Rassegna stampa 8 marzo

 

Giustizia: 8 marzo... ma le mamme detenute non festeggiano

 

Il Velino, 8 marzo 2010

 

Terre des Hommes e Bambinisenzasbarre insieme per la campagna "Fuori i bambini dalle carceri italiane!".

Ancora oggi in Italia migliaia di donne sono costrette a vivere lontano dai propri figli, maggiori di tre anni, perché rinchiuse in un carcere, mentre almeno un centinaio di loro crescono il proprio bambino dietro le mura di un istituto penitenziario, con la prospettiva di vederselo portare via al compimento del terzo anno d’età.

Terre des Hommes (Tdh), organizzazione attiva da 50 anni nella difesa dei diritti dell’infanzia, e "Bambinisenzasbarre", associazione impegnata da oltre un decennio nel sostegno, tutela e mantenimento della relazione genitoriale in detenzione, per la prima volta insieme, promuovono la Campagna "Fuori i bambini dalle Carceri italiane!" e chiedono al Parlamento italiano di approvare rapidamente la proposta di legge n. 18141 (proposta Bernardini) per accogliere bimbi e mamme detenute in Case famiglia protette.

"L’Italia oggi costringe decine di bambini a scontare una pena di cui non hanno colpa, rinchiusi in un carcere ed impone a migliaia di altri di crescere lontano dalla propria madre, perché detenuta, in palese violazione con la Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia, che invece vorrebbe sempre garantito e protetto il diritto del bambino a crescere con i propri genitori, sempre - dichiara Federica Giannotta, responsabile advocacy di Terre des hommes Italia.

Lia Sacerdote, presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre aggiunge alcuni dati: "La questione dei bambini detenuti con la mamma e di quelle migliaia che entrano ogni giorno in carcere per incontrare i propri genitori detenuti rappresenta un tema di salute pubblica e responsabilità sociale che coinvolge tutti e ci indica che la prigione non interessa solo chi sta dentro ma anche chi sta fuori. Sono 750 mila infatti i bambini che entrano ogni giorno nelle carceri europee per incontrare i propri genitori detenuti, 75 mila ogni anno in Italia sono separati da un genitore (o da entrambi) perché detenuti, 4.500 nella sola Lombardia, secondo un rapporto Caritas, 2.500 secondo il ministero di Giustizia".

Benché infatti la legge n. 40/2001 (la cosiddetta legge "Finocchiaro") - sulla carta - preveda il diritto alla detenzione domiciliare speciale per le mamme detenute già condannate, laddove sussistano talune condizioni (assenza di recidiva; non pericolosità; aver scontato almeno 1/3 della pena; disporre di un domicilio) , tali requisiti di fatto non ricorrono mai e rendono praticamente inaccessibile un’alternativa al carcere per la stragrande maggioranza delle detenute, soprattutto nella fase dell’attesa di giudizio.

Molte di loro infatti non hanno un domicilio o sono ancora in attesa della pena definitiva o, ancora, hanno commesso reati per i quali c’è un pericolo di recidiva (ad es. legati all’uso, spaccio di droga, prostituzione). Se il Disegno di legge n. 1814 (Proposta Bernardini) venisse approvato, finalmente si darebbe la possibilità sia alle madri che oggi sono in carcere con i propri bambini piccoli, sia a quelle che se lo sono viste portare via di vivere accanto ai propri figli in apposite "Case Famiglie Protette" almeno fino ai dieci anni di età. Nonostante il Disegno di legge n.1814 goda del consenso trasversale di tutte le forze politiche, è fermo dal 2008 in commissione Giustizia della Camera, nel silenzio e nell’indifferenza generale. Terre des Hommes e Bambinisenzasbarre chiedono che riprenda al più presto l’iter di approvazione della legge.

Giustizia: 70 - 80 i bambini in carcere, una soluzione ci sarebbe

di Andrea Onori

 

Periodico Italiano, 8 marzo 2010

 

Tante piccolissime creature sono costrette a vivere con la propria mamma all’interno di un penitenziario italiano. Ci sono piccoli infanti che crescono circondati da mura, sbarre e forze dell’ordine. Nascono e vivono in un sistema carcerario, devono vivere dietro le sbarre secondo una legge italiana del 1975 che ha lo scopo di salvaguardare il rapporto madre-figlio/a. Questa problematica è stata per molto tempo sotterrata dalle autorità e dall’opinione pubblica. Nessuno ne parla, tutto sembra normale e ciò che spaventa oggi è l’indifferenza ed il silenzio tombale di tutti noi.

Le urla di Luisa Betti, "tiriamo fuori i bambini dal carcere", sono diventati un’inchiesta andata in onda su Rai News 24 ieri (domenica 7 marzo) alle 23.00. La giornalista, che si occupa spesso di diritti dei minori, ha toccato con mano la realtà di queste piccole creature innocenti che vivono con le loro mamme all’interno del carcere. "Questo lavoro è stato ideato e realizzato come azione concreta volta a sensibilizzare l’opinione pubblica e l’informazione su un tema delicato. All’inizio non è stato semplice, ci guardavano con diffidenza" dice Luisa Betti.

L’inchiesta, "il carcere sotto i tre anni di vita", parte dal penitenziario di Rebibbia di Roma dove è allestito un nido in grado di ospitare numerosi bambini con le loro mamme. "I bambini trascorrono la giornata tra la stanza dei giochi e il giardino, alcuni frequentano il nido del Comune di Roma, e la sera, intorno alle 19.00, rientrano nelle celle con le mamme dove dormono e rimangono fino al giorno dopo" racconta Luisa Betti che ha visitato il luogo per mesi ed ha raccontato, per volontà delle detenute, la loro quotidianità. La voglia di dire la loro, di potersi esprimere e di voler raccontare le proprie esperienze, le colgo anche io quando entro in contatto con chi non ha possibilità di accedere liberamente all’informazione. Mi capita spesso con migranti detenuti nei Cie, clandestini, clochard, anziani e tutte le altre persone che hanno disagi e soffrono le pressioni e la repressione della maggioranza indifferente di questa società. Sono loro che ti premono a parlare della loro situazione.

Nell’inchiesta di Luisa Betti, emerge che nelle carceri italiane vivono tra i 70 e gli 80 bambini. Secondo la giornalista, sono anni che si tenta il superamento della legge: si cerca di evitare che i piccoli entrino nei penitenziari e vivano come detenuti e nello stesso tempo si vuole che i bambini trascorrano l’infanzia con la propria mamma. "La legge attuale - dice Luisa Betti - ha alcune possibilità, come la detenzione domiciliare, che però non sempre viene concessa, soprattutto se si tratta di straniere o di rom senza fissa dimora" e continua ricordando che "i bambini sono tutti uguali: cosa ricorderanno di quei tre anni di vita, cosa penseranno di quella madre che torneranno a vedere qualche volta negli anni successivi? E dei compagni di gioco? E di quel cortile recintato?"

La giornalista, nella video - inchiesta, racconta che le donne detenute esibiscono una carenza fisica- psicologica legata soprattutto al senso di colpa verso i loro bambini che rimangono in carcere per un lungo periodo di tempo. "Lo stato psicofisico delle madri spesso si rispecchia nel disorientamento dei figli e anche durante le interviste il senso di umiliazione e vergogna nei confronti di questi bambini si alterna con il forte desiderio di ricominciare una vita nuova dopo il carcere per non riportare i figli dietro le sbarre". Dal penitenziario di Rebibbia esce fuori che i bambini sono sfuggenti ed hanno un livello di attenzione bassissimo. Non realizzano cosa sia un carcere ma intuiscono che qualcosa non va.

Una donna italiana, detenuta nel carcere romano di Rebibbia insieme alla sua bambina, attraverso la video - inchiesta di Luisa, racconta il forte disagio: "Sono stata arrestata quando la bambina aveva solo cinque mesi. In prigione Chiara ha subito risentito dello spazio chiuso, della mancanza di un ambiente familiare. Ha smesso di sorridere e ha iniziato a piangere in continuazione. È stata male diverse volte, ricoverata in ospedale sempre da sola perché noi mamme detenute non possiamo seguire i nostri piccoli in ospedale. È rimasta muta fino a due anni e mezzo".

In definitiva la Betti si chiede: è più importante la vita di un bimbo innocente o la pericolosità di queste donne? Queste ultime, hanno reati legati soprattutto al disagio sociale. "Si parla da anni anche di case famiglia gestite dal Dap (ministero della giustizia) fuori dalle mura carcerarie e con guardie senza divisa, ce ne è una solo a Milano". Dunque, si evita in continuazione il problema del recupero del detenuto, quando dovrebbe essere il punto principale in un sistema democratico. Ma almeno vogliamo dare dignità a queste piccole anime che non hanno nessuna colpa?

Giustizia: Ionta; situazione suicidi sta diventando insostenibile

 

Ansa, 8 marzo 2010

 

"Il poliziotto penitenziario non deve solo fare il custode del cancello ma deve svolgere l’importante compito di cogliere i segnali dei detenuti": così il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, in riferimento ai gesti autolesionistici e ai suicidi nelle carceri, durante un convegno organizzato dal sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, sul sovraffollamento degli istituti di pena.

"Non voglio dire - ha aggiunto il capo del Dap - che devono diventare piccoli psicologi, ma l’osservazione attenta è indispensabile, perché la situazione sta diventando insostenibile: dall’inizio dell’anno ci sono stati 13 suicidi".

Ionta ha sottolineato come "i gesti autolesionistici non si possono evitare, ma vanno controllati e limitati". Dal momento che la situazione nelle carceri è cambiata perché "sono cambiati i detenuti e la gestione delle strutture", alla mutata situazione, è il ragionamento di Ionta, "si può supplire solo con la professionalità degli agenti". Questo, ha concluso, "é quello che l’amministrazione sta facendo: privilegiare la responsabilità".

Giustizia: Carloni (Pd); da Governo solo promesse, niente fatti

 

9Colonne, 8 marzo 2010

 

"Sono d’accordo con chi ha scritto nei giorni scorsi riprendiamoci le mimose, per questo ho appuntato alla giacca un rametto di mimosa e invito tutte a farlo e a partecipare alle iniziative. Non per fare festa, non c’è nulla da festeggiare, ma per ribadire con forza la volontà delle donne di contrastare il rischio concreto di arretramento culturale e sociale che viviamo in Italia e nel Mezzogiorno". Lo afferma la senatrice Anna Maria Carloni, membro della Commissione Bilancio al Senato.

"Questa mattina - prosegue - ho visitato, insieme ad Adriana Tocco, Garante dei detenuti della Campania, il carcere femminile di Pozzuoli che rappresenta una realtà interessante per le molteplici iniziative di risocializzazione attuate grazie alla determinazione e alle capacità della direttrice Stella Scialpi e della direzione della polizia penitenziaria. Ci sono andata diverse volte, prima e dopo l’indulto, e ho potuto verificare che i tanti annunci di riforma, assunzioni e Piano carceri del Governo Berlusconi sono in realtà solo parole e niente fatti".

"A Pozzuoli, come nella stragrande maggioranza delle carceri italiane, c’è un problema di sovraffollamento e di carenza di spazi, basti pensare che attualmente sono detenute 180 donne e che invece la struttura ne potrebbe ospitare regolarmente 91, con un margine di tollerabilità stimato intorno alle 153 persone. A tale sovraffollamento si aggiunge inoltre una carenza di organico di circa il 30%".

"Eppure, nonostante ciò, grazie anche alla sinergia tra il ministero di Grazia e giustizia e la Regione, sono andati avanti e si sono realizzati progetti volti al reinserimento lavorativo molto importanti, come quello del Caffè delle Lazzarelle, e poi laboratori, attività musicali come il coro, corsi di formazione e di studio che hanno permesso alle detenute di diplomarsi e di individuare una possibile strada per il futuro.

Lo sviluppo delle attività di reinserimento lavorativo - conclude la Carloni - potranno sempre più rappresentare misure di rieducazione sociale e di risarcimento per la collettività. Esse costituiscono inoltre valide alternative alla pena detentiva, le uniche capaci di contrastare la tendenza all’esplosione per sovraffollamento del nostro sistema carcerario".

Giustizia: Sappe; carceri "modulari" contro il sovraffollamento

 

Il Velino, 8 marzo 2010

 

"Il sovraffollamento penitenziario, l’alta presenza di detenuti stranieri e la possibilità di un circuito penitenziario differenziato per i tossicodipendenti in carcere: se ne parlerà oggi pomeriggio a Roma, presso la scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma, al convegno organizzato dal Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe e dall’associazione nazionale dei funzionari del corpo Anfu. E in quella sede il Sappe parlerà di una soluzione alternativa per l’edilizia penitenziaria".

Lo rende noto un comunicato stampa dello stesso Sappe. "È un progetto che riguarda un sistema modulare - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe -, vale a dire un edificio in acciaio con grandi capacità di resistenza agli agenti atmosferici, agli attacchi chimici o ad altri processi deteriorativi, che può essere sopraelevato senza particolari misure strutturali e con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Si tratta di edifici con 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro, e posti in opera in soli sette mesi. E questa potrebbe essere una prima rapida soluzione per deflazionare le affollate carceri italiane".

Sui temi del convegno, interverranno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, il segretario dell’associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cascini, il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, e quello della Giustizia minorile, Bruno Brattoli, esponenti di associazioni del volontariato impegnate in carcere quali Comunione e Liberazione, comunità di S. Egidio e comunità Villa Maraini. Capece sottolinea che "dei circa 67mila detenuti oggi presenti nelle 206 carceri italiane, uno su tre è straniero, uno su quattro è tossicodipendente e considerevole è anche la percentuale di detenuti con malattie mentali.

Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del corpo di Polizia penitenziaria, oggi sotto organico di ben cinquemila unità. Il dato importante da considerare è che i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. Forse - conclude il segretario generale del Sappe - è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per questi tre tipi di detenuti".

Giustizia: il sovraffollamento delle carceri? una sola soluzione

di Raffaella Gay

 

Riforma, 8 marzo 2010

 

Intervista a Susanna Marietti dell’osservatorio sulla detenzione di "Antigone": piuttosto che costruire nuovi penitenziari, bisognerebbe aumentare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, che ci sono e funzionano.

Il 13 gennaio 2010 il Consiglio dei Ministri approva il piano carceri proposto dal guardasigilli Angelino Alfano per affrontare un’emergenza che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi definisce intollerabile. Soluzioni? Maggiori poteri al responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), coinvolgimento dell’edilizia privata per la costruzione di nuove strutture grazie allo stanziamento di 500 milioni di euro (non è ancora chiara la procedura per la destinazione delle gare d’appalto e come verrà recuperata la cifra). Il mondo del volontariato insorge e chiede al Governo di destinare i soldi (o almeno una parte) a progetti per il recupero sociale delle persone detenute, con quella cifra ne potrebbero essere finanziati oltre 10.000.

Perché le misure alternative alla carcerazione (a esempio affidamento in prova, semilibertà con attività lavorative o istruttive utili al reinserimento sociale) ci sono e funzionano: il tasso di recidiva ordinario è circa del 68%, cala al 30% per chi sconta la pena in regime prevalente di misura alternativa. Senza contare che molti detenuti potrebbero svolgere ben più proficui lavori socialmente utili. Il sovraffollamento delle carceri italiane è sicuramente uno dei problemi attualmente più urgenti: oltre 66.000 le persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 44.066 posti. Gravi e ovvie le conseguenze: celle stracolme, condizioni igieniche precarie, bassissima assistenza socio sanitaria, conflitti, dovuti spesso alla convivenza forzata in cella di più persone di culture ed etnie diverse, maltrattamenti fino a suicidi.

E in Italia il ritmo di crescita della popolazione carceraria è tra i più alti in Europa, così come alta è la percentuale di coloro che in carcere sono in attesa di sentenza definitiva. Una situazione monitorata attraverso l’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione in Italia e Europa dell’associazione "Antigone", che da oltre vent’anni si occupa di difesa dei diritti dei detenuti e delle garanzie nel sistema penale, e spesso denunciata. Susanna Marietti ne è la coordinatrice nazionale.

 

Sono quasi 67.000 le persone detenute nelle carceri italiane, una vera emergenza: quali le cause principali?

"Lo cause principali derivano da elementi che si muovono su due differenti livelli. Il primo è quello normativo, dove alcune leggi recenti hanno cominciato a dare frutti a pieno regime, in particolare la cosiddetta Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fi-ni-Giovanardi sulle droghe e la ex-Cirielli nella parte in cui allunga le pene e rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi. che costituiscono la grande maggioranza dei detenuti nelle carceri, caratterizzala da uno stile di vita legato alla piccola e piccolissima criminalità, di cui la recidiva è fattore caratterizzante. L’altro livello è quello culturale, che vede competere le forze politiche nel chi grida più forte alla sicurezza pubblica e alla tolleranza zero. Si è perso il senso del risolvere i problemi delle persone con strumenti diversi da quello carcerario. Se questo è il messaggio che viene dalla politica, è evidente la ricaduta che può avere sull’operato delle forze di polizia e della magistratura. Ecco allora, per esempio, che quasi metà della popolazione detenuta in Italia è in custodia cautelare, una percentuale tra le più alte in Europa".

 

Qual è la situazione dei detenuti nelle carceri italiane che emerge dal lavoro dell’Osservatorio di Antigone? Quali le condizioni di vita?

"L’attuale affollamento rende le condizioni di vita intollerabili. E Antigone è in buona compagnia nel denunciarlo: nel luglio scorso l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, quello che proibisce la tortura e le pene e i trattamenti inumani o degradanti. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che far vivere una persona in condizioni di sovraffollamento come quelle che erano state imposte a un detenuto di origine bosniaca nel carcere romano di Rebibbia significhi sottoporlo a un trattamento inumano e degradante. Ora molti altri detenuti, aiutati dai nostri legali, stanno presentando analogo ricorso alla Corte. Il sovraffollamento è innanzitutto mancanza di spazi fisici vitali, ma ha ripercussioni su ogni aspetto della vita detentiva, dall’assistenza sanitaria alle attività di studio e ricreative. Oggi la maggior parte delle persone detenute vive chiusa in celle piene di letti e brandine, dove spesso si deve fare a turno per potersi alzare in piedi".

 

Si può parlare di triste specificità italiana rispetto all’Europa?

"In parte sì e in parte no. In parte sì, visto che abbiamo il peggior rapporto legge-prassi. Ossia: la legge riconosce diritti e opportunità che la prassi nega quotidianamente. In parte no, perché tutta l’Europa si è caratterizza per un maggior investimento pubblico nelle politiche di sicurezza, con un progressivo rialzo dei tassi di detenzione".

 

Settantadue suicidi in carcere nel 2009, già 13 nel 2010: assenza di assistenza sociale e. psicologica, maltrattamenti, abbandono, sovraffollamento: quali le cause principali?

"Il 2009 ha costituito l’apice della curva statistica sui suicidi penitenziari, e il 2010 già si annuncia non da meno. Non c’è dubbio che il sovraffollamento abbia una forte incidenza su questo. Vivere in simili condizioni porta alla disperazione. E ovviamente educatori, psicologi e assistenti sociali, in numero pensato per 44.000 detenuti, non sono in grado di gestirne oltre 66.000, nelle esigenze individuali, nelle problematiche specifiche. Non si riesce a dare attenzione al singolo, l’individualità del trattamento rimane un ricordo da libro di giurisprudenza. Durante lo scorso Governo, l’Amministrazione penitenziaria emanò una circolare - fortemente voluta dall’allora sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri Luigi Manconi (cui Antigone diede il proprio contributo) - che riguardava i cosiddetti "nuovi giunti", cioè quei detenuti appena arrivati in carcere dalla libertà, tra i quali è più frequente il rischio di suicidio. Si prevedevano per loro sezioni apposite, particolarmente seguite nell’assistenza psicologica. Bene: il nostro Osservatorio ha riscontrato che di queste sezioni c’è poca traccia in giro per le carceri italiane".

 

Qual è la situazione degli stranieri detenuti anche in relazione al reato di clandestinità del "pacchetto sicurezza"? Quale a vostro parere la prospettiva?

"Gli stranieri nelle carceri italiane sono 23.530. Di questi, 13.825 sono in custodia cautelare: il 58,75% degli stranieri in carcere è in carcerazione preventiva. Gli italiani in custodia cautelare sono circa il 15% in meno rispetto agli stranieri. È evidente che nei confronti di questi ultimi vi è una maggiore propensione all’uso del carcere anche durante la fase processuale. Ciò forse accade per una sommatoria di ragioni: assenza di riferimenti esterni dove disporre gli arresti domiciliari; minore capacità di difesa adeguata; cautela giudiziaria contro il rischio di irreperibilità. Sta di fatto che esiste una discriminazione nell’uso degli strumenti cautelari. Guardando al numero degli ingressi degli stranieri in carcere, vediamo che nel 2008 sono stati 43.099, ossia il 46% del totale. 13 mila di questi sono stati motivati dalla mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento del questore. Basterebbe depenalizzare questa condotta per risolvere il sovraffollamento penitenziario. In ordine decrescente, ecco le etnie più rappresentate in carcere: i marocchini sono 4714, i rumeni 2670, gli albanesi 2610, i tunisini 2499. Le Regioni con più detenuti stranieri sono la Lombardia con 3525, il Piemonte con 2376, l’Emilia Romagna con 2116, il Lazio con 2064. Rispetto ai reati compiuti si segnala che agli stranieri è ascrivibile solo Io 0,2% dei crimini di associazione a delinquere di stampo mafioso, contro il 3,9% ascrivibile agli italiani; il 16,4% dei reati contro la persona, contro il 15,5% ascrivibile agli italiani; il 14,8% delle violazioni della legge sulle armi, contro il 18,4% ascrivibile agli italiani; il 15,9% delle violazioni della legge sulle droghe, contro il 12,4% ascrivibile agli italiani".

 

Quali le proposte principali presentate da Antigone per migliorare le condizioni e affrontare il problema sovraffollamento ?

"Lo scorso ottobre presentammo a parlamentari, magistrati, avvocati, alti funzionari dell’amministrazione, giornalisti - un documento con tre gruppi di proposte, classificati come a breve, a medio e a lungo termine. Quel documento racchiude le nostre convinzioni sulla riforma del sistema penale e penitenziario. Ma ci rendiamo conto che, nell’attuale situazione politica, esso non è praticabile in tutte le sue parti. Una seria riforma del Codice penale, a esempio, è stata in parte tentata in varie passate legislature, ma si è sempre arrivati a un nulla di fatto. Figuriamoci che cosa potrebbe accadere nel clima di oggi... Eppure quella sarebbe la via maestra. Una soluzione a lungo termine, tanto nei tempi che ci vogliono per portarla a compimento quanto negli effetti duraturi cui condurrebbe. Volendo essere costruttivi, proponiamo alcune misure di carattere normativo e amministrativo che sarebbero praticabili nell’immediato. Le abbiamo elencate alla Camera del Deputati insieme a Vie Caritas e Arci nel giorno in cui l’Aula discuteva le mozioni sul carcere. Si tratta di aumentare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, rivedere le tre leggi che ho citato sopra, diminuire il ricorso alla custodia cautelare in carcere, introdurre anche per gli adulti l’istituto della messa alla prova, introdurre il difensore civico nazionale delle persone private della libertà, prevedere il reato di tortura nel nostro Codice penale, assumere mille nuovi educatori e mille nuovi assistenti sociali".

Giustizia: Antigone; 2 mesi stato emergenza, nessun intervento

 

Ansa, 8 marzo 2010

 

"L’ennesimo suicidio in carcere è il segno che la condizione negli istituti di pena è assolutamente invivibile". A denunciarlo è Stefano Anastasia, difensore civico dei detenuti dell’associazione Antigone. "Salvo gli sforzi di alcune amministrazioni, il sovraffollamento è una realtà drammatica - aggiunge Anastasia - e a due mesi dalla dichiarazione di stato d’emergenza carceri proclamato da Alfano nulla ancora è stato fatto".

Secondo Anastasia, invece, "poche piccole cose che servirebbero comunque ad alleviare la condizioni dei detenuti l’amministrazione penitenziaria potrebbe farle subito: aumentare, ad esempio, la possibilità di relazioni con la famiglia". "Aiuterebbe molto - aggiunge - consentire più colloqui telefonici e garantire una vicinanza con la famiglia, mentre oggi è vietato per i detenuti chiamare i cellulari e si spostano i detenuti dove si trova posto". Il caso del detenuto che si è suicidato oggi a Padova è emblematico: residente a Nola era rinchiuso in carcere in Veneto. "Ciò vuol dire - spiega Anastasia - che le visite dei familiari sono difficili e rare e la solitudine porta alla depressione. È il caso di Vincenzo Balsamo, il detenuto che si era rivolto ad Antigone per ricorrere alla corte europea contro il sovraffollamento - conclude Anastasia - e che tornato in cella dopo un periodo fuori, in comunità, a febbraio si è ucciso".

Giustizia: Palma resta presidente Comitato prevenzione tortura

 

Apcom, 8 marzo 2010

 

Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene disumane o degradanti del Consiglio d’Europa ha confermato per la terza volta alla presidenza il professor Mauro Palma, esperto di problemi penitenziari. Primo vice Presidente è stato eletto lo psichiatra islandese Pétur Hauksson, secondo vice Presidente il professor Haritini Dipla, docente di diritto internazionale all’Università di Atene.

Il Cpt, che nello scorso mese di dicembre definì allarmante la situazione carceraria in Italia, ha accesso illimitato e senza preavviso in tutti i luoghi di detenzione d’Europa - compresi gli ospedali psichiatrici, i centri di raccolta degli immigrati e i commissariati di polizia, oltre alle carceri - per rilevare le condizioni di vita delle persone che in un modo o nell’altro sono private della libertà.

Giustizia: il Seac ha eletto un nuovo Presidente, è Luisa Prodi

 

Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2010

 

Il 6 e 7 marzo si è riunito a Roma il Consiglio Nazionale del Seac - Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario, per definire le linee di indirizzo e il programma di attività del prossimo periodo. Il Consiglio ha eletto alla presidenza nazionale Luisa Prodi, che subentra a Elisabetta Laganà.

Luisa Prodi è volontaria in ambito penitenziario da 22 anni nell’associazione "Controluce" di Pisa. Ha rappresentato la Toscana nella Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ed è stata per sei anni coordinatrice regionale del Seac in Toscana. Il Consiglio Nazionale e la nuova presidente hanno espresso a Elisabetta Laganà il ringraziamento per l’ impegno qualificato, competente e generoso, che ha profuso in questi anni e che ha permesso al volontariato penitenziario di accompagnare il suo operato quotidiano con una riflessione puntuale intorno alle questioni della pena e del carcere, e con un costante confronto a livello istituzionale.

Giustizia: carcere ingiusto vale 200 euro, di cui 136 sono tasse

di Stefano Zurlo

 

Il Giornale, 8 marzo 2010

 

L’incredibile storia di un imprenditore marchigiano arrestato per sbaglio: è stato risarcito per l’errore, però l’Agenzia delle entrate gli presenta il conto.

Una notte, una sola per fortuna, in carcere. La cella soffocante, quasi claustrofo-bica, ad Ancona. I titoli dei giornali come becchi di avvoltoio. L’accusa, infamante, di aver esportato illegalmente quadri all’estero. Renato Raimondi, imprenditore marchigiano ormai sulla

settantina, aveva una reputazione consolidata. Andò tutto in frantumi il 9 giugno 2008, con un arresto in flagranza che in realtà era un abbaglio. La polizia era convinta di aver messo le mani su un delinquente. Invece no. Ci pensa il gip di Macerata a fermare un’inchiesta fumosissima e inconsistente: il giudice si rifiuta di convalidare il provvedimento chiesto dal pm e lo rimette in libertà. I guai di Raimondi, però, non sono ancora finiti.

Giustizia e burocrazia vanno spesso a braccetto con risultati paradossali. E questa storia, che ormai va avanti in automatico da quasi due anni, è un concentrato di piccole grandi umiliazioni, distillate allo sventurato Raimondi con la puntualità di un farmacista. Umiliazione numero uno: la Corte d’appello di Ancona liquida per l’ingiusta detenzione subita duecento euro. Intendiamoci, ad applicare le tabelle matematiche previste dal ministero della giustizia, Raimondi avrebbe incassato poco di più: 235 euro. Ma non è questo, o meglio solo questo, il punto. Il battagliero avvocato Giampiero Cicconi aveva sottolineato la permanenza in quella cella troppo piccola e, soprattutto, il tracollo dell’immagine di Raimondi, fatta a pezzi dalla stampa marchigiana.

Oltretutto l’imprenditore ha una certa popolarità nelle Marche per aver giocato centravanti nella Sambenedettese e nel Taranto degli anni Sessanta. Dunque, Cicconi si rivolge alla Cassazione per avere un briciolo di giustizia. E perché pretende che la dignità di Raimondi sia rispettata. La Suprema corte accoglie le sue osservazioni e le gira alla Corte d’appello d’Ancona perché si corregga.

Salirà, e di quanto, l’indennizzo? Nell’attesa ecco la seconda tegola, se possibile anche peggiore della precedente. Tramite Equitalia l’Agenzia delle entrate recapita a Raimondi una letterina e gli presenta il conto, frugando fra le spese dei ricorsi: 136,05 euro. "Dal foglio - spiega Cicconi - non è che si capisca granché. Ma si intuisce che l’Agenzia delle entrate ha sbagliato.

Infatti la Cassazione aveva stabilito che tutte le spese di giustizia sarebbero state a carico dello Stato, dunque del ministero dell’economia". Invece, i duecento miseri euro rischiano una pesante amputazione. E l’errore di cui Raimondi è stato vittima prende i colori della beffa: tutto quel treno di avvilenti disavventure vale solo sessantaquattro euro scarsi?

La vicenda, invece di correre verso la conclusione, si complica e si divide in vari filoni. Cicconi manda una diffida all’Agenzia delle entrate per tamponare quella falla imprevista; intanto si aspetta sempre la nuova pronuncia della Corte d’appello sui soldi del risarcimento. Ma non è tutto. Raimondi deve convivere anche con una sottile inquietudine. Sì, perché dopo quasi due anni è ancora inchiodato a quel procedimento.

L’indagine va avanti e per lui non è mai arrivata l’archiviazione. Certo, il gip non ha accolto la misura cautelare, ma gli accertamenti proseguono. E Raimondi non può ancora considerare questa storia al passato. Come un brutto ricordo. "Aspetto con pazienza -afferma lui rassegnato - tanto ormai mi sono ritirato dagli affari e sono solo un pensionato". La gente capirà. Se vuol capire.

Cicconi invece trattiene a stento l’indignazione: "Non capisco cosa stiano aspettando. Lui non c’entrava niente con quella storia di opere d’arte portate via dall’Italia. E trovo indecorosa tutta questa storia che non finisce di riservarci brutte sorprese. Prima, si mette in carcere una persona perbene, con una leggerezza sorprendente. Poi gli danno duecento euro come fosse andato in vacanza alla pensione Maria a Rimini. Infine, e lo trovo davvero incredibile, si prova a fargli pagare una tassa su quel risarcimento già striminzito".

Non basta. Perché Cicconi reputa intollerabile anche l’attesa, lunghissima snervante, della fine dell’inchiesta: "Raimondi non c’entra nulla e l’arresto non stava in piedi, però è legittimo che la magistratura faccia le sue verifiche. Ci mancherebbe. Ma in un tempo ragionevole. Qui passano gli anni e non succede mai niente. Cosa aspettano a chiudere una volta per tutte l’indagine?".

Padova: detenuto di 35 anni si suicida nella Casa di Reclusione

 

Apcom, 8 marzo 2010

 

Giuseppe Sorrentino, 35 anni, si è suicidato alle 10.30 questa mattina impiccandosi nel bagno della sua cella nel carcere di Padova, nella Sezione "Protetti" della Casa di Reclusione. Era recluso nella sezione protetta del carcere perché in precedenza aveva manifestato forte disagio.

L’uomo, che era in cella da solo, si è impiccato alle sbarre della finestra del bagno mentre gli altri detenuti erano fuori dalla Sezione per "l’ora d’aria". Sono stati proprio i compagni, dal cortile, ad accorgersi di ciò che stava accadendo e a dare l’allarme, ma quando gli agenti sono entrati in cella per soccorrerlo Sorrentino era già morto.

Condannato a venticinque anni per omicidio volontario, di origini campane, Sorrentino era in carcere già da diversi anni e la detenzione lo aveva duramente provato: infatti manifestava da tempo segni di profondo disagio ed era reduce da un lungo sciopero della fame che lo aveva debilitato. Ricoverato più volte in Ospedale e in Centro Clinico Penitenziario, ogni volta al ritorno in carcere riprendeva la sua protesta, lamentando in particolar modo una scarsa attenzione alle sue problematiche da parte degli operatori penitenziari.

La sua è la cronaca di "una morte annunciata", racconta Bianca De Concilio, il legale che assisteva Sorrentino dal 2001. Condannato a venticinque anni per omicidio volontario, 35 anni, salernitano, era in carcere per i suoi trascorsi di criminalità organizzata. Dopo alcuni lutti in famiglia, tre anni fa era caduto in una profonda depressione. "Avevamo fatto numerose istanze di sospensione della pena - racconta l’avvocato - chiesto il ricovero in ospedale, il trasferimento ad un carcere più vicino alla famiglia, ma nessuno ci ha ascoltato". "Anzi - ricorda il legale - un mese e mezzo fa il direttore sanitario del carcere di Padova in una relazione su Sorrentino scrisse "il detenuto non è malato, finge".

"Era stato ricoverato più volte in ospedali psichiatrici giudiziari - spiega l’avvocato - prima a Reggio Emilia, poi a Montelupo Fiorentino". "Gli psichiatri avevano parlato anche di schizofrenia - aggiunge - ma ciò non aveva impedito che Sorrentino ogni volta tornasse in prigione". Aveva più volte fatto lo sciopero della fame lamentando una scarsa attenzione alle sue problematiche da parte degli operatori penitenziari. L’ultima lunga protesta lo aveva molto debilitato: "l’unica cosa che faceva, nella cella in cui aveva chiesto di stare da solo, era leggere i libri che gli facevamo avere". "Per la sua grave forma di depressione era nella sezione protetti - dice ancora l’avvocato - dove avrebbe dovuto essere sorvegliato, invece questa mattina è riuscito a impiccarsi senza che nessuno se ne accorgesse. Per questo presenterà denuncia contro l’istituto di pena".

Ma gli agenti penitenziari, deputati ai controlli, rilanciano ricordando la gravità del sovraffollamento delle carceri italiane e come "solo la professionalità della polizia penitenziaria riesce a sventare ogni giorno tentati suicidi".

"L’ennesimo suicidio in carcere è il segno che la condizione negli istituti di pena è assolutamente invivibile", denuncia Stefano Anastasia, difensore civico dei detenuti dell’associazione Antigone. "Salvo gli sforzi di alcune amministrazioni, il sovraffollamento è una realtà drammatica e a due mesi dalla dichiarazione di stato d’emergenza carceri proclamato da Alfano nulla ancora è stato fatto". Secondo Anastasia, invece, "poche piccole cose che servirebbero comunque ad alleviare la condizioni dei detenuti l’amministrazione penitenziaria potrebbe farle subito: aumentare, ad esempio, la possibilità di relazioni con la famiglia". "Aiuterebbe molto - aggiunge - consentire più colloqui telefonici e garantire una vicinanza con la famiglia, mentre oggi è vietato per i detenuti chiamare i cellulari e si spostano i detenuti dove si trova posto". Il caso del detenuto che si è suicidato oggi a Padova è emblematico: residente a Nola era rinchiuso in carcere in Veneto. "Ciò vuol dire - spiega Anastasia - che le visite dei familiari sono difficili e rare e la solitudine porta alla depressione".

Il suicidio di Sorrentino è il secondo in meno di due settimane nella Casa di Reclusione di Padova, dove il 23 febbraio scorso, nella stessa Sezione, si tolse la vita Walid Alloui, che aveva 28 anni. Dall’inizio dell’anno salgono così a 13 i detenuti suicidi e a 31 il totale dei morti "di carcere" (che comprendono i decessi per malattia e per cause "da accertare").

Padova: Giuseppe da tempo aveva problemi e non socializzava

di Alfonso T. Guerritore

 

La Città di Salerno, 8 marzo 2010

 

Si è tolto la vita in carcere a Padova Giuseppe Sorrentino, soprannominato "piccolone": l’uomo, 35enne di Sant’Egidio, stava scontando una condanna a 25 anni di reclusione con l’accusa di concorso in omicidio per la morte di Enrico De Prisco.

Erano le nove e trenta circa di ieri mattina quando gli stessi detenuti del carcere veneto si sono accorti del corpo di Sorrentino che penzolava dalle sbarre di una finestra: l’uomo, in cella da solo, da tempo aveva smesso di socializzare, non parlava con nessuno ed era caduto in uno stato di depressione profonda. Il suo legale, Bianca De Concilio, che aveva presentato istanze per farlo curare, e richieste al magistrato di sorveglianza per ottenere un avvicinamento in un carcere campano, parla senza mezzi termini di "una morte annunciata", con chiari segnali relazionati in una perizia medica effettuata dallo psichiatra Antonio Zarrillo.

"In quella relazione - spiega l’avvocato - c’era scritto nero su bianco che Sorrentino poteva farsi del male ed era affetto da una profonda depressione. Il direttore del carcere in una relazione inviata al magistrato di sorveglianza aveva sostenuto che fingeva. L’ultima istanza che ho presentato per farlo curare , come previsto dalla legge in questi casi, risale a quattro mesi fa, ma non ho avuto risposta". Sono diverse le questioni aperte sulla morte del detenuto: dalla mancata sorveglianza di un soggetto considerato a rischio, lontano dalla famiglia, col padre in carcere da 35 anni, il fratello disoccupato e una sorella deceduta qualche anno fa.

"Da tempo non voleva vedere nessuno - spiega il legale - l’ultima volta che mi sono recata al carcere non volle parlarmi. In precedenza c’era stata la sua richiesta di parlare col pm antimafia di Salerno Maurizio Cardea. Quando arrivammo a Salerno il suo atteggiamento fu emblematico. Non solo non riconobbe il pm, che pure conosceva bene, ma iniziò a ridere8, comportandosi in modo illogico, schizofrenico". L’avvocato De Concilio su incarico dei familiari di Sorrentino presenterà un esposto per fare luce sull’accaduto.

Padova: Boscoletto (Giotto); manca gusto di vivere anche fuori

 

Vita, 8 marzo 2010

 

A Padova un nuovo suicidio. Il 13° dall’inizio dell’anno. Parla Nicola Boscoletto, Coop Giotto.

Nuovo suicidio in carcere. In mattinata Giuseppe Sorrentino, 35 anni, si è tolto la vita, impiccandosi alle sbarre della finestra del bagno nel carcere di Padova. L’uomo si è ucciso mentre gli altri detenuti erano fuori dalla sezione per l’ora d’aria. Sono stati proprio i compagni, dal cortile, ad accorgersi di ciò che stava accadendo e a dare l’allarme, ma quando gli agenti sono entrati in cella per soccorrerlo Sorrentino era già morto.

Di origini campane, era in carcere già da diversi anni e la detenzione lo aveva duramente provato: infatti manifestava da tempo segni di profondo disagio ed era reduce da un lungo sciopero della fame che lo aveva debilitato. Ricoverato più volte in Ospedale e in Centro Clinico Penitenziario, ogni volta al ritorno in carcere riprendeva la sua protesta, lamentando in particolar modo una scarsa attenzione alle sue problematiche da parte degli operatori penitenziari.

Il suicidio di Sorrentino è il secondo in meno di due settimane nella Casa di Reclusione di Padova, dove il 23 febbraio scorso, nella stessa Sezione, si tolse la vita Walid Alloui, che aveva 28 anni. Dall’inizio dell’anno salgono così a 13 i detenuti suicidi e a 31 il totale dei morti "di carcere" (che comprendono i decessi per malattia e per cause "da accertare).

"Mi sono fermato e ho pregato per lui" - Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto di Padova, insiste nel dire che il problema principale non è solo numerico "ma di senso, di gusto del vivere, che in tutta la società, e non solo in carcere, sta venendo meno". Ne è convinto al punto di non volere parlare di altro: "È questa la vera emergenza". Lui, che guida una cooperativa che si occupa dell’inserimento lavorativo di detenuti dagli anni 80 lo vive ogni giorno. E i numeri non fanno che confermarlo: nella casa di reclusione di Padova, dove Giuseppe Sorrentino si è tolto la vita, sono in 820. La struttura - nata per 450 posti con celle singole - è da subito stata trasformata per poter ospitare 700 detenuti. Per non parlare degli operatori penitenziari, sotto organico, e del rapporto educatore / detenuto, anch’esso inadeguato.

"Padova non è un’isola felice - continua Boscoletto - certo, rispetto ad altre situazioni qui va meglio, ma sarebbe un disastro senza le varie proposte formative e di inserimento che ci sono". Plaude invece il presidente della Giotto all’iniziativa del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che ha recentemente convocato sigle del non profit da sempre impegnate sui temi del carcere (leggi: Emergenza suicidi, il Dap chiede aiuto al volontariato dal settimanale Vita), ma avverte:"Non servono a nulla le leggi, senza il senso del vivere, sono come botti senza vino buono dentro. Con questo sono contento dell’iniziativa, bisogna però puntare sull’incremento di offerte lavorative e a rendere meno disumano il percorso di riabilitazione".

Ma cosa ha fatto Nicola Boscoletto appena sentito della morte di Giuseppe Sorrentino, un detenuto nella "sezione protetti" della casa di reclusione della propria città, Padova: "ero in macchina con mia moglie e i miei figli, ho spento la radio che mi annunciava l’accaduto: abbiamo insieme recitato "L’eterno riposo" e un preghiera San Giuseppe, per lui e per tutti."

Perché Nicola lo ripete: "la perdita di senso - e se vogliamo i relativi suicidi - non riguarda solo chi sta in carcere, ma tutta la società. In carcere, semplicemente, la situazione si mostra in tutta la sua disperazione."

Livorno: ancora un’altra morte in carcere, è ora di dire basta

di Marco Solimano (Presidente Arci Livorno)

 

Il Tirreno, 8 marzo 2010

 

Gli organi di stampa riferiscono dell’ennesima morte verificatasi all’interno della Casa circondariale di Livorno. Stando a quanto si apprende, il detenuto Snoussi Habib, di anni 30, sarebbe deceduto in seguito all’uso improprio di un fornellino da gas: in altre parole, come già era accaduto in un caso analogo qualche tempo fa, Habib avrebbe approfittato del lasso di tempo in cui era rimasto solo nella propria cella, per sniffare una quantità letale di gas, che ne avrebbe provocato la morte.

Al di là della probabile involontarietà dell’atto che ha portato il detenuto al decesso, è evidente come ci si trovi davanti a una situazione di emergenza cui necessariamente si devono trovare delle soluzioni immediate; proprio il fatto che non si tratti del primo caso di uso "improprio" di un fornello da gas con esito letale sprona quantomeno a tentare di individuare una soluzione pratica per controllare l’utilizzo di questo oggetto che, innocuo nel la società libera, può trasformarsi in strumento di morte in carcere. Siamo consci che ciò si scontra ancora una volta con i problemi di sovraffollamento e di carenza di organico che affliggono il mondo carcerario italiano e si manifestano senza sconti anche nel carcere livornese.

È ormai noto che la Casa circondariale di Livorno è da anni al centro di vicende complesse sia sul piano strutturale che su quello organizzativo: all’inagibilità attuale di una importante parte della struttura, alle forti condizioni di disagio legate al sovraffollamento delle celle, alla scarsa disponibilità di fondi per la manutenzione ordinaria e alla necessità di incremento del personale di custodia e del personale educativo, si è recentemente aggiunta anche l’impossibilità di disporre di una direzione stabile ed esclusivamente impegnata nella gestione della struttura, come richiederebbe la delicatezza e la complessità della situazione, dato che, in seguito al pensionamento della precedente direttrice, la struttura è stata al momento affidata a persona che svolge contemporaneamente questo incarico in un’altra casa di reclusione.

Nonostante ciò, è a nostro avviso obbligatorio per ogni istituzione, e quindi anche per l’istituzione carceraria, cercare sempre di adempiere col massimo rigore e il massimo impegno a quella che è una delle sue funzioni principali: mantenere in vita, e nelle migliori condizioni possibili, tutti coloro che ne sono parte, anche quando essi si rendano protagonisti di atti che possano nuocere a se stessi in modo parziale o totale. Oggi resta purtroppo l’amarezza per un’altra vita che se n’è andata e per una morte che nella sua dinamica appare quasi casuale, e che proprio per questo forse con poco poteva essere evitata. Domani resta l’obbligo di far sì che queste morti non avvengano più, nella consapevolezza che in queste situazioni quello che serve di più non è il dire ma il fare.

Reggio Emilia: Sappe; agenti salvano la vita ad internato Opg

 

Ansa, 8 marzo 2010

 

"Nelle carceri italiane è ormai un bollettino di guerra, ogni giorno ci sono tentativi di suicidi, molte volte sventati dalla professionalità della polizia penitenziaria, e aggressioni". A dichiararlo è Giovanni Battista Durante, Segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria che riferisce come oggi nell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia gli agenti penitenziari hanno salvato un internato che aveva tentato di impiccarsi.

"È il secondo episodio in meno di venti giorni - sottolinea Durante - Il fatto è avvenuto verso le 3.30 di questa mattina. Gli agenti della polizia penitenziaria sono stati attirati dai rumori provenienti dalla cella e sono intervenuti immediatamente, riuscendo a salvare la vita dell’internato che è stato trasportato all’ospedale, dove si trova ancora in osservazione". "Per il trasporto in ospedale - riferisce il Sappe - è stato necessario richiedere l’intervento della Polizia di Stato a causa della carenza di organico che, da tempo, affligge gli istituti di Reggio Emilia, il carcere e l’ospedale psichiatrico".

Augusta (Sr): recinzione del carcere viene abbattuta dal vento

 

Gazzetta del Sud, 8 marzo 2010

 

Il sindacato fa fronte comune dopo un nuovo cedimento nelle inferriate perimetrali della Casa Circondariale di Piano Ippolito, con un agente di custodia che ha rischiato anche di ferirsi. Le sezioni di Polizia penitenziaria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, insieme alle sigle Osapp, Fsa-Cnpp e Sinappe, hanno preso carta e penna, sensibilizzando sulla questione non solo i vertici nazionali e regionali dell’Amministrazione penitenziaria, ma anche il responsabile nazionale di Protezione civile Guido Bertolaso, il prefetto Carmela Floreno, il sindaco Massimo Carrubba e la stessa commissione speciale varata in consiglio provinciale per visionare le condizioni delle strutture di pena presenti nel territorio.

"Siamo adirati ed ormai intolleranti al silenzio - si legge nel documento diffuso dalle sette sigle -, alla trascuratezza, ovverosia al distacco sino ad oggi mostrato da parte di tutti, o quasi tutti, gli addetti ai lavori. Non è più possibile protrarre gli interventi. Non è più possibile aspettare perché oramai i rischi sui luoghi di lavoro dell’istituto sono in percentuale altissima e se qualcuno non lo avesse ben compreso ribadiamo che i poliziotti penitenziari tengono alla vita propria così come tengono alla tutela delle persone detenute su di cui sono tenuti a vigilare.

È stato un grave errore soprattutto per l’Amministrazione penitenziaria centrale non aver dato il giusto peso alle molteplici richieste di "aiuto" avanzate dal personale di Polizia penitenziaria. Un altro grave errore è stato commesso nel non disporre in tempi "migliori" scrupolosi accertamenti circa la grave precarietà di cui soffre la struttura della Casa Reclusione di Brucoli, la quale all’apparenza appare piuttosto ben tenuta al cospetto di altri istituti della regione ma basterebbe farsi guidare nei luoghi critici da chi ha interesse alla salvaguardia e alla sicurezza dei lavoratori per rendersi conto che non è tutt’oro quello che luccica. Ci si chiede - si legge infine - se i crolli non siano episodi gravi abbastanza per far comprendere l’alta percentuale di rischio sui luoghi di lavoro in cui la Polizia penitenziaria megarese, 24 ore su 24, espleta la propria attività e dove 650 esseri umani, detenuti, trascorrono un periodo più o meno lungo della propria vita. Ci chiediamo cosa dobbiamo aspettare, forse che qualcuno si faccia male seriamente o ci rimetta la vita".

Messina: Osapp; i problemi dell’Opg Barcellona Pozzo di Gotto

 

www.tempostretto.it, 8 marzo 2010

 

Il vice segretario Generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Domenico Nicotra, unitamente ad una delegazione del sindacato, ha incontrato nella mattinata odierna il Senatore e Vice Presidente del Senato Domenico Nania per affrontare la "questione penitenziaria" afferente l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ed più in generale della provincia messinese.

"L’Osapp - ha affermato Nicotra, - nell’ambito dell’incontro ha chiesto al Senatore Domenico Nania un impegno politico per far fronte all’attuale situazione dell’Opg di Barcellona P.G. che, analogamente a quanto è avvenuto per similari strutture penitenziarie, dovrebbe affidare il controllo degli internati all’Asl competente per territorio".

Sempre, nell’ambito dello stesso incontro Nicotra, ha posto l’attenzione sulla possibilità di sfruttare utilmente le aree di competenza dell’Amministrazione Penitenziaria a Barcellona P.G. con la possibilità di adibirne buona parte a sezioni circondariali. Infatti, questa soluzione consentirebbe una decongestione della Casa Circondariale di Messina ed alle Autorità Giudiziarie ed alle Forze di Polizia operanti nel vasto territorio della provincia peloritana di avere a disposizione, sostanzialmente, di un altro Istituto Penitenziario. Il Senatore Nania ha assicurato che interesserà direttamente il Ministro della Giustizia affinché tenga conto del personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso l’Opg di Barcellona e delle sorti della stessa struttura.

Terni: anche la musica… è tra i nuovi strumenti di rieducazione

 

Comunicato stampa, 8 marzo 2010

 

"Artisti dentro", è il titolo della Tesi di laurea presentata da Vanessa Morozzi, volontaria che collabora da anni con la Casa Circondariale di Terni, discussa nei giorni scorsi e premiata con un meritato 110 e lode.

L’idea, certamente innovativa, ripercorre i tempi dell’attività di volontariato avviata, da quasi dieci anni, a cura di due volontarie della Croce Rossa e di un professore di educazione musicale. La collaborazione negli ultimi tre anni di Vanessa, nella duplice veste di studiosa nel campo musicale e di tirocinante del Corso di laurea in scienze per l’investigazione e la sicurezza dell’Università di Perugia, ha consentito di trasformare una attività di tempo libero in vere e proprie lezioni di canto. L’ora di Karaoke è diventata l’ora del laboratorio musicale. Si è così potuto perseguire lo scopo istituzionalmente riconosciuto al carcere, quello della riabilitazione intesa come riduzione delle disabilità sociali attraverso l’apprendimento o il riapprendimento di capacità individuali.

La musica è una forma di arte che produce significati e sensazioni più o meno complessi organizzando suoni e silenzio. È comunque un’arte che fa parte dell’uomo, nasce con lui ed è sempre presente: musica, musica e ancora musica di sottofondo, di intrattenimento, eseguita, ascoltata, strimpellata, cantata, raccontata, urlata, scritta, pensata, immaginata. La vita contiene la musica, che è simbolo dell’esistenza stessa e del vissuto; permette di esercitarsi ad entrare e ad uscire dalle esperienze stesse e stimola, perché la rende possibile, la capacità di riflettere su ciò che si vive. Fa vedere ciò che si prova, ciò che accade dentro di noi; stimola le emozioni e le incrocia rappresentandole e spiegandole al meglio. La dimensione artistica dà modo di fermare nel tempo e nello spazio i vissuti affinché li si possa cogliere e comprendere anche in un secondo, terzo, quarto tempo. La musica è un linguaggio, con un suo codice, una sua sintassi, capace di comunicare un significato. Con il linguaggio artistico i suoni possono divenire uno strumento per dire l’indicibile, il non definibile.

La musicoterapia è una modalità di approccio alla persona, strumento di comunicazione non verbale per intervenire a livello educativo, riabilitativo o terapeutico. Abbassa le tensioni e il livello di fatica relazionale.

Riferita agli ospiti di una Casa circondariale con problemi di relazione e di socializzazione, ma anche di differente lingua ed abitudini, di differente livello culturale, di diffuso stato psicologico di depressione ed auto isolamento, appare strategia vincente nel superamento di molte criticità.

Il lungo percorso ha consentito di realizzare, accanto ai meravigliosi risultati di riduzione della problematiche relazionali, anche uno spettacolo all’interno dell’istituto ed un disco particolarmente apprezzato: artisti dentro.

 

La direzione della Casa Circondariale di Terni

Porto Azzurro (Li): riaperta la biblioteca del Forte San Giacomo

 

Il Tirreno, 8 marzo 2010

 

Riapre la biblioteca del forte San Giacomo. Un impegno portato avanti dal direttore Carlo Alberto Mazzerbo, d’intesa con l’associazione Dialogo per dare i risposte alle esigenze culturali e di socializzazione, espresse dai volontari anche nella conferenza che fu attuata alla Gran Guardia sul corso di formazione nell’ambito del progetto "Per formare un volontariato responsabile". In tale occasione si parlò anche della riapertura della biblioteca all’interno del carcere. "Certo - dice Mazzerbo - stiamo dotando i locali della biblioteca di un nuovo impianto elettrico e ultimiamo l’inventario. Presto questo sevizio riaprirà i battenti a supporto dei momenti di studio e di cultura che già vivono nella nostra struttura. Faccio appello a chiunque, alle associazioni e ai privati, affinché donino dei libri validi. Importante anche dei testi in lingua come lo spagnolo, l’arabo, francese e inglese. Abbiamo il 40 % di detenuti stranieri".

Cile: 446 i detenuti evasi dopo il terremoto, ma 230 già ricatturati

 

Ansa, 8 marzo 2010

 

Dei 446 detenuti evasi da vari penitenziari del Cile durante il terremoto del 27 febbraio, 230 sono già stati ricatturati. Lo ha annunciato oggi il direttore della polizia cilena, Alejandro Jimenez. Al momento del sisma parecchi detenuti sono fuggiti in massa dalle carceri di Chillan, Coronel e Arauco, semidistrutte dal terremoto e dallo tsunami nella zona del Maule e del Bio Bio. La polizia ha già ripreso più della metà degli evasi e prosegue le ricerche dei restanti 216.

 

 

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