Rassegna stampa 6 febbraio

 

Giustizia: carceri aperte ai giornalisti; ecco un primo risultato

di Eleonora Martini

 

Il Manifesto, 6 febbraio 2010

 

No, checché ne dica la pubblicità, non basterebbero i mobili Ikea a rendere più familiare e accogliente una cella del supercarcere di Sulmona, conosciuto ai più con la triste - e, secondo il direttore, falsa - nomea del "carcere dei suicidi".

Dietro le sbarre fitte colorate di verde a cui stanno aggrappate le mani di due ragazzi napoletani, dal linguaggio incerto e i denti fradici tipici dei tossicodipendenti, lo spazio è angusto e tappezzato di foto di ragazze nude. Non è facile per un giornalista riuscire ad entrare fin dentro i reparti di detenzione, di sicuro qui negli ultimi anni è la prima volta che accade. Dopo l’appello lanciato dal Manifesto e da Antigone che ha raccolto oltre 900 firme, dietro autorizzazione del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria), il direttore Sergio Romice ha concesso l’apertura dei pesanti cancelli che portano dentro le sezioni di media sicurezza.

Nella cella, un letto a castello con due posti occupa lo spazio pensato per accogliere una sola persona, tre metri per tre e in un angolo un piccolo bagno con lavabo e wc. Non è una stanza, è una gabbia con finestra (che almeno restituisce lo splendido paesaggio del monte Morrone innevato) chiusa per 21 ore al giorno: per muoversi rimane solo una fetta di pavimento larga un metro e poco più, lungo il letto. E i due ragazzi sono pure fortunati: nella sezione "internati" - dove sono rinchiusi coloro che, scontata la pena, sono stati considerati dal magistrato di sorveglianza "socialmente pericolosi"e quindi sottoposti a un nuovo regime detentivo da scontare nella più grande Casa lavoro d’Italia - hanno dovuto aggiungere una terza branda. Per mangiare si può solo stare in piedi davanti alla porta. Ma i due ragazzi napoletani si ritengono fortunati anche perché sono passati per Poggioreale: "Lì in una cella come questa ci stavamo in quattro".

Sul corridoio due detenuti trascinano a braccio un loro compagno: lo riportano in cella dopo averlo accompagnato all’infermeria per una visita. Non ce la fa a camminare, "non mangia" bisbigliano, "è in sciopero della fame". Il direttore e la responsabile dell’area trattamentale-educativa, la dottoressa Fiorella Ranalli, sminuiscono: succede spesso, dicono, che un detenuto si metta in sciopero della fame perché vuole parlare con un magistrato, come in questo caso, o

per molte altre richieste. "Nulla di grave", il detenuto sta bene, assicurano. Solo una volta, tanti anni fa, c’è stata una vera e propria rivolta dei carcerati. Ma il clima è teso, come dimostra la protesta rumorosa inscenata all’indomani dell’ultimo suicidio, quello di un ragazzo di 28 anni di Villa Literno che si è impiccato nella sua cella all’inizio di gennaio. Un altro ci ha provato pochi giorni dopo. In dieci si sono tolti la vita, tra queste mura, negli ultimi quindici anni, quasi tutti morti impiccati. Tra loro anche la direttrice del penitenziario, Armida Miserere, che il 19 aprile 2003 si sparò un colpo di pistola alla testa, e il sindaco di Roccaraso, Camillo Valentini, che in stato di arresto venne trovato nella sua cella il 16 agosto 2004 soffocato da un sacchetto di plastica stretto alla gola

da lacci per le scarpe. Anche questa volta "il carcere si è mangiato un altro ragazzo", commenta amaro un ergastolano al lavoro nella falegnameria della Casa lavoro. "Non ce l’ha fatta - aggiunge - si è messo a "castellare", a pensare, come diciamo noi, e questo non si fa: in carcere si pensa solo al presente, si vive giorno per giorno".

Doveva essere una prigione modello, il supercarcere di via Lamaccio, una struttura complessa tutta maschile con bracci di media, alta, e massima sicurezza, una piccola sezione per arrestati e la Casa-lavoro composta di una sartoria, una pelletteria, una falegnameria, una rilegatoria, un laboratorio

dove si costruiscono bambole e uno per la lavorazione dei confetti, il prodotto dolciario di Sulmona più esportato nel mondo. Sette circuiti penitenziari in tutto. Nelle 250 celle, costruite originariamente come singole, oggi vivono 485 detenuti, quasi tutti provenienti dal Sud, praticamente nessun abruzzese. Il 15% sono immigrati. Tra i detenuti con disagi psichici 140 sono in terapia psichiatrica; tra i tossicodipendenti 80 sono in trattamento al Sert, sette o otto assumono metadone. Molti i sieropositivi, qualcuno è malato di Aids, ma condividono le celle con gli altri: "Nessuna ghettizzazione", spiegano. Almeno 70 sono gli ergastolani, molti mafiosi e camorristi. I loro parenti vengono da lontano, se possono e se sono muniti di automobile, perché raggiungere il carcere con i mezzi pubblici non è proprio agevole. Quando li incontrano, nella saletta colloqui, per quattro volte al mese, sono costretti alla distanza fisica da un muretto divisorio non regolamentare secondo le nuove norme del Dap. Per abbatterlo, però, "mancano i soldi", è la giustificazione.

La Casa-lavoro, l’unica rimasta in Italia assieme a quella di Saliceto San Giuliano di Modena (Castelfranco Emilia e Favigliana recentemente sono state ridotte, malgrado gli "internati" in Italia siano quasi 1600), in venti anni di gestione non ha mai superato i 50, 70 reclusi al massimo. Prima riusciva a dare lavoro a tutti, mal pagato ma a tutti. Oggi invece, dopo l’impennata dei provvedimenti di carcerazione per i soggetti ritenuti "socialmente pericolosi", ne ospita 200.

Non tutti riescono ad avere un lavoro, anche se hanno la priorità perfino sugli ergastolani, e la turnazione è stata aumentata al massimo per poter distribuire maggiormente le misere paghe (dai 50 ai 400 euro al mese, i più pagati sono i cuochi). D’altra parte è impossibile, in un territorio depresso come questo, con una disoccupazione ufficiale superiore al 30%, e dove le fabbriche hanno chiuso una dopo l’altra negli ultimi anni, non prima però di aver attinto a ogni tipo di

fondi per il Mezzogiorno.

Così per oltre la metà dei carcerati di Sulmona, senza occupazione, la prigione è solo un parcheggio, senza alcuna progettualità di vita. E a giorni dovrebbero arrivare da Napoli altri 180 "internati". Dove li metteranno e a fare cosa, non si sa: già adesso c’è una doccia ogni 50 detenuti (una ogni 66, nella sezione "internati"), e negli ultimi tempi l’acqua calda scarseggia perché, spiegano, stanno aspettando i fondi per adeguare i servizi all’attuale sovraffollamento. La mancanza di spazi e di personale costringe all’apertura delle celle solo per due ore d’aria e due di socializzazione al giorno (anche se una circolare del Dap imporrebbe almeno otto ore di "uscita" giornaliere). Il personale turnista di polizia penitenziaria, infatti, è carente, come in ogni carcere italiano: secondo la pianta organica in servizio dovrebbero esserci almeno 330 agenti, ce ne sono 220. Un lavoro, quello del secondino, talmente stressante che ogni volta che si presenta l’occasione di elezioni amministrative, a decine scelgono di candidarsi e usufruire così del congedo straordinario di 45 giorni. Succederà anche alle prossime elezioni provinciali di marzo, e l’organico andrà sotto di altre 30-40 unità. Poi, ci sono due medici che visitano 60-70 persone al giorno, uno psichiatra per 60 ore mensili (visita tre volte a settimana) e uno psicologo per 43 ore mensili. Il Sert interno, invece, si avvale di due psicologhe presenti

qualche ora al giorno dal lunedì al venerdì. Solo alcuni medici specialisti visitano all’interno del carcere (dentisti, dermatologi). Per le altre patologie occorre fare richiesta per una visita esterna. E visto che la sanità in carcere dipende dalle Regioni, in Abruzzo va da sé si adeguerà al livello decisamente scadente. I quattro assistenti sociali inviati dall’Ufficio esecuzione penale, poi, si devono occupare anche del carcere di Avezzano e di quello dell’Aquila, e oltre all’intramurario devono seguire anche coloro che stanno scontando una pena alternativa sul territorio provinciale.

La soluzione, però, secondo il nuovo "Piano carceri" governativo sta nel costruire una nuova struttura che affianchi quella esistente: è già prevista. Mentre l’idea del nuovo commissario straordinario Franco Ionta per lenire la solitudine dei carcerati e prevenire i suicidi, è quella di istituire una "unità di ascolto" composta di agenti penitenziari che per sei ore al giorno usino la parola per tentare di alleviare le sofferenze delle anime recluse.

E invece, qui, tutti - detenuti e operatori, agenti e i pochissimi volontari che il territorio offre - chiedono quasi una sola cosa: "Lavoro". Dentro e fuori il carcere. "Una volta il target della sezione "internati" era costituito soprattutto da condannati per reati di stampo mafioso - racconta la dottoressa Ranalli -. Ora è cambiato tutto, perché quelli considerati "socialmente pericolosi" sono sostanzialmente coloro che danno fastidio alla società: disagiati psichici, tossicodipendenti, senza casa e disoccupati". Dunque, opportunità lavorative

e risorse per realizzare progetti come quello di "giustizia riparativa" che il direttore Romice sta tentando di mettere su con gli enti locali ma che stenta a decollare per mancanza di fondi. E "rivedere le norme che determinano il profilo della pericolosità sociale", come spiega Mario, ergastolano di Taranto, capo d’arte in sartoria, chiamato "il sindacalista". Per Mario la prima legge da rivedere è la Gozzini, per poter aumentare il ricorso alle pene alternative.

"Appena entrano si procede con uno screening psicologico per cercare di

prevenire i tentativi di suicidio - aggiunge Ranalli - ma la prima cosa che chiedono è di essere occupati. Non solo per passare il tempo in maniera congrua e costruttiva, ma anche per non gravare sulla famiglia. Perché la detenzione, altrimenti, da individuale diventa di tutta la famiglia".

Giustizia: in 18 anni oltre 2mila detenuti al 41bis, 182 "pentiti"

 

www.livesicilia.it, 6 febbraio 2010

 

Dal 1992 ad oggi il "carcere duro" per esponenti di spicco della criminalità organizzata ha prodotto 2.097 decreti ministeriali di nuova applicazione del 41 bis (di cui 624 annullati da diversi tribunali di sorveglianza), mentre sono stati 182 i detenuti che in questi 18 anni hanno deciso di assumere lo status di collaboratori di giustizia, tra cui ex boss di primo piano. A tirare le somme sull’efficacia del 41bis nella lotta alla criminalità organizzata è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa, che sul tema organizza a Roma, l’8 febbraio prossimo, un convegno a Roma al quale sono stati invitati il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, il procuratore capo di Bari Antonio Laudati e il segretario della Uil Angeletti.

I numeri - afferma Sarno - "testimoniano l’apporto e il contributo che il regime del carcere duro ha fornito alla lotta alle mafie. Dei 656 detenuti sottoposti, oggi, al 41-bis ben 557 sono detenuti per associazione di stampo mafioso, 46 per omicidio, 17 per estorsione, 2 traffico armi, 2 ricettazione, 3 per terrorismo, 2 per strage, 28 per traffico stupefacenti. Da sottolineare come solo 89 rivestano una posizione giuridica di imputato, quindi il regime del 41-bis è disposto prevalentemente verso soggetti già condannati in almeno un grado di giudizio". E ancora: nella suddivisione per appartenenza 252 provvedimenti di 41 bis riguardano la camorra, 203 la mafia siciliana, 110 la ndrangheta, 25 la Sacra Corona Unita.

Attualmente sono 12 gli istituti che hanno sezioni destinate ad ospitare i 41-bis: "crediamo che sia ora di istituire, finalmente, i circuiti differenziati - afferma Sarno - Bisogna determinare una omogeneità delle presenze, necessaria per definire i livelli di sicurezza e, conseguentemente, le varie attività intramurarie. Forse non aver riaperto Pianosa e l’Asinara è stata una occasione persa. Si potevano recuperare due strutture efficienti ed adatte allo scopo".

Giustizia: per i detenuti in 41-bis, gli esami in videoconferenza

di Stefano Anastasia

 

Terra, 6 febbraio 2010

 

Giornata d’esami giovedì. Non è la prima volta che mi capita di fare esami in carcere, nel ruolo privilegiato dell’esaminatore, ma quella di giovedì è stata un’esperienza nuova. Avevo iniziato con un giovane in alta sorveglianza, qualche anno fa. Bravo, studioso, lo potemmo incontrare nella biblioteca del suo Istituto: ambiente non molto dissimile dalle stanze di un dipartimento universitario, bastava dimenticare il contesto, la trafila, e non guardare la finestra (con le sbarre, ovviamente).

Scendendo per i gironi penitenziari, mi è toccato una prima volta un 41bis. Era dall’altra parte di un pesante vetro divisorio, ma la comunicazione era amplificata e ci si poteva sentire, da una parte e dall’altra, in tempo reale. Situazione difficile, ma non impossibile per un esame universitario che, nella testa di chi scrive, non è mai solo la verifica delle competenze disciplinari, ma anche un’occasione di scambio e di comunicazione, di comprensione degli interessi e delle aspettative degli studenti.

Comunque, seppure con il vetro divisorio, l’esame si fa. Certo, poi bisogna dare il verbale al poliziotto, perché faccia il giro dei locali e lo vada a far firmare allo studente, mentre ti porta il libretto che gli devi firmare tu… un po’ macchinoso, ma la galera, si sa, è così.

Giovedì, invece, è stata una esperienza nuova: l’esame era in videoconferenza. L’effetto "pesce nell’oblò" a cui il vetro divisorio ti costringe è sostituito dalla parodia dell’atterraggio sulla luna: lo schermo che ti sta di fronte, per un po’, rimanda l’immagine dall’alto di una stanza disadorna, con una scrivania nel mezzo e una agente di polizia che attende l’allunaggio di Neil Armstrong, il nostro esaminando. "Parla lei?", "parlo io?", in videoconferenza bisogna cedersi il passo, per non sovrapporsi e impedirsi la comprensione di quel poco o tanto che il mezzo riesce a garantire.

Dopo una serie di "posso?" arriva il momento del "passo e chiudo". Nonostante Neil abbia rotto il protocollo, chiedendoci dei suoi problemi burocratici con l’amministrazione universitaria, la sensazione è di non essersi parlati, tutt’al più telegrafati (in video, certo, ma telegrafati).

Il responsabile della struttura delle videoconferenze è un poliziotto penitenziario di nuovo conio: capace e competente, cortese e puntuale. Nelle more del fax che anticipa il verbale di assenso di Neil alla valutazione propostagli, ci spiega il funzionamento, le potenzialità e i vantaggi delle videoconferenze: una volta tanto, pare, siamo all’avanguardia in Europa. Difficile obiettargli qualcosa, ma lasciandosi alla spalle quello sfarzo tecnologico e i vecchi muri penitenziari resta l’amaro in bocca di un’occasione persa, di una comunicazione incompiuta.

Giustizia: trovata ultima lettera Stefano Cucchi, cercava aiuto

 

Apcom, 6 febbraio 2010

 

"Caro Francesco sono al Sandro Pertini, in stato d’arresto. Scusa se stasera sono di poche parole ma sono giù di morale e posso muovermi poco. Volevo sapere se potevi fare qualcosa per me. Adesso ti saluto, a te e agli altri operatori. Ps per favore rispondimi", è questa la lettera scritta il giorno prima di morire da Stefano Cucchi, deceduto nel reparto protetto del Pertini il 22 ottobre scorso dopo una settimana dal suo arresto.

Una lettera misteriosamente scomparsa dagli effetti personali del geometra 31enne e altrettanto misteriosamente riapparsa. Ora è pubblica, ed è stata anche letta al Tg1. "La lettera - spiega Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, al telefono con Apcom - dimostra che a dispetto di quello che si diceva Stefano non si era chiuso in volontario auto isolamento, ma anzi cercava aiuto e nella lettera chiede aiuto espressamente.

La parte più importante è quella finale "per favore rispondi": qui si capisce bene il suo stato d’animo, non era lui a volersi isolare, ma sentiva di essere stato isolato. Aveva paura di non essere ascoltato, sentito". Mentre lui "cercava di comunicare invece con l’esterno".

La lettera è stata scritta, secondo la testimonianza di una vice sovrintendente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il 21 ottobre, la sera prima della morte del giovane, anche se riporta nel testo - precisa Ilaria - la data del 20 ottobre. Il destinatario è Francesco uno degli operatori del Ceis, il centro di recupero dove Stefano voleva tornare. "Forse si sentiva abbandonato da noi - aggiunge Ilaria - dalla famiglia, perché non sapeva che invece tutti i giorni i miei genitori erano fuori dal Pertini per sapere di lui, avere sue notizie, chiedendo di parlare con lui. Nessuno glielo ha detto. Dalle parole che scrive si sente che invece si sentiva abbandonato e solo. Aveva paura che nessuno potesse ascoltarlo. Si sentiva messo in isolamento, ma non era lui a volersi isolare".

Un altro punto da sottolineare per Ilaria è il destino di questa lettera: è stata scritta ma Stefano non ha fatto in tempo a consegnarla per spedirla, era negli effetti personali contenuti nella scatola che il Pertini, così come riferisce il verbale dell’ospedale, ha consegnato al Regina Coeli, ma è poi sparita e non c’era nella scatola che la famiglia ha ritirato al Regina Coeli. Anche il verbale del carcere non ne menzionava l’esistenza. Ma la lettera infine è stata spedita, spedita quattro giorni dopo la morte di Stefano, quando ormai era troppo tardi e quando ormai il caso era già scoppiato. Perché? Si chiede Ilaria, e da chi? La lettera infatti è scritta dalla mano di Stefano, ma non così l’indirizzo sulla busta del mittente, scritte da un’altra mano, forse la stessa che misteriosamente l’ha spedita, impedendo che le ultime parole di Stefano non fossero ascoltate.

Giustizia: Pd; un "fondo" per aiutare il figlio di Aldo Bianzino

 

Agi, 6 febbraio 2010

 

Un fondo per aiutare Rudra Bianzino, il figlio del detenuto trovato morto nel carcere di Capanne il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora non completamente chiarite. Lo chiede un ordine del giorno del gruppo Pd alla Provincia di Perugia. Il ragazzo, oggi 16enne, nel frattempo è rimasto orfano anche della madre ed è sostenuto dai parenti e dal comitato "Verità per Aldo", nato per chiedere che si faccia luce sulla vicenda che ha portato al decesso del falegname 44enne, 48 ore dopo essere arrestato per la detenzione di alcune piante di marijuana.

L’ordine del giorno chiede al Consiglio provinciale di "impegnare il presidente dell’ente a promuovere un’iniziativa affinché possa essere avviato un percorso istituzionale, insieme al Comune di Pietralunga, alla Regione Umbria, che è già parte attiva, e al ministero della Gioventù che si sta interessando al caso, per individuare le più idonee modalità di sostegno per aiutare Rudra Bianzino in questa situazione difficile e delicata".

Inoltre si propone, compatibilmente con le possibilità finanziarie, "l’istituzione di un fondo atto a sostenere un’iniziativa concreta a favore del minore e di quanti si dovessero trovare nella medesima straordinaria condizione". Infine, se il Consiglio lo riterrà opportuno, si chiede di prendere contatto con il comitato "Verità per Aldo" per "avere informazioni ed i necessari approfondimenti sulla attuale situazione processuale, per verificare se sussistono le condizioni di un concreto e certo impegno del nostro Ente, sempre più vicino ai cittadini, in una presa di posizione a tutela dei diritti civili ed umani che sono inalienabili e ben al di sopra delle ideologie e degli schieramenti politici".

Messina: sui terreni dei boss nasce una speranza per i detenuti

di Paolo Lambruschi

 

Avvenire, 6 febbraio 2010

 

Cariddi era il mitico mostro a tre teste guardiano dello Stretto sul versante siculo che divorava navi e naviganti. Dieci anni fa sulla punta più occidentale della Sicilia, che ora si chiama Capo Peloro, un gruppo di giovani di Messina, provenienti in larga parte dall’Azione Cattolica e dall’associazionismo, hanno iniziato a ripulire la spiaggia diventata una discarica abusiva. Innamorati della loro terra questi ragazzi hanno scelto di rinunciare a fare i "cervelli in fuga" e sono rimasti nella loro terra per fare impresa sociale in nome della legalità.

Così hanno creato prima la Fondazione Horcynus Orca, poi la cooperativa Ecosmed, quindi un consorzio di cooperative sociali, Sole. Da pochi giorni, da quell’esperienza è nata la prima Fondazione di comunità siciliana, finanziata dalla Fondazione per il Sud, che partirà con un progetto che utilizzerà la green economy per dare lavoro e inserimento sociale a 56 detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto.

Il finanziamento della Fondazione toccherà i 2,5 milioni. E la Cassa ammende del ministero di Giustizia pagherà altri 2 milioni per liberare internati e reinserirli entro fine anno. Nasce così a Messina il primo distretto nazionale di welfare evoluto. Tra gli altri partner del consorzio messinese, la unità sanitaria locale, Confindustria Messina, il consorzio Cgm, Caritas Italiana e Banca Popolare Etica. L’idea di fondo è che la luce e la natura di questo bellissimo angolo d’Italia potessero compiere un miracolo.

"Il reo folle è, tra gli italiani, l’ultimo tra gli ultimi - spiega Gaetano Giunta, 50 anni, direttore della Fondazione di comunità - infatti ha il doppio stigma del malfattore e del pazzo. Per loro il reinserimento e le alternative alla detenzione sono rari".

"Luce è libertà" è il nome del progetto perché prende l’energia solare per aprire le sbarre.

"È un progetto innovativo - prosegue Giunta - che si propone l’obiettivo della reintegrazione sociale e lavorativa di 56 internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. La metodologia è rivoluzionaria: coinvolge enti pubblici e privati e aziende operanti sul territorio, si colloca in un contesto di contrasto alle mafie e prevede un forte impegno nel campo delle energie rinnovabili.

Dal punto di vista finanziario, è auto sostenibile in 20 anni". Come? "Su due terreni confiscati alle mafie - continua - uno a Pentadattilo, in provincia di Reggio Calabria, l’altro ad Assoro in provincia di Enna entro dicembre partiranno le centrali solari, con il sostegno di Banca Popolare Etica e della Beghelli, azienda produttrice di pannelli fotovoltaici e leader europea nel settore dell’innovazione tecnologica. Produrranno un megawatt". Confindustria Sicilia ha assicurato commesse. Un bando metterà poi a disposizione delle famiglie bisognose i pannelli e l’energia gratis. Diocesi e parrocchie siciliane doneranno altri terreni confiscati e installeranno i pannelli.

Il ricavato dal conto energetico, gli incentivi statali e la vendita del surplus prodotto, andrà alla Fondazione per l’inserimento dei 56 detenuti per 20 anni.

Sono prossimi alla scadenza della misura di sicurezza o con misura di sicurezza scaduta e in proroga, ed è previsto un piano personalizzato di inserimento sociale presso le famiglie d’origine o attraverso esperienze di affido etero-familiare, in appartamenti confiscati alle mafie o resi disponibili dalle Caritas diocesane. Oltre alla casa, gli ex-internati saranno seguiti in un percorso di cura personalizzato e progetteranno il proprio futuro assieme ai servizi dell’Ospedale psichiatrico giudiziario, del Dipartimento di Salute mentale della Asl di Messina e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. Verranno avviati al lavoro attraverso la rete di consorzi sociali Cgm di Calabria e Sicilia. Avranno infine un reddito minimo di 500 euro.

"Gli ex internati saranno impiegati nella realizzazione degli impianti del Parco diffuso fotovoltaico, nella manutenzione, nell’autocostruzione delle proprie case e in altri lavori che tengano conto delle loro personali competenze". Modello replicabile in altre parti d’Italia sul modello di queste eccellenza sociale del sud. Cariddi ha aperto porte che sembravano ermetiche.

Alghero: Sappe; 70 agenti per 240 detenuti e il carcere scoppia

 

Ansa, 6 febbraio 2010

 

Il carcere modello è al collasso. Il piccolo penitenziario di Alghero, presentato qualche anno fa come un gioiellino, sta scoppiando: 70 agenti devono fare i conti con una popolazione di 240 detenuti. La denuncia arriva dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che sollecita un intervento immediato del Ministero di Grazia e Giustizia.

Gli agenti - argomenta il sindacato di categoria - sono costretti a turni massacranti, ma nonostante i disagi si continua a fare entrare nuovi detenuti, minando così la sicurezza dell’istituto già ridotta ai minimi termini. "Nelle nuove assegnazioni - sottolinea il segretario provinciale del Sappe Antonio Cannas - parrebbe che il Dipartimento abbia previsto l’incremento di sole due unità. La pianta dovrebbe essere di circa 200 poliziotti. Al momento dell’apertura, nel 1998, nel carcere di Alghero prestavano servizio circa 130 agenti, a fronte di una popolazione di 70 detenuti: oggi la situazione è praticamente invertita, con 240 detenuti e 70 poliziotti".

Trento: Provincia destina borse di studio agli studenti-detenuti

 

Ansa, 6 febbraio 2010

 

Su proposta dell’assessore Ugo Rossi, la giunta provinciale di Trento ha accolto la richiesta della Casa Circondariale, pervenuta tramite il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, per la copertura finanziaria della spesa relativa alle borse di studio da corrispondere nel 2010 ai corsisti detenuti che frequenteranno i corsi di formazione professionale organizzati dalla casa Circondariale stessa in collaborazione con l’Istituto di formazione professionale Servizi alla persona "Pertini" di Trento.

Ivrea: il carcere supera l’esame, dei Consiglieri regionali di Rc

di Federico Bona

 

La Stampa, 6 febbraio 2010

 

I consiglieri regionali Enrico Moriconi e Sergio Dalmasso dei gruppi Ecologisti Uniti a Sinistra e Rifondazione Comunista si sono recati ieri 4 febbraio in visita al carcere di Ivrea nell’ambito di una serie di interventi istituzionali nelle carceri piemontesi.

I consiglieri hanno incontrato il direttore e il commissario della casa circondariale e successivamente hanno visitato tutte le sezioni parlando con i detenuti. La situazione della struttura, come è emerso dai colloqui e dalla visita, non presenta le classiche problematiche già riscontrate in altre strutture: le celle sono occupate in base al numero previsto e non vi sono letti in soprannumero, e non si presentano quelle tensioni tipiche legate alla mancanza di spazio.

Il problema più grosso è invece, come in altre carceri, la carenza di organico. Come nelle altre strutture si assiste comunque ad una grave carenza di organico. Da parte dei detenuti emergono sollecitazioni in particolare relativamente alla possibilità di ottenere beni di consumo, in quanto la regola del carcere prevede che tutta una serie di oggetti non possa essere fatta pervenire dall’esterno come invece avveniva in precedenza, ma debba essere acquistata nello spaccio interno, gestito da privati. Secondo i detenuti, i prezzi praticati all’interno sono più alti e non comparati a quelli del supermercato più vicino come invece prevede la legge. Su questo punto i consiglieri regionali hanno sollecitato la direzione a verificare se ci siano delle possibilità di accogliere le istanze.

Cinema: "Un prophète"; un romanzo di formazione in carcere

 

Asca, 6 febbraio 2010

 

Esce in Italia il film di Jacques Audiard, premito a Cannes l’anno scorso e appena entrato nella cinquina delle pellicole in lizza per la statuetta di miglior film straniero. E già si parla della nascita di un nuovo divo, il giovane maledetto Tahar Rahim.

La storia di una vendetta, un romanzo di formazione, un’allegoria politica. Il potere della mente che supera qualunque forza fisica. Il Profeta, Un prophète, in lingua originale, è tutto questo e molto di più. È la bellissima fotografia di Stéphane Fontaine, è il volto ruvido e maledetto di Tahir Rahim protagonista premiato con L’Efa, sorta di Oscar europeo, come miglior attore.

Tahir interpreta il diciannovenne Malik El Djebena, condannato a sei anni di carcere, che non sa né leggere né scrivere e in prigione sembra più giovane e fragile rispetto agli altri detenuti. Preso di mira dal leader della gang corsa che spadroneggia nel carcere, Malik è costretto a svolgere numerose "missioni", che però lo fortificheranno e gli meriteranno la fiducia del boss. Perché lui è coraggioso e impara alla svelta, e non esiterà a mettere a punto un suo piano segreto.

"Il titolo - spiega il regista Jacques Audiard, è un’allusione, costringe a capire qualcosa che non viene necessariamente sviluppata nel film, e cioè che il protagonista è un piccolo profeta, un nuovo prototipo di uomo. Inizialmente volevo trovare l’equivalente francese di una canzone di Bob Dylan intitolata You Gotta Serve Somebody, secondo la quale tutti noi siamo sempre al servizio di qualcun altro. Mi piaceva il fatalismo di questo titolo ma non sono riuscito a trovare una traduzione soddisfacente e quindi è rimasto Il profeta".

La novità del film sta nel suo uscire dalle solite rappresentazioni dell’ambiente carcerario. "Rispetto al solito cliché del film ambientato in prigione, popolato da uomini super virili, i detenuti del mio film non hanno muscoli, non sono neanche granché adatti a quell’ambiente ma paradossalmente riescono a sviluppare quelle qualità che permettono loro di emergere e dominare sugli altri".

Continua il regista: "Malik rompe gli schemi, non è il solito hooligan. Il film segue soprattutto il suo percorso mentale, una mente che lavora e che mostra una straordinaria capacità di adattamento, che il personaggio sfrutterà in ogni modo: all’inizio per salvarsi la pelle, poi per sopravvivere e migliorare la sua condizione e infine per raggiungere un livello superiore di potere".

"In parte ho attinto all’ immagine dell’arabo al cinema , che viene rappresentato come uno stupido - e in questo caso spesso è anche un terrorista - o semplicemente come la vittima di un contesto sociale rappresentato realisticamente. Partendo da questi stereotipi, mi sono posto il problema della scelta degli attori. Per il ruolo di Malik avevo bisogno di una persona versatile che incarnasse il tema dell’identità presente nel film. Un uomo giovane, senza storia. Fin dall’inizio sapevamo che questo ruolo non poteva essere recitato da un attore conosciuto, proprio perché è la storia di qualcuno che sale al potere, e che gradualmente acquista visibilità".

"La mia intenzione - conclude Audiard- era fare un anti Scarface. Secondo me i nevrotici sono dei cretini e non possono diventare oggetti di identificazione. L’ascesa al potere di una persona assolutamente folle non mi interessa affatto.

Cinema: "La mia città dei matti", sulla vita di Franco Basaglia

di Sara De Carli

 

Vita, 6 febbraio 2010

 

Fabrizio Gifuni ha studiato talmente tanto che alla fine, a tavola, Peppe Dell’Acqua ha dovuto spostare la conversazione sulla bellezza di Trieste e il castello di Miramare. "Ero quasi imbarazzato, mi sentivo sotto esame, con tutti quei riferimenti a Basaglia, Sartre e Foucault", ammette. E Dell’Acqua è tutto meno uno a digiuno di quel tris di autori, essendo stato di Basaglia un discepolo della prima ora.

Oggi dirige il distretto di salute mentale di Trieste ed è il consulente di C’era una volta la città dei matti, il film in due puntate sulla vita di Franco Basaglia in onda su Rai1 domenica 7 e lunedì 8 febbraio. Marco Turco, il regista, l’ha contattato a inizio 2008, dopo aver letto il suo libro Non ho l’arma che uccide il leone, sottotitolo "Trent’anni dopo, la vera storia dei protagonisti del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni". Le storie che compaiono nel film, vengono da lì.

 

Com’è iniziata l’avventura?

Ci lavoriamo da inizio 2008, il regista era perfettamente consapevole della difficoltà della sfida, perché mettere in scena Basaglia significa toccare una materia incandescente, che ha che vedere con la storia italiana e con un’area che continuerà sempre ad essere problematica, dialetticamente ruvida, tant’è che pone continuamente delle questioni, anche a 50 dall’inizio del lavoro di Basaglia a Gorizia. E poi è difficile raccontare una storia ricchissima di eventi e di eventi contradditori, col rischio di banalizzarli. Più volte siamo stati in dubbio, momenti in cui il regista e gli sceneggiatori hanno erano sfiduciati, hanno detto "non ci riusciamo".

 

È un’agiografia di Basaglia?

No, questo era il rischio che personalmente avevo più presente, quello di rappresentare un Basaglia-Padre Pio, di farne un santino. È un rischio che si è accettato, qualche volta lo si vede anche, a tratti c’è anche un Basaglia che lenisce il dolore, che è anche vero, però bisognava restituire anche la dimensione contraddittoria di Basagalia stesso.

 

Ci si è riusciti?

Ci sono riusciti il regista e gli sceneggiatori, nel senso che si è scelto di raccontare delle storie di persone, in un racconto corale, con cento attori protagonisti e centinaia di comparse: quella di Basaglia è una stria tra le altre, certo è molto pregnante, però sta nella coralità.

 

Com’è il Franco Basaglia interpretato da Gifuni?

Fabrizio si è molto documentato, ha studiato tantissimo, adesso è un esperto. Quando hanno girato qui a Trieste l’ho accompagnato a vedere i luoghi dove oggi continua l’avventura di Basaglia e abbiamo fatto un bel gioco, io lo presentavo a tutti come Franco Basaglia, come fosse un’apparizione. Per dire quanto abbia lavorato. Abbiamo sicuramente guadagnato un bel testimone nel nostro lavoro di garantire i diritti dei matti e delle persone fragili. Quello che apprezzo di più è che nelle conferenze stampa lui continua a parlare dell’oggi, del dopo-Basaglia, come del senso che lui ha trovato in questo film.

 

Per quale tematica la trasposizione sullo schermo è stata più complessa?

Necessariamente, per non fare del buonismo, bisognava mettere in scena anche situazioni delicate, come quell’uomo che a Gorizia, a casa in permesso, ammazzò la moglie. Come si affronta il problema del rischio e della pericolosità di queste persone senza banalizzare in un modo o nell’altro? Senza dire "non è un problema" né "aiuto, è fuggito il matto"? Ecco, su questa scena ho discusso moltissimo con gli sceneggiatori, loro lo banalizzavano come un "vabbè ma tutti possono ammazzare la moglie", la sceneggiatura è stata scritta quattro volte. È stato bravissimo il regista, perché la cosa è stata raccontata senza negare nulla, ma in una dimensione talmente umana che diventa molto vicino, molto comprensibile senza essere giustificata, si difenda dal rischio di mostrificazione. Alla fine è una delle scene che amo di più, anche se devo ammettere che tutto il film, a noi vecchi, ci commuove un po’.

 

Qualche fraintendimento, qualche involontario stereotipo da correggere?

Una questione di organizzazione: sia a Trieste sia a Imola sono attivi alcuni gruppi teatrali di matti e io ho chiesto che alcuni di essi potessero essere selezionati come comparse, dopo un casting, e pagati come tutti. La produzione, con malinteso senso del pudore, non voleva farlo perché - sosteneva - "poi ci dicono che sfruttiamo i matti". Ma sono attori, lo fanno di lavoro, che importa se prima sono stati in manicomio, se hanno una storia particolare? Importa se uno viene dal Cile? Insomma, è stato un vero braccio di ferro, un momento critico. Alla fine hanno lavorato in questo film 50/60 persone con problemi di salute mentale e soprattutto a Imola, là dove si è ricostruito il manicomio di Gorizia, molti di loro hanno rivissuto davvero quelle situazioni, l’elettroshock, è stato un impatto emotivamente difficile. Però le riconoscerai queste persone, nel film: sono il valore aggiunto.

 

Cosa teme di più, adesso che l’Italia intera vedrà questo lavoro?

Temevo un po’ il giudizio degli eredi di Franco Basaglia, che erano restii: invece i figli l’hanno visto e sono molto contenti. Temo un po’ quel che diranno i miei colleghi, perché a questo punto io mi sono assunto la responsabilità di portare a 8 milioni di persone una storia che magari loro mi diranno "l’hai letta come hai voluto tu". E poi voglio dire una cosa…

 

Prego…

La sceneggiatura è tutta sbilanciata dalla parte dei matti, la famiglia e i famigliari o non ci sono o sono rappresentati quasi come una controparte: questo verrà notato, tuttavia penso che sia stata una buona scelta, non perché le cose stanno sempre così ma perché qui si è voluto dare la parola a chi questa storia l’ha vissuta sulla propria pelle, l’assenza o la protervia della famigli va letta in questo modo, come dire questa volta sentiamo cosa hanno da dire loro.

 

Cosa spera che il film cambierà nella mentalità comune?

Io lo giudico come un’opera necessaria, quantomeno per la memoria. Queste operazioni servono anche a radicare una memoria che si rischia di perdersi, e questo è uno dei mali più dolorosi dei nostri tempi. Qui c’è tanto della memoria di un pezzo di storia italiana, ma non un prodotto da Rai educational, spero venga fuori l’importanza del ricordare e dell’attualizzare le cose. In fondo si riportano sullo schermo parole belle, che abbiamo consumato, distrutto, abbandonato, parole di amore, di comprensione, di lotta, parole critiche.

Basaglia è morto nell’agosto del 1980, quest’anno sono i trent’anni della morte. Però in questo momento si discute anche molto di revisione della legge 180. Il film ha anche un significato politico, in questo senso?

Guarda, il direttore di Rai1, quando gli hanno chiesto perché lo ha fatto, ha detto "Perché molti sono distratti e non approfondiscono". Sul resto, io sono sicuro che non è in discussione proprio nulla, non c’è nessuno che ha forza, il coraggio e soprattutto la necessità di cambiare questa legge.

Una proiezione pubblica di C’era una volta la città dei matti, con il regista e gli attori, si terrà a Trieste venerdì 12 febbraio alle ore 20 al Cinema Ariston, all’interno dell’incontro internazionale Trieste 2010, per una rete mondiale di salute comunitaria, in programma dal 9 al 13 febbraio.

Immigrazione: da Acli e Migrantes critiche a "permesso a punti"

 

www.unimondo.org, 6 febbraio 2010

 

"Più che un permesso a punti, un percorso a ostacoli". Così il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero, commenta l’annuncio dell’imminente istituzione da parte dei Ministri dell’Interno e del Lavoro di un percorso a punteggio per gli immigrati, finalizzato alla concessione del permesso di soggiorno. "Ancora una volta - afferma Olivero - prima ancora di attrezzarci per costruire un percorso di integrazione, si sta provvedendo a porre i paletti di un percorso a ostacoli, che già oggi per i cittadini immigrati che vogliono risiedere regolarmente in Italia è sufficientemente tortuoso. Già ora, infatti, per ottenere il permesso di soggiorno gli stranieri debbono soddisfare alcuni requisiti stringenti che fanno riferimento al reddito, all’abitazione, al lavoro".

"Il permesso di soggiorno - conclude il presidente delle Acli - dovrebbe essere la prima tappa di un percorso di avvicinamento alla cittadinanza. Per questa sì che avrebbero senso i requisiti di conoscenza della lingua italiana e della nostra Costituzione. Ma chi accompagna oggi gli immigrati in questo percorso? Finora solo la Chiesa e il volontariato. Sono anni che chiediamo invano un piano organico e nazionale per l’insegnamento della lingua italiana. In queste condizioni - conclude Olivero - il permesso a punti rischia di diventare l’ennesimo elemento di sofferenza e di vessazione psicologica e burocratica per le tante famiglie immigrate presenti nel nostro Paese".

Dello stesso parere il direttore di Migrantes, mons. Giancarlo Perego, secondo il quale "il permesso di soggiorno a punti si presenta come uno strumento "che in sé può anche essere positivo, ma che in una realtà come quella italiana appare come estemporaneo e inefficace". "Nel nostro paese - commenta mons. Perego a Aprile online - mancano infatti quei paletti fondamentali, quelle strutture essenziali per l’integrazione, che rappresentano un prerequisito per fare in modo che strumenti come il permesso di soggiorno a punti possano avere successo. Per dirla con un paragone quello della patente a punti, la condizione dell’immigrato sarebbe quella di dover acquisire un permesso di guida valido vivendo però una situazione in cui mancano strade adeguate, non ci sono cartelli stradali, non vi è alcuna indicazione che aiuti nell’utilizzo dello strumento conseguito".

"Prima di lavorare su strumenti che rendono nella pratica più difficoltoso il percorso di incontro, regolarizzazione e integrazione - spiega mons. Perego - bisogna lavorare nel concreto sui cardini della cittadinanza e della residenza, costruendo una vera struttura intorno a ciò e destinando risorse: investimenti che finora però non abbiamo visto". Per il direttore di Migrantes "di fronte ad un paese che anziché dopo 40 giorni ti dà il permesso di soggiorno dopo un anno e in cui gli Sportelli immigrazione sono gravati da moltissimo lavoro, la cosa principale è di non aggravare ancora la burocrazia, ma di costruire una politica legata al territorio, con la collaborazione di comuni e associazioni, e con un forte rilancio di strumenti come quello delle 150 ore, in accordo con il mondo imprenditoriale e quello sindacale".

"Senza una politica di integrazione - conclude il direttore di Migrantes - ogni strumento rischia di essere o estemporaneo o tale da aggravare l’inefficacia di una situazione già di per sé assai precaria". Il permesso di soggiorno a punti va dunque "nell’ottica del pacchetto sicurezza", mira a "credere che la sicurezza passa attraverso uno strumento in più e non attraverso una politica diversa: e noi invece dobbiamo affermare proprio questo, anche perché penso che dal punto di vista del contrasto alla irregolarità questo strumento certamente non aiuti".

La nuova disciplina annunciata dai ministri Maroni e Sacconi prevede due anni di tempo per imparare la lingua italiana, conoscere la Costituzione e le regole civili del nostro Paese, far studiare i figli, mettersi in regola col fisco. Se l’immigrato che chiede il permesso di soggiorno conquisterà questi obiettivi in 24 mesi quantificati in un punteggio di 30 punti, otterrà la "carta". Se non ci riuscirà (i punteggi scendono in caso di violazione del codice penale), avrà ancora un anno di tempo alla conclusione del quale scatterà, in caso di non raggiungimento del voto finale, l’espulsione.

Immigrazione: filmato-denuncia di Radio Radicale da Cie Bari

 

Ansa, 6 febbraio 2010

 

"Meglio il carcere, trattati peggio dei cani": lo dicono gli immigrati ospitati nel Cie (Centro identificazione espulsi) di Bari in un filmato-denuncia registrato con un telefonino all’interno della struttura e diffuso e pubblicato sulla homepage di RadioRadicale.

"Beseghaier Fahi ci ha fornito una imponente documentazione cartacea, fotografica e video - racconta Simone Sapienza, uno dei responsabili del sito web dell’emittente - dopo alcuni controlli e verifiche, abbiamo deciso di montarne una parte e pubblicarla nella homepage del nostro sito come denuncia di una situazione che nonostante le reiterate interrogazioni parlamentari non migliora affatto".

"Radio Radicale infatti - si ricorda nella nota stampa - mette a disposizione nel suo sito di giornalismo partecipativo Fai Notizia la possibilità di fare denunce attraverso materiale video fotografico e scritto. Speriamo che anche le persone che ruotano intorno al mondo dei centri per migrati prendano coraggio e seguano l’esempio coraggioso degli immigrati". "Il video, oltre alle immagini scioccanti in cui riversa la struttura in termini igenico-sanitari, contiene - racconta Sapienza - diversi appelli degli immigrati anche diretti al presidente Berlusconi e alcune storie di ordinaria illegalità dello Stato italiano".

Spagna: castrazione chimica; detenuto si sottopone volontario

 

Ansa, 6 febbraio 2010

 

Un detenuto di un carcere della Catalogna, condannato per violenza sessuale, sarà il primo uomo in Spagna a essere sottoposto volontariamente a castrazione chimica. È quanto ha annunciato l’assessore regionale alla Giustizia, Montserrat Tura.

Il detenuto ha accettato di iniziare un trattamento farmacologico per inibire gli impulsi sessuali e diminuire la produzione di testosterone, ha spiegato la Tura. In questo modo la Catalogna, che ha avuto trasferite dalla Stato tutte le competenze nel settore penitenziario, anticipa la annunciata riforma del Codice Penale, che prevede di includere la castrazione chimica volontaria.

A quest’ultima possono chiedere di essere sottoposti i condannati per pedofilia recidivi, quelli per delitti di sadismo sessuale e i detenuti che soffrono disturbi sadici della personalità, tutti con più condanne per gli stessi reati.

Il programma per il trattamento farmacologico viene applicato tre anni prima del compimento dei tre quarti della pena e prevede un trattamento psicologico del detenuto prima della terapia farmacologica, che comincerà nell’imminenza della scarcerazione.

Stati Uniti: ricerca scientifica; criminali si nasce... o si diventa?

 

Ansa, 6 febbraio 2010

 

Secondo le nuove ricerche scientifiche non si può più parlare di "mente criminale" ma di "cervello criminale", infatti sembra che la criminalità è un tratto della personalità con cui alcuni nascono e alcuni invece sviluppano nel primo periodo di vita. Il seme della criminalità risiederebbe nella corteccia prefrontale, dove si potrebbero vedere se uno è un potenziale assassino o criminale in genere.

Questa ricerca è stata fatta su bambini, appunto, perché è lì che iniziano i primi segnali. La scoperta non è però del tutto nuova, infatti nel 1871 un fisico italiano Cesare Lombroso, mentre stava facendo una sezione del corpo a un noto bandita Giuseppe Villela, rimase stupito dalla strana forma del cranio, simile a quella di api, roditori e uccelli.

Concluse dicendo che i criminali erano tali perché erano nati "cattivi", sarebbero infatti tornati a uno stadio primitivo dell’evoluzione. Ma le teorie di Lombroso vennero nel ‘900 discreditate in quanto ritenute frutto di eugenetica e fascismo, mentre la criminologia pone le sue basi sulla sociologia, quindi su fattori esterni all’uomo che lo influenzano nell’agire. Ora a portare la neuroscienza in aiuto alla criminologia è stato Adrian Raine, professore di criminologia dell’Università di Pennsylvania in Philadelphia. La sua curiosità in questo campo è nata quando da piccolo faceva dei "crimini" infantili insieme a un gruppo di coetanei. Solo che i suoi amici divennero veramente dei criminali e lui no.

Non capiva in cosa stava la differenza, non poteva essere sociale. Facendo una scansione ai cervelli di vari detenuti ha potuto osservare che la loro corteccia prefrontale funzionava male. Essa infatti serve per regolare i nostri impulsi, decisioni e sentimenti. Noi tutti abbiamo degli istinti violenti, ma è questa corteccia che ci aiuta a tenerli a bada, solo che a volte è "rotta".

Altri criminali invece soffrono di deficit di capacità emotiva. L’esperimento che fece Raine aveva individuato che alcuni pazienti non è che non riuscivano a distinguere il bene dal male,come si dice, ma piuttosto non sentono il bene e il male, avendo una minor funzionalità dell’amigdala. Secondo Raine controllare il cervello fin da piccoli sarebbe un buon modo per diminuire la criminalità, ma è anche vero che il cervello degli infanti è malleabile e perciò ha sempre modo di cambiare per un certo periodo di tempo.

Gran parte del problema sarebbe presente già durante la gravidanza. La ricerca è stata effettuata su alcuni detenuti in Danimarca, molti con madri che fumavano o bevevano durante la gravidanza, alcuni nati in modo forzato o con mancanza di ossigeno, altri abbandonati dalle madri. "È un fattore biologico e ambientale" - dice Raine - "sono inseparabili". Un altro fattore,sempre di causa biologica è la mancanza di paura

che si riscontra nel processo mentale e che a volte aiuta,come nel caso dei sportivi, per esempio, ma insieme ad altri fattori è un grave rischio per la criminalità. "È importante notare i primi sintomi per poter guidare bene una persona, è questo lo scopo della ricerca non certo di analizzare tutti i bambini sospetti,come se non si sa i principi della combustione interna, è difficile dire come una macchina passa da A a B" - dicono gli scienziati.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva