Rassegna stampa 7 gennaio

 

Giustizia: appalti senza regole, con le "carceri d’oro" di Ionta

di Giacomo Russo Spena

 

Terra, 7 gennaio 2009

 

Mentre gli istituti scoppiano, il capo del Dap, Franco Ionta, ha chiesto al ministro Alfano poteri speciali per l’edilizia penitenziaria. Così da affidare senza gare d’appalto i lavori per i 24 nuovi istituti e secretando i nomi delle ditte scelte.

Bertolaso ha fatto scuola. Così Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e commissario straordinario per l’edilizia carceraria, ha preso carta e penna e con una lettera ha chiesto al ministro della Giustizia Angelino Alfano "mano libera" per l’ingresso di imprenditori nel suo piano carceri. Una missiva, insomma, per chiedere poteri speciali da "commissario delegato", sul modello del potentissimo capo della Protezione Civile. Il piano carceri del governo, sbandierato ai quattro venti da mesi e che dovrebbe portare entro il 2012 al reperimento di nuovi 21.479 posti letto in più grazie alla costruzione di 24 nuovi penitenziari, resta al momento un’utopia: manca la copertura finanziaria.

Il Parlamento ha stanziato 500 milioni di euro, pochi rispetto ai 2 miliardi necessari per realizzare il progetto. Ecco, allora, puntare sui privati. E sui loro affari speculativi. Già con un emendamento nella scorsa Finanziaria il centrodestra chiedeva di cedere ad imprenditori parte del patrimonio immobiliare a disposizione dell’amministrazione penitenziaria in cambio della edificazione di nuove e più capienti strutture in grado di risolvere il sovraffollamento delle carceri. Un esempio concreto? Il trasferimento in periferia del carcere di San Vittore a Milano e la riqualificazione dell’area, centralissima e a meno di un chilometro dai navigli, oggi occupata dal penitenziario.

"Si va verso la privatizzazione delle carceri - denuncia Donatella Ferranti, capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera - con la presa in carico da parte di imprenditori delle strutture, la cui costruzione e gestione dovrebbe invece spettare allo Stato, al pari della sicurezza pubblica". Alla fine l’emendamento è considerato inammissibile.

Ma il governo, ora, ci riprova. Ecco, quindi, i poteri speciali che consentirebbero a Ionta di aggirare le normali procedure di edilizia penitenziaria, arrivando a togliere le gare pubbliche di appalto in modo da scegliere, in prima persona, a quali ditte assegnare i lavori. Ma c’è dell’altro: "Questa idea dei poteri speciali è scandalosa - denuncia Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti di Firenze ed ex sottosegretario alla Giustizia. E Ionta vorrebbe anche secretare il nome delle imprese scelte, creando un sistema totalmente privo di trasparenza".

C’è un precedente: nel 1977 una legge, ribattezzata delle "carceri d’oro", stabiliva "procedure eccezionali per lavori urgenti ed indifferibili negli istituti penitenziari". Il ministero della Giustizia sceglieva direttamente le ditte, ne nacque un giro di corruzione e truffa ai danni dello Stato. Tanto che nel febbraio 1988 lo scandalo portò alle dimissioni del ministro socialdemocratico Franco Nicolazzi, condannato durante Tangentopoli per concussione proprio nell’ambito del processo per le "carceri d’oro". "Una nuova edilizia non risolve il problema del sovraffollamento", afferma Francesco Quinti della Fp Cgil che ricorda come gli agenti siano sempre più oggetto di attacchi dei detenuti e 5mila unità in meno. "Gli operatori sono stanchi di lavorare in condizioni del genere - aggiunge il sindacalista -, le prigioni sono luoghi invivibili sia per i reclusi che per noi".

Tutto ciò mentre i numeri sulle galere sono impietosi: 66mila persone detenute di fronte ai 47mila posti letto. I suicidi (71 nel 2009) e le rivolte aumentano. Per questo l’11 e 12 gennaio in Parlamento si discuteranno le mozioni sul sovraffollamento. C’è attesa per la votazione del testo presentato dai radicali e firmato da 92 deputati di tutti gli schieramenti, tranne la Lega. La mozione prevede la messa in campo di misure alternative alla detenzione, l’utilizzo dell’istituto della messa in prova e per i tossicodipendenti, che rappresentano il 25% della popolazione delle galere, un cammino di recupero nelle comunità. "Se passasse soltanto quest’ultimo punto si avrebbe già un bello sfoltimento dei detenuti - dice la radicale Rita Bernardini -. Il governo deve pronunciarsi, è finita l’epoca degli annunci".

Giustizia: gli "imprenditori politici" su sentimenti di vittime reati

di Paola Cascella

 

La Repubblica, 7 gennaio 2009

 

"La politica e le vittime? Sono piani diversi. Distinguiamo. Se le vittime non riconoscono diritti umani basilari a chi gli ha ucciso un parente è perché nessuna pena, neanche la pena di morte, può retribuire o riparare ai loro occhi il danno subito. Invece, è quasi superfluo dirlo, ma in politica, tutta la politica, prevale l’atteggiamento strumentale".

Così il sociologo, ex segretario dei Verdi Luigi Manconi. "Mi sento di affermarlo senza alcun tentennamento: su quel terreno ci si fa imprenditori politici dei sentimenti personali delle vittime dei crimini, si trasferisce sulla sfera pubblica ciò che è emozione esclusivamente privata. Così come molti sono diventati impresari politici della paura e dell’ansia collettiva, fino ad amplificare il problema sicurezza oltre il reale".

 

Professor Manconi, cavalcare le preoccupazioni più diffuse probabilmente garantisce risultati anche in termini di voti.

"Sì. Perciò invece di intervenire con la razionalità di una discussione pubblica, si utilizza ciò che attiene al sentimento privato, facendone occasione di conflitto".

 

Ma qual è la differenza tra la politica e i parenti delle vittime? Chiudersi persino ai gesti di pietà ha a che vedere con l’elaborazione del lutto?

"Quello delle vittime è un discorso diverso. Il loro desiderio di giustizia è altro. È un assoluto che fatica a misurarsi con la giustizia degli uomini. Tra l’una e l’altra cosa c’è evidentemente una distanza incolmabile. La classe politica, il ceto intellettuale e quello giornalistico dovrebbero limitarsi a registrare questa incompatibilità. Se invece si utilizza politicamente quel bisogno di giustizia assoluta che compete esclusivamente alle vittime, si produce un corto circuito. Se non è chiaro questo aspetto, nessuna pena umana è concepibile, perché neanche la pena di morte può retribuire e riparare il danno rappresentato dalla morte di un parente".

 

Fabio Savi però ha ottenuto solo il trasferimento in un carcere più vicino alla moglie…

"L’avvicinamento non è neppure un beneficio, ma solo una misura amministrativa. Ricordo che la Costituzione prevede che la pena sia finalizzata alla rieducazione del detenuto, anche di chi è all’ergastolo. Lo stato di diritto nasce quando il colpevole viene sottratto alla voglia di giustizia della vittima. Quando il colpevole viene prima giudicato e poi condannato. Altrimenti è giustizia tribale. Ma spesso l’enormità del delitto sembra esigere l’enormità della pena".

 

È giusto pretendere che le vittime perdonino il carnefice?

"No, è osceno che l’atto del perdono, un atto intimissimo, che nasce dal cuore delle persone entri nello scenario del conflitto pubblico, spesso tramite un microfono messo sotto il naso di una vittima in lacrime".

Giustizia: vittime di "Uno Bianca"; nessun perdono è possibile

 

La Repubblica, 7 gennaio 2009

 

Nessun perdono agli assassini della Uno bianca. E nessun incontro con l’avvocato di Fabio Savi, che ai parenti di chi ha perso un figlio o un amico per mano dei "killer in divisa" ha chiesto un’apertura al dialogo. Un appello che l’Associazione delle vittime, com’era prevedibile, respinge con fermezza. "Le parole dell’avvocato Fortunata Copelli non le prendiamo nemmeno in considerazione - replica Rosanna Zecchi - Ci eravamo espressi così anche quando Alberto Savi ci fece arrivare una lettera di scuse mentre ricordavamo i carabinieri uccisi al Pilastro. La nostra decisione non cambia. Nello scorso giugno ci siamo riuniti e consultati: non una sola mano si alzò per accordare il perdono a chi ha sparso tanto sangue innocente".

Percorsi che non si incontrano, dolore mai sopito e sospetti. "L’impressione - insiste Rosanna Zecchi - è che questa richiesta del legale di Fabio Savi possa essere una specie di "artificio tecnico" in vista delle richieste di permessi-premio per gli assassini. Non vogliamo che un giorno qualcuno possa dire: "C’è il perdono delle vittime, anche loro hanno dimenticato".

Ai parenti dei morti e dei feriti, l’avvocato Copelli aveva chiesto un segnale d’apertura, l’avvio di un dialogo. "E non di dimenticare quanto è successo e quanto i familiari hanno subìto - dice il legale - Io sono un avvocato, questa chiusura mi stupisce e mi addolora. Ha il senso di una "vendetta". Ed è una logica simile a quella di chi sostiene la pena di morte".

Ieri il legale ha mandato un telegramma a Fabio Savi. "La questione del tuo trasferimento in un altro carcere ha provocato un terremoto", gli ha scritto. I familiari delle vittime sono irremovibili. "Nessuno vuole equiparare il trasferimento di Savi ad un "permesso premio" - dice ancora Zecchi - Sappiamo che è una cosa diversa e tecnicamente possibile. Ma al ministro Angelino Alfano, quando lo incontreremo mercoledì prossimo, chiederemo di sapere se tutte le procedure sono state rispettate. Fabio Savi non è più considerato un "soggetto socialmente pericoloso"? E come l’ha ottenuta, questa classificazione? È bastato lo sciopero della fame? Vogliamo garanzie".

Un incontro atteso a lungo, quello col ministro. "Sono passati nove mesi dal giorno in cui inviammo un fax al Guardasigilli. L’impressione è che abbia accettato solo adesso perché s’è mossa la politica e perché i giornali sono tornati a parlare della nostra condizione. Spero di sbagliarmi".

Giustizia: da Alfano sconcertante silenzio sui suicidi in carcere

 

Adnkronos, 7 gennaio 2009

 

"A meno di una settimana dall’inizio del nuovo anno, già dobbiamo registrare due suicidi nelle carceri italiane". È quanto sottolinea Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto che ricorda: "Il 5 gennaio si è impiccato nel carcere Buoncammino di Cagliari Celeste Frau, 62 anni; appena tre giorni prima, il 2 gennaio, ad Altamura in provincia di Bari, si è ucciso Pierpaolo Ciullo, 39 anni. Nel corso del 2009 il numero di quanti si sono tolti la vita è stato il più alto dell’intera storia penitenziaria repubblicana".

"Vorremmo che un simile record non venisse, non dico superato, ma nemmeno sfiorato - osserva Manconi - Vorremmo che l’amministrazione penitenziaria e il Governo dicessero, con rapidità e chiarezza, che cosa intendono fare perché questa tragedia non si riproduca all’infinito. E invece, dobbiamo registrare con sconcerto un incredibile e persistente silenzio da parte del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e del capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta". "Una simile irresponsabilità - conclude - va attribuita o a una assoluta indifferenza, e non oso pensarlo, o a una confessata incapacità".

Giustizia: Osapp; ammalarsi in cella è come ai tempi medioevo

 

Ansa, 7 gennaio 2009

 

"Le cifre del 2009 sulle morti in carcere, di cui il 40% per suicidio, spaventano non solo per l’alto numero mai raggiunto nella storia repubblicana ma anche per le cause, quali e non ultima le difficoltà di assistenza e cura nel sistema penitenziario". Ad affermarlo, in una nota, è il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, secondo cui "i rischi derivanti dall’ammalarsi in un carcere italiano oggi, grazie al sovraffollamento, alla promiscuità ed alla carenza di personale, equivalgono a quelli di epoche precedenti antibiotici e sulfamidici".

Per il sindacato, inoltre, il 2010 "si prepara ad essere anche peggiore: a parte i contrastanti balletti di cifre, le dichiarazioni di principio e le manifestazioni di solidarietà, purtroppo solo di facciata quali quella della Befana ai figli dei detenuti in 6 carceri, tranne che dal punto di vista edilizio non risultano progetti dell’attuale Amministrazione penitenziaria per potenziare l’assistenza ed il controllo delle condizioni di salute sia fisica e sia psichica dei ristretti durante la detenzione".

Secondo l’Osapp "oggi in carcere, a parte il volontariato, tutto è lasciato alla polizia penitenziaria che, a meno di un progetto riforma che non conferisca al Corpo anche la debita dignità tecnica, non ha certo competenze mediche e psicologiche, né il personale per farlo", tenendo anche conto che in questi anni i penitenziari hanno sostituito, di fatto, i manicomi chiusi dalla legge 180, che le terapie a base di psicofarmaci vengono praticate ovunque e non solo negli ospedali psichiatrici giudiziari". Il sindacato penitenziario sollecita pertanto il governo e il ministro della Giustizia a non restare a guardare anche rispetto ad un Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria "che difetta di iniziative e di proposte e il cui vertice va necessariamente avvicendato".

Giustizia: Uil; 12 gennaio faremo sit-in davanti a Montecitorio

 

Il Velino, 7 gennaio 2009

 

"La seduta che la Camera dei Deputati dedicherà alla discussione delle mozioni sullo stato e sulle criticità del sistema penitenziario, nei prossimi 11 e 12 gennaio, costituirà un momento di concreta verifica della reale volontà di porre riparo all’indegna situazione in cui versa il sistema penitenziario italiano. Un sistema non più in condizione di assolvere al proprio mandato istituzionale di rieducazione e risocializzazione. Un sistema incapace di garantire diritti e dignità alle persone ristrette e agli stessi operatori penitenziari.

La sistematica negazione dei diritti, il quotidiano vilipendio alla dignità umana, lo stato di degrado e di assoluta inciviltà delle strutture sono il sopruso e l’abuso che ogni giorno si abbattono su chi vive e lavora in carcere, come giustamente ha rilevato e sottolineato il Capo dello Stato nel messaggio di fine anno. Tutto questo è intollerabile per ogni Paese civile e moderno, figurarsi per la Patria di Cesare Beccaria".

Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, nel giudicare positivamente la calendarizzazione del confronto sullo stato delle carceri, non perde l’occasione per tracciare un quadro allarmante di quanto accade al di la delle mura.

"Più volte abbiamo sollecitato ed auspicato questo confronto parlamentare. Vogliamo sperare che rappresenti una svolta e non un’altra, l’ennesima, occasione persa. È innegabile - ricorda Sarno - che dopo l’iniziativa "Ferragosto in carcere" promossa dal Partito Radicale, da noi convintamente sostenuta, siano moltissimi i parlamentari che hanno acquisito una reale consapevolezza dello stato in cui versano le nostre prigioni, sempre più discariche sociali e città fantasma. Per questo la discussione delle mozioni presentate dall’On. Rita Bernardini e da altri soggetti politici può senz’altro rappresentare una preziosa occasione per rimediare alla storica disattenzione che la politica ha riservato all’universo carcerario fino a determinarne l’ attuale, intollerabile, indicibile stato".

Per la Uil-Pa Penitenziari il passaggio parlamentare di martedì potrebbe favorire il dialogo tra le forze politiche. "Credo che questo confronto, per la drammaticità e l’importanza delle questioni, responsabilizzerà tutti e potrebbe determinare un punto di partenza per la ripresa del dialogo in prospettiva delle necessarie riforme. Di sicuro per evitare il collasso totale occorrono scelte, progetti e percorsi concreti e risolutivi. Noi ribadiamo tutte le nostre perplessità in ordine al piano carceri, che il Ministro Alfano non ha ancora presentato. Per quello che ci riguarda - sottolinea il Segretario della Uil-Pa Penitenziari - riteniamo che gli investimenti politici ed economici per il settore penitenziario , più che progetti edilizi, debbano perseguire il deflazionamento delle presenze detentive attraverso un recupero concreto delle misure e sanzioni alternative alla detenzione e debbano servire a trasformare in fatti i ripetuti annunci del Ministro Alfano sulle assunzioni straordinarie nella polizia penitenziaria ."

Martedì 12 gennaio dalle ore 10.00 alle ore 13.00 una delegazione della Uil-Pa Penitenziari sarà presente in Piazza Montecitorio per partecipare ad un sit-in di mobilitazione. "Abbiamo sollecitamente raccolto l’invito che ci è pervenuto attraverso i microfoni di Radio Radicale nella puntata di Radio Carcere andata in onda il 5 gennaio. Intendiamo marcare anche con una presenza fisica la nostra attenzione a quanto accadrà, e si dirà, in Aula. Riporteremo a Piazza Montecitorio non solo l’amarezza, la frustrazione, la depressione, la demotivazione dei nostri colleghi ma anche la speranza di una nuova alba, pur avendo coscienza che per ora siamo al tramonto che introduce alla notte".

Giustizia: troppi detenuti meridionali? federalismo carcerario

di Gilberto Oneto

 

Il Giornale, 7 gennaio 2009

 

Secondo il ministero della Giustizia al 30 giugno 2009 c’erano nelle patrie galere a vario titolo 63.630 detenuti. Le informazioni sulla distribuzione dei reclusi per luogo di nascita permettono di fare qualche considerazione poco politicamente corretta ma piuttosto significativa. Gli "indigeni" (in totale 39.389) sono in prigione nella misura di 0,68 persone ogni mille abitanti, o - se si preferisce - c’è un recluso ogni 1.463 cittadini italiani. I nati all’estero sono 24.241: basandosi su quanto diffuso dalla Caritas risulta che ci sono 6,21 reclusi ogni mille stranieri regolari, e uno ogni 161 persone. In realtà la loro incidenza è falsata dal numero di irregolari e clandestini che può essere solo stimato con ampia approssimazione: in ogni caso si tratta di percentuali inquietanti.

Ancora più interessante è analizzare la provenienza. I reclusi europei sono 8.741 (di cui 4.525 extracomunitari), gli africani 12.348, gli asiatici 1.177 e gli americani 1.323. Il primo dato che emerge è che i meno propensi a violare la legge sarebbero gli asiatici (1,88 reclusi ogni 1.000 regolari e un recluso ogni 532 immigrati), seguiti da europei e americani (4,2 per mille e un recluso ogni 236). Quelli che con più facilità incorrono nei rigori della giustizia sono invece gli africani: 14 ogni mille e uno ogni 69 immigrati regolari. Neppure i dati complessivi sui musulmani sono molto tranquillizzanti: 11,9 ogni mille e uno ogni 84 sono ospiti delle (nostre) patrie galere.

Le informazioni sulle singole nazionalità permettono di stilare una poco edificante classifica che vede presenti in gattabuia ben 30 tunisini, 25 nigeriani, 13 marocchini e "solo" 6 albanesi, sempre ogni mille immigrati regolari. I cinesi, che pure sono una delle comunità più numerose (170.265 regolari), sono pressoché assenti da questa hit parade a strisce perché se ne stanno per i fatti loro, cercando di farsi vedere il meno possibile: sorge però il sospetto che dispongano, oltre che di strutture sanitarie e commerciali, anche di un sistema giudiziario tutto loro. Gli zingari invece scompaiono fra le pieghe delle statistiche, infrattandosi sotto denominazioni nazionali diverse che non permettono un accorpamento di dati che sarebbe invece illuminante.

Il primo commento che viene da fare è che senza l’immigrazione straniera ci sarebbero il 38,1% di galeotti in meno e - visti i costi astronomici del loro mantenimento - un bel risparmio. Il dato sui reclusi non ha un rapporto diretto con quello dei reati perché lo stesso reo è spesso condannato per più di una azione criminosa, perché il 74% dei reati resta impunito e un numero imprecisato non viene neppure denunciato ma è del tutto legittimo pensare che, in assenza di immigrati stranieri, i reati diminuirebbero almeno della stessa percentuale, e di più considerando che gli stranieri facilmente sfuggono ai controlli (a maggior ragione se sono clandestini) e che si dedicano principalmente proprio a quelle tipologie di reato che vengono denunciate di meno.

Le statistiche ministeriali riguardano anche la provenienza regionale dei galeotti autoctoni e consentono altre interessanti considerazioni. Anche fra gli italiani ci sono notevoli diversità: le percentuali più alte di reclusi riguardano i nati in Campania (1,86 per mille e uno ogni 538 abitanti), poi quelli in Sicilia (1,53 e 653) e in Calabria (1,50 e 665), che si avvicinano ai dati degli immigrati asiatici e superano le percentuali di parecchie etnie prese singolarmente. Le regioni più virtuose sono la Valle d’Aosta (un recluso ogni 8.570 abitanti) e poi l’Umbria (7.855), le Marche (6.328) e l’Emilia (uno ogni 5.577 abitanti).

Solo l’11,23% di tutti i galeotti è nato nelle regioni padano-alpine, che - nel loro complesso - hanno 0,27 reclusi per mille abitanti e un galeotto ogni 3.588 cittadini: i dati del resto d’Italia sono rispettivamente 1,01 e 992, quelli del solo territorio del vecchio Regno delle Due Sicilie 1,4 e 701.

Considerando tutti i reclusi, nazionali e foresti, l’Italia si colloca nella classifica dei 20 Paesi del Consiglio d’Europa al 13° posto nel rapporto reclusi-abitanti; senza gli stranieri balzerebbe invece al quinto posto, dopo Slovenia, Finlandia, Danimarca e Malta. È un altro dato che dovrebbe fare riflettere molti salmodiatori del mantra che equipara gli immigrati a una risorsa.

Spingendo in avanti lo stesso semplice ma efficace ragionamento che si è fatto sullo stato della legalità in assenza di immigrati, scappa anche da considerare che in una condizione di reale autonomia e di controllo severo dell’importazione della criminalità, la Padania si troverebbe con facilità ad affrontare un bel 75% di reati in meno ed essere il Paese più sicuro d’Europa. Un buon motivo per cominciare a pensare a un serio progetto di "federalismo giudiziario".

Giustizia: Napoli (Pdl); riapriamo carceri di Asinara e Pianosa

 

Il Velino, 7 gennaio 2009

 

"L’arroganza e la sfida della ‘ndrangheta allo Stato ormai appaiono senza limiti. Dopo il preoccupante segnale dei giorni scorsi presso la Procura generale di Reggio Calabria, proprio nel giorno dell’arrivo in città dei ministri dell’Interno, Roberto Maroni, e della Giustizia, Angelino Alfano, viene rinvenuto un ordigno nell’area protetta del tribunale della stessa città. Nel dare atto ai due ministri dell’attenzione odierna posta con la convocazione a Reggio Calabria del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza, rivolgo loro l’appello accorato affinché assumano le adeguate iniziative di supporto a magistratura e forze dell’ordine per la prosecuzione dell’attività di contrasto alla ‘ndrangheta, e contemporaneamente l’impegno di riaprire gli Istituti penitenziari, con le sezioni di massima sicurezza, di Asinara e Pianosa".

Lo si legge in una nota diffusa da Angela Napoli, parlamentare calabrese del Pdl componente della Commissione Antimafia, che conclude: "Non v’è dubbio, infatti, che oltre l’encomiabile attività di prevenzione con il sequestro e la confisca dei beni mafiosi, profusa dai Magistrati reggini, e non solo, debba essere sicuramente garantita la certezza della pena ed anche l’espiazione della stessa in Istituti penitenziari di massima sicurezza".

Giustizia: un Osservatorio permanente sull'applicazione 41-bis

 

Comunicato stampa, 7 gennaio 2009

 

La Camera Penale di Roma ha da sempre posto al centro della propria iniziativa politica il tema del regime detentivo speciale regolato dall’ art. 41 bis O.P.

Noi consideriamo tale regime, e la sua concreta attuazione, una offesa alla costituzione ed ai principi più elementari di umanità e dignità che dovrebbero regolare la detenzione carceraria in uno stato democratico, tanto più ove si consideri che esso si applica indifferentemente ai detenuti in espiazione di una pena definitiva come a quelli in attesa di giudizio, e dunque assistiti dalla presunzione costituzionale di non colpevolezza.

Il sostanziale unanimismo - con poche, coraggiose eccezioni - delle forze politiche e parlamentari in difesa di questo incivile istituto, frutto di conformismo e pavidità intellettuale prima ancora che di radicata convinzione, rende ancora più necessario ed urgente un forte rilancio della iniziativa politica su questo tema.

È infatti indispensabile diffondere con ogni mezzo una informazione la più completa e dettagliata possibile sulla realtà di questa moderno e legalizzato strumento di tortura, per evidenziarne ad un tempo la profonda disumanità e la sostanziale inutilità, contro la retorica conformista e consociativa che ne consente la assurda perpetuazione nel nostro sistema penitenziario.

La recente introduzione (l. 94 del 2009) della competenza territoriale esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma in relazione ai procedimenti applicativi del regime di cui all’art. 41 bis O.P. rende addirittura ineludibile un forte rilancio della iniziativa politica della Camera Penale di Roma su questa cruciale questione.

Questa ennesima anomalia procedimentale, irragionevolmente derogatoria del principio costituzionale del Giudice naturale, appare foriera di conseguenze ulteriormente ed impropriamente afflittive del diritto di difesa dei detenuti sottoposti o sottoponendi a tale regime detentivo, primo fra tutti una sorta di assurdo centralismo giurisprudenziale destinato inevitabilmente a tradursi in un profondo, letale impoverimento della dialettica processuale, e dunque della possibilità per la difesa di interloquire produttivamente con questo Giudice Unico, che in realtà è più onesto definire Tribunale Speciale.

Occorre dunque sviluppare, accanto ad un attenta e costante osservazione delle concrete applicazioni di tale regime detentivo, un altrettanto vigile e costante monitoraggio della pratica procedimentale e della giurisprudenza che quotidianamente si andrà sviluppando avanti questo Giudice Unico. La Camera Penale di Roma ritiene indispensabile coinvolgere in questa iniziativa quanti più soggetti possibile tra quelle associazioni che da tempo si dedicano coraggiosamente a questo tema, per denunziarne la inammissibile violenza e per propugnarne la radicale abolizione.

 

Camera Penale di Roma

Giustizia: una storia di "ordinaria follia", dal carcere speciale

di Elisabetta Zamparutti (Deputata Radicale eletta nelle liste del Pd)

 

www.innocentievasioni.net, 7 gennaio 2009

 

Vincenzo Stranieri oggi ha 49 anni. Ne aveva 24 quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere. Sta ancora espiando - secondo il cumulo pene emesso due anni fa dalla Procura Generale della Repubblica di Taranto - la condanna complessiva a anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro. Non sta scontando ergastoli, quindi, né ha condanne per omicidio.

Già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Scu di Pino Rogoli quando era già in carcere, il "boss di Manduria" - come era noto alle cronache di una generazione fa - ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo cosiddetto "Corvo" dove è imputato a piede libero e senza nulla a che fare con l’associazione mafiosa per un "contrabbando di tabacchi lavorati esteri", al quale avrebbe secondo l’accusa partecipato da dentro il carcere, in isolamento e sorvegliato a vista.

Vincenzo Stranieri è attualmente detenuto nel supercarcere di L’Aquila e la sua storia è emblematica di come funziona il regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario a cui è sottoposto ininterrottamente da diciassette anni e mezzo, cioè da quando nel luglio 1992 il "carcere duro" è stato istituito come risposta dello Stato alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove furono massacrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il 3 dicembre scorso, il Ministro della Giustizia ha notificato a Stranieri l’ennesima proroga del regime speciale, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: "non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza." Ma nell’ultimo provvedimento, oltre alle solite note informative degli organi investigativi e alle segnalazioni di quelli giudiziari che di decreto in decreto si ripetono a mò di fotocopia, compare una "novità". È stata segnalata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e secondo il ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata.

Nella nota della Dda emerge un passaggio che vale la pena citare integralmente perché è un capolavoro della cultura poliziesca e giudiziaria del sospetto: "Da segnalare infine - riferisce la Dda di Lecce - il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatali a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l’interessamento di "persone sempre più influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!).

Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l’altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all’ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l’autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perché la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all’interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all’art. 41-bis".

Un giornalista in questa vicenda esiste davvero e corrisponde al nome di Nazareno Dinoi. È originario di Manduria come Stranieri e scrive da Lecce e Taranto per il Corriere del Mezzogiorno, l’inserto pugliese del Corriere della Sera. Ma c’è un altro "legame" tra i due, più recente e degno di nota delle "note informative" di organi giudiziari e di polizia. Nazareno Dinoi è coautore con Vincenzo Stranieri di "Dentro una vita", il libro che sta per essere pubblicato da Reality Book con una prefazione del Segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, nel quale Stranieri racconta la sua storia da delinquente e di detenuto al 41 bis. Il fatto dovrebbe essere noto alle questure e procure che negli ultimi trent’anni non hanno perso d’occhio Vincenzo Stranieri.

Anche perché Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, ha chiesto formalmente al ministero della Giustizia di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e poi, a fronte del diniego, ha deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità di quel "misterioso" e "socialmente pericoloso" carteggio con il "boss di Manduria". A questo punto, mi viene da chiedere: se anche gli altri "dati" e "fatti" - indicativi per il Ministro della Giustizia dell’attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata - sono dello stesso ordine e grado di attendibilità del fatto segnalato dalla Dda di Lecce relativo al "tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale", cosa ci fa ancora, dopo diciassette anni e mezzo, il detenuto Stranieri in regime di "carcere duro"?

Un paio di settimane fa, mi sono recata in visita al Carcere di massima sicurezza di L’Aquila e ho incontrato anche Vincenzo Stranieri. Le sue condizioni psico-fisiche mi sono parse allarmanti e terribilmente profetiche le parole di un suo scritto uscito dal supercarcere nell’aprile del 2009: "Qui stiamo venti ore al giorno in cella, a poltrire. Moltiplicato per 25 anni, di cui 17 di carcere duro del 41 bis, è davvero un’enormità. Per fare cosa? Dicono per farci recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere la ragione: venti ore al giorno per venticinque anni a guardare il soffitto: a cosa e a chi serve tutto questo?".

I racconti e i ricordi di Vincenzo Stranieri per il libro che sta per uscire sono la più gratuita e, quindi, autentica dichiarazione di dissociazione dal suo passato. Ma la semplice dissociazione non basta per venire fuori dal 41-bis, ci vuole la dissociazione a rischio della vita… e Vincenzo Stranieri "non ha operato condotte che si sono poste in conflitto con la sua appartenenza all’organizzazione" criminale, come è scritto nell’ultimo decreto ministeriale che lo seppellisce per altri due anni in una cella del "carcere duro".

Giustizia: Ilaria Cucchi; penso ad una associazione per i diritti

di Cinzia Gubbini

 

Il Manifesto, 7 gennaio 2009

 

"Per il momento non c’è niente di ufficiale, non so se stanno pensando di propormi una candidatura", dice Ilaria Cucchi. Stando a un’intervista di ieri a La Repubblica della neo candidata alla guida del Lazio Emma Bonino, i Radicali la vorrebbero per la battaglia delle regionali: "La sua forza e la sua compostezza sono asset straordinari".

Per Ilaria - sorella del giovane Stefano, morto in un letto del reparto carcerario Sandro Pertini dopo una settimana d’inferno seguita a un fermo per droga - si tratta dell’ennesima scossa in una vita che in pochi mesi è cambiata drasticamente. 35 anni, due figli, un lavoro da amministratrice di condominio, cattolica praticante e con pochissimi grilli per la testa, Ilaria Cucchi è ormai diventata un personaggio pubblico. È stata ospite delle più importanti trasmissioni televisive, la sua faccia è finita su giornali e rotocalchi.

L’opinione è unanime: ha un volto che buca lo schermo. La sua compostezza vince tra un pubblico saturo di chi rincorre sempre la parola in più. Lei, invece, è abituata a parlare senza sbavature. Ora arriva la possibilità di accedere, in qualche modo, alla "stanza dei bottoni": "Voglio ancora ragionarci, parlare con chi mi è stato vicino in questi mesi - dice - sono molto concentrata sulla mia battaglia per ottenere giustizia per Stefano. Quando si aprirà il processo sarà necessario molto impegno. Non penso di avere molto tempo per altro. Almeno per ora".

Un futuro impegno politico di Ilaria, dunque, non è impossibile, e intanto nel fine settimana parteciperà all’assemblea dell’associazione Radicali Roma: "I Radicali mi sono stati molto vicini, li ringrazio per tutto quello che hanno fatto. Entrare in politica? Io vorrei solo rendermi utile, poter impedire che in futuro accadano cose come quelle che sono successe a Stefano. Per la verità penso che sia più vicino a me un impegno in un’associazione, qualcosa di questo tipo.

Francamente non ho mai avuto nessun tipo di aspirazione politica", Non che Ilaria non abbia idee politiche "ma il voto è segreto!", tiene a precisare. Basti dire, però, che non ha mia votato a sinistra: "Sono sempre stata una persona con una fiducia illimitata nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine. Tra il tanto dolore che io e la mia famiglia stiamo affrontando c’è anche quello di vedere che le cose non funzionano sempre come pensavamo. Non è assurdo che, dopo tutto quello che è accaduto a Stefano nessuna istituzione abbia ancora ammesso delle responsabilità?".

Lo spirito battagliero non le manca, e confessa che già in passato, prima che Stefano morisse, una conoscenza di famiglia impegnata nella politica comunale le aveva proposto di scendere in campo: "Ma perché sono una che sa muoversi, e che ha sempre avuto a cuore i diritti delle persone. Banalmente anche nella mia attività di amministratore di condominio mi è capitato di affrontare situazioni delicate, e riuscire a ottenere l’impegno dell’amministrazione pubblica per risolvere la situazione".

Certo, alcune battaglie dei Radicali "le sostengo pienamente: tutte quelle che mirano a difendere le persone". Altre sono in contrasto con il suo credo religioso, come le campagne per l’aborto e l’eutanasia: "Ma - dice Ilaria ho anche imparato che le situazioni bisogna viverle, prima di giudicare". E ammette: "Fino a qualche tempo fa avessi sentito una storia come quella di Stefano, come prima cosa avrei pensato: se la sarà cercata. Oggi ho imparato che bisogna guardare a fondo delle cose, prendere in considerazione tutti i punti di vista".

Lettere: il carcere involontariamente alimenta miti del "fuori"

 

Lettera alla Redazione, 7 gennaio 2009

 

Caro amico lettore, la libertà di scegliere segna la vita delle persone. E fa la differenza. Il carcere, inconsapevolmente, alimenta i miti del "fuori": l’amore, il lavoro, la felicità domestica, la vita di relazione. Spesso, invece, libertà significa fare i conti con una vita mediocre, solitaria, povera, a volte difficile, e riuscire a tenerle testa. Per chi fuori non ha nulla il carcere può diventare persino un posto dove si "desidera" rimanere o ritornare.

Brooks, il detenuto bibliotecario del film "Le ali della libertà" di Frank Darabont, preferisce morire: dopo aver fatto il carcerato per cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si uccide. Storia di celluloide emblematica di tate vite reali segnate dal "meternage" maligno dell’istituzione totale. Ma anche quando il carcere è "buono" gli effetti possono essere devastanti. Il portone che si apre spaventa. Se poi si apre all’improvviso restituendo la completa libertà dopo anni, decenni di detenzione è ancora più spaventoso.

Il "dentro" e il "fuori" sono tuttora incapaci di incontrarsi sul terreno comune della realizzazione degli obiettivi. Nel nostro paese il "fuori" di cui il carcere dovrebbe nutrirsi per produrre libertà ha diverse facce. Anzitutto quella del territorio. Regioni, province, comuni, scuola, privato sociale. Un mondo che cammina sulle gambe dei "civili", come vengono chiamati gli operatori sociali, i volontari e tutti coloro che appartengono all’amministrazione penitenziaria. "Fuori" c’è anche la magistratura di sorveglianza alla quale un legislatore illuminato ha affidato la tutela dei diritti dei reclusi. Infine il "fuori" è il terreno su cui i detenuti muovono, grazie alla legge Gozzini, i primi passi verso la libertà. In effetti, se applicata, la legge Gozzini è, ad oggi, la risposta più efficace alla rieducazione e al reinserimento nella società civile.

La ricchezza di un territorio, le opportunità lavorative e la capacità di una città di sentire il carcere come parte integrante del proprio tessuto sociale costituiscono un enorme valore aggiunto per dare significato alla pena detentiva. Ma non è così dappertutto. Il sistema carcerario continua a considerare "la chiave" il simbolo della sicurezza ma, più sono le mandate, più sale la recidiva. Ha rinunciato al cambiamento. Dai prigionieri pretende redenzioni miracolistiche ma non fa alcuna revisione critica su se stesso, sulla propria cultura e sul proprio modo di operare.

La verità è che, nel nostro paese, il carcere rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana. L’intenzione di riabilitare si rivela solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno del carcere è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare giustizia.

In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve essere messo sotto accusa ove sveli il suo volto primitivo quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione. In pratica il carcere è concepito come un microcosmo chiuso in cui regnano orari, regole e modus vivendi in tutto peculiari e comprensibili solo a chi, per condanna o per lavoro, è tenuto a trascorrere nel carcere buona parte del suo tempo.

In un così spazio si innescano dinamiche di apprendimento troppo spesso distorte che incrementano il disadattamento sociale e cultura violenta del recluso trasmettendogli la sensazione di non poter più sperare in una vita migliore. Viceversa, in un luogo di esecuzione penale, un detenuto deve sviluppare una giusta percezione della società e acquisire una competenza idonea a procurarsi onestamente e decorosamente da vivere una volta restituito al mondo libero.

Se si vuole un carcere che non sia fabbrica di alienati, asociali, di recidivi, occorre testimoniare una maggiore stima nelle persone detenute perché possano fare un cammino di riabilitazione sociale, bisogna farsi carico dei problemi e dei vissuti delle persone detenute. Ma, ahimè, la società è sorda. Forse è giocoforza ammettere che il carcere è esso stesso un luogo della società e non un luogo al di fuori della società.

Evidentemente è ancora lontana da una coscienza civile diffusa di questa necessità di affrontare il carcere, di pensarlo non come una discarica sociale, un magazzino di carne umana, un cimitero dei vivi perduti per sempre ma come luogo sociale dal quale far partire pratiche e processi di risocializzazione sottraendo quanto più spazio possibile all’isolamento e all’afflizione per realizzare alternative socialmente utili alla reclusione.

Occorre, prima di tutto, una presa di coscienza perché sia possibile operare una revisione e una trasformazione dell’attuale cultura fondata sull’eternità del giudicato penale, sull’ irreversibilità delle pene erogate che non lasciano spazi, oggi, ad altre logiche che a quella concentrazionaria, di un carcere "custodiale" come unica ed eterna risposta: perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una "catarsi", una sua radicale trasformazione.

 

Francesco, dal carcere di Augusta (Sr)

Cagliari: suicida detenuto di 62 anni è il secondo caso nel 2010

 

L’Unione Sarda, 7 gennaio 2009

 

Ieri mattina era di ottimo umore e scherzava con gli agenti della polizia penitenziaria. Ha pranzato e si è riposato. Alle 16,30 è entrato in bagno e si è impiccato. Celeste Frau, 62 anni di Uta, stava scontando una condanna a 12 anni per rapina aggravata. Secondo i giudici di primo e secondo grado era uno dei tre malviventi che, volto coperto e armi in pugno, nel marzo del 2007 avevano rapinato Mauro Guidi, rappresentante di gioielli mentre rientrava nella sua villetta a Poggio dei Pini. La condanna inflitta in Tribunale nel 2007 era stata confermata ai primi di dicembre dalla Corte d’appello.

Celeste Frau era in cella con altri tre detenuti. Che non vedendolo uscire dal bagno si sono allarmati. Quando si sono affacciati, hanno visto il suo corpo penzolare dalla finestra. Aveva annodato le lenzuola. Non ha lasciato un biglietto né, che risulti, ha mai manifestato con alcuno intenti suicidi.

La vittima era una vecchia conoscenza del direttore di Buoncammino, Gianfranco Pala. Che definisce la sua morte "imprevista ed imprevedibile". Frau, riferisce Pala, "aveva passato buona parte della sua vita in galera e non era depresso. Aveva un ottimo rapporto con i detenuti e con gli agenti. Semmai aveva problemi cardiaci e per questo era seguito con particolare attenzione dai medici". Aggiunge, Pala, che i compagni di cella sono rimasti molto colpiti.

Il suo avvocato, Erika Dessì si dice "affranta". "Ero fermamente convinta della sua innocenza, ha commentato ieri. "Frau è stato condannato perché a casa sua sono stati trovati alcuni gioielli della rapina. Ma il suo telefono all’ora della rapina aveva agganciato una cella di Assemini, dove risiedeva. Dopo la pubblicazione della sentenza mi sarei battuta in cassazione per farlo assolvere". Poco dopo la sua morte, in carcere è arrivato il sostituto procuratore Gilberto Ganassi. Nelle prossime ore deciderà se disporre l’autopsia.

 

Caligaris (Sdr): suicidio effetto del degrado delle carceri

 

"Le condizioni di sovraffollamento e il numero inadeguato di agenti di polizia penitenziaria sono le principali cause del disagio nelle carceri italiane. Il suicidio di Celeste Frau (che si è tolto la vita ieri mattina a Buoncammino, ndr) rappresenta l’ennesimo tragico documento umano di sconfitta per tutti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che proprio nella mattinata di ieri ha effettuato con i volontari i colloqui con i detenuti nella Casa Circondariale cagliaritana.

"Quando il numero dei detenuti cresce in maniera esponenziale - sottolinea - è molto difficile tenere sotto controllo l’inevitabile disagio che peraltro aumenta a dismisura nelle Festività. A Buoncammino sono stati superati abbondantemente i limiti di guardia e dentro le celle si moltiplicano le difficoltà con altissimi rischi di episodi di autolesionismo. A fronte di oltre cinquecento detenuti si registra un numero di Agenti inadeguato. Mancano infatti 70/80 unità per garantire la sicurezza e prevenire episodi drammatici. Né si può ignorare che le condizioni di salute di molti detenuti sono gravi e che l’inattività moltiplica il senso di inutilità dell’esistenza".

"Il sovraffollamento - afferma ancora l’esponente socialista - è una pena aggiuntiva alla mancanza di libertà. Limita l’azione degli educatori, condiziona l’operatività delle figure professionali interne alla struttura e quella dei volontari. Impedisce di svolgere le attività indispensabili per il recupero dei cittadini privati della libertà. Spesso i detenuti dissimulano i momenti di grave difficoltà con un’apparente serenità che solo la professionalità e la sensibilità degli Agenti, le persone più prossime a loro, il più delle volte riescono a percepire intervenendo preventivamente".

"È tempo che il Governo, il Ministero della Giustizia e il Dap - conclude Caligaris - assumano una risoluzione positiva al problema sicurezza. Il sistema penitenziario va rivisto. Occorrono investimenti per creare una rete interistituzionale interna ed esterna. È indispensabile un coordinamento delle azioni rieducative e di prevenzione. In questo modo si creerebbero posti di lavoro e l’infrastruttura dei servizi ridurrebbe drasticamente la recidiva a vantaggio della vera sicurezza".

Padova: 64enne è morto dopo un’odissea tra carceri e ospedali

 

Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2009

 

Ventuno mesi già trascorsi dietro le sbarre. Ma in carcere avrebbe dovuto rimanerci ancora a lungo dopo la condanna a 16 anni e 8 mesi per l’assassinio della moglie e il tentato omicidio del tiglio. Così non è stato: Luciano Garavello, 64 anni di Pozzonovo, è morto.

Da oltre un mese era ricoverato all’hospice di Montagnana ormai in fase terminale: nell’ottobre scorso, infatti, i medici dell’ospedale Borgo Trento di Verona gli avevano diagnosticato una doppia massa tumorale al cervello. Operato d’urgenza il 26 ottobre, sembrava non aver più di uno o due giorni di vita.

Invece Luciano Gravello, "Ciano" per tutti, aveva resistito ancora. Nelle settimane precedenti era stato il suo difensore, l’avvocato Luisana Malfatti, a sollecitare una serie di accertamenti medici per Garavello, rinchiuso nella casa circondariale di Padova. L’uomo aveva cominciato a dimagrire. Inoltre, era molto depresso, piangeva spesso e appariva stanco.

Trasferito all’ospedale di Padova, non gli era stato riscontrato nulla di anomalo. Tuttavia la situazione non migliorava. Nuova richiesta del difensore per un trasferimento nell’infermeria di un carcere: disponibile ad accogliere Luciano Garavello era stata quella del carcere di Verona. Qui era giunto il 18 ottobre e il 24 del mese era stato accompagnato all’ospedale di Borgo Trento: lo stesso giorno la scoperta del tumore, il 26 l’operazione urgente in neurochirurgia.

Altamura (Ba): fratello del detenuto morto non crede a suicidio

 

La Repubblica, 7 gennaio 2009

 

Non credono al suicidio i familiari di Pierpaolo Ciullo, il detenuto trovato morto nella sua cella nel carcere di Altamura il 2 gennaio scorso. Per questo il fratello difeso dall’avvocato Stefano Colella, ha presentato alla procura di Bari una querela denuncia contro ignoti e la richiesta di autopsia sul corpo è già stata disposta dal pm Angela Maria Morea.

All’esame necroscopico che verrà effettuato sul corpo, entro la fine di questa settimana, prenderà parte insieme al medico legale un consulente di parte per accertare se realmente Ciullo è morto di asfissia provocata dalla bomboletta del gas che aveva a disposizione per prepararsi il caffè. Le prime analisi sul corpo hanno escluso lesioni, pare quindi che il 39enne di Acquarica del Capo, nel Sud Salento, abbia inalato volontariamente il gas mentre il suo compagno di cella era alla messa.

Resta da definire se lo abbia fatto per procurasi la morte oppure per cercare uno sballo: era un consumatore abituale di cocaina e seguiva una terapia ansiolitica. Ciullo era in carcere da qualche mese a Borgo San Nicola, per essersi presentato a casa della ex convivente con un fucile. Accusato di violenza sessuale e maltrattamenti era stato preso di mira dagli altri detenuti e aveva chiesto di essere trasferito in un altro carcere per scontare la pena che sarebbe finita nel settembre 2011. Sulla sua morte l’onorevole Rita Bernardini, del gruppo Radicali-Pd, ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia.

 

Disposta l’autopsia

 

Sarà fatta l’autopsia sul corpo di Pierpaolo Ciullo, di 39 anni, di Acquarica del Capo (Lecce), il detenuto che è morto sabato pomeriggio nella sua cella nel carcere di Altamura per asfissia da inalazione da gas.

La Procura ha accolto la richiesta dei familiari che vogliono ulteriori elementi di certezza. Un suicidio o una disgrazia sono le cause della morte. Finora è stata esclusa la morte violenta.

Il decesso di Ciullo ha presentato sin dall’inizio degli interrogativi. E non è detto che l’autopsia riesca a chiarirli. I punti fermi arrivano dal referto del medico legale. Morte da "asfissia da inalazione di gas". E nessun segno di violenza o di intervento di "terze persone".

Sulla base di ciò, come ha riferito la direttrice del carcere Caterina Acquafredda, la Procura aveva inizialmente autorizzato la sepoltura del corpo. I familiari hanno però fatto istanza affinché venga fatta l’autopsia e l’hanno ottenuta. Si terrà oggi o domani. Ciullo era all’istituto penitenziario in via dell’Uvaspina da ottobre. I legali della famiglia hanno specificato che stava scontando delle pene relative "a due sentenze di condanna per violazione di domicilio, violenza privata, porto abusivo d’arma e resistenza a pubblico ufficiale". Era stato trasferito ad Altamura dalla casa circondariale di Lecce.

Il suo corpo senza vita è stato trovato nel pomeriggio di sabato, subito dopo la messa alla quale non aveva partecipato. Da quanto finora si è appreso, era da solo (il compagno di cella era invece andato a messa). Il corpo era accanto ad un fornelletto da campeggio, alimentato da una bomboletta del gas, di quelle in uso ai detenuti. Il gas era aperto. È stato trasportato d’urgenza in infermeria ed è stato chiamato il 118 ma non c’è stato nulla da fare. Nell’immediatezza si è pensato al suicidio dal momento che era solo nella cella. Ma da un attento esame della situazione l’ipotesi si è affievolita. L’uomo aveva la testa libera, non imprigionata ad esempio in una busta di plastica utilizzata per creare l’effetto "camera gas" molto ricorrente nei suicidi. Anche i legali della famiglia pensano ad altro perché secondo loro l’ipotesi di suicidio "sembra la meno probabile proprio per le modalità e le circostanze nelle quali è avvenuto". Se viene meno il suicidio, un’altra ipotesi percorribile è quello della disgrazia. Ciullo potrebbe aver aperto volontariamente il gas ma potrebbe esserne rimasto stordito.

Empoli: in attesa di detenuti transessuali, il carcere resta vuoto

 

Il Tirreno, 7 gennaio 2009

 

Ad Empoli il carcere di Pozzale da alcuni mesi aspetta vuoto l’arrivo dei detenuti. La struttura era stata chiusa per far svolgere dei lavori che sono terminati. Ora, dovrebbe riaprire per ospitare solo detenuti transessuali provenienti da diverse carceri, tra cui quella di Sollicciano.

La direttrice rassicura: "Sotto le feste non era opportuno spostare le detenute di Sollicciano. Se non ci sono nuovi indirizzi da parte del ministero, a breve la struttura di Pozzale sarà a regime di nuovo". Mentre nel vicinissimo Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo i detenuti soffocano in celle piccole e anguste, a Pozzale, vicino Empoli, il carcere rimane un fortino di cemento vuoto e inutile.

Da un anno e mezzo l’amministrazione penitenziaria ha predisposto la trasformazione della struttura empolese a carcere per i transgender provenienti dal carcere di Sollicciano e da altre carceri; tuttavia malgrado i lavori di adeguamento siano terminati da tempo, di questi non c’è nessuna traccia.

Così succede che dopo tanti proclami ufficiali del ministero, la destinazione di Pozzale potrebbe essere anche diversa rispetto a quella concordata. Mesi fa era cresciuta l’ipotesi che nel piccolo carcere empolese che ha recuperato decine e decine di giovani tossicodipendenti ci potevano essere trasferiti i pazienti più gravi dell’Opg di Montelupo. Mentre, invece, di recente si parlava di un carcere per detenuti che fanno l’università. Nell’empasse operativa, le voci si rincorrono e vengono fuori le tesi più strane.

La verità è che da anni è sotto gli occhi di tutti, compreso quelli di Regione e Comune di Empoli: uno dei fiori all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria italiana era destinato alla sepoltura. Per mesi la struttura è costata sui 3 - 4 mila euro al giorno con 22 addetti alla sorveglianza e sei operatori per garantire un servizio quando all’interno c’erano solo paio di detenute. E ancora, dopo sei mesi che il carcere è vuoto, non è stato messo riparo all’emorragia di soldi e all’inutilità evidente di 26 celle.

Le tre ragazze rimaste, quando ancora dovevano terminare gli esami per ottenere la licenza di terza media, erano state trasferite in altri istituti all’improvviso a fine di giugno. Gli unici "ospiti" ora sono alcuni agenti tenuti a sorvegliare la struttura. Il ripopolamento del carcere con i transessuali doveva avvenire a settembre, poi a fine anno, sono arrivati nuovi rinvii e si è parlato di nuove ipotesi.

"Sono abbastanza stufo di parlare del carcere di Empoli - attacca Franco Corleone, garante dei detenuti di Sollicciano - sono stati spesi migliaia di euro per aumentare la sicurezza della struttura e ora vengono fuori nuove ipotesi sulla sua destinazione futura". "Ma perché invece di chiuderlo - continua Corleone - non è stato utilizzato fino a quando non veniva concretizzato il nuovo progetto con i transessuali? Tenere un carcere vuoto è un insulto alla ragione quando tutte le strutture sono al collasso e scoppiano".

Margherita Michelini direttrice del carcere empolese ora distaccata a Sollicciano è convinta invece, che la struttura di Pozzale riaprirà presto con i transgender dentro. Quella con i trans infatti se realizzato sarà la prima esperienza in Italia, con detenuti provenienti anche di altre carceri italiani.

"A Pozzale dovevano essere fatti interventi nei bagni - spiega la direttrice - e doveva essere ampliata la portineria per motivi di sicurezza. I lavori sono stati già conclusi. Penso che tra poco venga fatto il trasferimento" e conclude: "Sotto le feste non era opportuno spostare le detenute di Sollicciano. Se non ci sono nuovi indirizzi da parte del ministero, a breve la struttura di Pozzale sarà a regime di nuovo".

Catania: situazione carceraria di luci (poche) ed ombre (molte)

di Daniela Monaco

 

www.cataniapolitica.it, 7 gennaio 2009

 

La Casa Circondariale di Piazza Lanza, ha aperto le porte ad una importante iniziativa per i figli dei detenuti, infatti, proprio ieri 5 gennaio di questo nuovo anno il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nell’ambito del progetto "Regali innocenti" grazie all’aiuto di alcune aziende private, ha messo a disposizione dei bambini (avente un’età di 5 anni) un regalo a sorteggio per ognuno di loro come dono per le festività natalizie ed inoltre, il fatto più importante dell’iniziativa è che i bambini hanno potuto trascorrere alcune ore con il genitore detenuto.

Le carceri italiane, ma soprattutto quelle siciliane non hanno mai versato in ottime condizioni, il resoconto di un’indagine statistica sull’argomento mostra dati preoccupanti mettendo in luce delle problematiche molto serie, diverse sono anche state le lamentele del Garante regione Sicilia per i diritti fondamentali dei detenuti, sottolineando che una struttura penitenziaria come quella di piazza Lanza (costruita nel 1950) versi in condizioni di arretratezza, di inefficienza strutturale, per non parlare dell’ormai secolare problema del sovraffollamento e insufficienza di spazi.

La riforma del sistema carcerario del 1975 nasceva dall’esigenza di porre fine: ai problemi organizzativi all’interno degli istituti penitenziari ed alle continue rivolte fra i detenuti, e fra questi e le guardie poste a servizio nelle case circondariali presupponendo che lo scopo della pena doveva essere quello di rieducare alla dignità umana in collaborazione con gli agenti della Penitenziaria ed il personale "civile" (criminologi, sociologi, psicologi, medici e altre figure professionali). Riforma che teoricamente e solo in parte è stata attuata poiché di fatto gravi problemi sussistono ancora oggi.

Nonostante l’Italia si creda patria del diritto, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte la precarietà di tante strutture penitenziarie, l’esempio lampante è proprio la Sicilia che accoglie 7.900 detenuti contro una capienza massima di 5.600, non solo, nel 2009 è aumenta la soglia dei suicidi ed omicidi, e delle violenze non solo fra loro detenuti ma anche nei confronti degli agenti in servizio. Il carcere di piazza Lanza, di recente (marzo 2009) è stato lo scenario del suicidio di un giovane detenuto che in cella di isolamento, per aver rapinato una tabaccheria, si toglie la vita impiccandosi, altro fatto increscioso (luglio 2009) coinvolge un agente di Polizia Penitenziaria, della Casa Circondariale di Bicocca, ammazzato per mano del collega in preda ad una crisi depressiva.

È auspicabile, dunque che la politica, il governo e gli enti regionali si attivino per risollevare le sorti del nostro sistema penitenziario attraverso investimenti in termini di risorse economiche per la riorganizzazione delle strutture ed anche attraverso personale qualificato che dia il giusto contributo per la risoluzione di una realtà, quale quella carceraria che oggi appare irrimediabilmente compromessa.

Trento: il sovraffollamento, aumenta la solitudine dei detenuti

 

Il Trentino, 7 gennaio 2009

 

Più aumenta l’affollamento nelle carceri e più aumenta la situazione di solitudine di chi vi è rinchiuso. Sembra una frase paradossale, in realtà è quanto emerge dall’intervista con Michele Larentis, operatore sociale dell’Atas, l’Associazione trentina accoglienza stranieri, e presidente della "Conferenza regionale volontariato e giustizia".

A lui, quotidianamente a contatto con chi vive in cella, abbiamo chiesto di commentare i dati sul sovraffollamento delle carceri trentine. Larentis lavora esclusivamente con detenuti stranieri - i due terzi della popolazione carceraria della nostra provincia - le cui condizioni, se possibile, sono ancora peggiori di quelle dei detenuti trentini e italiani.

 

Perché la loro situazione è tanto grave?

Perché molti sono clandestini o perché i reati che hanno commesso prevedono l’immediata espulsione a fine pena e quindi per loro è assai difficile, per non dire impossibile, accedere a misure alternative al carcere, come i domiciliari. E anche perché devono affrontare una solitudine totale, in terra straniera e lontani dai loro famigliari, e un’estrema povertà, parlo di quella economica oltre che di quella affettiva. Molti non hanno nemmeno vestiti da indossare.

 

Ma il sovraffollamento come può incidere ancora più negativamente su questa loro condizione?

È evidente che il personale, sottodimensionato, non può svolgere il proprio compito al meglio, a discapito degli aspetti strettamente umani. Penso agli psicologi che compiono il colloquio di primo ingresso o agli stessi agenti. Per quanto gli aspetti economici, il sovraffollamento impedisce ai detenuti di poter lavorare assiduamente all’interno della struttura. Molti sono i compiti, ma penso, ad esempio, alla realizzazione dei sacchetti per la raccolta degli escrementi dei cani, confezionati qui nella Casa circondariale di Trento. È ovvio che maggiore è il numero dei detenuti che lavorano alla produzione, minore è la frequenza dei turni durante il mese e minori sono i guadagni. E così, in molti si trovano senza nemmeno il denaro per le sigarette o non riescono a pagare le telefonate a casa, i francobolli per le lettere e tanto meno a mandare ai loro familiari qualche spicciolo. Più si riducono gli spazi vitali, più il detenuto si chiude in sé stesso, perde dignità. Proprio così.

 

Il ruolo del volontario qual è?

Noi offriamo una consulenza a queste persone, ma ancor di più offriamo ai detenuti l’occasione di essere ascoltati, di ritrovare il contatto umano di cui hanno estremo bisogno. Anche una semplice stretta di mano può essere importantissima.

 

Il nuovo carcere potrà migliorare questa situazione?

Cambieranno i muri, aumenteranno gli spazi e non dovrebbe più esserci il sovraffollamento.

 

Ma quanto durerà?

Siamo sicuri che il Ministero non deciderà di "alleggerire" altre strutture vicine, come quella di Padova ad esempio, trasferendo a Trento nuovi detenuti? Senza contare che per gestire il nuovo carcere il personale attualmente impiegato non sarà sufficiente.

Mistretta (Me): "L’Arpa di Davide 2", manifestazione culturale

 

Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2009

 

La Crivop dopo il successo della manifestazione del 30 dicembre 2009 presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), organizza Sabato 9 Gennaio 2010 per i detenuti ed internati della struttura penitenziaria della Casa Circondariale di Mistretta (Me), una manifestazione di carattere, culturale, sociale e ricreativa denominata "L’Arpa di Davide 2".

La manifestazione come per l’Opg di Barcellona P.G. (Me) nasce dal fatto di voler portare momenti di serenità e gioia a quanti sono ristretti presso la struttura penitenziaria di Mistretta (Me), (come l’evento biblico dove, l’arpa di Davide, portava serenità al Re Saul), con canti cristiani, giochi di gruppo, alla fine dell’evento, bibite e dolci fatti in casa offerti dai volontari della Crivop. Per informazione: www.crivop.altervista.org - crivop@libero.it Tel. 3665086513

Torino: il corso di rugby "educativo" per detenuti delle Vallette

 

La Repubblica, 7 gennaio 2009

 

I reclusi della Casa Circondariale si cimenteranno con la palla ovale, sport considerato educativo. Disciplina che al termine del periodo di detenzione dovrebbe facilitare il reinserimento sociale, lavorativo e sportivo. Per dare il via ai corsi sabato il carcere Lorusso e Cutugno ospiterà una partita tra il VII Rugby Torino e il Cus Torino. Seguirà un "terzo tempo", un incontro tra gli atleti e i detenuti per spiegare la storia e i primi rudimenti del rugby. L’iniziativa, oltre che dal direttore dell’istituto, Pietro Buffa, è sostenuta dalla Federazione Italiana Rugby (sarà presente l’ex giocatore della nazionale Marco Bollesan), dall’assessore allo Sport del Comune, Giuseppe Sbriglio, e dal vicepresidente del consiglio comunale, Michele Coppola.

Immigrazione: lo straniero cattivo anche se non commette reati

di Luigi Manconi

 

L’Unità, 7 gennaio 2009

 

Nel nostro paese è stata scatenata la più ansiogena campagna sulla sicurezza nel periodo storico che ha visto la massima riduzione dei delitti. Gli immigrati regolari delinquono meno degli italiani.

Troppo spesso si ignora, o si dimentica, che xenofobia non è un sinonimo di razzismo o di intolleranza etnica: è, piuttosto, la paura dello straniero. La distinzione è decisiva perché è vero che ogni razzismo si nutre di xenofobia, ma non è affatto automatico o fatale che ogni xenofobia precipiti in razzismo. D’altra parte, la xenofobia è antica come l’uomo e affonda le sue radici in sentimenti e meccanismi ancestrali che rimandano alle dimensioni più profonde e resistenti della psiche. Oggi, nelle moderne società globalizzate, il confine tra razzismo e non razzismo è, a ben vedere, assai netto da decifrare, anche se sdrucciolevole da percorrere.

Razzismo è tutto ciò che porta la xenofobia a farsi ostilità, aggressività, discriminazione; non razzismo è tutto ciò che contribuisce, con argomenti razionali, a disinnescare la fobia (diffidenza, sospetto, paura) verso lo straniero. Perché la xenofobia si traduca in razzismo, in una società come quella italiana dove resistono le culture dell’accoglienza (di origine laica o religiosa), è necessario che operino gli "imprenditori politici dell’intolleranza".

Nel nostro paese, quegli imprenditori, si sono manifestati e organizzati più tardi rispetto ad altre nazioni, ma oggi sono particolarmente attivi e aggressivi e soprattutto, caso pressoché unico in

Europa, partecipano al Governo del paese. Quegli "imprenditori" raccolgono gli umori più torvi e, insieme, più dolenti (sono gli strati popolari a soffrire maggiormente la convivenza con gli stranieri), li trasferiscono nella sfera pubblica e li utilizzano come risorsa politica di mobilitazione e di conquista e gestione del potere. Per fare questo devono trattare politicamente le paure collettive e le ansie condivise, traducendole in strumento di governo.

È, appunto, il governo della paura. Delle paure: quelle vere e quelle false, quelle create artificialmente e quelle incentivate spregiudicatamente. Basti pensare al fatto che la più ansiogena campagna sulla sicurezza è stata attivata nel periodo storico che ha conosciuto, in Italia, la massima riduzione del numero dei reati. In particolare, gli omicidi volontari che nel 1991 erano 1916, scendono a 605 nel 2008 (avete letto bene: 605). Per quanto riguarda gli stranieri, va considerato un dato assai interessante: il tasso di criminalità tra gli immigrati regolari è più basso rispetto al tasso registrato tra gli italiani ed è ancora più ridotto se si confronta la fascia d’età oltre i 45 anni.

Il discorso va rovesciato, evidentemente, a proposito degli immigrati irregolari: qui il tasso di criminalità cresce in misura assai significativa. Se ne dovrebbe dedurre che, tra le cause, abbia un

peso significativo la condizione di marginalità sociale in cui quegli stranieri non regolarti si trovano: e ne dovrebbe conseguire la necessità di estendere, attraverso politiche pubbliche intelligenti e razionali, l’area della regolarità. Ma vallo a spiegare a quel genio di Roberto Calderoli.

Stati Uniti: criminalità in calo; forse la crisi c’entra... o forse no

di Marzio Barbagli

 

Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2009

 

Negli Stati Uniti, la recessione degli ultimi due anni ha provocato un aumento del tasso di disoccupazione, ma è stata anche accompagnata, inaspettatamente, da una diminuzione del numero dei reati. Nel primo semestre del 2009, il tasso di omicidi è sceso del 10%, quello dei furti del 6 per cento. È la prova, secondo il Wall Street Journal che ieri ha pubblicato un articolo di Heather Mac Donald, che la vecchia tesi secondo cui povertà e diseguaglianze economiche favoriscano la criminalità è uno dei tanti residui ideologici del Novecento dai quali dobbiamo liberarci se vogliamo capire cosa sta avvenendo. Sulle cause di questa inaspettata riduzione della frequenza dei delitti, l’analisi del Wall Street Journal non nutre dubbi. È merito dell’inasprimento delle pene, dell’accresciuta efficienza delle forze dell’ordine e dell’espansione della popolazione carceraria.

È da almeno 30 anni che gli studiosi di scienze sociali si sono liberati dalla pestilence fallacy, dall’idea cioè che all’origine di un male non possano che esservi altri mali e dunque che le principali cause della criminalità siano analfabetismo, disoccupazione, povertà: da quando hanno visto che, nei paesi occidentali, il tasso dei reati contro il patrimonio e le persone è cresciuto vertiginosamente dal 1955 al 1972, nel più lungo periodo di prosperità conosciuto. "Dobbiamo chiederci scriveva nel 1969 la National Commission on the Causes and Prevention of Violence a proposito degli Stati Uniti perché nell’ultimo decennio vi è stato un forte aumento della criminalità violenta, mentre le condizioni che si suppone ne siano la causa, ben lungi dal peggiorare, sono migliorate". I ricercatori e gli studiosi europei si sono posti domande analoghe. Perché nella Repubblica federale tedesca, il numero dei furti è aumentato del 500% dal 1955 al 1987? Perché dopo il 1950, mentre il governo laburista riusciva a ridurre le diseguaglianze sociali, in Svezia il numero dei delitti è cresciuto?

Per dare una risposta a questi interrogativi essi elaborato nuove teorie (ad esempio, il routine activity approach), secondo le quali l’aumento di alcuni tipi di furti e di rapine è stato prodotto da mutamenti positivi degli stili di vita che hanno reso meno rischioso e più remunerativo commettere tali delitti. Questi mutamenti, avvenuti nei paesi occidentali dalla metà degli anni Cinquanta, sono stati: la miniaturizzazione di molti beni, che ha facilitato il loro trasporto; l’aumento della mobilità della popolazione, che ha avvicinato le vittime potenziali a coloro che sono disposti a compiere un borseggio, una rapina o un furto di auto, mentre le ha allontanate dalle loro abitazioni; la straordinaria crescita del numero di donne che svolgono un lavoro extradomestico che, facendo sì che le case fossero sempre meno custodite durante il giorno, ha favorito i furti di appartamento.

È, ad esempio, per questo che in Italia (come in altri paesi occidentali) tali furti sono più frequenti non nelle zone dove più alto è il numero dei disoccupati, ma in quelle nelle quali è maggiore il tasso di attività della popolazione femminile. Questa teoria può aiutarci a capire cosa sta succedendo ora. Negli Usa, la diminuzione del tasso di criminalità non è iniziata con la recessione degli ultimi due anni, ma nel 1992. Secondo molti studiosi, il crollo dei reati contro il patrimonio dell’ultimo quindicennio è riconducibile ad altre trasformazioni che hanno reso i borseggi e gli scippi, le rapine e i furti in appartamento meno remunerativi: la sostituzione del denaro contante da parte delle carte di credito e dei bancomat e il crollo dei prezzi di molti oggetti rubati.

È molto probabile che le innovazioni introdotte nell’organizzazione della polizia, per renderla più efficiente, abbiano contribuito alla diminuzione di furti e rapine. È invece dubbio (e controverso) il ruolo svolto in questo processo dall’inasprimento delle pene e dall’aumento dei carcerati. È certo però che anche nell’Europa occidentale, dove il numero dei detenuti non è cresciuto così tanto (756 su 100mila abitanti negli Usa, 96 in Francia, 95 in Austria, 93 in Belgio, 92 in Italia e 89 in Germania), vi è stata, dal 1992, una diminuzione di molti reati contro il patrimonio, proprio di quelli (ad esempio, i furti di auto) che sono sempre meno remunerativi.

Tutto questo non deve farci dimenticare che, pur essendo diminuita in molti paesi occidentali, la frequenza degli omicidi resta maggiore dove più forti sono le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e dove lo stato protegge meno gli individui, con servizi e trasferimenti di denaro, dai rischi sociali.

Iraq: nel 2009 giustiziati 77 condannati, per reati di terrorismo

 

Apcom, 7 gennaio 2009

 

Settantasette detenuti condannati per "terrorismo" sono stati giustiziati nel 2009 in Iraq. Lo ha reso noto la Corte suprema di giustizia irachena, in un comunicato. "Nel 2009 sono state eseguite settantasette condanne a morte contro civili in diversi casi", ha affermato il presidente della corte, Madhat Al-Mahmoud. Secondo il comunicato, questi detenuti sono stati riconosciuti "colpevoli in vicende legate al terrorismo" e la loro pena pena è stata applicata in "priorità".

In una relazione pubblicata a fine 2009, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International ha segnalato che 120 detenuti sono stati giustiziati nel corso dell’anno appena concluso. Ha aggiunto che altri 900 si troverebbero al momento nel braccio della morte. Secondo Amnesty, numerosi condannati a morte sono stati riconosciuti colpevoli di omicidi o di sequestri e "alcuni sono stati condannati dopo processi ingiusti" o confessioni estorte sotto tortura.

La pena di morte è stata ripristinata in Iraq nel 2004 con un decreto, malgrado le energiche rimostranze della comunità internazionale. Nel 2008, l’ Iraq ha condannato a morte almeno 285 persone e almeno 34 sono state giustiziate, secondo Amnesty. Nel 2007, almeno 199 persone sono state condannate alla pena capitale e almeno 33 giustiziate mentre nel 2006 sono state impiccate 65 persone.

Cina: denuncia di violenze nei "Centri di riabilitazione drogati"

 

Ansa, 7 gennaio 2009

 

I tossicodipendenti cinesi subiscono pestaggi sistematici, ricatti, e sono spesso costretti al lavoro forzato, secondo un rapporto diffuso oggi dal gruppo umanitario Human Rights Watch. Secondo il rapporto, che si intitola "Tenebre senza limiti", la nuova legge sulla droga varata dalla Cina nel 2008 consente di tenere i drogati rinchiusi fino a sette anni nei cosiddetti "centri di riabilitazione", in realtà delle prigioni nelle quali i tossicodipendenti "non godono neanche dei diritti degli altri detenuti". I drogati possono essere inviati nei "centri di riabilitazione" dalla polizia e restare rinchiusi dai due ai sette anni senza nessuna supervisione delle autorità giudiziarie.

"Invece di mettere in atto una vera terapia per il trattamento della dipendenza dalla droga, la nuova legge cinese espone le persone sospettate di fare uso di droga alla detenzione arbitraria e a trattamenti inumani", afferma Joe Amon, uno degli estensori del rapporto. Gli esperti di Human Rights Watch hanno studiato le condizioni dei tossicodipendenti in due delle province cinesi dove la droga è più diffusa, quello dello Yunnan e del Guangxi che si trovano nel sud della Cina, non lontane dal "triangolo d’oro" della droga formato da Birmania, Laos, Vietnam e Thailandia. "Mettere un gran numero di tossicodipendenti nello stesso posto, costringerli al lavoro forzato e a subire violenze fisiche non è riabilitazione", conclude il rapporto.

 

 

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