L'opinione dei detenuti

 

Quando la galera cancella gli affetti

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 11 dicembre 2006

 

Gli affetti sono i grandi assenti nel percorso che un detenuto deve fare per ritornare dentro alla società. Eppure i familiari sono spesso vittime anche loro, e non è giusto che paghino proprio con la privazione degli affetti, che subiscano lo stesso trattamento di un recluso.

Servirebbe almeno un po’ di tempo e di spazio in più per un contatto più diretto e intimo con i figli, le mogli, le madri, perché oggi il dialogo nelle sale colloqui è difficile, tante volte per pudore non si riesce a parlare, a "sciogliersi", a trovare le parole e i gesti giusti. Un po’ di intimità, conta soprattutto quello, per dire ai figli la verità sulla propria condizione, per affrontare con le proprie compagne la separazione in modo meno traumatico, per non perdersi del tutto. Le testimonianze che seguono sono tre storie di affetti negati: uno straniero detenuto che il figlio lo "sente" crescere solo per telefono; un detenuto italiano che il suo bambino lo incontra in una desolante sala colloqui; una donna che il suo compagno lo vede in carcere un’ora a settimana e le altre 167 ore le passa nell’attesa di quell’incontro.

 

La paura di non essere conosciuto da tuo figlio

 

Mentre sto aspettando che squilli il telefono ripeto nella mia mente le cose di cui parlare con i miei, che ho sintetizzato durante la settimana. Sintetizzato, perché quei dieci minuti alla settimana non lasciano spazio per sentire e seguire il percorso degli affetti con le sue tipiche sfumature e i suoi tempi. Il problema è che appena alzo il telefono mi sparisce quell’ordine che avevo fatto per usufruire in modo più efficace di quei dieci minuti. Sento dall’altra parte del telefono la vocina di mio figlio che recita una piccola poesia per il papà, e la mia mente va in tilt. Mio figlio ha tre anni e mezzo e io sono finito in carcere quando lui aveva solo sei mesi. Sento che lui si sforza di dire quei versi appena memorizzati nella sua mente giovane. Probabilmente ha imparato la poesia per me e poi ha atteso la telefonata dietro ricompensa, mia moglie gli avrà promesso che appena finisce di recitare si va al mare a giocare con i suoi amichetti.

Sono momenti indescrivibili, e spesso pieni di dolore. Sento il mio cuore che salta su e giù, il mio corpo in quei momenti è invaso dalle emozioni, rabbia e gioia, questo si sente anche nella mia voce che devo riaggiustare in continuazione. Mia moglie vorrebbe venire a trovarmi e portare mio figlio in modo che lo possa vedere, lo possa abbracciare, ma dall’Albania non si può. La legge non lo prevede. E per il momento mi devo accontentare di dieci minuti di telefono a settimana. E della corrispondenza.

Dal mio paese ci vogliono due settimane per far arrivare le lettere. Quelle lettere che attendo impazientemente perché raccontano nei dettagli cosa fa durante la giornata mio figlio. Quelle lettere accompagnate sempre dalle foto attraverso le quali io vedo mio figlio crescere. Telefono, lettere e fotografie sono la mia linfa vitale, la materia prima sulla quale costruire con l’immaginazione la crescita di mio figlio che mi sto perdendo. Cerco di costruire i vari stadi da dove è passato mio figlio, le prime parole pronunciate, i primi passi. Cerco di essere con lui quando lui salta dalla gioia oppure quando ha la febbre alta.

La paura più grande che ho è che, una volta che ho pagato i miei sbagli e torno a casa mia, mio figlio veda in me uno sconosciuto. È molto difficile sintonizzarsi con un bambino al quale non sei stato vicino. Io rischierei di prendere un suo normale raffreddore per la fine del mondo. Già ora chiedo spiegazioni a mia moglie per capire perché nella foto, a volte, mio figlio fa quella faccia che a me sembra strana. Invece lei sa tutto di lui e capisce ogni suo segnale. Per me è abbastanza dura. Fino ad ora ho perso le coccole che si possono fare a un bimbo. Quelle manine piccole che ho lasciato quando uscirò saranno grandi da stringermi la mano. Il tempo vola. Lui cresce in una maniera incredibile e cresce in me l’ansia perché si avvicina il giorno in cui lo incontrerò. Adesso mi chiede per telefono: "Ma tu papà non vieni mai?". Poi però, quando finalmente tornerò a casa, come farò a rispondere alla inevitabile domanda: "E tu, chi sei?".

 

Kastriot Shei

 

Vorremmo giocare a calcio con i nostri ragazzi

 

Ad ogni uomo detenuto manca per forza il rapporto intimo con la propria moglie, e questo produce spesso la quasi inevitabile rottura del rapporto stesso. Ma di certo se ci fosse la possibilità di coltivare un po’ di più questi affetti i risultati sarebbero straordinari. Per prima cosa il detenuto vivrebbe in modo più sereno la detenzione e di certo accoglierebbe e porterebbe avanti con più convinzione un progetto serio di reinserimento, sapendo che una volta pagato il debito con la giustizia avrebbe ancora una famiglia con cui rincominciare una vita nuova.

Cosa dire poi dei bambini, le vere vittime degli errori dei loro genitori, ma anche dei successivi errori fatti da chi si occupa di decidere le pene, ma non capisce, non si ricorda che i bambini hanno bisogno di passare più tempo con i loro genitori?

Mi sono chiesto tante volte come mai nessuno ha pensato di creare spazi e tempi adeguati a loro: l’ora del colloquio infatti è insufficiente per poter ripristinare la giusta confidenza e fiducia con tuo figlio, i primi venti minuti servono per riavviare il rapporto cercando di metterlo a proprio agio, i successivi dieci per tirare fuori un timido sorriso ed infine trenta minuti per organizzare un campo di calcio sul tavolo con due bicchieri che fungono da porte e un rotolino di carta stagnola che sostituisce il pallone. Vince sempre lui ed è lui che detta le regole ed i modi di giocare, insomma diventa quasi come stare a casa, peccato che appena si arriva a questo punto appare immancabilmente l’agente che comunica la fine del colloquio, le solite facce tristi, baci abbracci ed uno sguardo che accompagna fuori i tuoi cari, e quanta tristezza dentro i nostri cuori.

Ma è cosi difficile trovare il modo di regalare a questi bambini una partita di calcio con i loro padri? Come mai non si trova uno spazio la domenica da far condividere alle famiglie?

Io ritengo che i bambini debbano essere i primi tutelati, non bisogna di certo considerarli adulti a tal punto da fargli vedere la nuda e cruda realtà, con l’idea che è meglio una brutta verità che una bella bugia. Bisogna piuttosto fare in modo che almeno loro non ci vedano come dei mostri di cui aver paura, ma nello stesso tempo capiscano che gli errori dei padri sono tutt’altro che un modello da seguire.

Una piccola richiesta mi permetto poi di avanzare, alla quale non dovrebbe essere tanto difficile rispondere: non è possibile aumentare il numero degli incontri dei detenuti in palestra con i figli (come la festa del papà) e organizzare ogni tanto una partita di calcio nel nostro campo tra tutti i bambini che hanno i padri qui dentro?

 

Salvatore Allia

 

È un gioco di abilità amare chi sta in una cella

 

La fila che seguo mi porta nell’anticamera della sala colloqui. Ricompongo il mio cuore e aspetto di sentire il nome del mio uomo. È gioia intensa quella che mi scorre dentro mentre percorro i pochi metri dell’ultimo corridoio, scruto attraverso le pareti di vetro cercandolo, incontro altri visi che mostrano i segni della mia stessa ansia, della mia stessa attesa. La chiave gira nella toppa e finisce l’ultima barriera, finisce la non-esistenza.

Incontro i suoi occhi, le sue braccia mi avvolgono e nel nostro abbraccio c’è di tutto, tutto racchiuso in questi 60 minuti, talvolta 58, che sono la parte concreta del mio amore…, del mio amore "laterale", sarebbe giusto dire, perché tutto avviene mentre noi stiamo seduti fianco a fianco. Ultimamente, ho una storia soprattutto con la parte destra del mio uomo perché è da quel lato che sto seduta accanto a lui… almeno, però, mi può avvolgere col suo braccio e posso dargli un bacio senza dovermi protendere sulla barriera di un bancone come avviene in altri istituti, questo mi fa sentire fortunata e dimentico ogni fatica.

È una continua, impercettibile violazione, quella che vive la mia persona, obbligata a mettere in pubblico ogni sguardo, sorriso, ogni gesto di tenerezza, la minima effusione: eppure non solo il sesso è intimità, ma ogni cosa che spetterebbe solo al mio uomo.

Il tempo trascorre tra le cose dette, quelle lasciate ai sorrisi, alle carezze, alle lacrime, le note di vita, le raccomandazioni, qualche bacio.

Un giro di chiave e una voce impone la fine del colloquio. L’atmosfera si fa concitata, la testa non riesce più a controllare quello che accade; mi sento pronunciare parole, ne ricevo altre sconnesse, la sola cosa che distinguo è la supplica che portano in esse, quella di continuare ad esistere e l’estrema speranza che, un giorno, tutto questo possa e debba finire. Non riesco mai a vederlo andare via, si dissolve.

Sono lì quando mi gira le spalle come un automa, ma i miei occhi non riescono a trattenere quella immagine. Resto ferma al centro della sala e ogni volta mi chiedo come faccio ad accettare, mi stupisco di non scoppiare a piangere, di riuscire a trattenere il dolore di vederlo portato via in una dimensione altra, in cui io non potrò più nulla. Tristezza, impotenza, a volte persino disperazione si affollano in me senza che io ne mostri il segno, ma sento il mio cuore scagliarsi contro quel blindo ormai chiuso. Come un bambino disperato lo strappo via a stento, lo trascino via lungo i corridoi. Sento sul petto l’affanno, forse barcollo non lo so, mentre ritorno nella desolazione e altre 167 ore di attesa, di un nuovo, sempre uguale, interminabile tempo, vuoto di noi.

 

La compagna di un detenuto

 

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