Rassegna stampa 26 febbraio

 

Giustizia: settimana più nera dell’anno per le carceri italiane 

 

Ansa, 26 febbraio 2010

 

Si chiamava Marco Mazzocchi e aveva 45 anni, separato con tre figli, l’agente di Polizia penitenziaria ucciso a colpi di pistola a Varcaturo, località del giuglianese (Napoli) e il cui cadavere è stato trovato intorno alle 7 dalla Polizia all’interno di un condominio. A rendere nota l’identità dell’agente è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, che afferma: "ricordiamo Mazzocchi come una persona equilibrata, sobria e professionalmente inappuntabile. Era preposto alle mansioni di portinaio presso la Casa Circondariale di Pozzuoli e, spiega Sarno, proprio le sue mansioni in portineria "escluderebbero un delitto maturato nell’ambito carcerario, anche se è ancora troppo presto per dirlo". Per Sarno, "con l’omicidio del collega Marco Mazzocchi si chiude una settimana funesta per l’intero sistema penitenziario".

Traccia un bilancio degli ultimi avvenimenti: "un collega morto ammazzato, cinque detenuti morti per suicidio (Roma, Brescia, Fermo, Padova, Vibo Valentia), tre tentati suicidi (due a Perugia il 24 febbraio ed uno a Siracusa ieri), sei agenti penitenziari feriti (cinque a Padova il 19 febbraio e uno a Piacenza il 22 febbraio), un medico penitenziario aggredito e ferito il 20 febbraio a Bari sono il consuntivo di una settimana violenta per il sistema penitenziario italiano".

"Questi episodi, che seguono ad un periodo di relativa calma, sono campanelli di allarme che non possono e non debbono essere sottovalutati da nessuno - aggiunge Sarno - il governo e il Parlamento dopo la discussione alla Camera dei Deputati sullo stato delle carceri con relativa approvazione di mozioni specifiche, hanno il dovere di legiferare in tal senso, debbono farlo, presto e bene. Corriamo a passo spedito verso quota 67mila detenuti a fronte di una ricettività massima di 43mila posti, non è possibile - conclude - stare fermi in attesa della completa deflagrazione del sistema".

Giustizia: un "vademecum" per evitare i suicidi dietro le sbarre

 

Ansa, 26 febbraio 2010

 

Dodici detenuti suicidi in nemmeno due mesi, l’ultimo ieri nel carcere di Rebibbia. A fronte di soli 4 episodi avvenuti nello stesso periodo del 2009. Una preoccupante escalation che ha spinto l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere a stilare una sorta di vademecum per fare prevenzione "senza dover attendere modifiche normative o altro". Il cahier delle "buone pratiche" è stato messo a punto con l’aiuto di detenuti e operatori penitenziari.

 

Cosa non fare con un detenuto "a rischio"

 

- non metterlo nella cosiddetta "cella liscia";

- non togliergli tutto quello che potrebbe usare per suicidarsi: se vuole trova lo stesso il modo (Giacomo Attolini, ad esempio, si è impiccato utilizzando la maglietta);

- non controllarlo in modo ossessivo;

- non minacciare di mandarlo in "osservazione" all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

 

Cosa non fare con tutti i detenuti

 

- non creare "sezioni ghetto";

- non aspettare che chiedano aiuto;

- non sottovalutare i tentativi di suicidio e le autolesioni, considerandoli "dimostrativi";

- non applicare sanzioni o punizioni per atti autolesionistici o tentativi di suicidio;

- non esprimere un giudizio morale sugli atti autolesionistici o i tentativi di suicidio;

- non suggerire (provocatoriamente) di "tagliarsi" per ottenere qualcosa.

 

Cosa fare

 

- dare attenzione alla persona (Gruppi di attenzione e di ascolto sono presenti in alcune carceri) durante tutto il periodo detentivo, e non solo limitandosi al primo ingresso, o alla fase di accoglienza;

- aumentare le possibilità di lavoro e di attività intramurarie;

- cercare di credere a quello che le persone detenute dicono, rispetto ai problemi propri o dei compagni;

- ridefinire il concetto di rischio suicidario: il suicidio viene spesso visto come una malattia;

- migliorare il contesto relazionale all’interno della struttura;

- pensare a sostenere l’autore di reato nel rielaborare il reato commesso;

- pensare a una mediazione tra l’autore di reato e la sua famiglia;

- sostenere la persona detenuta in una sua progettualità;

- fare più formazione a tutto il personale.

Giustizia: Dap; suicidi; più attenzione ai problemi dei detenuti

 

Dire, 26 febbraio 2010

 

Il vicedirettore Santi Consolo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parla degli interventi per arginare il fenomeno: allertare maggiormente la polizia penitenziaria, creare un servizio di ascolto, coinvolgere i volontari.

Allertare la polizia penitenziaria ad avere più attenzioni nei confronti dei detenuti, curare maggiormente la prima accoglienza, creare un servizio di ascolto per cercare di conoscere i problemi di chi entra in carcere anche solo per poco tempo e coinvolgere le associazioni di volontariato. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) sta pensando ad alcuni interventi per tentare di arginare il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre (12 dall’inizio dell’anno, l’ultimo a Rebibbia). "Abbiamo avuto alcuni incontri con la commissione" parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari "presieduta da Leoluca Orlando per illustrare le iniziative in merito", dice Santi Consolo, vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

"Abbiamo allertato maggiormente il personale - anche se molti casi di tentato suicidio sono stati sventati proprio grazie all’attenzione degli agenti - e cercheremo di curare di più la prima accoglienza dei detenuti per alleviare le situazioni di criticità. Spesso il disagio sfocia in episodi estremi; e ogni suicidio è sia un dolore sia una sconfitta - continua Consolo -. La carenza di psicologi, psichiatri, del personale di supporto e delle iniziative per alleviare la quotidianità dei detenuti è notoria". Ma "il fenomeno va ricondotto entro i giusti limiti: le statistiche non vanno fatte alla fine del mese ma alla fine dell’anno".

Il capo del dipartimento, poi, un mese fa ha "inviato una circolare per iniziare a costruire dei gruppi di ascolto" all’interno degli istituti penitenziari, aggiunge Sebastiano Ardita, responsabile della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap. "I suicidi sono legati alla mancanza di conoscenza delle problematiche di chi entra in carcere e vi resta per breve tempo". Così, "oltre a risolvere il problema del sovraffollamento, è necessario costruire una rete di attenzioni intorno ai detenuti per tentare di conoscere la loro situazione affettiva, familiare, i loro problemi", soprattutto in una realtà dove il carcere non è più solo un luogo di pena ma è diventato una sorta di "welfare rafforzato che raccoglie il disagio", commenta Ardita. "Per questo bisogna coinvolgere anche il volontariato", conclude il responsabile della direzione generale detenuti e trattamento del Dap.

La circolare del Dap per far fronte al rischio suicidi tra i detenuti però (n. 32296 del 25 gennaio 2010) non è stata vista di buon occhio dal Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. La criticità rilevata dal presidente Giuseppe Luigi Palma riguarda soprattutto il fatto che il servizio di ascolto dovrebbe essere composto da agenti di polizia penitenziaria e non da psicologi.

Giustizia: Forum; i suicidi, colpa continui tagli a spesa sanitaria

 

Redattore Sociale, 26 febbraio 2010

 

Parla Fabio Gui, segretario generale del Forum per il diritto alla salute dei detenuti. "Tagli fino al 40%, carenza di medici specialisti e psicologi. L’80% delle strutture transitate alle Asl non è a norma.

I suicidi in carcere sono figlie "della storia degli ultimi anni: una storia fatta di continui tagli ai capitoli che riguardavano spesa sanitaria, in particolare specialisti e psicologi": è quanto afferma Fabio Gui, segretario generale del Forum per il diritto alla salute dei detenuti, commentando l’escalation di suicidi dietro le sbarre nei primi mesi del 2010. "Questi tagli sono arrivati oltre 40% budget, determinando un incremento di investimento per il servizio e l’assistenza contestualmente, crescita del bisogno. Siamo di fronte a una grave insufficienza psicologi ex articolo 80, i quali peraltro sono ancora di competenza di ministero Giustizia, perché non sono transitati"

Il problema del carcere è dunque di carattere strutturale e, in un simile contesto, la transizione della medicina penitenziaria al sistema sanitario nazionale "ha alzato il coperchio mostrando tutte le carenze: basti pensare che l’80% delle attrezzature sanitarie transitate alle Asl non erano a norma. Peraltro, i soldi destinati a regioni non sono ancora transitati, quindi da 18 mesi le regioni stanno anticipando tutte le spese (farmaceutica, stipendi..)". Replica così, Gui, a quanto affermato in una nota dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), che indicava proprio in questa riforma una delle cause dell’attuale carenza di assistenza: "A chi vive sulla propria pelle dramma del sotto-organico, vorrei ricordare che il transito sancisce il diritto alla salute del detenuto: un diritto che dobbiamo tutelare.

Forse il problema è che ci sono pochi poliziotti: ma dobbiamo ridurre per questo le visite specialistiche? D’altra parte, come si fa a parlare di salute e sanità quando c’è un sovraffollamento di 26.000 persone, quando l’80% delle strutture non sono a norma, quando non ci sono agenti per aprire cancelli, quando c’è uno psicologo per 200 persone? E come possiamo parlare di diritti dei detenuti, quando proprio in questi giorni 10 persone sono state improvvisamente trasferite da Regina Coeli a Frosinone per far posto a 10 arrestati nella vicenda Fastweb? Come faranno per i colloqui? Come manterranno i contatti con i familiari?".

Per ridurre i suicidi dietro le sbarre, bisogna prendere di petto il problema del sovraffollamento: "Perché ci sono meno di 10.000 persone in misura alternativa? Perché i detenuti tossicodipendenti (circa il 30% della popolazione carceraria) non viene trasferito nelle comunità? Perché in carcere ci sono 20.000 persone in custodia cautelare (quasi un terzo della popolazione), perché nel 2009 hanno affollato le carceri 10.000 stranieri per inosservanza del decreto di espulsione? Si può fare molto sul sovraffollamento: ma c’è la voglia di farlo? La riforma introduce un pensiero nuovo, che non tutti sono pronti ad accogliere".

Giustizia: Antigone; combattere sovraffollamento e solitudine

 

Redattore Sociale, 26 febbraio 2010

 

L’associazione era dentro il carcere di Rebibbia, quando si è tolto la vita, ieri, un detenuto 47enne. Gonnella: "Bisogna lasciare i detenuti vicino alle famiglie e facilitare le telefonate ai parenti. In generale, è necessario svelenire il clima".

Antigone era dentro il carcere di Rebibbia, quando si è tolto la vita, ieri, un detenuto 47enne. "Eravamo lì per costruire uno sportello di consulenza legale destinato ai detenuti", ci racconta patrizio Gonnella, che denuncia la "sconfortante assenza di tentativi di risposta a qualsiasi tragedia da parte delle istituzioni: silenzio totale, non per pietà, ma per indifferenza". E non ha molta fiducia, Gonnella, neanche nelle recenti aperture del Dap, che nei giorni scorsi ha incontrato le associazioni per programma re in monitoraggio sui progetti di prevenzione dei suicidi in carcere e l’elaborazione di nuove proposte: "Riconosco la buona volontà di alcuni pezzi dello Stato, ma bisogna vedere se avranno la forza di contrastare gli altri pezzi di segno opposto".

Ma da dove bisogna partire per ridurre il numero dei suicidi dietro le sbarre? "Innanzitutto, i detenuti devono essere reclusi in un carcere che sia vicino alle loro famiglie. Allo stesso tempo, bisogna approvare una norma che consenta più facilmente di telefonare ai familiari: attualmente un detenuto può fare due telefonate al mese, solo a numeri fissi e per una durata massima di 10 minuti. A livello generale, occorre svelenire il clima, per poter poi pensare a politiche criminali più ragionevoli. I suicidi infatti sono prima di tutto il prodotto di un clima avvelenato. Quel che vorremmo, come associazione, è che Ionta e Alfano dichiarassero pubblicamente che esiste un rapporto tra sovraffollamento e suicidi e riconoscessero il diritto di immigrati e detenuti ad essere "trattati bene": quando ci saranno affermazioni pubbliche di questo segno, inizierò a nutrire qualche speranza".

Giustizia: Giro (Pdl); allarme rosso servono risposte immediate

 

Adnkronos, 26 febbraio 2010

 

Il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro, ha ricevuto nella sede del ministero il garante dei detenuti nelle carceri del Lazio, Angiolo Marroni. "Con l’amico Marroni - ha dichiarato Giro - ho avuto un lungo e approfondito colloquio sulle condizioni carcerarie nel Lazio alla luce del suicidio, il dodicesimo in soli due mesi, avvenuto a Rebibbia. Le carceri del Lazio sono tutte sovraffollate e siamo di fronte ad un allarme rosso verso il quale occorre dare una risposta immediata e senza ulteriori rinvii". "Da un lato si tratta di promuovere l’edilizia carceraria ma dall’altro lato occorre anche prevedere una legislazione più moderna e realistica sulle pene alternative - ha aggiunto - perché se è giusto contrastare il reato con la pena, occorre anche calibrare bene le sanzioni. Le persone sono diverse le une dalle altre con profili esistenziali e psicologici che nel comminare la pena devono avere un loro rilievo".

Giustizia: 19enne suicida in carcere? i genitori chiedono verità

di Simona Filippi (Antigone)

 

Terra, 26 febbraio 2010

 

Abbiamo appreso della morte di C.C. da una lettera dei suoi genitori arrivata qualche settimana fa al Difensore civico di Antigone. È una triste vicenda avvenuta nella scorsa primavera e trapelata da un’agenzia di stampa come un’ipotesi di suicidio. In questi termini ne parlava l’ansa del 29 marzo scorso: "un ventenne, C. C., detenuto nella Casa Circondariale di... è morto per i postumi delle ferite che si è procurato impiccandosi nella sua cella dopo il ricovero nel pronto soccorso dell’ospedale".

Sulla scia del caso di Stefano Cucchi, i genitori decidono di scriverci perché ritengono che anche la morte di loro figlio sia avvenuta in "circostanze poco chiare" e perché Stefano non è "né il primo né l’ultimo fino a quando tutte queste storie di morti invisibili non vengono messe a conoscenza con regolarità".

A soli 19 anni, C. sarebbe morto suicida in un carcere siciliano dopo 4 giorni dall’arresto. I genitori non credono che il figlio possa essersi suicidato e ci spiegano le loro ragioni.

C. viene fermato assieme ad altri due ragazzi dopo una rapina subita da un tabaccaio. A seguito dell’arresto, ci raccontano nella lettera i genitori, i tre giovani sono stati "massacrati di bastonate" così come rivelano le foto segnaletiche in cui C. "aveva gli occhi neri, l’orecchino strappato dall’orecchio e le labbra ferite".

C. probabilmente non aveva commesso la rapina. Come attestano le telecamere del negozio e come avrebbe dichiarato lui stesso nel corso dell’interrogatorio di garanzia, si trovava lì in quel momento perché stava acquistando delle sigarette e non conosceva i due rapinatori.

Dopo il suo ingresso in carcere, viene messo in una cella di isolamento e lì la mattina del quarto giorno gli agenti penitenziari lo trovano mentre si sta impiccando. L’ospedale si trova a soli 5 minuti di distanza dal carcere ma i soccorsi sono inutili.

Alle 11.30 del 28 marzo C.C. muore e i genitori vengono avvertiti dal personale penitenziario dopo quattro ore, alle 15.30. I genitori sanno dell’innocenza del figlio e soprattutto sanno che non si sarebbe mai suicidato.

Ci chiedono di dargli voce per capire le cause della sua morte, ci chiedono di avere delle "spiegazioni chiare" - noi aggiungiamo, dovute - dei segni trovati sul suo corpo, del perché sia stato messo in una cella di isolamento e perché i soccorsi siano stati inutili nonostante l’ospedale si trovi a poca distanza dal carcere.

Noi non possiamo rispondere alle loro domande, lo farà la magistratura, ma, oltre ad aver denunciato il fatto alla Procura competente, ci sentiamo in dovere di dare voce a questa vicenda, come abbiamo già fatto in passato per altri casi, perché è inaccettabile la prassi o del silenzio o del mero cordoglio pubblico su queste morti.

Giustizia: Sappe; nuovo suicidio a Rebibbia, intervenire subito

 

Ansa, 26 febbraio 2010

 

"Abbiamo saputo da pochi minuti di un nuovo suicidio in carcere di un detenuto italiano Roberto Giuliani di 47 anni con fine pena nel 2017, nel reparto G11 di Roma Rebibbia. Si è impiccato nel bagno della cella con una cintura. Un altro che, a Siracusa, dopo essersi buttato dalla tromba delle scale del carcere dopo un colloquio, è in coma. Il fenomeno dei suicidi in carcere (dodici detenuti in questi primi giorni del 2010) ci preoccupa.

La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e di educatori, di psicologi e di Personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento dei carceri italiani (oltre 66mila detenuti in carceri che ne potrebbero ospitare 43mila, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi.

Anche il passaggio della sanità penitenziaria al servizio nazionale pubblico (ultimo atto del fu Governo Prodi, che peraltro venne assunto contro il parere di tutti gli operatori del settore) ha indubbiamente determinato problemi all’assistenza (anche psicologica) ai detenuti. E per colpa di queste scelte sbagliate, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Non si può e non si deve chiedere al Personale del Corpo di "accollarsi" la responsabilità di tracciare profili psicologici che possano eventualmente permettere di intuire l’eventuale rischio di autolesionismo da parte dei detenuti".

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione ai recenti suicidi di detenuti avvenuti in alcune carceri italiane.

"A nostro avviso è assolutamente necessario dare attuazione alle previsioni contenute nel Piano carceri del Governo, potenziando maggiormente il ricorso all’area penale esterna e limitando la restrizione in carcere solo nei casi indispensabili e necessari. Una cosa è certa: se non fosse per la professionalità, l’attenzione, il senso del dovere dei poliziotti penitenziari le morti per suicidio in carcere sarebbero molte di più di quelle attuali.

I poliziotti e le poliziotte penitenziari italiani nel solo 2008 sono infatti intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita a ben 683 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che i 4.928 atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. La Commissione dipartimentale per le Ricompense al Personale di Polizia Penitenziaria, presieduta dal Capo Dap Franco Ionta, ha deliberato - tra il 2008 ed il 2009 - la concessione di ben 45 encomi (alcuni anche solenni) e circa 300 lodi a diversi poliziotti penitenziari, molte dei quali - grazie a interventi tempestivi e fondamentali - hanno salvato la vita a detenuti che hanno tentato di ammazzarsi in cella!"

Giustizia: Radicali; suicidio Rebibbia, interrogazione a Alfano

 

Dire, 26 febbraio 2010

 

La delegazione dei deputati Radicali nel gruppo del Pd ha depositato un’interrogazione al ministro della Giustizia, a prima firma Rita Bernardini, sul suicidio di Roberto Giuliani nel carcere di Rebibbia: il dodicesimo dall’inizio del 2010 nelle carceri italiane.

L’uomo, 47enne, trasferito a Rebibbia quasi un anno fa, si è impiccato il 25 febbraio nel bagno della cella del reparto G11 del carcere romano. Giuliani era stato condannato nel 2002 per concorso in duplice omicidio e sarebbe uscito dal carcere nel 2028. Giudicato paziente psichiatrico a rischio, era stato nelle carceri di Frosinone e Spoleto e poi negli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto, prima di approdare, la scorsa primavera, a Rebibbia I deputati Radicali si rivolgono al ministro della Giustizia per sapere, tra l’altro, "se non ritenga che l’alto tasso di suicidi in carcere dipenda dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno" e "se non intenda immediatamente stanziare fondi per migliorare la vita degli agenti penitenziari e dei detenuti in modo che il carcere, anche attraverso pene alternative, non sia solo un luogo di espiazione e di dannazione ma diventi soprattutto un luogo in cui i detenuti possano avviare un percorso concreto per essere reinseriti a pieno titolo nella società".

Giustizia: il Garante; quell’uomo non doveva stare in carcere!

 

Comunicato stampa, 26 febbraio 2010

 

Era arrivato a Rebibbia la scorsa primavera e, subito dopo, aveva tentato di togliersi la vita: per questo Roberto Giuliani, il 47enne che si è tolto la vita ieri nel carcere romano, dallo scorso settembre era sottoposto a regime di grande sorveglianza. "Ma tale misura - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - non è servita ad evitare la tragedia.

A Rebibbia Nuovo Complesso ieri erano presenti 1685 detenuti, la presenza più alta di sempre. È evidente che il sovraffollamento e la carenza di risorse umane e finanziarie crea una situazione di perenne emergenza in carcere, all’interno della quale ogni misura precauzionale assunta ha una efficacia relativa".

Giuliani era stato condannato nel 2002 per concorso in duplice omicidio dal 2002 e sarebbe uscito dal carcere nel 2028. Giudicato paziente psichiatrico a rischio, era stato nelle carceri di Frosinone e Spoleto e poi negli Ospedali Psichiatrici giudiziari di Montelupo, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto, prima di approdare, la scorsa primavera, a Rebibbia Nuovo Complesso, sezione G 11, dove a vissuto in questi mesi insieme a 450 altri detenuti affetti da patologie cliniche di varia natura.

"La storia clinica di quest’uomo - ha concluso Marroni - indicava chiaramente che era incompatibile con una reclusione di tipo tradizionale, e non è un caso che fosse sottoposto a regime di grande sorveglianza. Ma in una situazione fuori controllo come quella che si sta vivendo nelle carceri, è drammaticamente evidente che molte situazioni al limite possano finire in questo modo".

Giustizia: sul caso Cucchi ancora tentativi di "insabbiamento"?

 

www.cnrmedia.com, 26 febbraio 2010

 

Ennesimo disguido che allunga l’iter verso la verità sulla morte di Stefano Cucchi. L’avvocato Anselmo: "Non arriva la documentazione giusta ai periti della difesa. È la quarta volta". Per il caso del giovane morto pochi giorni dopo il suo arresto sono indagati tre agenti di polizia penitenziaria e tre medici del reparto detentivo dell’ospedale Pertini.

Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi si sfoga ai microfoni di CNRmedia: "Ancora una volta ci arriva documentazione che non c’entra nulla. È’ la quarta volta che il nostro perito, il professor Fineschi, riceve materiale inutile, mentre noi continuiamo a rincorrere ciò che è nostro sacrosanto diritto ricevere: le foto della TAC e le radiografie eseguite nel corso della seconda autopsia disposta dal pm".

È’ l’ennesimo disguido che allunga l’iter verso la verità sul caso di Stefano, il giovane morto nell’ottobre scorso a Roma alcuni giorni dopo il suo arresto. Per la sua morte sono indagati tre agenti della polizia penitenziaria e tre medici del reparto detentivo dell’ospedale Pertini.

"L’avvocato Piccioni lunedì scorso - prosegue Anselmo - si è recato presso l’Istituto di Medicina legale della Sapienza e ha ritirato un pacco per il professor Fineschi: stamattina lo ha aperto e non contiene, di nuovo, il materiale richiesto. Non so più cosa pensare, perché non è un disguido che è capitato una sola volta, è la quarta: tre volte in Procura e questa settimana all’istituto legale. Abbiamo anche mandato un fax per richiedere tutto, ma senza risultato. Noi non possiamo andare a scassinare gli uffici dei consulenti del pm".

Giustizia: Pdl; certezza pena non è in antitesi con rieducazione

 

Agi, 26 febbraio 2010

 

"La certezza della pena non è in antitesi con una concezione rieducativa della stessa, né le carceri devono essere luoghi dove si potenzino, invece che riducano, le spinte criminali". Lo ha detto Roberto Menia, sottosegretario all’Ambiente, intervenendo al convegno nazionale organizzato dal Sidipe (Sindacato dirigenti penitenziari) su "Ideazione penitenziaria".

"L’idea di un carcere che - ha aggiunto Menia - equilibrando la dignità dei luoghi con la sobrietà e salubrità degli stessi, sia anche opportunità per imparare una professione, acculturarsi e, comunque, sforzarsi realmente a riparare i danni fatti, specie nei confronti delle vittime, mi trova perfettamente d’accordo.

Che poi queste carceri abbiano la forma di una piattaforma marina o quella di un classico istituto sulla terraferma - ha precisato - è indifferente, perché credo che la buona ingegneria italiana e la sua famosa architettura, saprà in ogni caso, se libera da condizionamenti, esprimersi al meglio".

 

Bene politiche reinserimento lavorativo

 

"Il problema del sovraffollamento delle carceri, dal quale deriva tutta una serie di emergenze tra cui le condizioni psico-fisiche dei detenuti, è una questione che si può affrontare anche con l’aiuto di politiche di reinserimento lavorativo e sociale adeguate". È quanto afferma il candidato al consiglio regionale del Lazio, Pier Paolo Terranova, in merito al "dibattito sul sovraffollamento delle carceri e delle condizioni dei detenuti negli istituti di pena". "Per quei detenuti con pene minori l’idea - spiega Terranova - è quella di rendere stabile la sperimentazioni già esistente del reinserimento lavorativo e sociale. È ormai opinione diffusa anche tra gli operatori del settore la consapevolezza che il riempire il tempo vuoto della carcerazione con attività specifiche rappresenti, oltre che un dovere istituzionale, anche una forma di utilità sociale, in quanto opera di prevenzione nella recidiva".

"La proposta è quella di attuare - continua Terranova - convenzioni tra l’assessorato capitolino ai Lavori pubblici e le imprese col finanziamento della Regione per inserire nel lavoro quei detenuti che vogliono sfruttare questa opportunità. Questo tipo di sperimentazione - conclude - per l’intreccio di competenze che implica obbliga istituzioni diverse alla non-autoreferenzialità, ma all’integrazione su progetti concreti di intervento.

Garantire la certezza della pena e garantire a chi la sta scontando la possibilità di reinserirsi una volta fuori dal carcere nel mondo del lavoro".

Giustizia: Polverini; problema carceri va affrontato con serietà

 

9Colonne, 26 febbraio 2010

 

"Questa cosa mi ha sempre colpito. Mi far sentire male, perché è una cosa terribile". Così Renata Polverini, candidata del centrodestra alla Regione Lazio, dopo la sua visita odierna al braccio femminile del carcere romano di Rebibbia. Polverini, che in passato aveva già compiuto visite nelle carceri, è apparsa particolarmente riflessiva parlando con la stampa dopo l’incontro con le detenute e il personale. "Abbiamo visitato un laboratorio di pelletteria - ha detto - dove lavorano due detenute grazie all’impegno di una cooperativa.

Queste signore si sono commosse pensando ai loro figli, ai loro nipoti, e a quando potranno uscire per riabbracciarli. Io non so quali reati abbiano commesso, ma il lato umano emerge sempre". La candidata alla regione ha poi riscontrato come all’interno di Rebibbia ci sia "un buon rapporto tra le detenute e il personale". Sul tema dell’emergenza carceri è dell’opinione che quelle italiane "sono tutte sovraffollate e questo è un problema da risolvere. Si deve andare verso la costruzione di nuovi istituti penitenziari e la depenalizzazione dei reati minori". Riguardo al caso di suicidio avvenuto ieri proprio nel penitenziario romano ha manifestato l’opinione che "poteva essere evitato, se ci fossero state le condizioni giuste. Il problema del sovraffollamento va affrontato in maniera seria".

Dopo la visita a Rebibbia Polverini si è recata presso la sede, a breve distanza dal penitenziario, del Consorzio Artemisia, realtà composta da dieci cooperative che dà lavoro a quasi 100 persone, molte delle quali recluse a Rebibbia o nella fase di reinserimento. Tra gli argomenti sottoposti dal presidente del Consorzio, Marianna Borea alla candidata alla poltrona della regione c’è stato soprattutto quello del difficile reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti una volta che questi rientrano nella società civile. A questo Polverini ha replicato affermando che "il momento del reinserimento è fondamentale non solo per voi, ma anche per la società": "non si discute la questione della certezza della pena", ma va posta attenzione anche sul "soffrire il meno possibile - in carcere - e il reinserimento".

Giustizia: Fincantieri presenta progetto per carceri galleggianti

 

Ansa, 26 febbraio 2010

 

Detenuti, ma in riva al mare: il piano carceri del Governo punta anche sulle piattaforme galleggianti di detenzione. Il progetto di Fincantieri, incaricata dal Ministero della Giustizia, è pronto. È stato presentato oggi, a Trieste, al congresso del Sidipe, il sindacato dei direttori dei penitenziari italiani.

Con le piattaforme, che, stando al dossier del Governo stilato a maggio 2009, potrebbero essere attraccate a Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Gioia Tauro, Palermo, Bari e Ravenna, il Governo punta a combattere il sovraffollamento delle carceri italiane.

Il modellino presentato oggi a Trieste ha 320 celle e una capienza di 640 detenuti. L’idea è quella di costruire delle nuove piattaforme dedicate, e non di utilizzare delle vecchie navi come fatto in altri paesi europei. "Lavoriamo sempre su input dell’armatore - ha detto Giorgio Arena, direttore commerciale di Fincantieri - e anche in questo caso abbiamo sviluppato il progetto in base alle particolari esigenze che un carcere presenta".

Nel piano di massima approntato, le celle hanno 14 metri quadrati (più due metri quadrati di bagno); l’intera piattaforma ha una lunghezza di 126 metri, è larga 33, ed è alta 34,8 metri: ma le dimensioni possono essere espanse in virtù della modularità del progetto. Le aree accessorie per detenuti (aule didattiche, laboratori, officine) si dispongono su una superficie complessiva di 5 mila metri quadrati, ai quali si aggiungono i 3.900 metri di uffici, aree colloqui, infermeria, sala polifunzionale e direzione, e i 2.700 metri di aree esterne. La cubatura è di 83.000 metri cubi e la stazza lorda di circa 24.800 tonnellate.

La piattaforma non è studiata per essere ancorata in alto mare, anzi: deve essere permanentemente attraccata alle banchine di aree portuali dismesse o inutilizzate. Non ha un motore, e per il funzionamento (energia, servizi) è collegata alla banchina, riducendo così i costi dell’installazione a bordo di impianti.

Il vantaggio principale del progetto è rappresentato dalla certezza dei tempi. Fincantieri garantisce che in meno di 24 mesi, con cantierazione immediata, una piattaforma potrebbe essere costruita e pronta all’uso. Il secondo vantaggio è quello dell’alta flessibilità operativa: è possibile spostare la piattaforma (senza persone a bordo) in caso di emergenze, ad esempio per operazioni di Protezione civile o come Centro di prima accoglienza per immigrati.

Il capitolo economico va ancora definito, ma si stima che una piattaforma analoga a quella presentata oggi possa costare intorno ai 90 milioni di euro. Il progetto è già stato presentato al Governo, spiegano da Fincantieri, che l’ha valutato favorevolmente e punta anche su questa iniziativa per supportare il rilancio della cantieristica italiana attraverso il tavolo permanente istituito al Ministero dello Sviluppo economico.

Sardegna: le mani della "cricca" anche su cantieri delle carceri

 

Ansa, 26 febbraio 2010

 

Dopo la risposta del governo abbiamo la certezza che alcune imprese della cosiddetta "cricca della Ferratella" hanno avuto anche l’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione dei nuovi istituti di pena in Sardegna. Lo denunciano la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, e il deputato sardo Guido Melis commentando la replica del ministero della Giustizia all’interpellanza urgente presentata sul tema dal gruppo dei Democratici.

Si tratta, in particolare, riferiscono gli esponenti dell’opposizione, della "ditta Anemone per il carcere di Sassari, della Giafi per quello di Tempio Pausania e della Opere Pubbliche per quello di Cagliari. Tutte società - osservano i due deputati - al centro dell’inchiesta sul G8 a La Maddalena che hanno ottenuto questi appalti attraverso gare informali, in deroga alle procedure ordinarie con decreto del ministro della Giustizia del 2 ottobre 2003 che ha dichiarato l’urgenza e la segretezza.

Poiché i lavori sono iniziati nel dicembre del 2005 e non si sa ancora quando saranno ultimati, non si capisce - denunciano gli esponenti del Pd - a cosa sia servita realmente la dichiarazione d’urgenza. È certo però che a tutt’oggi l’Anemone ha incassato 26 milioni di euro (il 35% dell’importo totale dell’appalto di Sassari), la Giafi 31 mln (52% del totale di Tempio), le Opere Pubbliche 39 mln (52% del totale di Cagliari).

Lecce: detenuto morì in carcere, procura di indaga due medici

 

Lecce Prima, 26 febbraio 2010

 

È stato aperto un fascicolo per la morte di Giuseppe Nardella, detenuto presso il carcere di Borgo San Nicola, per omicidio colposo. Forse alla base un ritardo nel suo trasferimento in ospedale.

La Procura di Lecce ha aperto un fascicolo per la morte di Giuseppe Nardella, il detenuto che si trovava presso il carcere di Borgo San Nicola, deceduto il 13 febbraio scorso dopo il suo trasferimento in ospedale. Il pubblico ministero Paola Guglielmi ha iscritto i nomi due medici della casa circondariale nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo. L’inchiesta è finalizzata ad accertare eventuali responsabilità del personale sanitario, per verificare se ci sia stato un ritardo nel trasferimento di Nardella dal carcere al nosocomio leccese e se questo ritardo sia stato tale da compromettere il quadro clinico dell’uomo, poi deceduto.

La decisione di avviare l’inchiesta è stata presa alla luce del contenuto di una relazione che la direzione dell’istituto penitenziario ha inviato alla Procura. Per risalire con precisione alle cause del decesso di Nardella, è stata disposta la riesumazione del cadavere sul quale verrà poi effettuato l’esame autoptico da parte del medico legale. Nardella si sarebbe sentito male fin dalle prime ore della mattinata. Su disposizione del medico, è stato ordinato il trasferimento in ospedale intorno alle 14, ma l’uomo è giunto al Vito Fazzi non prima delle 17 e 30, grazie all’intervento del 118 sollecitato proprio dallo stesso medico, dopo che questi aveva appreso il grave ritardo nell’esecuzione del suo ordine. Saranno le indagini ora a stabilire le eventuali responsabilità per la morte del detenuto.

Viterbo: giovane tenta d’impiccarsi in cella salvato dagli agenti

 

Viterbo Oggi, 26 febbraio 2010

 

Lunedì sera a Mammagialla si è sfiorata una tragedia. Bastavano pochi secondi in più e un detenuto, ma soprattutto un giovane, sarebbe morto impiccato. Solo l’intervento di due agenti ha evitato il dramma.

Un ragazzo detenuto, arcinoto a Viterbo per le sue continue bravate, ora recluso a Mammagialla, dopo aver architettato un sistema per eludere i controlli ed accumulare vino in cella, dopo essersi ubriacato e aver devastato un intero reparto detentivo (ha rotto finestre, suppellettili e si è procurato ferite e contusioni in buona parte del corpo), ha tentato di togliersi la vita. In uno stato di semicoscienza, dovuto alla grande quantità di alcool assunta, ha tentato di uccidersi con una maglietta legata al collo e al cancello della cella.

Solo il tempestivo e professionale intervento di due agenti di Polizia Penitenziaria, poi subito supportati da un infermiere, ha permesso che il giovane venisse salvato e consegnato ai medici per le cure.

"Siamo infinitamente grati all’operato dei colleghi - commentano i segretari Luca Floris, Gennaro Natale, Andrea Fiorini, Raimondo Fortuna, Claudio Monzi rispettivamente Sappe, Osapp, Cisl, Uil e Cgil - prima di tutto perché nel pieno spirito del ruolo del Corpo hanno agito salvando una vita umana, ciò porta tutto il resto in secondo piano, ma anche perché, contro il massacro mediatico dei mesi scorsi, danno la possibilità alla società di conoscere il vero volto degli uomini della Polizia Penitenziaria ovvero quello di instancabili professionisti al servizio del paese e consapevoli tutori di migliaia di vite umane".

"Non è facile gestire circa 700 detenuti, oggi ancora una volta - continuano i rappresentanti - i nostri colleghi hanno dato prova, se ancora ci fosse bisogno, di alte doti umane e spiccato senso dello Stato; se per strada un passante salva una vita diventa, giustamente, subito un eroe, un poliziotto penitenziario che quasi ogni mese compie un gesto simile, non viene neanche citato. È opportuno prendere coscienza che nella Polizia Penitenziaria lavorano uomini e donne di grandi doti morali". A ciò si aggiunga il grave sovraffollamento degli istituti italiani, più che mai sentito a Viterbo.

"La situazione, al di là del caso umano specifico - aggiungono i sindacati - a Viterbo è altamente esplosiva siamo al "troppo pieno", i detenuti hanno raggiunto circa 700 unità (record storico dopo quello raggiunto la scorsa estate) e per di più si fanno sentire grosse carenze strutturali. I tagli di bilancio hanno comportato nel tempo crepe strutturali difficilmente sanabili, su tutte il ridimensionamento dei posti di lavoro tra i detenuti - per chi non mastica l’ordinamento penitenziario basti pensare che tutte le pulizie, quindi anche le condizioni igieniche, sono effettuate dagli stessi detenuti e se non ci sono soldi per le remunerazioni non ci sono posti di lavoro; la mancanza di personale sanitario e degli specialisti (un solo medico, ad esempio, per turno), il sistema idraulico non è efficiente e talvolta manca l’acqua o, peggio il riscaldamento.

Ma il problema più rilevante è l’assoluta ed inconfutabile carenza di organico; ad oggi non è stata assegnata alcuna unità di personale mentre i detenuti sono continuati ad affluire, tanto che proprio in questi giorni la direzione è stata costretta ad aprire il 4° piano di un padiglione che era chiuso per mancanza di personale.

Altro fatto di elevata gravità, e dovuto sempre al sovraffollamento, è quanto accade alla sezione isolamento. La sezione destinata agli isolati per punizione o per motivi sanitari, ospita attualmente i detenuti che arrivano dagli altri istituti e che sono in attesa di un posto "libero" sui piani; da ciò deriva una grave compressione dei diritti delle regole fondamentali dell’ordinamento penitenziario in quanto nella sezione non è possibile attuare nessun tipo di rieducazione. Nell’istituto operano solo 3 Educatori che nulla possono dovendo in teoria ascoltare le problematiche di oltre 230 detenuti ciascuno. L’istituto - concludono i sindacalisti - si regge solo perché professionalità come quelle della Polizia Penitenziaria, degli Educatori e le altre del sistema penitenziario, con abnegazione e contro ogni rischio, ogni giorno garantiscono il loro servizio allo Stato".

Genova: progetto carcere galleggiante ma la città è già divisa

 

La Repubblica, 26 febbraio 2010

 

Visto da lontano, sembra quasi uno stadio. E invece è un carcere galleggiante. Eccolo, il modello messo a punto dai tecnici della Fincantieri, su richiesta del ministero della Giustizia, per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. L’enorme piattaforma (126 metri di lunghezza, 33 di larghezza, 25 di altezza, 25mila tonnellate di stazza lorda) verrà presentata domani a Trieste, nel corso di un convegno. Ma Genova è già divisa.

Fincantieri assicura che in due anni è in grado di consegnare la piattaforma. Resta da capire la sua futura collocazione. Di certo, dovrà essere un porto o un arsenale, comunque una struttura (anche industriale) di mare.

E Genova? Potrebbe essere protagonista dell’operazione-carceri galleggianti, perché l’intenzione del gruppo guidato da Giuseppe Bono è proprio quello di affidare al cantiere di Sestri Ponente la costruzione delle mega-piattaforme in grado di ospitare 640 detenuti in 320 celle. Ma nulla è ancora deciso e le polemiche legate alla possibile collocazione genovese di un carcere galleggiante potrebbero incidere.

Il ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola al tavolo sulla cantieristica ha garantito fondi certi per almeno una piattaforma galleggiante, lasciando intendere fra le righe che di fronte a opposizioni del territorio, le carceri galleggianti sarebbero destinate ad altri cantieri e non a Sestri Ponente. Il segnale, probabilmente, era per il sindaco Marta Vincenzi. che nelle scorse settimane aveva manifestato la sua contrarietà all’operazione.

Ieri, intanto, ha manifestato tutte le sue riserve anche il segretario ligure del Sappe Roberto Martinelli. "Sono convinto che Genova non abbia alcun bisogno di carceri galleggianti, piuttosto serve una nuova cittadella penitenziaria sulla terra ferma in aggiunta alle carceri di Marassi e Pontedecimo. Mi sembra una soluzione stravagante rispetto a un problema serio". Di parere opposto il segretario genovese della Uilm Antonio Apa.

"Se Genova dovesse essere scelta quale contenitore di un carcere galleggiante e le istituzioni si opponessero commetterebbero un autentico autogol. Fincantieri, con questo progetto ha dimostrato la sua versatilità. L’inversione di tendenza sul versante civile con l’acquisizione di nuove commesse, va accompagnata dal sistema paese".

Pistoia: presidente di Provincia chiede più corsi per i detenuti

 

Il Tirreno, 26 febbraio 2010

 

Visita alla Casa Circondariale di Santa Caterina per il presidente della Provincia Federica Fratoni accompagnata dal vicesindaco Mario Tuci. Un’iniziativa, svoltasi l’altro ieri, nata "dalla volontà di testimoniare - come si legge in una nota stampa - la vicinanza e la sensibilità delle istituzioni di fronte al disagio e ai problemi di sovraffollamento sofferti dalle persone rinchiuse al Santa Caterina e, di conseguenza, anche dagli agenti della polizia penitenziaria". Problemi comuni a molte carceri italiane, che a Pistoia, di recente, il tentato suicidio di un detenuto marocchino ha portato nuovamente all’attenzione pubblica, con reazioni e denunce da parte di tutto il mondo sindacale e politico.

Il presidente Fratoni ha fatto visita ai locali della casa penitenziaria, soffermandosi a parlare con alcuni ospiti della struttura, rimanendo colpita dalla situazione drammatica in cui versa il Santa Caterina, con celle eccessivamente piccole e sovraffollate, nelle quali la convivenza diventa molto difficile. "Si rileva dunque una situazione - prosegue la nota - che oltre a causare disagio e sofferenza, rende difficile anche il lavoro degli operatori, spesso sotto organico, e che risulta poco adeguata alle finalità rieducative che la pena detentiva dovrebbe avere. La Provincia, in passato, ha attivato varie attività formative rivolte ai detenuti, a fini rieducativi e di integrazione sociale, dai laboratori informatici a quelli di cucina e pasticceria. Un impegno, che il presidente intende portare avanti, promuovendo nuove iniziative di questo tipo, per testimoniare la vicinanza delle istituzioni alle problematiche sofferte e insieme la volontà di collaborazione a percorsi rieducativi e di socializzazione".

Teramo: il detenuto "pestato" a processo… aggredì un agente

 

Il Centro, 26 febbraio 2010

 

Caso Castrogno: la procura chiede il processo per il detenuto vittima del pestaggio a cui si fa riferimento nell’audio shock finito sulle cronache nazionali. Mario Lombardi, 46 anni, chietino, in carcere per reati legati alla droga, è accusato di aver picchiato un agente di polizia penitenziaria: si tratta di un episodio avvenuto nel settembre scorso e per cui il detenuto (difeso dall’avvocato Paola Pedicone) sostiene di essere stato successivamente pestato per ritorsione dagli stessi poliziotti. L’inchiesta non è quella avviata all’indomani della diffusione dell’audio, avvenuta a novembre, ma quella partita il giorno dopo l’aggressione su denuncia dello stesso agente malmenato.

L’udienza preliminare, dopo la richiesta di rinvio a giudizio fatta dal pm Davide Rosati , si terrà il 29 aprile: in quella data il gip Guendalina Buccella deciderà se mandare l’uomo a processo o se disporre il non luogo a procedere. È evidente che, nel corso di un eventuale dibattimento, un notevole peso avrà l’altra vicenda che il pm titolare del caso, David Mancini si avvia a chiudere. Per il presunto pestaggio scoperto con l’audio ha iscritto sei persone nel registro degli indagati, tra cui agenti di polizia, l’ex comandante Giuseppe Luzii (attualmente sospeso) e lo stesso detenuto.

Nel corso degli interrogatori gli agenti hanno respinto le accuse, sostenendo di essere stati loro gli aggrediti. E mentre l’inchiesta aperta dal pm Mancini si avvia a conclusione, quella sulla morte di Uzoma Emeka, il detenuto nigeriano di 32 anni deceduto in carcere, comincia a prendere forma. Dopo che l’autopsia ha accertato che l’uomo, testimone del presunto pestaggio, è morto per un tumore al cervello, tumore che nessuno aveva diagnosticato, il pm titolare del caso Roberta D’Avolio vuole fare chiarezza sui soccorsi e sulle cure prestate al nigeriano. L’esame medico legale ha accertato anche che qualche mese fa l’uomo era stato colpito da un infarto che però nessuno in carcere aveva scoperto. Il magistrato disporrà una consulenza medica. Per ora, in questa vicenda, non ci sono indagati.

Spoleto: ergastolano 72enne si laurea con tesi su non-violenza

 

Agi, 26 febbraio 2010

 

"La non violenza e i fondamenti della religione di Gandhi". È il titolo della tesi con cui si è laureato in filosofia il boss 72enne Masino Spadaro, il re della Kalsa di Palermo, del contrabbando di sigarette e del traffico di droga. Una "signora" laurea da 110 per l’anziano ergastolano che sta scontando la pena nel carcere di Spoleto.

Spadaro, detenuto da quasi 27 anni, divoratore di libri, ha discusso la tesi nella casa circondariale, davanti alla commissione e ad alcuni parenti. Sulle sue spalle grava la massima condanna per l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella, assassinato a Palermo il 10 settembre 1981. "Ma in carcere - dice al Giornale di Sicilia l’avvocato Carlo Catuogno - Spadaro ha iniziato il percorso che ne ha fatto una persona diversa. Ha voluto studiare. Ha chiesto di leggere. Quando gli si parla si ha la sensazione di avere a che fare con una persona erudita, colta. Un uomo di grande intelligenza. Chissà se fosse nato e vissuto in un contesto diverso... se avesse potuto studiare da giovane".

Cina: il Rapporto della Laogai Fondation sui "campi di lavoro"

di Aldo Forbice

 

Asia News, 26 febbraio 2010

 

La Cina fa di tutto per accreditare una sua immagine diversa in Occidente. Non lesina mezzi finanziari per campagne di comunicazione non troppo appariscenti per "convincere" anche gli operatori, gli imprenditori, i giornalisti che lo sviluppo del grande paese asiatico non è a senso unico, cioè non riguarda solo quello economico (del resto già noto), ma anche quello sociale,civile e umano. Encomiabile tutto questo, peccato però che - propaganda a parte - le intenzioni non corrispondano alla realtà.

Non vogliamo ricordare cose ormai note (le esecuzioni capitali che equivalgono a più di due terzi il numero di tutto il mondo, la tortura nelle carceri, gli arresti dei dissidenti, la persecuzione delle minoranze etniche e religiose, la limitazione della libertà degli internauti, eccetera). Ora, a confermare quanti pochi passi avanti siano stati fatti nel campo della tutela dei diritti umani, è arrivato un nuovo Rapporto della Laogai Fondation sui laogai, cioè sui gulag cinesi, di cui si parla pochissimo.

Nel dossier si documenta che i "campi di lavoro" identificati sono 1422, fra questi almeno 1007 risultano operanti a pieno ritmo in ogni settore merceologico (abbigliamento, cosmetici, alimentari, arredamento, eccetera). Vi si trovano rinchiusi da 3 a 5 milioni di persone. Il numero esatto non si conosce perché le autorità di Pechino lo considerano "un segreto di Stato". Le condizioni di lavoro dei detenuti (studenti, giovani operai, intellettuali, religiosi, appartenenti a gruppi di minoranze e altri dissidenti) sono disumane.

Si sconoscono i limiti degli orari di lavoro, di sicurezza e igiene. Un giaciglio, spesso vicino alla fossa biologica, pestaggi e torture all’ordine del giorno. Il cibo, ad esempio, viene distribuito in rapporto diretto con la quantità di lavoro prodotto. In pratica i detenuti producono a costo zero per il regime. In questo modo si spiega (a parte i bassi salari sul mercato esterno) perché i prodotti cinesi riescano ad avere un prezzo che spesso non supera il 10% di quelli analoghi dell’Occidente.

Quasi sempre i laogai hanno due nomi: uno per il campo-prigione e l’altro, di fantasia, per il mercato. In tal modo diventa impossibile accertare che, ad esempio, una confezione di crema per il viso proviene da un gulag cinese. È stato un lungo lavoro di ricerca quello della Laogai Research Foundation per documentare lo schiavismo cinese, abbinandolo alle imprese che pubblicizzano prodotti cinesi sui 28 principali siti internazionali. Da questo barbaro sistema carcerario, dal 1949 ad oggi, sono passati da 40 a 50 milioni di persone; almeno 20 milioni vi hanno lasciato la vita.

Di tutto questo si parla poco e gli imprenditori che vanno a Pechino affermano ora che il progresso e le libertà civili stanno per arrivare anche Cina. Ma in quel grande paese asiatico, con un miliardo e 300 milioni di uomini, continua ad esistere la più grande prigione del mondo e su cui le stesse Ong sui diritti umani spesso chiudono un occhio. Salvo però a spalancarli tutti e due sempre quando si tratta di Guantamano o di qualche altra prigione americana.

 

 

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