non appena si ipotizzano permessi premio e benefici penitenziari per le persone detenute, soprattutto per quelle condannate per reati gravi e, soprattutto, noti alla cronaca

 

Marino Occhipinti - Redazione di Ristretti Orizzonti, 17 gennaio 2005

 

Ultimamente si è sentito parecchio parlare, come se si trattasse di cosa fatta, dell’imminente libertà di Erika ed Omar, i due ragazzi condannati per il cosiddetto "massacro di Novi Ligure". In realtà si tratta della probabile (futura) concessione di permessi premio, che dovrà essere strettamente legata, così come ha stabilito il tribunale per i minorenni di Torino, ad attività di volontariato per la quale dovrà essere presentato un apposito ed idoneo progetto. Cominciare a fruire dei permessi premio significa avere la possibilità di uscire dal carcere per un massimo di 60 giorni l’anno, per chi ha commesso i reati da minorenne, mentre per gli "adulti" le giornate di "libera uscita" si riducono a 45. Non si tratta quindi della fine della detenzione.

I permessi premio cominciano quasi sempre con gradualità, con brevi uscite in "struttura protetta" o accompagnate dai volontari nel corso di attività. Si deve sottostare a tutta una serie di divieti, di condizioni e di limitazioni, le "prescrizioni", appunto, stabilite caso per caso dal Magistrato di Sorveglianza, non facili da rispettare. In caso di trasgressione - essere in possesso o fare uso di un telefono cellulare è una trasgressione; incontrare per caso un amico con il quale hai condiviso la cella per anni, e fermarti per un saluto, non fosse altro per educazione, è una trasgressione perché non si possono frequentare pregiudicati - il beneficio viene revocato ed a quel punto sarà indispensabile una lunga attesa per cercare di riottenerlo.

I permessi premio hanno lo scopo primario di avviare le persone detenute ad un graduale percorso di riavvicinamento al mondo esterno che, prima o poi, dovrà comunque riaccogliere queste persone. Per quanto possa apparire immorale e scandaloso, dare dei segnali di riavvicinamento alla libertà, con patti e regole precise, ad un essere umano che ha commesso un reato, quando questi manifesta la volontà di reinserirsi, è un passaggio indispensabile per incentivarlo a migliorarsi, per spingerlo ad un cambiamento in positivo.

In teoria i permessi premio si possono ottenere dopo aver scontato almeno un quarto di pena per i reati più lievi e almeno la metà per quelli più gravi. Nella pratica succede che questi termini minimi si innalzino notevolmente: tra la domanda e la prima risposta, spesso negativa, intercorre la cosiddetta "istruzione" del fascicolo. Si tratta di accertamenti vari ed a volte complessi come la verifica della pericolosità, l’assenza di collegamenti con la criminalità, il parere del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, la redazione dell’osservazione scientifica della personalità da parte degli operatori del carcere dove vengono fatte confluire tutte le informazioni oggettive e soggettive, compresa la correttezza del comportamento in carcere e le motivazioni che hanno indotto alla commissione del reato… c’è veramente da perdersi.

 

Io che in carcere ci sto nel viso di chi ha ucciso ho sempre e soltanto letto disperazione, angoscia, sofferenza, rammarico

A contorno della notizia dei presunti permessi ad Omar e a Erika si sono sentite, e si sono lette, le notizie più disparate: "È stata loro accordata la liberazione anticipata, e la condanna di Omar è scesa da 14 a 10 anni e quella di Erika da 16 a 12…". Un calcolo piuttosto strano, perché, ammesso che sia stato concesso il beneficio in questione, meglio conosciuto come "sconto di pena per buona condotta", ciò può aver abbassato la pena per non più di 315 giorni. I conti sono presto fatti, dal momento che la diminuzione è concessa - sempre se il comportamento carcerario è stato ineccepibile e se la persona ha partecipato alle attività rieducative, quindi non in maniera automatica ma previa attenta "osservazione" e conseguente valutazione del Magistrato di Sorveglianza - per un periodo pari a 45 giorni per ogni semestre di detenzione effettivamente espiata. Erika ed Omar, che hanno commesso il reato nel febbraio del 2001, possono quindi beneficiare della liberazione anticipata per sette semestri. 315 giorni, appunto, molto molto lontano dai quattro anni sbandierati dagli organi di informazione.

Questa è solamente la prima e forse la più banale delle incongruenze relative alla polemica "Erika ed Omar", sufficiente però a far comprendere la superficialità con la quale alcuni media diffondono le notizie. Nella trasmissione Porta a porta, ove si è discusso sull’opportunità o meno di concedere i benefici ai due ragazzi, si è polemizzato, ad esempio, sul ruolo delle comunità. Si è cercato di farle apparire come dei collegi dove i minori che hanno commesso reati, quando i giudici li "affidano" a tali strutture per scontare la pena come alternativa alla detenzione in carcere, possono uscire e scorrazzare liberamente senza controllo alcuno. È stato grazie all’intervento puntuale e focoso di don Mazzi, che si è potuta chiarire la falsa indicazione: i ragazzi devono sottostare alle regole limitative della libertà stabilite dal magistrato, oltre a quelle che già disciplinano - e spesso in maniera ferrea - la vita di comunità.

Insomma, ha garantito don Mazzi, la vita in comunità è molto dura, quasi quanto quella che il minore dovrebbe trascorrere in carcere. Si tratta "semplicemente" di una modalità diversa di espiazione della pena, con lo scopo di aiutare il giovane che ha sbagliato facendolo crescere in un contesto diverso da quello prettamente detentivo. D’altronde è la stessa legislazione minorile a prevedere un utilizzo limitatissimo della detenzione in carcere, da applicare solamente come estrema ratio, suggerendo invece ai giudici, ove possibile, l’uso di forme alternative di pena, studiate ad hoc a seconda dei casi.

La giornalista Barbara Palombelli, presente a Porta a porta, ha sostenuto invece che quando ai giovani autori di crimini efferati vengono inflitte condanne relativamente lievi, questi si ergono spesso ad eroi. Si presentano in comunità o in carcere come dei vincitori, vantandosi con gli altri detenuti e con gli amici di averla fatta franca vanificando così, di fatto, l’effetto dissuasivo della pena. Eppure in oltre dieci anni di carcere ne ho conosciuti di detenuti, anche abbastanza giovani, condannati per reati gravi - ad esempio omicidi maturati nell’ambito familiare, commessi in un attimo di follia, o durante una rapina - ma non ne rammento neppure uno, dico uno, che avesse la faccia del vincitore.

Non so quali carceri abbia "frequentato" Barbara Palombelli e quali detenuti abbia potuto "esaminare ed osservare", ma io che in carcere ci sto nel viso di chi ha ucciso ho sempre e soltanto letto e visto disperazione, angoscia, sofferenza, rammarico. Mai soddisfazione, ed è per questo che mi amareggiano tali asserzioni, che non mi pare corrispondano alla realtà. Non me ne voglia Barbara Palombelli, ma davvero non capisco come possa immaginare, parole sue, il senso di impunità che passa per la testa di un assassino. Lo sostengo con convinzione perché, malauguratamente, di un reato tanto grave porto il peso sulla coscienza tutti i giorni, attimo per attimo.

Neppure se mi avessero assolto, anziché condannarmi all’ergastolo, mi sarei sentito un vincitore. Dopo aver ucciso, e lo dico nonostante siano trascorsi 17 anni dal fatto, è come se ti si spegnesse qualcosa dentro, sembra che una parte di te se ne sia "andata". Per sempre. Sembra che i tuoi occhi non riflettano più la loro luce naturale, che il tuo cuore non trovi più il sorriso e la durata della condanna è l’ultimo degli affanni e delle inquietudini ad assalirti. Non appena cerchi di rilassarti anche solo per un attimo ecco riaffiorare prepotentemente i ricordi. Chiudi gli occhi e vedi l’immagine della persona che hai ucciso. Quando la sera cala il silenzio e vorresti finalmente riposare la mente… cominciano invece a riecheggiarti in testa le urla strazianti di una madre, di "quella madre", che al processo non regge alla particolareggiata descrizione di come le è stato ucciso il figlio. E tu, che sai di aver causato tanto dolore, trascorri notti insonni… Ma quali vincitori… è la sconfitta più totale.

Proprio oggi pomeriggio ho sfiorato l’argomento con L., un mio compagno di sezione, condannato a "soli" 15 anni per omicidio. Non l’ho visto "esultare" per la pena mite, ammesso che 15 anni siano pochi, quanto piuttosto tormentarsi per aver tolto la vita ad un uomo. "Sai - mi ha detto con la voce incrinata - anche una volta scontata la pena non avrò mai più il coraggio di tornare al mio paese. Non riuscirei a guardare negli occhi le persone che conoscevo…", e su quella frase abbiamo preferito troncare il dialogo per non intristire ancora di più la nostra giornata.

 

Lasciare il carcere per qualche ora per incontrare la propria famiglia o per partecipare a una attività di volontariato non significa tornare liberi

Un’altra affermazione mi è rimasta impressa, sempre della Palombelli. Commentando la scarcerazione di un diciassettenne, avvenuta dopo soli sette mesi che questi aveva ammazzato un altro ragazzo (bisognerebbe anche spiegare che l’omicida rimane comunque in attesa di giudizio e che dovrà poi scontare la condanna che gli verrà inflitta), ha detto che lei, madre molto severa, non darebbe mandato ad un avvocato, dopo così poco tempo, di chiedere la remissione in libertà del proprio figlio qualora si fosse macchiato di un grave delitto. Mi è subito venuta in mente una lunga e-mail, giunta sul nostro sito www.ristretti.it un paio di anni fa, poi pubblicata anche su Ristretti Orizzonti. Era di un giovane agente di polizia che descriveva, con dovizia di particolari, il suo stato d’animo, quindi lo stato d’animo di un poliziotto che si ritrova, improvvisamente, a essere anche parente di un detenuto. Ne voglio citare un pezzo, di quella e-mail, perché davvero fa riflettere: "Se una settimana prima che incominciasse la mia ‘doppia’ vita (da poliziotto e da parente di un detenuto) qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei fatto, se mi fosse accaduto quanto poi si è verificato, gli avrei risposto che quel parente ‘avrei dimenticato’ di averlo. Fortunatamente, invece, ho cominciato da subito a correre contro corrente; ho avuto la fortuna di iniziare a crescere ed arricchirmi (‘poveri’ quelli che non hanno la fortuna di capire!) di un’esperienza non comune: capire che la vita non è scontata… capire tante cose che non avresti mai accettato… capire che una persona, ‘normale’, può sbagliare… Non è stato facile, ci sono voluti anni perché io giungessi a capire quanto era accaduto, non è un’esperienza che capita a tutti e non è semplice accettare le cose che non hai scelto di vivere. È sempre facile dire ‘io avrei fatto così, io mi sarei comportato così’, ma quando capita a te è veramente tutto diverso... è veramente un altro mondo, un mondo parallelo, e solo chi lo vive e lo affronta dalla parte ed a fianco del detenuto, può capire".

Detto ciò mi preme però, a questo punto, sgombrare il campo da possibili equivoci e da eventuali strumentalizzazioni. Lo faccio condividendo il pensiero di Edoardo Albinati, scrittore ed insegnate nel carcere di Roma Rebibbia, quando afferma che "i detenuti non sono affatto dei soggetti deboli, dei poverini". Le vittime sono ben altre, aggiungo io, e cioè coloro che pagano sulla propria pelle, e spesso in maniera drammatica ed irreparabile, per i nostri errori. Ma ciò non dovrebbe diventare la leva per sollevare ogni volta un polverone e "sbranare", puntualmente e indistintamente, tutta la "categoria" dei detenuti.

Comprendo assolutamente lo sgomento e l’incredulità dei cittadini di fronte alla seppur parziale, temporanea e supercontrollata "libertà" che viene a volte concessa agli autori di crimini gravi mediante la concessione dei permessi premio, e ancor di più comprendo il desiderio di vendetta delle vittime, quando ancora ci sono, e dei loro parenti, che hanno tutto il diritto di dire e di manifestare ciò che in qualche modo può aiutarle a stare meglio. Ma allo stesso tempo, a meno che non si voglia una pena svincolata e slegata da finalità e progetti, e cioè una sanzione soltanto dura e chiusa - quindi inevitabilmente riproduttrice all’infinito di se stessa e basta - è opportunamente necessario passare attraverso l’applicazione dei percorsi premiali previsti dalle leggi esistenti.

Lasciare il carcere per qualche ora per incontrare la propria famiglia o per partecipare a qualche attività di volontariato non significa tornare liberi. È semplicemente un atto di umanità delle istituzioni verso chi ha smesso di essere pericoloso per la società. E comunque non si finisce di pagare una colpa solo perché si esce temporaneamente dal carcere, la pena continua e la giustizia è e sarà sempre dalla parte delle vittime e dei cittadini onesti, come è giusto che sia.

 

Un guazzabuglio, così mi è parsa alla fine la trasmissione Porta a porta. Per focalizzare quale beneficio sarà eventualmente concesso ad Omar è stata necessaria una pausa pubblicitaria. Lo psichiatra Paolo Crepet, tirando ad indovinare, ha sostenuto che in questi quattro anni "Erika non può essere cambiata facendo buchi alle torte e dialogando un’ora a settimana con una psicologa". Il Ministro della Giustizia, carte alla mano, l’ha prontamente smentito sciorinando con dovizia di particolari le attività che Erika svolge e il trattamento terapeutico al quale è costantemente sottoposta. Del Ministro ha però stonato la lunga insistenza sul fatto che la "sete di giustizia dei cittadini deve essere soddisfatta". Il magistrato per i minorenni Simonetta Matone ha invece cercato di evidenziare le maglie larghe delle comunità, dalle quali i minori responsabili di reati "possono addirittura essere autorizzati ad uscirne per frequentare le scuole".

Insomma, una trasmissione piena di esperti di giustizia e di minori. Una tavola rotonda dove, mentre tutti sapevano cosa Erika ed Omar non dovevano fare, quasi nessuno aveva invece l’idea di cosa fosse meglio per loro, come del resto succede troppo spesso quando l’argomento riguarda il carcere ed i detenuti.

Propongo una discussione più approfondita: non può essere sempre e solo l’analisi della severità della condanna l’argomento in ballo. C’è un problema di idoneità e serietà della pena di cui bisogna iniziare a farsi carico. Il carcere, per quanto severo possa essere, non è automaticamente una risposta idonea e seria al reato. Con mezzi non sempre adeguati e "civili" riesce magari a contenere la pericolosità di chi ha commesso un reato, ma troppo frequentemente restituisce alla società le persone uguali a come sono entrate, e in alcuni casi anche peggiori.

 

 

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