Rassegna stampa 25 gennaio

 

Giustizia: una informazione dal carcere "il più libera possibile"

di Ornella Favero (Direttore responsabile di Ristretti Orizzonti)

 

Il Manifesto, 25 gennaio 2010

 

Quando la notte di Capodanno ho attraversato, accompagnando Marco Pannella e Rita Bernardini, tutto un carcere, la Casa di reclusione di Padova, cella per cella, ho pensato che fino a quel momento neppure io, che faccio volontariato da dodici anni e mi occupo di informazione, e sulle galere "la so lunga", conoscevo realmente la vera vita lì dentro. Ho visto, in una notte di festa, persone, che di giorno incontro in redazione in una situazione di "quasi normalità", affacciarsi tra le sbarre, strette in tre in spazi pensati per uno, ho guardato dentro quelle che il Regolamento penitenziario chiama "camere di pernottamento" e mi si è chiuso lo stomaco a vedere che cosa può voler dire la convivenza forzata quando si è accatastati in un buco dove ci si deve muovere a turno, ho allungato lo sguardo sull’angolo cucina che è anche un cesso, sulle docce verdi di muschio, cinque che adesso devono servire per 75 persone.

E ho fatto una riflessione: la Casa di reclusione di Padova è un "buon carcere" con ottime attività lavorative, una bella biblioteca, la redazione di Ristretti Orizzonti, e le televisioni vengono un giorno sì e uno no a riprendere queste "buone e brave" carceri, ma le galere per "conoscerle" bisogna vederle da vicino entrando nelle sezioni,senza troppo preavviso, magari anche di notte, fermandosi a respirare gli odori, guardando le facce di chi passa venti e più ore in branda perché non c’è proprio nient’altro da fare.

La nostra redazione si sta battendo da anni perché le carceri siano luoghi "aperti", da cui anche le persone detenute possano far uscire una informazione più libera possibile, e in cui giornalisti televisivi, radiofonici e della carta stampata possano entrare per vedere e raccontare la vita "dentro". Per questo riteniamo importante la richiesta, avanzata dal quotidiano Il Manifesto e dall’Associazione Antigone, di veder riconosciuto ai giornalisti il diritto di entrare nelle carceri per visitare sezioni e reparti detentivi, senza ricevere ingiustificati dinieghi.

Il problema della trasparenza è davvero fondamentale nelle sovraffollate galere italiane: ce ne accorgiamo amaramente ogni giorno, quando raccogliamo i dati per il nostro dossier "Morire di carcere", e ci scontriamo con le grandi omertà di storie come quella di Stefano Cucchi, ma anche con i piccoli silenzi, come quelli che riguardano certi suicidi per cui non si riesce neppure a sapere il nome e il cognome del detenuto che si è ucciso.

E poi riceviamo le segnalazioni di padri, madri, fratelli, sorelle di persone detenute che "di carcere" sono morte, e ogni volta emerge la difficoltà delle istituzioni a misurarsi con la trasparenza, e a essere chiare e umane quanto basta per trattare i parenti dei detenuti da persone, informarli quando succede qualcosa a un loro caro, e non dimenticare mai che è meglio per tutti se le carceri sono luoghi che si aprono senza segreti all’informazione.

Per questo è importante, e va ripetuta, l’esperienza che ha fatto la nostra redazione, di organizzare, con l’Ordine dei giornalisti del Veneto, un seminario di formazione sui temi dell’esecuzione della pena, dedicato proprio a chi poi dovrebbe informare su queste questioni. Un seminario in cui a raccontare la galera, a spiegare le misure alternative, a smontare tanti stereotipi sulla "certezza della pena" sono stati da una parte i magistrati di sorveglianza, dall’altra i detenuti stessi. Sessanta giornalisti hanno partecipato, e si sono misurati proprio sulla necessità che le carceri siano "aperte e trasparenti", ma anche che l’informazione sappia vedere quello che succede "dentro" senza fermarsi ai luoghi comuni e alle semplificazioni.

Giustizia: che i giornalisti possano raccontare le nostre carceri

di Marta Bonafoni (Direttore responsabile di Radio Popolare, Roma)

 

www.linkontro.info, 25 gennaio 2010

 

"Ristretto". Nel dizionario di italiano si legge: "racchiuso, stretto, limitato, angusto". Ristretto è anche uno dei sinonimi che gli stessi detenuti usano per definire la propria condizione di reclusi. Limitati, appunto. Ristretta e limitata sempre di più è oggi la possibilità per i giornalisti di entrare nelle carceri. Per raccontare. Fare sapere.

Mica solo i fatti tragici che si consumano lì dentro, cosa peraltro fondamentale - quel racconto - alla salute stessa di una democrazia. Ma la quotidianità dei penitenziari, la vita dei reclusi. Perché stare dentro non può e non deve significare essere fuori: dalla realtà e dal racconto della stessa.

Non so se vi è capitato durante le feste appena passate di guardare qualche Tg in cui, improvvisamente, si sono in effetti aperti i cancelli di un carcere romano. Era arrivata la Befana - si diceva - in quei giorni in cui la retorica (capitanata dai mass-media) dice che bisogna "essere tutti più buoni"! A me è capitato di vedere un paio di quei servizi: le telecamere indugiavano sui visi dei figli dei detenuti, sulle facce dei reclusi. Un pezzo di colore - come si dice - confezionato su quei volti grigi e su sorrisi rari. Marziani, sembravano, quegli uomini e quelle donne inquadrati sul piccolo schermo.

Specie rare, come ti può capitare di vederle al Bioparco. Anzi no, perché i servizi sulle bestie nelle gabbie del Bioparco sono decisamente di più di quelli che passano in televisione per raccontare le carceri italiane. Una delle emozioni più forti fino ad oggi provate facendo la giornalista mi ha investito alcuni anni fa ascoltando Radio Popolare di Milano e la sua trasmissione Fuori di cella, con i familiari dei detenuti a salutare i loro parenti reclusi: quelli da una parte al telefono, gli altri in cella con le radioline accese.

Era, quella, l’emozione di una possibilità. Per i diretti interessati, che per un attimo potevano entrare in comunicazione tra loro oltre alla restrizione. Per i giornalisti, che troppo spesso dimenticano che si può - o si deve - svolgere questo mestiere non per fare da megafono ai forti ma per dare voce ai deboli. Per la politica e le istituzioni (anche quelle penitenziarie), perché la conoscenza e la trasparenza dovrebbero essere sempre amiche del buon governo.

Poi c’è il dramma delle carceri, come quello vissuto fino a esserne ucciso da Stefano Cucchi. Anche in quel caso Stefano sarebbe rimasto solo un numero, se non ci fosse stato il coraggio della sua famiglia a mostrarne le foto del supplizio. Prima di quelle immagini la morte di Stefano non era una notizia. Dopo, sono arrivate le prime pagine. Abbiamo visto: per nessuno è stato più possibile fare finta di niente. Dovrebbe essere sempre così, e non solo quando ormai è troppo tardi.

Giustizia: un’amnistia di legalità, contro l’amnistia "di classe"

di Valter Vecellio

 

Agenzia Radicale, 25 gennaio 2010

 

Tra gli obiettivi del Satyagraha, che tra le altre iniziative vede impegnato Marco Pannella in uno sciopero della fame, oltre alla verità sulla guerra in Irak e sullo stato delle trattative tra da Cina e tibetani, la disastrosa situazione non solo delle carceri, ma dell’intero pianeta giustizia.

La conferma di quanto la situazione sia drammatica e di quanto abbiano ragione i radicali ad agitare e sollevare la questione, viene dal ministro della Giustizia Alfano. Il ministro è intervenuto al Senato e alla Camera, e il quadro che ha fornito è desolante.

Il ministro ha riferito che a oggi risultano pendenti 5.625.057 procedimenti civili, con un aumento del 3 per cento rispetto al 2008; 3.270.979 procedimenti penali, con una riduzione modesta rispetto all’anno precedente; 65.067 detenuti reclusi in 204 strutture penitenziarie; 20.959 minorenni sono segnalati dall’autorità giudiziaria minorile agli uffici di servizio sociale per i minorenni. Pensate si effettuano 28 milioni di notifiche manuali ogni anno, 112 mila al giorno. Ogni anno vengono spesi 80 milioni di euro ogni anno per dichiarare prescritti 170 mila processi, 465 al giorno, festivi compresi. Oltre 30 mila cittadini hanno chiesto di essere indennizzati a causa dell’irragionevole durata del processo, ottenendo decine di milioni di euro di risarcimenti, con un trend di crescita delle richieste pari al 40 per cento l’anno. La giustizia costa 8 miliardi di euro l’anno, cioè circa 30 milioni di euro per ogni giornata lavorativa.

Cifre che documentano un letterale fallimento. Una situazione cronica, una metastasi che necessita provvedimenti urgenti e coraggiosi. Tra le varie cifre di questo sfascio, Alfano ha riferito quelle relative alla prescrizione: 170mila processi che - letteralmente, ogni anno, vanno a puttane, 465 ogni giorno domeniche e feste comprese. E hanno il coraggio, il Governo, il ministro della Giustizia, la maggioranza di centro-destra, demagoghi e forcaioli di destra, di centro e di sinistra di dire che la proposta di studiare un’amnistia che sgomberi le scrivanie dei magistrati di migliaia di fascicoli di reati minori, destinati comunque ad andare al macero, è una proposta che offende la coscienza e la civiltà giuridica. E non offendono invece i 170mila processi prescritti ogni anno, 465 ogni giorno domeniche e feste comprese.

C’è da giurare che quei 170mila processi prescritti, 465 processi ogni giorno, non sono quelli che vedono imputato un tossicodipendente o un extracomunitario. C’è da giurare che tanti di quei 170mila processi vedono imputati che si possono permettere avvocati con buone amicizie e capaci di escogitare sistemi e scappatoie, per cui il processo si blocca fino alla prescrizione. La quotidiana amnistia, insomma, di massa e di classe. Lo dice il ministro della Giustizia: 170mila processi prescritti, 465 processi ogni giorno, domeniche e feste comprese.

Ha ragione Marco Pannella, in sciopero della fame anche per affermare e far conoscere questa verità. E dovremmo trovare il modo di sostenere questa giusta lotta, farla conoscere, affermarne i contenuti; in una parola c’è innanzitutto da conquistare il fondamentale diritto di conoscere e di essere conosciuti. Non sarà una lotta facile, non sarà una lotta breve.

Giustizia: esproprio veloce per i terreni su cui costruire carceri

 

Ansa, 25 gennaio 2010

 

"Faremo in fretta nuove carceri", ha detto il ministro per la giustizia, Angelino Alfano. Per rendere più rapido il delicato compito affidato al commissario straordinario per il sovrappopolamento degli istituti penitenziari, il governo è pronto a sfoderare al Senato, nell’ambito del "Decreto rifiuti e Protezione civile", poteri di esproprio veloce dei terreni dove sorgeranno le nuove strutture. Il commissario individuerà le aree d’intesa con il governatore della regione, sentiti i comuni, con un provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità e di occupazione d’urgenza. Le indennità di occupazione o di espropriazione, altra novità, saranno determinata entro sei mesi dall’immissione in possesso, in base alle precedenti determinazioni urbanistiche.

Giustizia: rieducazione non è un problema di ingegneria civile

di Marcello Cocco

 

L’Unione Sarda, 25 gennaio 2010

 

Quante cose ci sarebbero da chiedergli. Perché Renato Curcio è uno di quei personaggi che hanno scritto la storia italiana recente: in quel lontano settembre del 1970, insieme a Mara Cagol e Alberto Franceschini, creò le Brigate Rosse. Ma, adesso, Renato Curcio non vuole più sentir parlare di quel periodo e neanche di tutti gli avvenimenti recenti legati, in un modo o nell’altro, a quella fase storica.

"Non posso e non voglio farlo", spiega, "perché sono qui in un’altra veste: sono un socio e il direttore editoriale della cooperativa Sensibili alle foglie. Mi soffermo solo su quegli argomenti legati all’attività della cooperativa". Il problema delle carceri, per esempio. A proposito, che cosa ne pensa del "piano carceri" varato dal governo? "Una falsa soluzione", taglia corto.

L’incontro. Il fondatore delle Brigate Rosse arriva alla sede dell’Assostampa (il sindacato dei giornalisti), chiamato dall’associazione "Socialismo diritti riforme" per presentare Strabismi, il quarto libro di Annino Mele, l’ergastolano di Mamoiada, in carcere da 23 anni. "L’ho conosciuto", racconta, "nel carcere speciale di Termini Imerese dove stava scontando una pena di tre anni per un errore giudiziario". Un errore al quale fu posto rimedio. Ma che non ha impedito che il rapporto tra i due diventasse sempre più saldo. "Una fortuna incontrare questo grande narratore, affabulatore e cultore della cultura sarda". Un rapporto che ha portato Curcio, nel frattempo uscito dal carcere e diventato socio della cooperativa Sensibili alle foglie, a editare i quattro libri di Mele.

I libri. Opere che, spiega Curcio, mettono l’accento sulla passione civile di Mele. "Annino", chiarisce, "non è un ribelle. Parte del principio che se la società ha stabilito regole per chi sta in carcere, quelle regole devono essere rispettate". Cosa che spesso non accade negli istituti di pena. E questa sua denuncia ha finito con il creargli non pochi problemi. "Chi è condannato all’ergastolo può sperare, comunque, di uscire dal carcere se, durante la pena, mantiene una condotta irreprensibile". Ma la condotta di Mele non viene, forse, considerata tale perché lui non ha paura di denunciare".

La situazione. Un tema, quello delle carceri, molto sentito dall’ex consigliere regionale Maria Grazia Calligaris, presidente di "Socialismo diritti riforme". Lei è andata a visitare anche il luogo dove a Uta sorgerà il nuovo carcere. "Uno spazio che confina con due discariche. E vicino all’ex Valriso da dove arriva un fetore insopportabile". Per preparare l’incontro ha anche raccolto alcuni dati. "Nelle carceri sarde ci sono 33 ergastolani a Nuoro, 14 a Cagliari, 6 ad Alghero, 1 a Oristano e Sassari".

Le riflessioni. L’incontro, si diceva, serve per presentare il libro di Annino Mele. Ma diventa anche l’occasione per riflettere sui problemi delle carceri: lo fanno l’assessore provinciale alla Pubblica istruzione Valentino Savona, Evelino Loi dell’associazione Detenuti non violenti e Ettore Cannavera della comunità La Collina. E lo fa, soprattutto, Renato Curcio. Inutile tentare di cambiare discorso: che cosa ne pensa degli arresti legati alle nuove Brigate Rosse? "Non sono un grillo parlante. Non mi occupo di questioni che non conosco". Il "piano carceri"? "Una falsa soluzione. Tutto si trasforma in un problema di ingegneria civile. Non si riflette, invece, sull’identità dell’istituzione carcere". E in Italia le carceri sono sovraffollate, i detenuti si suicidano. "La morte è una sconfitta dell’istituzione, come se, a fine anno, una scuola bocciasse tutti gli alunni". La soluzione? "In tutta Europa si parla di alternative rispetto alla detenzione: i due terzi dei detenuti potrebbero essere collocati in soluzioni diverse. E, invece, qui si continua a costruire nuove carceri".

Giustizia: Eurispes; cala fiducia italiani a polizia penitenziaria

 

Apcom, 25 gennaio 2010

 

Aumenta la fiducia degli italiani verso le forze dell’ordine. È quanto emerge dal rapporto Italia 2010 dell’Eurispes, che sarà presentato il 29 gennaio a Roma. Secondo l’analisi, il consenso verso i carabinieri è aumentato di quasi sei punti percentuali, passando dal 69,6% del 2009 al 75,3% del 2010. Ma anche la polizia registra un aumento di fiducia analogo, passando dal 63,3% al 67,2%.

Di segno contrario, invece, il trend dei consensi verso la polizia penitenziaria, che evidenziano un calo di quasi cinque punti percentuali. "Con tutta probabilità - spiega l’Istituto - questo risultato è anche il frutto dei recenti fatti di cronaca (presunte violenze nei confronti dei detenuti, ecc.) che hanno contribuito ad influenzare l’opinione pubblica".

"Prendendo in esame l’area politica di riferimento - si legge nel rapporto - emerge che tra coloro che si collocano nell’area di centro vi è una maggiore propensione nell’accordare fiducia ai Carabinieri (80,6%), seguiti dal centro-destra (78,3%). Di particolare interesse appare il giudizio positivo espresso dal centro-sinistra (78,2%) e dalla sinistra (75,4%), segno evidente del superamento di un’antica distanza e diffidenza che avevano segnato negli anni passati i rapporti tra l’opinione pubblica di sinistra e i carabinieri. Fiduciosi nell’Arma, in misura minore anche rispetto a chi non si riconosce in nessuna area politica (71,7%) sono coloro i quali dichiarano di essere di destra (69,7%)".

Giustizia: si riapre il caso Lonzi lo "Stefano Cucchi di Livorno"

di Osvaldo Sabato

 

L’Unità, 25 gennaio 2010

 

La morte di Marcello Lonzi, il detenuto di 29 anni trovato cadavere nel carcere di Livorno nel luglio del 2003, è ancora avvolta nel mistero. La verità resta lontana e la madre presenta una nuova denuncia.

Il suo cadavere viene trovato dal compagno di cella disteso sul pavimento, tra la porta e il radiatore, il volto tumefatto, numerose ecchimosi alla testa e al torace. È 111 luglio del 2003 il giovane livornese Marcello Lonzi muore nel carcere livornese delle Sughere. Una strana morte "naturale". Poche settimane dopo il caso viene chiuso: ufficialmente il decesso è stato causato da un arresto cardiocircolatorio. Ma come si spiegano le gravi ferite, due buchi in testa e le costole rotte sul corpo di Marcello Lonzi? Le foto choc del cadavere fanno pensare più ad un pestaggio. Ma chi è stato, dove e perché?

La madre di Marcello, Maria Ciuffi, venerdì scorso ha presentato una nuova denuncia in questura, ipotizzando il reato di pestaggio non nel carcere delle Sughere, ma al momento dell’arresto: "Come è successo a Stefano Cucchi" commenta. La signora Ciuffi è da anni che si batte per accertare la verità, ci sono state interrogazioni parlamentari, lei

continua a chiedere giustizia, ha di fatto costretto la Procura livornese ad aprire il caso e a riesumare il cadavere. Il pm Antonio Giaconi, ha riascoltato il compagno di cella che aveva trovato il cadavere e alcuni agenti penitenziari che in quel giorno erano in servizio. La perizia disposta dal pm Giaconi dichiara che la morte è compatibile con l’aggravamento di una coronaropatia, di cui Marcello Lonzi ne soffriva da tempo. Ipotesi che non convince la madre: "Lo hanno pestato, come Cucchi" insiste. "Non lo invento io" aggiunge Maria Ciuffi "lo apprendo leggendo la relazione della dottoressa Floriana Monciotti". Cosa è scritto? Il medico legale nella seconda pagina della sua relazione precisa che dal diario clinico emerge come Marcello Lonzi il 3 marzo 2003, cioè lo stesso giorno che fu fermato e arrestato dalla polizia per un furto, abbia riferito "appena giunto alle Sughere di aver subito percosse e presenta una ferita lacero-contusa al labro inferiore". La novità è clamorosa. "Noi - precisa la madre - tutto questo non lo abbiamo mai saputo. In sette anni non ce lo ha mai detto nessuno".

 

Il diario clinico

 

Nel diario clinico la dottoressa Monciotti sottolinea che sul corpo di Marcello si vedono "plurimi escoriazioni e lividi a cosce e gambe, dolore all’emitorace sinistro, si trascina sulla gamba destra perché la sinistra riferisce che è contusa". La relazione medico legale desume che "le su indicate lesioni sono state causate dal personale della polizia di Stato al momento del suo arresto, oppure durante il trasporto in carcere". Parole che smentiscono la tesi del decesso per un arresto cardiocircolatorio. "In sette anni io non sapevo che Marcello era stato picchiato dalla polizia durante l’arresto" spiega Maria Ciuffi.

"Voglio che sia fatta chiarezza - prosegue - e che anche questa mia nuova azione entri a far parte dell’indagine in corso. Perché il pm Giaconi non mi ha mai detto del diario clinico di mio figlio?" si chiede la madre di Marcello Lonzi. "Forse è vero che non è stato picchiato dentro la cella, ma prima di entrarci". Sulla vicenda interviene anche Irene Testa, segretario dell’associazione Il Detenuto Ignoto: "È necessario che anche sulla morte di Marcello Lonzi, e di tutti gli altri - italiani e stranieri - che sono stati pestati e alle volte sono anche morti, verosimilmente per mano di chi agiva in nome dello Stato, sia fatta luce, verità e giustizia, perché in Italia non si può continuare a morire così".

La similitudine con il caso Cucchi, secondo la signora Ciuffi, è evidente. Per fare luce il 2 novembre scorso ha scritto una lettera al ministro della Giustizia, Angelino Alfano. "Dopo la morte di mio figlio non ci fu tanto chiasso come si sta facendo adesso con il caso Cucchi" afferma. Ma dal ministero di via Arenula, ancora nessuna risposta. Nella seconda inchiesta della procura livornese sono indagate tre persone. "Non ci sto ad essere presa in giro, davvero si può morire per essere caduto su un secchio? Con due buchi profondi fino all’osso, la frattura del polso sinistro" insiste la donna. "Voglio che sia fatta luce. Non parlo solo per mio figlio" scrive nella lettera ad Alfano "ma per tutte quelle madri che non hanno avuto come me lo stesso trattamento riservato al caso Cucchi". I timori sull’accertamento delle responsabilità si fanno strada nei pensieri della madre di Marcello Lonzi: "Forse non si vuole colpire qualcuno che sta in alto, perché sono evidenti i segni delle percosse, se tutta questa vicenda si trascina da anni, qualcosa che non torna c’è".

Giustizia: Comunità Giovanni XXIII "indignati suicidi carcere"

 

9Colonne, 25 gennaio 2010

 

"Dopo l’ennesima morte in carcere, la Comunità Papa Giovanni XXIII, indignata, chiede al Governo di impegnarsi concretamente per rendere la pena un tempo di rinascita e non di morte, anche attraverso una valutazione psico-fisica che verifichi l’idoneità della persona alla condizione di detenzione carceraria e chiede alla magistratura di favorire l’applicazione di tutte le misure alternative alla detenzione in carcere quando questa metta in pericolo la vita della persona che in ogni condizione è sacra e deve essere protetta".

Lo affermano in una nota congiunta Giovanni Paolo Ramonda e Mauro Cavicchioli, responsabile generale ed animatore generale del servizio carcere della Comunità fondata da don Oreste Benzi in merito alla morte del giovane detenuto nella Casa di reclusione di Spoleto che mercoledì scorso si è suicidato.

Giustizia: Sappe; molte aspettative, per l'incontro con Alfano

 

Apcom, 25 gennaio 2010

 

"Ci aspettiamo molto dal piano carceri del Governo": così Donato Capece, il segretario generale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, in vista dell’incontro di martedì 26 gennaio con il ministro della Giustizia Angelino Alfano, che illustrerà in quella sede ai sindacati il piano carceri recentemente approvato in Consiglio dei Ministri.

"Il sistema penitenziario nella sua interezza - spiega Capece - ha bisogno di una serie di urgenti interventi. Sovraffollamento penitenziario e carenza di poliziotti sono i due argomenti in cima alla lista, ma non sono gli unici. che per quello che ci è dato sapere intende intervenire concretamente sulle endemiche criticità penitenziarie, anche perché è l’unica cosa di concretezza politica che viene fatto dopo l’eccezionale interesse dimostrato a Ferragosto da molti esponenti politici nei confronti della disastrosa situazione in cui versa il nostro sistema penitenziario che poi però nulla di concreto hanno fatto per migliorare la situazione penitenziaria".

Il piano carceri, prosegue Capece, sembra dare invece una "scossa salutare" al sistema. "Vanno dunque bene - conclude - le previste procedure edilizie straordinarie, le assunzioni di 2.000 unità di Polizia Penitenziaria e le norme di accompagnamento che attenuino il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un piccolissimo residuo di pena".

Giustizia: gli ergastolani scrivono a Papa; condanna disumana

 

Agi, 25 gennaio 2010

 

"Santo Padre, a cosa serve e a chi serve il carcere a vita? Si diventa non viventi. A che serve vendicarsi in questo modo?". Lo scrivono al Papa un gruppo di ergastolani che insieme alla Comunità Papa Giovanni XXIII hanno iniziato una campagna per l’abolizione dell’ergastolo, specie di quello "ostativo" che nega ogni beneficio penitenziario (permessi, semilibertà ecc.). Nell’appello diffuso dalla associazione si sottolinea che per gli ergastolani con condanna "ostativa" si tratta di "una pena di morte mascherata".

"L’ergastolo ostativo - spiega una nota dell’associazione fondata da don Benzi - è una pena che viene data a chi fa parte di un’ associazione a delinquere e che ha partecipato a vario titolo a un omicidio, dall’esecutore materiale all’ultimo favoreggiatore. Non è invece previsto l’ergastolo ostativo agli stupratori, ai pedofili e a tutti coloro che ledono una persona fino ad ucciderla". L’unica possibilità per i condannati è quella di diventare "collaboratori di giustizia per l’arresto di altre persone". "Chi invece non collabora - conclude il successore di Benzi, Paolo Raimonda - per paura di vendette" o perché "non è in grado di aggiungere altro a quanto già emerso" resterà in carcere per sempre.

Giustizia; un appello al Papa... "anche per noi una speranza"

di Giuseppe Angelini e Nadia Bizzotto

 

Sempre, 25 gennaio 2010

 

Se hanno sbagliato sono disposti a pagare. Ma che senso ha una pena che non ha mai fine? E perché impedire loro quel minimo di relazioni che possano farli sentire ancora persone? Nessuno ascolta la loro voce. E allora gli ergastolani hanno deciso di rivolgersi al Papa.

"Vogliamo scrivere al Papa Benedetto XVI perché lui è anche il nostro Papà..." Queste sono le parole di un uomo condannato ad una "pena di morte mascherata", come ha definito Paolo Ramonda l’ergastolo ostativo. Questo ergastolano, come altri 1300 nelle sue condizioni, non uscirà dal carcere, se non da morto, pur avendo scontato già oltre 20 anni di pena. Stessa sorte per Ivano e Angelo, arrestati a 19 anni, amici e compagni di sventura in un minuscolo paesino siciliano dove le regole per sopravvivere le devi imparare dalla strada, non dalla scuola. Ragazzi giovanissimi, che non avrebbero mai immaginato di vivere l’incubo delle bande di strada e del conseguente carcere a vita. I loro sorrisi sono sempre solari, ci chiediamo come fanno ad essere così ironici e simpatici: hanno passato più tempo della loro vita dentro che fuori. Loro dicono che per sopravvivere alla condanna a morte al rallentatore ci devi scherzare su, perché se abbassi la guardia e ti rendi conto che non hai futuro ti viene voglia di farla finita.

A Ivano è nato un nipotino pochi mesi fa: è la sua vita, tutta la sua famiglia è la sua vita, forse l’unico motivo per non mollare. Angelo ha una voce che potrebbe "fare le scarpe" a Gigi D’Alessio, quando è il momento di salutarci ci stringe le mani e va via veloce, quasi che quel momento gli facesse tornare in mente che lui resterà per sempre lì.

L’ergastolo ostativo è stare in carcere per tutta la vita, è una pena che viene data a chi fa parte di un’ associazione a delinquere e che ha partecipato a vario titolo a un omicidio, dall’esecutore materiale all’ultimo favoreggiatore. Non è invece previsto l’ergastolo ostativo agli stupratori, ai pedofili e a tutti coloro che ledono una persona fino ad ucciderla. Ostativo vuol dire che è negato ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone.

Chi invece non collabora, per paura di vendette omicide sulla propria famiglia, per non mettere un’altra persona in carcere al proprio posto o perché non è in grado di aggiungere altro a quanto già emerso sull’associazione di cui ha fatto parte, queste persone sono condannate a restare per tutti i giorni della propria vita in carcere.

Si continua a parlare di "pentiti", mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente "collaboratori di giustizia", perché è evidente che la collaborazione è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il pentimento interiore della persona. In realtà sono gli anni di carcere, nella riflessione e nella sofferenza, che portano ad una revisione interiore sugli errori del passato. Tutto questo nonostante un sistema carcerario che abbandona i detenuti a se stessi e che non agevola affatto la rieducazione e, nel caso degli ergastolani ostativi, esclude completamente ogni speranza di reinserimento sociale.

Trento: nel carcere, in celle sovraffollate dove non si vive più

di Chiara Bert

 

Il Trentino, 25 gennaio 2010

 

Se si è in tre in una cella da uno e vuoi stare in piedi, ci si deve dare il cambio e quasi tutto il tempo lo passi in branda, disteso. Anche fare una partita a carte è complicato. Lo spazio manca ma non hai alternative perché lì ci devi stare comunque. Il carcere di Trento scoppia: 164 detenuti in una struttura da 90.

Il picco si è toccato lo scorso fine settimana, quando si è arrivati a quota 173 dopo due operazioni di polizia e carabinieri che hanno portato dietro le sbarre una ventina di persone. Poi una decina di loro sono state trasferite, ma cambia poco, anzi niente. Da tempo ormai la situazione ha superato il livello di guardia: un anno e mezzo fa i detenuti erano 120 ed erano già troppi. Trento non è diversa dalle altre carceri italiane, dove il problema del sovraffollamento sta esplodendo e sono già 13 i suicidi dall’inizio dell’anno. Trento aspetta il nuovo carcere a Spini di Gardolo, che sarà pronto per l’estate e avrà 240 posti, ma intanto fa i conti con una struttura vecchia e fatiscente, un intero braccio chiuso perché inagibile, detenuti ammassati e sofferenze che aumentano, per chi vive e per chi lavora in via Pilati.

Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, ci è entrato anche ieri, per la quinta volta in pochi mesi. Il suo è il racconto di chi ha visto com’è dentro, oltre il portone che oltrepassano solo gli addetti ai lavori. "Siamo sull’orlo di un baratro", è la frase che usa per descrivere il pezzo di mondo oltre le sbarre. Un mondo che sta dietro tante porte, porte che gli agenti di polizia penitenziaria aprono e chiudono con enormi mazzi di chiavi. Un mondo dove le giornate sono scandite dai tre pasti al giorno, preparati in cucina da alcuni detenuti sotto il controllo degli agenti. Per i 164 carcerati, 106 stranieri, 80 clandestini, la giornata comincia alle 8 e finisce alle 16.

Le regole sono ferree, gli orari pure: per cinque ore al giorno si può uscire dalla cella, lo chiamano "il passeggio", in un piccolo cortile interno di cemento circondato da un muro dove i piccioni sono l’unica presenza vitale. La giornata è lunghissima, infinita. Le celle strapiene non sono solo una costrizione fisica, due metri quadrati per detenuto, una convivenza forzata tra persone ed etnie diverse. Le sanzioni disciplinari diventano impossibili, chi dovrebbe stare in isolamento non ci sta. Lo stress e la sofferenza si accumulano e ci si affida alla buona sorte e all’impegno di tutti per evitare che la rabbia esploda.

La psicologa c’è, ma 20 ore a settimana sono niente per una popolazione in queste condizioni. E così aumenta il ricorso ai sedativi, un vuoto che si aggiunge al vuoto già esistente. La fatica non è solo dei detenuti, ma anche degli agenti - 103 in organico, 90 effettivi - che ogni giorno lavorano in trincea, affidandosi all’esperienza e alla propria umanità.

È l’ozio a dominare la giornata, ed è un vuoto costante, l’attesa che il tempo passi, sapendo che è un tempo inutile. Dalle poche parole dei carcerati emergono scoraggiamento e frustrazione. Chi è fortunato lavora qualche ora al giorno in un laboratorio di assemblaggio e porta a casa 150 euro al mese, ma sono pochi: solo 8 per tre ore al giorno dal lunedì al venerdì, su turni di due mesi. In un anno si arriva a una cinquantina di detenuti, meno di un terzo. Ma i finanziamenti negli anni sono stati tagliati di due terzi e le possibilità si riducono. Va meglio ai cuochi, che per 5 ore sono impegnati fuori dalla cella, occupati con le mani e con la testa. Va meglio a chi segue i corsi, trimestrali o più lunghi, la scuola elementare, le medie, l’istituto per geometri: anche studiare aiuta a darsi un obiettivo, una speranza per il dopo, per quando arriverà il momento di uscire.

Il 90 per cento dei carcerati è già stato in prigione, la gran parte ci ritorna per reati legati alla droga. È la sconfitta, la scommessa persa della rieducazione. Qualcuno riesce a cambiare, chi è più forte quando entra, chi ha una famiglia alle spalle, vicina. Ma quasi il 70 per cento sono stranieri che non hanno nessuno fuori ad aspettarli e la maggior parte di loro, clandestini, non può accedere alle pene alternative. Il nuovo carcere è quasi pronto, a Spini di Gardolo: più posti, lavori per 60 milioni. Ma servirà anche altro per non cadere nel baratro.

Cagliari: la Provincia ingaggia gli "eco-detenuti" di Is Arenas

 

La Nuova Sardegna, 25 gennaio 2010

 

Niente a che vedere con i lavori forzati d’altri tempi, solo un impiego di pubblica utilità e di reinserimento sociale. I detenuti di Is Arenas, molti dei quali godono del regime di semilibertà all’interno dell’istituto nato come colonia penale, potrebbero essere utilizzati per la pulizia della vicina spiaggia di Scivu-Piscinas. Ma non solo la pulizia della spiaggia, ci sono anche i parchi e le aree pubbliche nella bozza di convenzione che la Provincia del Medio Campidano presenterà a breve al ministero della Giustizia e alla direzione di Is Arenas, facendo seguito a una delibera votata all’unanimità dal consiglio provinciale su proposta di nove consiglieri di maggioranza e opposizione, prima firmataria Simona Lobina di Rifondazione comunista.

Il presidente della Provincia Fulvio Tocco è stato "impegnato" dal Consiglio a sottoporre un protocollo d’intesa a ministero e direzione carceraria, al Comune di Arbus e ad altri eventualmente interessati alla pulizia di aree pubbliche. L’iniziativa della Provincia non è unica nel suo genere. Altri enti pubblici (non in Sardegna) hanno stipulato una uguale convenzione con il Ministero, con risultati altamente positivi per tutti. Una sola domanda: chi vigilerà sugli eco-detenuti visto che a Is Arenas il personale penitenziario è già abbondantemente in sottonumero?

Pavia: innocente in carcere; ho perso lavoro, chiederò i danni

di Claudio Malvicini

 

La Provincia Pavese, 25 gennaio 2010

 

Ha passato quasi tre mesi in carcere, ma era innocente. Francesco Caruso non era l’autore delle rapine al market Ld di Vigevano e al Brico Ok di Mortara dell’estate 2008. Il 33enne Caruso è entrato nel carcere dei Piccolini il 17 settembre scorso e ne è uscito a inizio dicembre, ma da allora non è più riuscito a trovare un lavoro, perché segnato da quell’errore giudiziario. Caruso vive in una casa Aler di via Gramsci con la moglie e quattro figli (tra i 10 e i 3 anni), ma ne ha anche due di 18 e 14 che vivono con la prima moglie. "Sto preparando l’istanza alla Corte d’appello di Milano per chiedere i danni per ingiusta detenzione - spiega il suo avvocato Carlo Veronelli.

Francesco era finito in carcere perché una cassiera, vedendo una sua foto, aveva sostenuto che fosse il bandito, poi abbiamo chiesto l’incidente probatorio davanti al Gup Vitelli e nessuno dei sei testimoni della rapina l’ha riconosciuto". In pratica Caruso è stato messo in fila con altre persone dietro a un vetro e nessuno dei testimoni l’ha indicato come autore delle due rapine. Del resto lui è alto un metro e 70 e ha i capelli corti, mentre il rapinatore arrivava al metro e 80 e aveva i capelli lunghi. A quel punto Caruso è stato prosciolto, ma quell’errore gli ha cambiato la vita.

"Prima del 2008 ho trascorso alcuni anni in carcere, ma ho saldato i conti con la giustizia - dice Caruso - . In vita mia ho fatto di tutto: il muratore, il falegname, il giardiniere, il becchino, l’autista, ma ho lavorato anche alla catena di montaggio, ho fatto le pulizie e pure lo scaricatore. Ogni volta però scoprivano che ero stato in carcere e mi licenziavano". Fino all’assunzione da parte di una cooperativa sociale di Sannazzaro.

"Nei mesi delle due rapine lavoravo come inumatore con loro - spiega. Quei tre mesi in carcere mi hanno fatto perdere il posto e quando sono uscito ho bussato alla porta di tutte le cooperative della zona, sociali e non, ma non ho mai ottenuto risposta. Mi sono rivolto anche alle agenzie interinali, ma le cose non sono andate meglio. Qualcuno mi chiede il curriculum e poi non succede nulla, altri mi dicono di ripassare a febbraio. E nel frattempo come mangiamo"? Caruso è seguito dai servizi sociali del Comune.

"L’assistente sociale mi ha proposto un lavoro da 330 euro al mese per otto ore al giorno, ma se avessi accettato, non avrei più avuto diritto al contributo per le bollette - dice Caruso. E come mantengo la famiglia con 330 euro al mese"? Come se non bastasse l’avvocato dell’Aler gli ha comunicato che il 20 febbraio ci sarà lo sfratto se non ricomincia a pagare l’affitto. "Con che soldi lo pago se non lavoro? - spiega l’ex detenuto. Con noi vive anche mia suocera, che però ha perso il lavoro e non è ancora in pensione. In queste settimane ho fatto dei lavoretti, ma ne ho ricavato pochi euro. Ci sono molte persone nella mia condizione, ma lo Stato e i Comuni ci ignorano". Il conto con la giustizia l’ha pagato, ma è come se gli interessi non finissero mai.

Lodi: parole e foto sul carcere, sulla libertà e… la sua ricerca

di Luciana Grosso

 

Il Cittadino, 25 gennaio 2010

 

Raccontare il carcere per quello che è. Un posto dove le colpe non vengono cancellate e neppure pagate. Ma dove ci sono uomini e donne. Persone cui la colpa commessa, spesso mangia l’identità, il volto, la storia. A volte persino il nome. La mostra "Libertà va cercando ch’è sì cara" inaugurata il 20 gennaio e visibile fino a ieri nella chiesa di San Cristoforo, e la tavola rotonda di venerdì sera nella Sala dei comuni della Provincia, hanno provato a scardinare questo meccanismo. Hanno provato a restituire un nome, un cognome, un volto, una storia a chi, spesso, è poco più del residuo di una colpa".

La mostra - ha detto il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano, Guido Brambilla - ci fa capire come il detenuto sia prima di tutto un Io, che in quanto tale non è definibile dal reato che ha commesso. Un Io che va compreso e la cui colpa va riconosciuta, senza ipocrisie. Se non si è riconosciuti colpevoli non si può nemmeno essere perdonati. Ma nei confronti dei colpevoli, riconosciuti tali, il carcere non deve avere né una funzione di esclusione dal resto del mondo né di cura, sostituendo il giudice con un terapeuta. Il carcere, secondo l’articolo 27 della Costituzione deve rieducare. Deve - conclude Brambilla - restituire ad un Io ferito la sua dignità. Ricordando che un uomo non è mai un’immagine scolpita sul legno".

Le parole di Stefania Mussio, direttrice del carcere di Lodi, restituiscono un’idea di carcere consapevole e conosciuto. "Assolvendo ai miei compiti mi sento, senza retorica, un operatore di giustizia, ossia sento di operare per realizzare una "giustizia giusta". Per questo ripeto sempre ai miei collaboratori e al personale che lavora con me che noi siamo lì per i detenuti. Che non significa né essere amici, né fratelli, ma ascoltare, accogliere. Ricordando che tutti gli uomini sono uguali. Sempre".

Da questo assunto muove una riflessione profonda e critica sul carcere come è oggi e come dovrebbe essere: "Il nostro sistema carcerario in cui in celle da tre stanno in sei o anche di più, in cui il personale è insufficiente, in cui le attività di riabilitazione sono poche e poco efficienti non è credibile. Nelle nostre galere le persone entrano brutte e, sovente, ne escono ancora più brutte. Questo perché hanno vissuto un’esperienza di abbandono e di mancata comprensione".

Un sistema che sembra aver dimenticato che, che prima o poi, dal carcere si esce. Per questo, occorre domandarsi che tipo di persone usciranno dopo la detenzione. Di loro, del loro reinserimento, del loro lavoro, del loro futuro si occupa Andrea Silvani, vice presidente dell’associazione milanese "Incontro e presenza" che punta a restituire alla normalità gli ex detenuti nonostante la diffidenza e l’ostilità di chi in carcere non ha mai messo piede, che ogni giorno incontra e spesso sfida.

Spagna: sciopero fame detenuti Eta contro politica carceraria

 

Apcom, 25 gennaio 2010

 

I detenuti "etarras" in Spagna e Francia hanno dato il via da stamane a uno sciopero della fame per denunciare la politica carceraria dei governi di Spagna e Francia. I membri del Collettivo dei prigionieri politici baschi dell’Eta (Eppk) hanno dato notizia della loro decisione di avviare la protesta con un comunicato trasmesso sul giornale indipendentista basco Gara. L’Eppk "vuole conferire una forza particolare (...) alla rivendicazione dello status politico che ci corrisponde". Nel comunicato non vengono dati dettagli sulle modalità dello sciopero della fame. Il collettivo riunisce 750 membri dell’organizzazione separatista armata basca, responsabile di numerosi attentati e della morte di 828 persone negli ultimi 40 anni.

 

 

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