Rassegna stampa 8 febbraio

 

Giustizia: "Strada Facendo"; anche il carcere in Carta di Terni

 

Ansa, 8 febbraio 2010

 

Lavoro, casa e abitare, welfare, sanità, carcere e migranti sono i punti sui quali si articola la Carta di Terni scaturita dalla quarta edizione di Strada Facendo, appuntamento nazionale sulle politiche sociali che si è concluso oggi a Terni. Questi i contenuti, secondo quanto si legge in un comunicato degli organizzatori dell’appuntamento.

Lavoro. Ammortizzatori sociali. È urgente fare in modo che gli ammortizzatori sociali possano coprire tutti coloro che per una ragione o per l’altra si trovino nella condizione di doverli richiedere. Questo significa renderli il più possibile universali e non frammentati. Oltre la legge 30. I contratti lavoro vanno ridotti a non più di tre tipologie dei contratti (apprendistato, ingresso, stabilità) e va garantita pur nella mobilità la continuità formativo-occupazionale. Un piano stabile per il lavoro che punti su un rilancio economico centrato sulla tutela dell’ambiente, della sostenibilità e all’equità.

La casa e l’abitare. La città è un bene comune. La casa un diritto costituzionale. Anche per questo è importante passare senza incertezze dall’investimento sul mattone all’ investimento sul diritto all’abitare. Ci sono troppe famiglie senza casa e troppe case senza famiglia. Non solo è possibile, ma va incentivato un incontro tra domanda e offerta nell’equità e diritti di tutti. Il rispetto della legalità nell’edilizia e nel mercato immobiliare deve essere esteso e rafforzato.

Il welfare. Un patto nazionale per rilanciare il sociale fra le regioni e tutti coloro che lavorano ogni giorno nei servizi (associazioni, enti locali, pubblico e privato sociale) va costruito e reso effettivo negli strumenti e nei metodi. I livelli essenziali di assistenza nel sociale devono essere al più presto definiti e finanziati. La centralità delle comunità locali nei servizi e nell’assistenza. Il progetto di valorizzazione delle comunità locali contenuto nella legge 328 va difeso e rilanciato.

Sanità. Il sistema sanitario nazionale non ha bisogno di essere riformato. Il rischio è il venir meno della sua universalità Non ridurre la spesa sanitaria. La nostra spesa sanitaria è già al di sotto della spesa media europea. Può essere diversamente orientata, non ulteriormente diminuita. Trasparenza. Il rilancio della partecipazione e del coinvolgimento a tutela della salute dei cittadini richiede trasparenza. La trasparenza delle decisioni e dei metodi è anche il presupposto per le valutazioni e il controllo democratico.

Carcere. Tornare a puntare sulle misure alternative al carcere. In questa fase è determinante ridare fiato e opportunità alle misure alternative che in pochi anni sono drasticamente crollate e sottoutilizzate. La Cassa delle ammende è stata istituita per i progetti di riabilitazione e reinserimento e a tali fini deve essere utilizzata. Istituire il Garante nazionale per i detenuti, e anche per gli stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione, autonomo dal potere politico, oggi strumento indispensabile a fronte del forte indebolimento dei diritti delle persone che si trovano in carcere o nei Cie. Il carcere priva le persone della libertà, non degli altri loro diritti. Predisporre un’iniziativa referendaria (di iniziativa popolare o regionale) per abrogare le norme che oggi trattengono in carcere persone che invece potrebbero essere meglio aiutate con interventi sociali e sanitari.

Migranti. Contro il reato di clandestinità. Non è accettabile la configurazione del reato di clandestinità, la creazione di fatto di un codice differenziale per i cittadini italiani e stranieri, la negazione dei diritti di cittadinanza per le persone nate in Italia o da lungo tempo in possesso del permesso di soggiorno. Contro il lavoro nero e per una legge sul reato di grave sfruttamento lavorativo. È determinante contrastare il lavoro nero e approvare il disegno di legge sul reato di grave sfruttamento lavorativo come voluto dalle direttive europee e abolire le forme di schiavitù dei migranti con l’uso dell’articolo 18 della legge sull’immigrazione.

Per l’integrazione, contro il razzismo. Rilanciare un discorso autorevole sull’immigrazione che ci vede impegnati in percorsi di protezione, di integrazione, di advocacy e di incontro tra italiani e stranieri per contrastare atteggiamenti razzisti e xenofobi. In tutti questi ambiti evidenziati i giovani sono in primo piano. Costituiscono una risorsa del presente è necessario valorizzarne capacità e iniziative, fornendo loro opportunità, attenzione educativa e garantendo tutti i necessari diritti alla loro crescita con impegno di cedere quote di potere e di rappresentanze reali.

Giustizia: Corte Ue diritti umani; Italia settima nella lista nera

di Patrizia Maciocchi

 

Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2010

 

L’Italia si piazza settima nella classifica dei paesi più condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Mantiene quindi la stessa posizione del 2008, seppure con qualche condanna in meno (61 contro 72), ma sempre il triplo di Francia e Germania. Se cambia poco quanto a collocazione nella hit degli Stati meno rispettosi della Convenzione, una novità si registra sulle violazioni contestate.

Il 2008 è stato l’anno nero per la lunghezza delle procedure, ora tocca al rispetto della vita privata e familiare: sulla violazione della corrispondenza sono arrivate ben 27 condanne. Sul dato hanno inciso sia la vecchia legge fallimentare sia il regime imposto dal carcere duro. Tra i 47 membri del Consiglio d’Europa l’Italia mantiene anche il quinto posto per i procedimenti pendenti, malgrado l’aumento del numero dei casi che passano dai 4.191 del 31 dicembre 2008 ai 7.158 del 2009. Appena meglio di Russia, Turchia, Ucraina e Romania, un poker che da solo rappresenta il 56% delle richieste pendenti.

I dati, aggiornati al 31 dicembre 2009, sono stati snocciolati dal presidente della Cedu Jean Paul Costa lo scorso 28 gennaio. I giudici di Strasburgo devono ora confrontarsi con un numero di casi pendenti che è passato dai 97.300 del 1° gennaio 2009 ai 119.300 di fine anno. Quanto alle sentenze significative che la Corte ha emesso nei confronti dell’Italia, dalla condanna per la disparità di trattamento operata in base alla patologia contratta nel riconoscere gli indennizzi alle persone contagiate in seguito a una trasfusione, alla sentenza con la quale i giudici hanno chiesto all’Italia di togliere il crocefisso dalle scuole pubbliche. Contro questa decisione, 27 paesi hanno sottoscritto un documento che bolla come "politico" il comportamento dei giudici. Argomento sostenuto anche durante la conferenza stampa del presidente Costa, che ha dato la sua lettura sul verdetto.

"Non posso commentare una sentenza non ancora definitiva - ha detto Jean Paul Costa - quello che posso dire è che i giudici hanno fatto una scelta giuridica su un problema politico. Da qualche anno ci troviamo a trattare sempre più casi che riguardano la religione, dalla questione dei minareti, non ancora arrivata a Strasburgo, al burka, la religione è sempre più importante per gli stati. Non è la Corte che diventa politica - ha concluso Costa - ma è la religione che lo diventa".

L’aumento dei conflitti religiosi è comunque solo uno degli argomenti della mole di domande introdotte davanti alla Corte che rischia di seppellire i giudici sotto una montagna di arretrato. In una situazione critica, il presidente ha individuato tre motivi di ottimismo: l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che consente all’Europa di aderire, alla Convenzione, la ratifica da parte della Duma del Protocollo 14 votata all’unanimità dal parlamento russo che permetterà alla Corte una razionalizzazione delle procedure e, per finire, la conferenza di Interlaken che si terrà in Svizzera a metà febbraio. Un incontro in cui gli stati saranno chiamati ad adeguare la normativa interna per il "rimpatrio" dei casi.

Giustizia: Fp-Cgil ai lavoratori penitenziari; facciamoci sentire

 

Comunicato Fp-Cgil, 8 febbraio 2010

 

Il giorno 5 febbraio p.v. come ben sapete i lavoratori giudiziari scioperano per manifestare il proprio dissenso alla devastante azione di questo governo che sta smantellando l’intero sistema della giustizia, per dar voce al proprio disagio operativo e professionale che vivono nell’agire quotidiano a causa dei tagli indiscriminati alle risorse, scioperano a causa dell’accordo stralcio del contratto integrativo siglato dall’amministrazione e dalla minoranza delle OO.SS. che oltre a "demansionarli" e a "dequalificarli" porterà gravi nocumenti al servizio della giustizia.

I motivi della protesta, però, coinvolgono tutti i lavoratori della giustizia, ovvero tutte le componenti professionali che afferiscono alle differenti articolazioni dipartimentali che la compongono : i penitenziari, la giustizia minorile, gli archivi notarili, settori che in diverso modo ma con la stessa intensità hanno non solo subito la beffa dell’accordo del contratto integrativo ma sono interessati pesantemente dagli interventi scellerati avviati dalla compagine governativa la cui ricaduta sta comportando effetti devastanti in ciascuno di essi e determinando gravi criticità nelle rispettive specificità operative.

Per quanto riguarda il contesto penitenziario quotidianamente verifichiamo l’entità dei danni che tali interventi stanno comportando sul versante organizzativo e su quello più ampio della politica e della cultura penitenziaria.

Sono interventi di impatto mediatico che sembrano nascere sull’onda dell’emotività causata da un particolare evento critico. Interventi che, a nostro parere, non solo eludono i principi ascritti nell’art. 27 della Costituzione cui si ispira il mandato istituzionale del sistema, ma sono carenti di quella progettualità organica propedeutica e necessaria alla individuazione ed alla implementazione di iniziative che tengono conto di tutte le componenti che caratterizzano il settore. Rileviamo ad esempio che:

all’incremento della popolazione detenuta si risponde con l’oramai famoso "piano carceri" che dovrebbe far fronte al dichiarato stato di "emergenza" prevedendo la costruzione di nuove strutture, interventi legislativi in materia di esecuzione penale e incremento del personale di polizia penitenziaria.

all’aumento dei suicidi dei detenuti si risponde con l’istituzione dei "gruppi di ascolto" costituiti da personale di polizia penitenziaria che si sostituiranno "improvvisandosi" alle professionalità competenti (psicologi) per svolgere un compito cui istituzionalmente non sono demandati. Una grave e aberrante iniziativa che evidenzia la non conoscenza del contesto e delle problematiche ad esso afferenti e che dequalifica le professionalità deputate a tale specifico intervento. E inoltre:

si riducono le dotazioni organiche di tutte le professionalità (educatori, assistenti sociali, contabili, collaboratori e tecnici) comportando ai lavoratori forti disagi operativi per l’aggravio dei carichi di lavoro e difficoltà nell’espletamento dei compiti istituzionali. A poco valgono le assunzioni dei 397 educatori vincitori del concorso pubblico indetto nel 2003 previste con fondi stanziati dal precedente governo!

l’indiscriminato taglio alle risorse impedisce il necessario incremento di personale bloccandone il turnover; impedisce l’incremento di quelle professionalità peculiari all’implementazione delle norme riguardanti l’esecuzione penale alle quali, tra l’altro, il "piano carceri" sta apportando modifiche: le ultime assunzioni degli assistenti sociali risalgono ad oltre dieci anni e gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna rischiano il collasso istituzionale per carenza di mezzi e risorse.

In ultimo l’accordo stralcio del contratto integrativo che sancisce il nuovo ordinamento professionale, un accordo che non abbiamo siglato e che vanifica totalmente le aspettative di tutti i lavoratori mirate alla valorizzazione delle professionalità che oggi, risultano ulteriormente mortificate. Questi in sintesi i motivi per i quali riteniamo valga la pena far sentire il nostro disappunto. Questi i motivi che integrati a quelli dei lavoratori giudiziari evidenziano quanto sia pericolosa la deriva intrapresa dall’intero sistema Giustizia alla quale è necessario porre freno per evitare il punto di non ritorno in termini di diritti , garanzie e legittimità.

Per questi motivi i lavoratori penitenziari Fp-Cgil sosterranno la protesta dei colleghi giudiziari partecipando alle assemblee cittadine indette nelle diverse città, manifestando in questo modo una solidarietà attiva e concreta. Un modo per dar voce al proprio dissenso, per partecipare la condivisione degli obiettivi della protesta , per rappresentare l’unitarietà dei lavoratori della giustizia nella opposizione allo smantellamento della democrazia.

 

La coordinatrice Nazionale Penitenziari - C. Ministeri

Lina Lamonica

Giustizia: Sappe; Gruppo lavoro per monitorare piano carceri

 

Apcom, 8 febbraio 2010

 

Istituire presso la Presidenza del Consiglio "un Gruppo di lavoro per monitorare costantemente l’attuazione del piano carceri recentemente approvato dal governo Berlusconi". È la richiesta avanzata dal Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, in una lettera inviata al premier Silvio Berlusconi, al ministro della Giustizia Angelino Alfano ed al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta.

"Abbiamo salutato con molto favore l’approvazione del piano carceri presentato dal governo - ricorda Donato Capece, segretario generale del Sappe. Non a caso, lo abbiamo definito fin da subito una scossa salutare ad un sistema, quello penitenziario appunto, rimasto per molto tempo senza alcun intervento sostanziale, oltre la fallimentare e disastrosa esperienza dell’indulto".

"Al 31 gennaio scorso - ricorda Capece - in carcere c’erano 65.800 detenuti (63mila uomini e 2.800 donne) per poco più di 43mila posti letto. Poco più del 51% erano quelli in carcere con condanna definitiva e oltre 24.300 i detenuti stranieri, il numero più alto mai registrato in Italia. Serviva e serve qualcosa di concreto per contrastare questa costante emergenza. E, lo abbiamo detto e lo ripetiamo oggi, il piano carceri del governo ci sembra andare proprio in questa direzione. Perché allora - è la proposta di Capece - non istituire a palazzo Chigi un gruppo di lavoro finalizzato a monitorare costantemente l’attuazione del piano, così da seguire passo passo ogni intervento?".

Giustizia: caso Cucchi; ritrovata la lettera-Sos, manca la Tac

 

Liberazione, 8 febbraio 2010

 

La lettera c’è, finalmente, ma mancano ancora le immagini della tac effettuata su Stefano Cucchi dopo la riesumazione, due mesi fa. "Caro Francesco sono al Sandro Pertini, in stato d’arresto. Scusa se stasera sono di poche parole ma sono giù di morale e posso muovermi poco. Volevo sapere se potevi fare qualcosa per me. Adesso ti saluto, a te e agli altri operatori. Ps per favore rispondimi".

Francesco è un operatore del Ceis, la comunità terapeutica di don Picchi. La missiva, anticipata da Liberazione il 13 gennaio scorso, è stata consegnata l’altro ieri dal Ceis alla famiglia - portandosi appresso altri misteri. Stando alla testimonianza della capoposto del Pertini che gli fornì busta e foglio e lo vide scrivere, successe la sera del 21 ottobre, dopo quattro giorni di rifiuto di cibo, acqua e di quasi tutte le cure perché gli era impedito di incontrare l’avvocato. Perché la lettera è datata 20 ottobre? Forse Stefano, stravolto dalla durezza delle sue condizioni - era paralizzato a letto da quanto è dato sapere - sbagliò a contare i giorni.

Forse. Ma un altro mistero è ancora più inquietante: la lettera fu spedita probabilmente dal Pertini, il 26 ottobre, lunedì. Cucchi era già morto all’alba del 22 ottobre e domenica 25 la vicenda era stata narrata per la prima volta sulla prima pagina di Liberazione. Sulla busta l’indirizzo è stato compilato da una mano diversa da quella della calligrafia affaticata della lettera. Ilaria Cucchi riconosce la scrittura di suo fratello nell’ennesimo tentativo di far arrivare la sua voce all’esterno del sistema carcerario che lo aveva ingoiato forse per occultare i segni del "contatto" con gli uomini in divisa. Una frettolosa e distratta udienza di convalida gli aveva negato i domiciliari con la stranissima motivazione della mancanza di una fissa dimora sebbene la notte dell’arresto i carabinieri gli avessero perquisito la camera nell’appartamento di famiglia.

Della lettera si scoprì dalla lettura della relazione degli ispettori del Dap che, nel corso dell’indagine interna, si sono imbattuti nella testimonianza della graduata di polizia penitenziaria. Poi, da una "fonte autorevole" che Ilaria Cucchi ha ritenuto di non rendere nota, siamo venuti a conoscenza di un verbale che annotava tra gli effetti personali del detenuto ucciso, la busta da lettera. Però, quando finalmente la famiglia è riuscita a tornare in possesso della scatola della lettera e di quel verbale nessuna traccia. "Sentiva di essere stato isolato", insiste la sorella cucendo la nuova rivelazione alla richiesta d’aiuto che Stefano consegnò alla volontaria che lo vide la stessa sera.

Ma chi ha scritto l’indirizzo e chi ha spedito la lettera? E ancora: perché la comunità ha impiegato così tanto tempo per metterne a conoscenza la famiglia? "La colpa è mia", spiega a Liberazione don Mario Picchi, fondatore del Ceis raccontando delle morti, nel giro di 10 giorni del suo vice, dopo 40 anni di collaborazione, e di sua sorella venuta a Roma per i funerali. È accaduto tra il 18 e il 28 ottobre sovrapponendosi alle date chiave di questa vicenda. "Sono rimasto in mezzo a questa tempesta di sentimenti - ricorda ancora - e non ho avuto coscienza subito di quello che stava accadendo.

Poi i miei collaboratori mi hanno fatto presente di quella lettera e allora ho detto che l’avremmo consegnata quando ce ne sarebbe stato chiesto conto". Intanto, da alcuni giorni, la stampa ricama su presunte fratture antiche che smentirebbero le responsabilità di un ipotetico pestaggio nella morte di Cucchi. "Ma quali fratture - protesta Fabio Anselmo, il legale della famiglia - si tratterebbe di ernie. Due mesi dopo la riesumazione della salma non sono stati depositati in Procura, e non abbiamo ancora avuto, i dischetti con la documentazione della Tac e delle fratture, quella consegnata finora contiene solo immagini che nulla hanno a che fare con le lesioni alla colonna vertebrale".

Liguria: Sappe; record di presenze nelle sette carceri regionali

 

Ansa, 8 febbraio 2010

 

"Al costante e crescente affollamento della popolazione detenuta ristretta in Liguria non corrisponde purtroppo un adeguamento degli organici della Polizia Penitenziaria".

Liguria penitenziaria sempre più vicina a raggiungere il record di presenze di detenuti. È quando denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria, che sottolinea come manchi infatti davvero poco a raggiungere la quota di 1.700 presenze nelle celle dei penitenziari regionali (numero mai registrato neppure ai tempi dell’indulto del 2006), considerato che al 31 gennaio scorso i detenuti presenti erano 1.680 rispetto ad una capienza tollerabile di 1.140 posti letto.

"I numeri parlano chiaro", spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Al costante e crescente affollamento della popolazione detenuta ristretta in Liguria non corrisponde purtroppo un adeguamento degli organici della Polizia Penitenziaria, carenti nelle 7 carceri regionali di ben 400 agenti in meno rispetto a quanto previsto. I 1.680 detenuti che erano presenti nelle carceri liguri il 31 gennaio scorso erano più imputati che condannati con sentenza definitiva. E quella ligure è una popolazione detenuta assai variegata e problematica, come dimostra anche il fatto che nella nostra Regione si registra la percentuale più alta a livello nazionale di detenuti tossicodipendenti (circa il 40% dei presenti rispetto ad una media nazionale del 25%), una percentuale del 60% di detenuti stranieri ed un altro record negativo a livello nazionale, quello dei detenuti che lavorano, che in Liguria sono solo il 15% dei presenti. Questi emblematici dati dovrebbero far comprendere anche ai non addetti ai lavori come i livelli di sicurezza dei nostri penitenziari siano assai limitati e in quali drammatiche e difficili condizioni lavorino con professionalità e senso del dovere le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria in Liguria".

Martinelli, nel ricordare l’apprezzamento già espresso dal Sappe all’annunciato piano carceri del Governo, auspica che se ne vedano presto gli effetti anche in Liguria: "Il piano carceri dovrebbe dare indubbiamente una "scossa" salutare al sistema. Speriamo ad esempio che sia la volta buona che si realizzi a Savona il nuovo carcere che sostituisca la vergogna (per chi ci lavora e per chi vi è detenuto) del S. Agostino, che delle annunciate assunzioni (sempre con procedure di urgenza) di 2.000 unità di Polizia Penitenziaria ne venga destinata nella nostra Regione una quota necessaria almeno a ripianare una buona parte delle carenze degli organici dei Reparti della Liguria e che le previste norme di accompagnamento finalizzate ad attenuare il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un piccolissimo residuo di pena, contenute nel piano carceri del Governo, portino ad

una effettiva riduzione di detenuti nelle carceri liguri".

Sardegna: Socialismo Diritti Riforme; territorializzare la pena

 

Agi, 8 febbraio 2010

 

"Oltre ai problemi delle persone private della libertà e dei loro familiari, affronteremo anche quest’anno argomenti d’interesse generale. Dalla salute, e quindi dalle interminabili file per poter effettuare una visita specialistica, fino alla formazione dei giovani. Dalle discriminazioni ad un esame più attento sugli indirizzi della democrazia".

Così la presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", l’ex consigliera regionale Maria Grazia Caligaris, sintetizza l’attività per il 2010, che sarà incentrata sulla questione della territorializzazione della pena.

"Il rispetto dei diritti sanciti dalle leggi - ha sottolineato la presidente - è il principio informatore della nostra attività e il nuovo anno ci vedrà ancora fortemente impegnati su questo tema. Vogliamo continuare a offrire un sostegno a chi per motivi diversi non ha voce o non è in grado di difendersi quando subisce un torto. Anche il numero crescente di adesioni, quasi raddoppiate, dimostra che il nostro impegno è apprezzato dai cittadini". La scorsa settimana l’associazione ha tenuto la sua prima assemblea a Cagliari per approvare il bilancio 2009 e le iniziative per quest’anno.

È prevista la donazione di alcuni audiolibri, per ciascuna delle biblioteche degli Istituti di Pena isolani, e di materiale di consumo per il laboratorio di hobbistica di Buoncammino, affinché i detenuti possano trascorrere qualche ora dedicandosi a un’attività manuale. È anche in corso tra i soci, i simpatizzanti e tutti coloro che intendono aderirvi, una raccolta di indumenti per i detenuti indigenti nonché di detersivi per favorire migliori condizioni igieniche in diversi Istituti dell’isola.

"Nel corso dell’anno proseguiranno da parte dei soci i colloqui con i detenuti e ci impegneremo affinché la condizione di emergenza che vivono quotidianamente anche gli operatori degli istituti di pena sia presa in considerazione dal ministro Angelino Alfano che a tutt’oggi - ha concluso la presidente - ritiene che in Sardegna la situazione sia normale.

Mentre si auspicano iniziative urgenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il ricorso a provvedimenti alternativi della magistratura per ridurre il sovraffollamento, tutti attendono con crescente scetticismo l’apertura dei nuovi penitenziari. È però evidente che, in Sardegna, saranno necessari ancora due o tre anni per vederne conclusa la realizzazione ed altro tempo ancora per l’attivazione".

Pistoia: nove detenuti in celle per quattro situazione disumana

 

Il Tirreno, 8 febbraio 2010

 

Un detenuto di 42 anni di origini marocchine ha tentato il suicidio alle prime ore di ieri a Pistoia impiccandosi alla sponda della terza branda dei letti a castello della cella in cui si trovava recluso nel carcere Santa Caterina in Brana. A dare l’allarme sono stati gli stessi compagni di cella. Operatori carcerari e personale sanitario hanno rianimato il detenuto che ora si trova all’ospedale del Ceppo, piantonato.

L’uomo era in attesa di giudizio per reati connessi al traffico di stupefacenti. L’episodio ha riaperto le proteste sul sovraffollamento della struttura pistoiese: la cella in cui si è consumato il tentativo di suicidio era abilitata per quattro persone ma al momento del fatto ne ospitava più del doppio. Il Santa Caterina - nota la Cisl - ha una capienza di circa 70 detenuti, ma ne accoglie oltre 140.

La Cgil ricorda le numerose denunce relative alle "pessime condizioni vissute dai detenuti" e sottolinea che il tentativo di suicidio è avvenuto dalla "terza branda", cioè "quella posta sulla sommità dei letti a castello, quasi a sfiorare il soffitto". In una trasmissione su Tv1, è stato il delegato della Cgil Riccardo Palombo, ispettore della Polizia penitenziaria che lavora nel carcere, ha descritto così la situazione. "In stanze che a malapena potrebbero ospitare una persona - ha detto - ce ne sono tre in sette metri quadrati, compreso il gabinetto". Le stanze sono così piccole che i detenuti devono stare in piedi a turno. Altre celle sono invece di 20 metri quadrati: nate per ospitare 4 detenuti, ne ospitano 9, con tre letti a castello e sempre un solo gabinetto. Gli agenti di polizia penitenziaria, invece, sono solo il 60 per cento di quelli previsti.

 

"Una situazione ormai insostenibile"

 

"Cosa ancora dobbiamo aspettare che avvenga affinché si ponga fine ad una situazione insostenibile sotto tutti i punti di vista?": ancora una volta il grido d’allarme arriva dalla segreteria della Cgil-Funzione pubblica di Pistoia. "Abbiamo avuto notizia che nella casa circondariale di Pistoia un detenuto ha tentato il suicidio, impiccandosi alla "terza branda". Più volte abbiamo segnalato le pessime condizioni vissute dai detenuti e di conseguenza dai lavoratori della Polizia penitenziaria, all’interno del carcere. "Adesso, quanto temuto e denunciato si concretizza nella più cruda realtà: abbiamo voluto specificare le modalità del grave fatto, perché proprio la "terza branda", cioè quella posta sulla sommità dei letti a castello, quasi a sfiorare il soffitto, così posizionata per ovviare alle gravi carenze di spazio all’interno delle celle, fa parte delle tante segnalazioni contenute nella denuncia e per sottolineare altresì le condizioni disumane vissute dai detenuti". La Cgil ribadisce che un paese che si definisca democratico e civile non può permettere che questi drammi umani e sociali possano accadere. "Lanciamo un ulteriore appello a tutte le autorità pubbliche affinché pongano ascolto alla nostra denuncia e si facciano parte attiva per una risoluzione definitiva".

 

Avvocato ricorre alla Commissione diritti umani

 

L’avvocato Fausto Malucchi, che, per via della sua professione, frequenta spesso la casa circondariale di Santa Caterina, è stato protagonista, lo scorso ottobre, di una pesante denuncia contro le condizioni di vita dei detenuti pistoiesi. Alla sua voce se ne associarono altre nei giorni e nelle settimane successivi. Sindacati, politici, associazioni... Gli stessi detenuti scrissero una lettera (che riportiamo in questa stessa pagina) per far conoscere al mondo esterno ciò che avveniva dietro le sbarre.

Da ottobre scorso però ben poco è cambiato. E l’avvocato Malucchi ha presentato proprio in questi giorni - in nome di due suoi assistiti - un ricorso alla Commissione europea per i diritti dell’uomo, la stessa che, lo scorso anno, ha condannato l’Italia ritenendo che, a causa delle condizioni delle nostre carceri, i detenuti italiani debbano essere considerati come persone sottoposte a tortura.

"Ci sono dei parametri minimi che, se non rispettati, fanno sì che si parli di tortura - spiega l’avvocato Malucchi - Come ad esempio l’ampiezza delle celle: ciascun detenuto deve avere almeno 7 metri quadrati a disposizione. Invece qui a Pistoia, come altrove, i detenuti si trovano a vivere in condizioni disumane, che in un paese civile non dovrebbero essere tollerate. Ci indigniamo quando leggiamo delle carceri irachene o di Guantanamo, ma qui da noi la situazione è la stessa.

Certo, chi sbaglia deve pagare, ma non deve essere disumanizzato. Ci sono delle condizioni minime che devono essere rispettate. L’Unione europea ha già condannato l’Italia per il loro mancato rispetto. Io, in questi giorni, ho presentato per un paio di miei clienti un ricorso alla Commissione per i diritti umani, ma tutti i detenuti dovrebbero presentarlo, come forma di protesta civile che possa portare a una presa di coscienza collettiva. Una sorta di ricorso di massa. È molto semplice farlo". Nel frattempo, però, come risolvere questa situazione?

"Si fanno tanti progetti, ma tutti a lunga scadenza - lamenta il legale pistoiese - Nell’immediato, purtroppo, non c’è una soluzione definitiva. Però si potrebbe già fare qualcosa se i giudici considerassero maggiormente le alternative al carcere. Tanti sono in carcere perché sottoposti a custodia cautelare: purtroppo, molti magistrati considerano gli arresti domiciliari come una sorta di albergo, un premio, ma per molti sarebbero una forma sufficiente di limitazione della libertà. E anche per scontare la pena si dovrebbe ricorrere maggiormente alle forme alternative al carcere, come l’affidamento in prova". "Sarebbe bene - conclude Malucchi - che i magistrati che applicano le misure cautelari o che infliggono le pene andassero in carcere a constatare in prima persona per qualche ora la situazione che c’è. Non una visita guidata, ma in un giorno qualsiasi, quando nessuno li aspetta. Sarebbe già un passettino avanti".

 

Privati dei diritti minimi tra disagi e disperazione

 

I detenuti del carcere "Santa Caterina" di Pistoia stanno vivendo delle condizioni di detenzione molto dure, ben oltre quello che gli stessi regolamenti carcerari prevedrebbero. Queste condizioni non hanno niente a che vedere con il recupero sociale di chi ha commesso dei reati, come sostengono le autorità, ma al contrario le condizioni di vita qua dentro non fanno altro che alimentare il disagio e la disperazione e allontanare la prospettiva di una vita dignitosa. Chi è detenuto viene dimenticato in tutti i sensi e viene privato di quelli che invece dovrebbero essere dei diritti minimi. Le celle sono sovraffollate, i detenuti sono chiusi per 21 ore e mezzo, le condizioni igieniche sono precarie, con il rischio di contrarre malattie.

Ci sono difficoltà ad avere permessi per le visite mediche all’esterno, difficoltà ad incontrare la direzione carceraria, gli assistenti sociali e gli educatori. Non sono previste attività per consentire ai detenuti di occupare il tempo in modo costruttivo (esiste solo un corso di scuola media). Questa situazione non è accettabile. La direzione del carcere di Pistoia si deve fare carico di porre rimedio a queste sue carenze. In una società civile non si può permettere che l’istituzione carceraria sia la prima a violare le leggi (soprattutto per quanto riguarda il sovraffollamento). Oggi tutti riconoscono che le carceri italiane versano in condizioni penose. È giunto il momento di affrontare il problema per risolverlo.

 

I detenuti del carcere di Pistoia

Aversa (Ce): direttore Opg si difende "ho agito in buona fede"

 

Agi, 8 febbraio 2010

 

"Nessuno scheletro nell’armadio" e "l’avere agito in assoluta buona fede". Questi i punti di forza che hanno sorretto Adolfo Ferraro, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, accusato, sulla base di alcune intercettazioni telefoniche, di aver favorito la latitanza del boss torrese Giuseppe Gallo e scarcerato ieri dal tribunale del riesame di Napoli.

Ferraro, rimesso in libertà per mancanza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari, oggi ha voluto raccontare la sua verità. "Rispetto assolutamente - ha detto - l’operato della magistratura e del pm nel senso che sono assolutamente consapevole che la magistratura e i giudici svolgono un lavoro difficilissimo che merita tutto il nostro rispetto. Io credo nella legge - ha aggiunto - e quindi sono convinto che in qualche modo la verità e la giustizia vengono sempre a galla".

"La cattiva interpretazione di un mio modo di essere sempre disponibile nei confronti dei pazienti, delle persone che stanno male". Così Ferraro spiega il suo coinvolgimento nell’inchiesta portata avanti dalla Direzione Distrettuale Antimafia. "Credo - ha proseguito - che la mia disponibilità sia stata interpretata come una forma di collusione, di connivenza e questo mi amareggia. Quella che mi è stata mossa - ha proseguito - è un’accusa infamante, la cultura camorristica non mi appartiene". Tuttavia l’esperienza vissuta in carcere ha dato modo al direttore dell’Opg di Aversa di "guardare al mondo dei detenuti con nuovi occhi. Un mondo - conclude - che conoscevo ma stando dall’altra parte".

Sulmona: carcere sempre più affollato agenti verso lo sciopero

 

Il Centro, 8 febbraio 2010

 

L’ennesimo episodio autolesionistico di un detenuto del supercarcere di via Lamaccio riaccende le proteste della polizia penitenziaria. Gli agenti preannunciano scioperi. Giovedì pomeriggio un detenuto della sezione media sicurezza ha messo fuoco alla sua cella, procurandosi un’intossicazione che è gli è costata il ricovero in ospedale. Già in passato l’uomo, con problemi psichici, aveva dato problemi. L’accaduto, l’ennesimo nel carcere di Sulmona, ha fatto riesplodere la protesta degli agenti di polizia penitenziaria, in stato di agitazione permanente dall’anno scorso. I motivi principali del malcontento sono due: il sovraffollamento e la carenza di personale. La struttura di via Lamaccio ospita circa 500 detenuti e poco più di 200 agenti, a fronte dei 340 previsti sulla carta. A ciò si deve aggiungere che il carcere peligno ospita la Casa lavoro più grande d’Italia, in cui però solo il 30 per cento dei detenuti internati è occupato dalle due alle sei ore al giorno. Negli ultimi anni, poi, gli internati sono passati da 70 a oltre 200 (il 90% di loro ha un passato in organizzazioni criminali).

"Abbiamo chiesto la riconversione della Casa lavoro e la diminuzione degli internati", accusa Matteo Balassone, segretario regionale Cgil penitenziari, "ma non abbiamo ricevuto risposte. Per questo sciopereremo di nuovo, a breve". "Con un solo psichiatra e senza il lavoro nella sezione internati", rincara Mauro Nardella, vice segretario regionale della Uil penitenziari, "viene meno la rieducazione". Intanto, è pronta la mozione di Roberto Gentile, consigliere di maggioranza in Comune e ispettore penitenziario, che sarà dibattuta in un prossimo consiglio.

Trento: teatro e corteo, per chiedere verità su morte Frapporti

 

Trentino, 8 febbraio 2010

 

Com’è morto Stefano Frapporti? Secondo la magistratura si è suicidato in cella dove era detenuto per possesso di hashish. Per questo il pm Fabrizio De Angelis sarà il 18 febbraio dal gip per chiedere l’archiviazione dell’indagine sul decesso. Ma la domanda iniziale continuano a farsela gli amici e i parenti di "Cabana" (il soprannome di Frapporti), che hanno davanti un folto calendario di iniziative.

Sono già partite, indirizzate anche alla magistratura, molte cartoline prestampate con un collage di "lenzuolate" per Stefano. Si tratta di foto scattate ai balconi e alle finestre di chi ha esposto cartelli o striscioni per ricordare il muratore morto in circostanze così tragiche. Poi ci sarà una manifestazione pubblica per il giorno precedente l’udienza: il ritrovo è in piazza Loreto, poi la sfilata nelle vie del centro.

Il 18 febbraio, durante l’udienza gip, ci sarà invece il presidio davanti al tribunale. La posizione della famiglia, affidatasi all’avvocato trentino Gianpiero Mattei, è che prima di archiviare vadano eseguite ulteriori verifiche sui campioni organici prelevati dal corpo. In particolare, i famigliari vogliono sapere le ragioni della presenza di due punture sul braccio di cui non esistono spiegazioni: Stefano non aveva fatto esami del sangue, né altre iniezioni prima di arrivare in carcere la sera del 21 luglio 2009.

Il 16 febbraio i famigliari di Stefano Frapporti saranno a Roma alla manifestazione nazionale organizzata dalla madre di Marcello Lonzi, morto in cella in circostanze ancora da chiarire, per promuovere una raccolta firme contro le "morti di carcere" che verrà presentata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. "Com’è morto Stefano Frapporti?" è anche il titolo della pièce teatrale rappresentata già due volte alla Filarmonica: verrà riproposta il 20 febbraio al teatro S. Leonardo di Bologna e il 7 marzo a Venezia.

Cuneo: iniziative Caritas, per accoglienza e dignità dei detenuti

 

La Stampa, 8 febbraio 2010

 

In un momento in cui si parla di stato di emergenza per le carceri, il mondo carcerario dovrebbe essere letto con attenzione dall’opinione pubblica e da coloro che ritengono di poter risolvere il "problema sicurezza" con la costruzione di nuovi penitenziari e con maggiori carichi punitivi.

Il carcere andrebbe inteso come servizio a persone private della libertà e tuttavia integre nei diritti fondamentali: non luogo dove si finisce, ma dove si può ricominciare e dove i detenuti sono accompagnati verso la libertà. Per questo la Caritas diocesana di Cuneo propone, in collaborazione con le associazioni di volontariato Ariaperta e Sesta Opera, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, la Casa Circondariale e il Comune di Cuneo, un percorso che si snoderà tra un reportage fotografico, un film forum e due incontri: uno di presentazione dell’iniziativa che si terrà a Cuneo domani 8 febbraio alle 17 presso la Casa Circondariale e, a conclusione, una tavola rotonda dal titolo "Carcere e societàa", che si terrà, sempre a Cuneo, sabato 20 marzo 2010 dalle 9.30 alle 12, presso la Sala San Giovanni di via Roma 9.

Le iniziative, che saranno illustrate dettagliatamente con la conferenza dell’8 febbraio prossimo, desiderano suscitare una particolare attenzione sull’esperienza della detenzione in Italia. Lo scopo della proposta, patrocinata dal Comune e dalla Provincia di Cuneo, è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su un contesto della nostra società che dovrebbe essere maggiormente conosciuto, letto con attenzione e, attraverso una corretta informazione, suscitare atteggiamenti nuovi, scelte di servizio attente alla persona e cammini di promozione umana.

Immigrazione; l’Unione Europea ed i super-doveri di immigrati

di Giovanna Zincone

 

La Stampa, 8 febbraio 2010

 

La cittadinanza dell’Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata. Vediamo perché. L’Ue, in quanto figlia non troppo degenere della Comunità economica, adotta una cittadinanza che segue la logica della libera circolazione: incentiva le persone a muoversi dove ci sono più opportunità. La cittadinanza nazionale segue la tradizionale logica dello stato-nazione: pretende comunanza di cultura e di lingua, incentiva le persone a radicarsi sul territorio.

Per diventare cittadino europeo basta avere la nazionalità di uno dei Paesi membri, poi si va e si lavora dove si vuole. Non si chiede ai cittadini comunitari di conoscere la lingua, la cultura, le istituzioni dei paesi dell’Unione in cui emigrano. Al contrario, le singole cittadinanze nazionali chiedono assimilazione, vogliono e inducono stabilità. Per naturalizzarsi occorre essere lungo-residenti, oppure essere nati sul territorio, o avervi studiato per un po’ di anni.

L’europeo è invitato ad andare negli altri Paesi dell’Untone senza vincoli, mentre il non comunitario che vuole diventare cittadino del singolo Paese deve restare fermo e assimilarsi. La differenza è comprensibile. Per concedere un diritto che segna l’appartenenza ad una comunità civile lo Stato chiede garanzie. Non vuole dare un titolo importante a chi stia u quasi per caso, deve capire se chi vuole entrare nel club fa sul serio, anche se alcuni segnali di questo "fare sul serio" variano. Oggi nell’Unione il requisito della residenza va dal minimo di 3 anni in Belgio al massimo di 12 in Grecia (ma quel governo intende ridurlo a 5 anni). Per gli altri segnali di integrazione stiamo assistendo, invece, ad un trend convergente. In quasi tutti i Paesi europei una certa conoscenza della lingua è sempre stata valutata quando si trattava di concedere la naturalizzazione, ma per lo più non si chiedevano prove formali.

Da quando, nel 1999, la Germania ha inserito per legge la conoscenza dei tedesco, molti Paesi hanno seguito il suo esempio. Poi sono arrivati i test di integrazione, introdotti in Gran Bretagna nel 2002. Anche i test hanno attecchito alla grande, e servono non solo a valutare la competenza linguistica, ma anche la conoscenza della cultura, della storia, della vita civile del Paese di immigrazione.

Per fornire le conoscenze ritenute necessarie si sono allestiti corsi di integrazione: ad aprire la pista in questo caso è stata l’Olanda, e di lì i corsi si sono dimisi a macchia d’olio. L’asticella da superare per diventare cittadino si è talvolta abbassata sui tempi, ma si è alzata per le prove di integrazione. Alcuni esperti considerano queste richieste eccessive e inutili: se un individuo se la cava a vivere e a lavorare senza conoscere bene una lingua, se la può cavare altrettanto bene a votare, una volta che sia stato promosso a cittadino. D’altronde i regimi democratici, con il suffragio universale, hanno concesso la cittadinanza politica anche agli analfabeti.

Quanto al caso italiano, fin troppi commentatori hanno già osservato che si pretende dai nuovi cittadini una cultura pubblica che non dimostrano di avere neppure molti parlamentari. Ma questi argomenti funzionano solo se vogliamo continuare ad accontentarci di una democrazia scadente. Altrimenti, proprio dai requisiti che imponiamo agli immigrati perché vogliamo nuovi cittadini competenti, dovremmo prendere spunto per chiedere altrettanto ai nostri concittadini per diritto ereditario.

Anziché abbassare l’asticella per gli stranieri, dovremmo saltare tutti un po’ più in alto. Questo implica prendere molto più sul serio l’educazione civica, proporre palinsesti radiotelevisivi appetibili ed eticamente intensi. L’esigente approccio nei confronti dei nuovi cittadini potrebbe offrire uno spunto per chiedere maggiore competenza ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado.

Si tratterebbe sia di ristabilire un cursus honorum, una carriera basata sull’apprendimento graduale, sia di restituire ai partiti quella funzione di educatori civili che svolgevano utilmente in passato. Ma se la severità nelle richieste che facciamo ai nuovi cittadini può essere utile per costruire una democrazia più adulta, non si capisce invece a cosa servano pretese di assimilazione rivolte a chi è qui solo per lavorare.

È sensato imporre una buona conoscenza della cultura storica e civica, dei meccanismi del welfare del nostro Paese anche a chi non intende radicarsi e non vuole diventare cittadino? Lo si è già fatto con il pacchetto sicurezza per la concessione della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo 5 anni di residenza regolare, adesso pare che lingua e cultura diventino una condizione per restare a lavorare in Italia dopo un tempo di residenza anche più breve. Ma se uno straniero investe tanto per imparare lingua e cultura del luogo, sarà poi riluttante a spostarsi altrove, a tornare in patria.

Il suo progetto iniziale, magari a breve termine, si trasformerà in un progetto stanziale a lungo termine. Se si può accettare la sfasatura tra una cittadinanza europea mobile, concepita in una logica economica, e una cittadinanza nazionale stanziale, concepita in una logica da stato-nazione, non si capisce perché calare la cappa della logica statuale anche ai permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Perché imporre ai lavoratori stranieri l’obbligo di assimilarsi? Non ci basta che rispettino le nostre leggi e i valori portanti delle nostre democrazie? Meraviglia che forze politiche convinte dei benefici di un’immigrazione circolare, fluida, si adoperino per spingere gii immigrati a diventare stanziali.

Immigrazione: Carabiniere spara ed uccide un giovane africano

 

Corriere della Sera, 8 febbraio 2010

 

Un controllo di routine su un’auto sospetta, un movimento brusco, forse un tentativo di fuga. E la reazione da parte delle forze dell’ordine. È morto così ieri sera in provincia di Bergamo un immigrato nordafricano, colpito dal proiettile esploso dall’arma di un carabiniere che aveva appena fermato lui e un suo connazionale.

L’episodio è avvenuto a Mornico al Serio, un paese della Bassa Bergamasca, poco dopo le 21. Ancora frammentaria la ricostruzione dell’episodio. Secondo quanto riferiscono fonti dell’Arma una pattuglia si è avvicinata a una Peugeot 206 ferma in via Verdi, nel centro del paese. A bordo c’erano due persone, immigrati nordafricani all’apparenza.

I militari avevano e hanno il sospetto che fosse in corso uno scambio di sostanza stupefacente, anche se non sarebbe stata trovata droga sul posto. Dopo che i due sono stati fatti scendere dall’auto, sono stati chiesti i documenti. A questo punto la ricostruzione dei fatti si fa complicata. C’è chi parla di una colluttazione, chi di un tentativo di fuga da parte degli immigrati. È a questo che dalla

pistola d’ordinanza di uno dei due militari parte un colpo da ravvicinata che centra al petto l’extracomunitario mentre l’amico che era con lui riesce a scappare a piedi facendo perdere le sue tracce. A Mornico nel frattempo arriva un’ambulanza del 118 che tenta un disperato tentativo di rianimazione del ferito, tentativo che si rivela presto inutile.

L’identità della vittima non è stata accertata anche perché sul corpo e sull’auto non sono stati trovati suoi documenti. Incerta è anche l’ipotesi che si tratti di un pusher, ma la droga potrebbe essere stata in possesso dell’uomo che è scappato. Nella stessa zona, due anni fa, sempre durante un controllo su un’automobile era scaturito un conflitto a fuoco tra una pattuglia di carabinieri e quattro immigrati di origine balcanica. Al termine della furiosa sparatoria due immigrati erano rimasti sull’asfalto privi di vita mentre due militari erano stati ricoverati all’ospedale di Treviglio con lievi ferite di arma da fuoco.

Svizzera: a Ginevra record di detenuti, il doppio della capienza

 

Ansa, 8 febbraio 2010

 

Costruito per accogliere 270 detenuti, il carcere ginevrino di Champ-Dollon ne ospita attualmente 545, un record, ha indicato oggi il presidente dell’Unione del personale del corpo di polizia carceraria, Philippe Veronese. Un simile sovraffollamento si traduce in un eccessivo carico di lavoro per il personale, ha aggiunto. In celle che erano state previste per un solo carcerato, oggi convivono in tre, mentre quelle di tre ne ospitano cinque, perfino sei. Entro la fine dell’anno a Champ-Dollon potrebbero esserci 600 detenuti, con tutti i rischi che ne conseguono, ha ammonito Veronese.

Israele: in carceri, 16 detenuti palestinesi sono malati di cancro

 

Infopal, 8 febbraio 2010

 

Il Centro studi dei prigionieri per i diritti umani ha affermato che 16 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane sono malati di cancro, ma i loro carcerieri non forniscono loro cure adeguate. Fùad al-Khafash, direttore del Centro, ha accusato gli israeliani della totale responsabilità per la vita dei detenuti, sottolineando che i prigionieri malati di cancro o di altre malattie gravi non ricevono un trattamento appropriato: "C’è un disprezzo totale da parte dei carcerieri israeliani per la vita dei detenuti malati; non offrono loro cure adeguate".

Egli ha fatto sapere che il caso più grave è quello del prigioniero Imad al-Din Ata Zòrob, del campo profughi di Khan Yunis, detenuto da 16 anni, che soffre di un cancro che ormai lo ha colpito in diverse parti del suo corpo. Vi è anche il caso del prigioniero Ràed Mohammad Darabya, da Gaza, colpito ad un cancro alla scheda, che ha subito diverse operazioni senza successo, la cui salute è deteriorata molto, tuttavia le autorità di occupazione si rifiutano di curarlo come si deve o di rilasciarlo".

Al-Khafash ha espresso il suo timore per la vita dei prigionieri malati di cancro e degli altri prigionieri con malattie gravi, come insufficienza renale, problemi di cuore, l’indurimento delle arterie e la chiusura dei vasi sanguigni e ictus. Egli ha chiarito che sono oltre duecento i detenuti malati gravi, oltre al migliaio di prigionieri malati che non ricevono cure se non alcuni calmanti, a prescindere della natura della malattia e della sua gravità. Egli ha chiesto perciò alle organizzazioni umanitarie internazionali di intervenire per far pressione sull’occupazione in modo da liberare i prigionieri malati gravi, e consentire loro di curarsi all’estero "prima che vadano ad incrementare la lista dei martiri nelle prigioni, il cui numero ha raggiunto i 197 morti dal 1967".

 

 

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