Rassegna stampa 27 febbraio

 

Giustizia: 12 suicidi in carcere in due mesi, vergogna nazionale

di Dimitri Buffa

 

L’Opinione, 27 febbraio 2010

 

Dodici persone si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno. Nel 2009 erano stati in 72 anche se il capo del Dap Franco Ionta, appellandosi alla spietata burocrazia ministeriale, ha precisato agli esterrefatti commissari della commissione parlamentare sulla malasanità della Camera che "erano 58, in quanto altri 14 sono morti all’ospedale", sia pure poche ore dopo esservi stati trasportati già in coma dal carcere.

Quest’anno se continua così si potrebbero battere tutti i record e l’imputato numero uno è il sovraffollamento delle strutture. Non certo "il rimorso per il male fatto" per citare l’incredibile espressione usata da un leghista al Senato durante il dibattito sulle mozioni presentate da quasi tutti i gruppi parlamentari per uscire da questa emergenza.

Con o senza Bertolaso. Un’emergenza che solamente i Radicali italiani segnalano con frequenza quasi ossessiva, avendo i loro esponenti politici fatto non pochi scioperi della fame e della sete per segnalare il fenomeno. Per non parlare delle feste di Natale e di Ferragosto passate molto cristianamente a visitare i carcerati da parte di Marco Pannella e Rita Bernardini da anni a questa parte.

Particolarmente grave l’epilogo della tragica vicenda umana di Roberto Giuliani, 47 anni, che si è tolto la vita ieri nel carcere romano, e che dallo scorso settembre era sottoposto a regime di grande sorveglianza avendo già tentato di farlo. "Ma tale misura - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - non è servita ad evitare la tragedia.

A Rebibbia Nuovo Complesso ieri erano presenti 1.685 detenuti, la presenza più alta di sempre. È evidente che il sovraffollamento e la carenza di risorse umane e finanziarie crea una situazione di perenne emergenza in carcere, all’interno della quale ogni misura precauzionale ha una efficacia relativa". Giuliani era stato condannato nel 2002 per concorso in duplice omicidio e sarebbe uscito dal carcere nel 2028.

Giudicato paziente psichiatrico a rischio, era stato nelle carceri di Frosinone e Spoleto e poi negli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto, prima di approdare, la scorsa primavera, a Rebibbia Nuovo Complesso, sezione G 11, dove ha vissuto in questi mesi insieme a 450 altri detenuti affetti da patologie cliniche di varia natura. Per la cronaca ieri a Napoli era stato ucciso in un agguato un agente di custodia per motivi ancora del tutto ignoti visto che i suoi colleghi dicevano che era allegro e non manifestava timori di sorta. Si tratta dell’assistente capo Marco Mazzocchi.

Questo anche a dimostrazione del clima sempre più irrespirabile delle carceri italiane, dovuto alla irresponsabilità forcaiola di una classe politica capace solo a gridare "in galera" salvo quando capita a qualche suo esponente di doverci andare. Prima del suicidio di ieri ce ne era stato uno appena lo scorso 24 febbraio a Vibo Valentia.

Un detenuto di 42 anni di cui non è stato reso noto il nome e che prima di morire aveva lasciato una toccante lettera ai familiari. Un po’ di dati adesso sui penitenziari italiani più affollati. Confrontando il tasso di sovraffollamento delle 11 carceri dove sono avvenuti i suicidi di quest’anno con il numero totale dei suicidi registrati negli ultimi cinque anni è emerso che la frequenza dei suicidi arriva a triplicare nelle condizioni di maggiore affollamento, ma anche di particolare fatiscenza delle celle e assenza di attività trattamentali.

Il primato negativo spetta al Carcere di Cagliari, con 506 detenuti (affollamento al 146%) e 11 suicidi in 5 anni, con la frequenza di 1 suicidio ogni 46 detenuti. A San Vittore, con 1.127 detenuti (affollamento al 242%) e 13 suicidi in 5 anni, la frequenza è di 1 suicidio ogni 86 detenuti. Sulmona, che ha la triste nomea di "carcere dei suicidi", si colloca al secondo posto: con 481 detenuti, affollamento al 159% e 6 suicidi negli ultimi 5 anni, pari a una frequenza di un suicidio ogni 80 detenuti.

Il carcere meno affollato è Spoleto: 565 detenuti e affollamento al 124%; in 5 anni vi sono avvenuti 5 suicidi, 1 suicidio ogni 113 detenuti, cioè la metà di San Vittore e un terzo di quelli del Buoncammino a Cagliari.

Il carcere con la minore frequenza di suicidi è Verona, nonostante un affollamento del 162% (956 detenuti e 3 suicidi in 5 anni, pari alla frequenza di 1 suicidio ogni 318 detenuti). Questo risultato positivo è probabilmente dovuto alle numerose attività lavorative, culturali e sportive che vi si svolgono e che consentono ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori dalla cella. Infine le carceri di Fermo e di Altamura (una sola morte in cinque anni per ciascuna) presentano un tasso di suicidi molto elevato, in quanto rapportato a un numero limitatissimo di detenuti.

Ma queste tragedie non si possono esprimere solo con aride statistiche. Per di più in carcere non si muore solo per suicidio, che anzi rappresenta solo la seconda causa di morte. La prima è quasi sempre dovuta a carenze igieniche sanitarie e non pochi sono i casi dubbi o i pestaggi come quello in cui perse la vita il povero Stefano Cucchi.

Giustizia: una popolazione disperata... che come tale si esprime

di Pino Di Maula

 

Terra, 27 febbraio 2010

 

Dodicesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Roberto Giuliani, ieri notte, si è tolto la vita al Rebibbia di Roma, mentre un altro detenuto a Siracusa, dopo essersi buttato dalla tromba delle scale del carcere dopo un colloquio, ora è in coma. E solo un take d’agenzia. Una "breve", anonima. Scritta quasi per dovere professionale, sapendo che comunque incontrerà poco interesse nei politici, troppo presi dall’ansia per la campagna elettorale. Con qualche eccezione, però. Vediamo quali.

"La situazione delle carceri nel nostro Paese è intollerabile. C’è un forte tratto disumano in quei "non luoghi" che ci allontana dalla civiltà. Stiamo annullando tutti i principi fondamentali del diritto internazionale. Senza contare che nei nostri istituti non c’è più traccia di una ricerca per il recupero del detenuto. C’è, invece, un sovraffollamento pazzesco. È una popolazione carceraria composta per lo più da stranieri (resi colpevoli di muoversi per sfuggire la guerra e la fame o, più semplicemente, per cercare nuove opportunità di rinascere) e da povere persone, ma povere davvero, nel senso che non hanno nulla. È una popolazione disperata e come tale si esprime. Con gesti quindi estremi. Dolorosi".

Si fa sempre più grave il tono della voce di Maurizio Gubbiotti mentre al telefono argomenta la sua preoccupazione per la sorte delle persone trasportate "come cose fastidiose da allontanare dalla vista delle persone perbene" a Rebibbia e Regina Coeli. Su questi penitenziari, in queste ore il candidato Verde per Emma Bonino alla Regione Lazio concentra l’attenzione; "I carceri romani purtroppo non si sottraggono ad alcuna di queste drammatiche storture e la drammatica" vicenda di Stefano Cucchi, se ce ne fosse stato bisogno, lo dimostra senza possibilità di scampo".

Un’altra candidata che, da sempre, nutre le stesse preoccupazioni è Irene Testa. La segretaria dell’associazione Il detenuto ignoto è in corsa con lista Bonino-Pannella. Quando là raggiungiamo per una dichiarazione si scusa ma sta consegnando libri ai detenuti e non può perdere tempo. Più tardi dà solo numeri: "66.574 detenuti ammassati in celle che possono contenerne 43.220 di cui: 41.915 italiani e 24.152 stranieri (8.441 europei, 11.986 africani, 1.109 asiatici e 1.301 americani), 6.261 agenti in meno di quelli previsti in pianta organica; 402 educatori in meno rispetto alla pianta organica, un solo psicologo, per poche ore lavorative a settimana, ogni 187 detenuti, il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio; il 30% di loro sarà riconosciuto "innocente".

Ma cosa accade negli altri Paesi? "Faccio solo due esempi", spiega l’esponente radicale: in Polonia ci sono oltre 50mila detenuti e si registra un numero di suicidi che è la metà rispettò a quello dell’Italia. E negli Stati Uniti, in 25 anni, il numero dei detenuti suicidi si è ridotto del 70%, anche grazie al lavoro di una sezione "ad hoc" per le carceri all’interno del Dipartimento federale per la prevenzione del suicidio".

Ma torniamo in Italia per sapere dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere che cosa accade, tenendo conto che, sottolineano gli operatori che raccolgono i dati, ogni caso di suicido deriva da situazioni e scelte personalissime. Pur tuttavia spesso si tratta di morti annunciate.

Come nel caso di Walid Aloui. Si è impiccato nella Sezione "Protetti" della Casa di Reclusione di Padova. Era lì in quanto condannato per un reato a sfondo sessuale (che non è tollerato dai detenuti "comuni"). Probabilmente la sua "gestione" rappresentava un problema, quindi la soluzione è stata di "scaricarlo".

Morte annunciata anche per Giacomo Attolini. "Lui si è ucciso nella Sezione Infermeria della Casa Circondariale di Verona. Era in carcere da poche settimane, accusato di omicidio. Fin da subito aveva manifestato un forte disagio psichico e più volte si era ferito, dichiarando di volersi uccidere. Per questo era stato rinchiuso in una cella priva di mobili e suppellettili, privato anche di lenzuola, coperte e vestiti, per il timore che si impiccasse. Aveva soltanto un materassino di gommapiuma su cui stendersi e indossava solo le mutande e una maglietta. E proprio con la maglietta si è ucciso: se l’è attorcigliata al collo fino a strozzarsi".

Sono soltanto due esempi, ma servono "a capire spiegano dall’Osservatorio per bocca dell’avvocato Ernesto Ruffini che opera con l’associazione "A Buon diritto" di Luigi Manconi che è inutile punire una persona perché manifesta intenzioni suicide, inutile metterlo in una cella priva di tutto, inutile minacciare di trasferirlo lontano dalla famiglia o peggio all’Ospedale psichiatrico giudiziario". Così è, considerando che il concetto di cura viene tenuto, quando lo si prende davvero in considerazione, rigorosamente lontano da quei "non luoghi" dove l’umano non ha più diritto di cittadinanza.

Giustizia: carceri cubane e carceri italiane, due pesi due misure

di Pietro Cambi

 

www.articolo21.it, 27 febbraio 2010

 

Un dissidente cubano è morto in carcere dopo uno sciopero della fame di ben 84 giorni. La notizia è stata riportata un poco da tutti gli organi di stampa, le agenzie di informazione, le televisioni, insomma da tutti i media riuniti e compatti contro l’esecrando regime.

Che quello cubano sia un regime non c’è molto da discutere, credo. Che tale regime, in buona parte, sia stato una spina nel fianco per un bel po’ di anni del potente vicino a Nord, non vi è ugualmente dubbio.

Che, infine, da almeno un quindicennio questa presunta "minaccia" sia del tutto svanita, tanto che ormai praticamente tutti gli stati occidentali fanno egregi affari ed intrattengono rapporti almeno decentemente cordiali con il Regime cubano è più o meno un dato di fatto. Che quindi il prolungarsi ostinato dell’embargo sia ridicolo e probabilmente una ottima scusa per il mantenimento del Regime stesso, credo che possa essere, se non evidente, almeno ragionevole. specialmente in questi difficili frangenti, che vedono anche l’inesorabile approssimarsi della fine per il Lider Maximo.

Ma sto divagando. Tornando a bomba il sacrificio del povero oppositore è stato giustamente stigmatizzato, il regime severamente criticato, etc. etc. È giusto, mi pare ovvio. Quando qualcuno deve arrivare al sacrificio supremo per fare valere, in qualche modo, anche solo simbolicamente, i propri inalienabili diritti almeno un poco di sana indignazione e sacrosanto sdegno sono d’uopo.

Già. Peccato che anche nel nostro paese ormai, per fare valere i propri diritti, far ascoltare la propria voce, etc. etc., è necessario arrivare a tanto. Ovviamente, la storia di un detenuto tunisino che è morto di sciopero della fame, nel sostanziale disinteresse generale è diversa. Diversa la storia ma uguale la fine ed uguale la cappa di piombo che il regime locale cala sulla vicenda. Ad onor del vero nelle nostre carceri si muore molto di più, 179 persone e 72 suicidi solo nel 2009, che per una popolazione carceraria di circa 66.000 unità sono un morto ogni 369 carcerati, tre volte di più che negli Stati Uniti.

Tutto questo senza contare i lager per conto terzi che, non avendo il coraggio di realizzarli sul nostro territorio, abbiamo pensato bene di delegare a regimi compiacenti. Sto parlando ovviamente degli spaventosi centri libici dove vengono confinati, fino alla loro dipartita, i profughi diretti nel nostro paese.

Un paese che difende, foraggia e vellica furbetti e furboni di ogni risma, rendendoli immuni da ogni potenziale rischio o rogna giudiziaria, che riempie le carceri di poveracci e poi li lascia morire, che detiene, senza processo e senza scadenza, delle persone colpevoli solo di fuggire dalla morte certa (sia pure delegando l’abominio a regimi mercenari vicini), che, dopo gli enormi scandali dei giorni scorsi, di fronte ad una condanna che vede il Premier accusato di corruzione, passata in giudicato e non operativa solo per raggiunta prescrizione.

Un paese che non scende in piazza, non si sdegna, non si schiera compatto contro la cricca del malaffare non è solo dominato da un regime, è dominato da un regime indegno, ridicolo e vergognoso di cui si rende complice, che è davvero la fedele espressione del suo "comune sentire".

C’è ancora qualcuno a cui non va bene così: è una minoranza, una tragicamente piccola minoranza. Ma, se non succede nulla, se si digerisce anche questa come se nulla fosse, se quella minoranza di cittadini per bene viene irrisa, ridicolizzata, criminalizzata, beh, allora il regime ce lo meritiamo. Che in tempi di Crisi la democrazia tenda ad evaporare l’avevo detto anni fa. Che l’oligarchia lottasse e sgomitasse per mantenere il controllo, beh non avevo dubbi. Ma che riuscissimo a raggiungere questi livelli da operetta, insieme triste, comica e grottesca, questo no, non me lo sarei mai immaginato.

Giustizia: Fincantieri costruirà le navi-prigione, costo 90 mln €

di Nello Scavo

 

Avvenire, 27 febbraio 2010

 

"Non è certo questa la risposta definitiva al sovraffollamento, ma è senz’altro un rimedio". Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sidipe, il sindacato dei direttori delle carceri, non si fa illusioni. I penitenziari galleggianti serviranno "a trovare il tempo di realizzare nuovi istituti a terra".

Davanti alla maggioranza dei dirigenti delle case di detenzione, riunitisi a Trieste per il loro congresso, Fincantieri ha finalmente svelato il progetto definitivo. Di sicuro non sarà una crociera: 320 celle di 16 metri quadri da dividere in due, per un totale di 640 detenuti. I progettisti assicurano di aver tenuto conto "delle esperienze positive e negative, in questo campo, di Gran Bretagna, Stati Uniti e Olanda", adoperando le più moderne tecnologie costruttive e abitative.

Le moderne Alcatraz, ormeggiate in luoghi sicuri e protetti, avranno una lunghezza di 126 metri, una larghezza di 33 e un’altezza di quasi 35. "Dimensioni che possono essere espanse in virtù della modularità del progetto", pensato come una specie di gigantesco Lego che potrà di volta in volta essere potenziato o ridimensionato. "Lavoriamo sempre su input dell’armatore ha chiarito Giorgio Arena, direttore commerciale di Fincantieri e anche in questo caso abbiamo sviluppato il progetto in base alle particolari esigenze che un carcere presenta". Le aree accessorie per detenuti (aule didattiche, laboratori, officine) si dispongono su una superficie di 5mila metri quadri (molti di più delle carceri sulla terra ferma), ai quali si aggiungono gli spazi necessari per sale colloqui con annesso piazzale "così da consentire ai reclusi di fare quattro passi con i propri familiari", infermeria, centro polifunzionale e uffici.

Il Sidipe, sindacato che rappresenta l’80% dei direttori delle carceri, si dice soddisfatto del piano elaborato su richiesta del governo. "Penso a un’integrazione e non a una sostituzione spiega Sbriglia come a un’ambulanza che non escluda la necessità dell’ospedale". Il riferimento è alla necessità di interventi su strutture stabili, a cominciare dalla riqualificazione delle caserme militari dismesse, che "a un punto di vista estetico sono senz’altro più accettabili degli orrendi contenitori che sono i penitenziari recentemente costruiti".

Ma quanto costeranno queste nuove case di detenzione? Fincantieri tace, ma una cifra trapela: 90 milioni di euro. Poco al di sotto di quanto si spenderebbe per un’analoga casa circondariale in cemento armato, ma al contrario di queste con costi di manutenzione e tempi di messa in opera dimezzati. Il Governo, assicurano da Fincantieri, ha valutato favorevolmente l’intero progetto che avrebbe anche una seconda finalità: rilanciare la cantieristica italiana che certo non naviga con il vento in poppa.

Secondo i progettisti la "chiatta" vanterebbe molteplici vantaggi: tempi di consegna ridotti e certi (24 mesi o meno), utilizzo di aree portuali dismesse o banchine inutilizzate, alta flessibilità operativa, dato che la piattaforma può essere spostata e riconvertita in aree di emergenza e di riconversione ad altri usi, "ad esempio per operazioni della Protezione Civile".

Stando indiscrezioni sarebbero già state individuate alcune regioni che per prime potrebbero sperimentare i "penitenziari marini": Liguria, Puglia e il tratto di Triveneto che si affaccia sull’Adriatico. "L’esperienza di altri Paesi ha osservato Donato Capece, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Sappe ci dimostra che è una cosa fattibile, sicura, con tempi certi e costi bassi". Ad oggi sono recluse in Italia quasi 67mila persone, per una capienza che già ai livelli massimi si ferma a quota 40mila.

Inizialmente le chiatte con le insegne del ministero della giustizia potrebbero essere due o tre. Ma superare le resistenze di quanti temono che in realtà si tratti di zattere malsane non sarà facile. "Anche se a livello sperimentale - insiste Capece - è opportuno realizzare qualche istituto galleggiante. Attendere ancora vorrebbe dire perdere il controllo delle carceri, che stanno scoppiando e nelle quali ogni giorno si rischia la rivolta".

 

Cercansi porti e arsenali

 

La piattaforma è progettata per restare ormeggiata a una banchina in un’area protetta dai flutti. Come in zone portuali, industriali, arsenali militari o tratti di costa non sfruttabili commercialmente o turisticamente. "Il posizionamento a ridosso di una banchina - chiariscono i progettisti rende l’accessibilità alla struttura galleggiante del tutto equivalente a quella di un carcere a terra". Possibile anche tracciare percorsi separati per detenuti, impiegati e pubblico, nonché suddividere le aree detentive in sezioni di piccole dimensioni consentendo di utilizzare gli stessi spazi in diverse ore della giornata.

 

I primi a usarle sono stati inglesi e americani

 

In fondo è un ritorno al passato. Di quando i condannati venivano forzati a remare sulle galere, pesanti navi a remi. È stato così fino al 1600. Quasi quattro secoli dopo, nel 1987, è la Gran Bretagna a ripescare nella propria storia, inaugurando un traghetto della Sealink, ormeggiato nel porto di Harwich, come "centro di detenzione galleggiante", dove rinchiudere gli immigrati arrivati all’aeroporto londinese di Heathrow con le carte non in regola.

Due anni dopo un carcere galleggiante arriva anche negli U­sa, a New York, dove centinaia di detenuti vengono trasferiti su due chiatte ormeggiate lungo le rive dell’East river. Le due prigioni a pelo d’acqua erano state usate dagli inglesi come navi caserma durante la guerra delle Falkland­Malvinas. L’amministrazione di New York le ha prima noleggiate e poi comprate. Nel 1997 le due chiatte, "Bibby Resolution" e "Bibby Venture", vengono riven­dute alla Gran Bretagna. Una di queste, ancorata nella baia di Portland, sul canale della Manica, diventa il carcere di Weare. Per i detenuti modello il premio è una cella vista mare. Non proprio una crociera. La "galera" chiuderà nel 2005. In un rapporto dell’i­spettrice capo delle carceri, si legge che in quel luogo "si sta stretti e si soffre di claustrofobia", in celle "assai insalubri", senza possibilità di godere dell’ora d’aria.

Nel 2001 la Peleliu, una delle navi dei marines nel Mare Arabico, viene usata come campo di concentramento galleggiante dei prigionieri talebani. Nel 2004 ci prova l’Olanda. La polizia di Rotterdam allestisce nei pressi del trafficatissimo porto della città un’imbarcazione nella quale sono rinchiusi 288 immigrati clandestini. L’iniziativa sembra avere successo e presto le prigioni sul mare diventano quattro, l’ultima delle quali entra in funzione nel 2007 a Zaandam, alla periferia di Amsterdam.

Giustizia: navi-prigione; 10 i porti scelti per la sperimentazione

di Anthony Muroni

 

L’Unione Sarda, 27 febbraio 2010

 

Carceri galleggianti in mezzo al mare. Il progetto, in via di realizzazione da parte di Fincantieri, è stato presentato ieri a Trieste e riguarda anche Cagliari, una delle dieci città scelte per la sperimentazione.

Piattaforme galleggianti, concepite come luoghi di detenzione, a struttura modulare. Un progetto, quello che è stato presentato ieri a Trieste dalla Fincantieri, che potrebbe presto interessare Cagliari, che per ora è inserita in un elenco che comprende anche altre otto città che si affacciano sul mare.

Il modello base conta 320 celle da 14 metri quadrati ciascuna, che possono ospitare 640 detenuti e 300 addetti a vigilanza e altri servizi. Contempla aree per sport indoor e altre attività di svago, costerà tra i novanta e i cento milioni di euro e potrà essere trainato in località costiere.

Facile anche la manutenzione e l’aggiunta o sottrazione di moduli, sulla scorta di quello che già avviene negli Usa, in Inghilterra e in Olanda: sarà possibile realizzare modelli più grandi, più piccoli o "su misura" rispetto alle richieste del committente.

È stato il Governo a chiedere al colosso nazionale della cantieristica navale (specializzatosi nella costruzione di navi da crociera) di pensare al progetto, contemplato nel piano per il rilancio del settore, messo nero su bianco nello scorso mese di dicembre dal ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola.

L’esecutivo non ha ancora definito nel dettaglio le scelte della politica penitenziaria, ma sul tavolo del capodipartimento Franco Ionta la pratica delle carceri galleggianti è sempre in bella evidenza. La "chiatta" con sbarre è stata concepita per l’ormeggio in banchine portuali in aree diverse da quelle commerciali, in modo da risultare allo stesso tempo isolata e non invasiva delle normali attività dello scalo.

Assieme a Cagliari le altre possibili destinazioni sono quelle di Ravenna, Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Bari, Gioia Tauro e Palermo. Ma si tratta di un catalogo aperto, nel quale qualche altra città di mare può entrare o uscire.

"In ogni caso Fincantieri precisa l’amministratore delegato Giuseppe Bono è in grado di costruirle, anche in serie, nel giro di ventiquattro mesi dall’ordine". Il piano nazionale per affrontare l’emergenza dell’edilizia carceraria presenta attualmente una dote globale di circa 600 milioni, dei quali soltanto una parte potrebbe essere attualmente destinata alle strutture carcerarie galleggianti. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare.

È di Enrico Sbriglia, direttore del carcere Coroneo di Trieste e segretario nazionale del sindacato Sidipe, organizzatore della manifestazione di Trieste: "Penso a un’integrazione e non a una sostituzione fa notare come alla presenza di un’ambulanza, che non esclude quella di un ospedale. Immagino, ad esempio, che possano essere utilizzate per le detenzioni brevi".

Caute, per ora, quelle che si registrano nel capoluogo: "Ho sentito parlare di questa possibilità nei mesi scorsi ma mai nessuno l’ha esplicitata per quel che riguarda Cagliari dice il sindaco Emilio Floris nel caso che anche la nostra città venisse scelta per questa sperimentazione, occorrerebbe conoscere quali sarebbero le condizioni nelle quali questa struttura si troverebbe a "impattare" con il territorio circostante. E quelle nelle quali si troverebbero le persone che vi dovrebbero essere recluse e chi sarebbe chiamato a lavorarvi".

Da Buoncammino nessuna reazioni ufficiale da parte del direttore Gianfranco Pala: "Non ho notizie precise, anche se confermo di essere stato invitato al convegno di Trieste nel quale è stato presentato il progetto racconta ma non mi sembra serio commentare un fatto che non conosco in materia approfondita. Diciamo che ho sentito parlare del piano ma che mi mancano i particolari".

Genova: Cassinelli (Pdl); no al "carcere galleggiante" nel porto

 

Ansa, 27 febbraio 2010

 

Il parlamentare ligure, membro della Commissione giustizia di Montecitorio, non condivide il progetto di un istituto di pena nell’area portuale pur chiedendo di "preservare Fincantieri da ogni polemica politica". Si dice d’accordo con le motivazioni del sindaco Vincenzi ed indica il progetto dell’area di Forte Ratti come "l’unica soluzione immediatamente perseguibile per risolvere il problema di Marassi e dare un colpo d’ala a una parte importante della città".

"Risolvere il problema del carcere di Marassi senza penalizzare l’area portuale". L’on. Roberto Cassinelli interviene così nel dibattito sulla realizzazione del carcere galleggiante. "Il porto è una risorsa fondamentale per la città e la costruzione di un istituto di pena al largo finirebbe per creare inevitabili problemi di ogni genere. Si pensi ad esempio alla difficile gestione anche delle visite ai detenuti o ai disagi che si arrecherebbero al personale penitenziario". Il parlamentare genovese, membro della Commissione giustizia di Montecitorio, condivide anche le perplessità del sindaco Vincenzi.

"Ogni tanto mi capita di essere d’accordo con lei sottolinea Cassinelli anche perché le sue preoccupazioni sono anche le mie. Anche io, inoltre, vorrei tenere lontana Fincantieri da ogni dibattito che possa limitarne le straordinarie potenzialità imprenditoriali". Ma sul tema del nuovo carcere di Genova, ragiona ancora Cassinelli, "non si può sempre perseguire la logica del no. Per risolvere il problema di Marassi e consentire la riqualificazione di quell’area, occorre ripensare con serietà all’area di Forte Ratti che al momento sembra essere la soluzione più adeguata. È sotto gli occhi di tutti, infatti, l’indifferibilità del problema, la cui soluzione consentirebbe a Genova un vero e proprio colpo d’ala per tutti senza esporre il capoluogo ligure a rischi legati alla realizzazione di idee estemporanee e senza logica".

Imperia: carcere sempre più sovraffollato, la protesta della Uil

 

Ansa, 27 febbraio 2010

 

"Nel carcere di Imperia la popolazione detenuta tocca quota 121 unità e la Polizia Penitenziaria è ridotta all’osso e alla stregua!" Lo denuncia la Uil che evidenzia come il dato rilevato oggi, vanta una percentuale di sovraffollamento superiore al 50%, con la capienza massima regolamentare che è di 78 detenuti.

"Un istituto troppo piccolo - sottolinea la Uil - e con evidente carenza di personale di Polizia Penitenziaria, ad oggi sono presenti soltanto 54 unità al fronte di un organico di 78 unità".

"Ciò che incide fortemente in maniera negativa sull’organizzazione dell’istituto - dice Fabio Pagani, segretario regionale Uil Penitenziari Liguria - è la discontinuità del Direttore, Dott. Mangraviti, che considerato il suo doppio incarico, oltre al carcere di Imperia, ha anche la responsabilità del carcere di Savona. Sembrerebbe quasi un paradosso, considerato che l’amministrazione penitenziaria vanta il doppio dei direttori rispetto agli istituti di pena presenti su tutto il territorio nazionale - così continua Pagani - al Personale di Polizia Penitenziaria non vengono garantiti i diritti minimi, dal riposo settimanale ai congedi, per non parlare poi del piano ferie (estivo e natalizio). Con queste condizioni è giornalmente a rischio la sicurezza dello stesso Istituto, già vittima la scorsa estate di un’evasione da parte di un detenuto magrebino".

"In questa incredibile situazione di sovraffollamento - lamenta Pagani - nelle ultime ore nel carcere di Imperia sono entrati 6 detenuti trasferiti dalla Regione Lombardia. Tenere costantemente monitorata la sicurezza con questi numeri è praticamente una "mission impossibile"! Sarebbe ora che i tanti poliziotti penitenziari distaccati nei palazzi del potere e altrove, tornassero ad Imperia per dare una mano. Chiederemo anche al Provveditore Regionale di contenere nei limiti la popolazione detenuta nel carcere di Imperia, dato che oggi si rileva una presenza di detenuti storica".

Aosta: nel carcere di Brissogne, nasce il miele "Dolce evasione"

 

Ansa, 27 febbraio 2010

 

Si chiama "Dolce Evasione" e non è l’ultimo profumo della casa francese Dior, ma bensì, un miele. A produrlo - anche se dal nome viene difficile crederlo - è la casa circondariale di Brissogne. Nel luglio scorso, otto detenuti hanno partecipato ad un laboratorio di apicoltura, inserito in un progetto del Fondo sociale europeo promosso dall’Enaip Valle d’Aosta. Sotto la guida del tecnico regionale Claudio Gerbelle, hanno imparato i segreti del dolce nettare e durante le ore di formazione pratica hanno smielato e invasettato 35 kg di miele, dai mielari acquistati dalla signora Bruna Marc Grivaz di Châtillon.

I primi 70 vasetti da mezzo chilo di Millefiori sono stati poi donati all’Associazione volontariato carcerario che li ha messi in vendita, dietro offerta libera, sui banchetti di Libera. L’iniziativa è stata un successo, tanto che la casa circondariale di Brissogne, da quest’anno, avvierà al suo interno tutto il ciclo della produzione del miele.

Le prime quattro famiglie di api e l’ape regina sono già state acquistate e ora soggiornano dentro il carcere di Brissogne curate da primi otto detenuti formati e, sotto lo sguardo attento di Bruno Meynet, apicoltore hobbista e membro dell’Associazione volontariato carcerario.

Nei prossimi mesi partirà un nuovo laboratorio di apicoltura mentre per il futuro la produzione potrebbe arricchirsi con l’arrivo di nuove arnie e con la vendita della cera d’api. Sempre ovviamente che le api non decidano di sciamare verso luoghi di più Dolce Evasione (il nome è dell’educatore del carcere Giuseppe Porta).

Immigrazione: Cie di Lamezia Terme girone dantesco dal vivo

di Jacopo Storni

 

Il Manifesto, 27 febbraio 2010

 

Migranti rinchiusi alla bell’e meglio in spazi da galline, in attesa del rimpatrio. Senza poter far nulla, se non vegetare o ribellarsi. In tanti sono passati anche per il carcere, ma qui sono costretti a rimpiangerlo. La storia di Mohamed, commerciante ambulante con moglie e due figli, senza più permesso di soggiorno dopo 20 anni.

Più che un centro per immigrati, ha tutta l’aria di un girone dantesco dove coabitano fantasmi rabbiosi senza speranze e senza documenti, ingabbiati in spazi angusti e svuotati di ogni energia vitale, se non quella che serve per inscenare violente rivolte contro tutto e tutti, dove tutto il distruttibile viene distrutto.

La vigilanza racconta di cessi sradicati dal pavimento e frantumati fragorosamente a terra, lenzuoli infiammati con fiammiferi e materassi utilizzati come spargi incendio, porte sventrate con calci e grate attaccate con spranghe, rocambolesche fughe dai tetti e perentori inseguimenti. Ma a fianco delle prepotenze sugli oggetti, permangono gli autolesionismi: labbra cucite con ago e filo in segno di protesta, drammatici scioperi della fame, braccia lacerate con coltelli, lingue dilaniate con lamette da barba.

Il girone infernale è il Cie di Lamezia Terme, una palazzina orwelliana circondata da barriere metalliche che si innalzano prepotentemente al cielo per stroncare sul nascere qualsiasi fantasia di fuga. Nella recente indagine sui Cie italiani, Medici senza frontiere ha definito il centro di Lamezia, insieme a quello di Trapani, il peggiore d’Italia "perché totalmente inadeguato a trattenere persone in termini di vivibilità". Msf ha invocato la chiusura immediata del centro.

Un auspicio portato avanti anche da Gianni Speranza, il sindaco di Lamezia: "Sono anni che chiediamo ai ministri dell’interno di avviare una trasformazione della struttura da Cie a centro di accoglienza. Avviammo una progettazione concreta con l’ex viceministro dell’interno Minniti, ma il piano non è stato portato avanti da Maroni".

Raggiungere il centro è un’avventura. Dopo le pratiche burocratiche tra prefettura e ministero dell’interno per ottenere l’autorizzazione ufficiale alla visita, c’è l’ardua impresa di trovare l’ubicazione del Cie, arrampicato in una sperduta collina d’uliveti nella frazione di Pian Del Duca, un luogo sconsolato e marginale che sfugge anche all’immaginario collettivo dei lametini. Al solo pronunciare la parola "Cie" molti passanti cadono dalle nuvole; altri, più volenterosi nel fornire informazioni, si sforzano di indicare un luogo, ma si arrendono: "Ho sentito dire che c’è un posto dove mettono i clandestini, ma sinceramente non saprei dirle dove si trova esattamente".

Alla fine, dopo un excursus bucolico tra le campagne dell’hinterland lamentino, la struttura si staglia davanti agli occhi come una temibile fortezza. Ad accogliermi c’è l’ispettore Sergio Carino, due agenti di polizia e Raffaello Conte, presidente della cooperativa Malgrado Tutto, gestrice del centro. Prima di entrare, la consegna del cellulare è d’obbligo: niente foto o riprese all’interno. Dopo due chiacchiere informative sul centro, l’ispettore e un agente di polizia fanno strada verso l’ingresso alla palazzina che, attualmente, ospita 55 detenuti, cinque dei quali provenienti da Rosarno.

L’entrata è un dedalo di angusti passaggi militarizzati tra ferro e acciaio da cui traspare la vera essenza del Cie, una vera e propria gabbia di indigenza umana, surreale zoo nel quali i prigionieri (rinchiusi solo perché stranieri) sono implacabilmente serrati tra metalli, lucchetti, serrature, mandate di chiavi, labirinti di sbarre.

I "prigionieri", riuniti a grappoli nel minuscolo ed unico cortile che hanno a disposizione, appaiono inizialmente sulle loro. Ma basta un breve scambio di parole e la loro timidezza si trasforma in denuncia, in frenesia di raccontare la drammaticità del luogo nel quale sono costretti a vivere. Le prime accuse, pronunciate all’unanimità, sono già abbastanza significative: "Sapevano che sarebbe venuto un giornalista in visita e ieri hanno ripulito tutto il centro: i corridoi, le stanze, il cortile, le pareti. Fino a ieri era uno schifo, un vero porcile".

Incoraggiati dal taccuino che comincia a riempirsi di appunti, i detenuti incalzano la scrittura: "Te lo dico sinceramente tuona una di loro il carcere è cento volte meglio di questo posto. È più spazioso, ci sono più diritti, i letti sono comodi, il bagno è dignitoso". Effettivamente, lo spazio è risicato. Tra le carenze più pesanti contenute nel rapporto di Msf c’è l’inadeguatezza dell’unico spazio esterno, "un cortile di circa 200 metri quadrati, inutilizzabile quando piove e d’estate quando vi batte il sole".

Tra le altre lacune, Msf punta il dito, oltre che su un’inadeguata assistenza sanitaria, su "l’assenza di attività ricreative" e sul servizio di mediazione culturale che, "prestato da un unico operatore, appare insufficiente per rispondere alle esigenze di una popolazione variegata come quella del centro". Ma il problema sbandierato con più fervore dai detenuti resta l’assenza di vestiario (molti vivono con gli stessi luridi pantaloni da oltre un mese) e quello relativo ai bagni, assolutamente inospitali e indegni, i cui spazi sono strettissimi e fatiscenti, l’odore nauseante, la visuale stomachevole, i cessi inesistenti. "Abbiamo attivato un progetto per la ricostruzione e la riqualificazione dei bagni", tiene subito a precisare l’ispettore Carino.

Il tour guidato (e rigorosamente accompagnato) continua nelle camere. Ad ogni passo, i detenuti lanciano denunce e lamenti, supplicano di ascoltarli e cercano nei miei occhi uno sguardo di comprensione. Le camere sono dotate di televisione e riscaldamento, ma per gli ospiti del Cie sono dettagli privi di significato: "Guarda questi materassi ruggisce Hamami, 36 enne marocchino Sono vecchissimi, piegati dappertutto, è impossibile non svegliarsi col mal di schiena". Hamami è uno dei più disinvolti, esuberante nel protestare, squillante nei suoi toni quasi collerici.

È in Italia dagli anni Novanta e adesso, terminati i sei mesi al Cie, dovrà rimpatriare entro 5 giorni dal rilascio, pena (così dice la legge) quattro anni di galera. Hamami è arrivato al Cie dopo due anni di carcere (circa la metà dei detenuti del Cie ha scontato qualche mese di carcere): "Sono stato accusato perché avevo un pezzo di fumo e perché in tribunale mi sono ribellato alla legge, che si accanisce maggiormente contro gli stranieri senza permesso di soggiorno. Ho 3 diplomi, so fare tutti i lavori, adesso ho la coscienza apposto e non capisco perché la conseguenza debba essere il rimpatrio. Non è giusto, appena esco da qui, fuggo in un altro paese europeo, non voglio più saperne dell’Italia".

Ma il vero dramma dei Cie non sono le condizioni di vita al suo interno, bensì l’inesorabile destino che attende i detenuti. Molti di loro sono in Italia da oltre vent’anni, hanno moglie e figli italiani ma sono condannati al rimpatrio a causa di tanti piccoli cavilli burocratici che, per quanto coerenti con la legge, appaiono disumani se rapportati alle storie personali di ciascun immigrato. È il caso del marocchino Mohamed Farsane, in Italia da trent’anni. Mohamed è sposato con una donna marocchina e da anni gestisce una bancarella ambulante a Matera. Ha due figli piccoli, entrambi nati in Italia.

Nonostante questo, il destino di Mohamed sembra essere il rimpatrio perché attualmente non è regolare. Adesso, dopo una vita trascorsa in Italia, un lavoro regolare e due figli italiani, Mohamed è disperato: "Sto vivendo un incubo. Ho il permesso di soggiorno dall’89 ma quando la mattina del 2 febbraio sono andato a rinnovarlo alla questura di Matera, la mia città, mi hanno detto che non era possibile procedere al rinnovo. Nel pomeriggio mi hanno portato al Cie di Lamezia". Adesso Mohamed ha una paura folle: "Non voglio tornare in Marocco, tutti i miei familiari sono qui, abbiamo una bella casa, un lavoro, una vita".

Tra le motivazioni che hanno contribuito al mancato rinnovo del permesso di soggiorno, ci sarebbe il reato di contraffazione di cui Mohamed si è macchiato oltre dieci anni fa, quando, dice lui, "per sopravvivere sono stato costretto a vendere cd contraffatti". Un gesto che seppur in palese violazione della legge umanamente parlando non giustifica il rimpatrio forzato di un essere umano che, dopo trent’anni di sacrifici, si è costruito una vita in Italia e, seppur inciampando nell’illegalità, ha sempre servito onestamente il paese che lo aveva accolto.

Libano: Centro Diritti dell’uomo; fino 300 detenuti in una cella

di Marco Di Donato

 

Osservatorio Iraq, 27 febbraio 2010

 

Il Centro libanese dei diritti dell’uomo (Cldh) lancia l’allarme: la situazione dei detenuti nelle carceri libanesi è drammatica. Nel 2007, secondo le statistiche riportate nel World Prison Populition List, su una popolazione totale di 3 milioni e 700 mila abitanti, i detenuti ufficialmente reclusi in tutto il territorio nazionale erano 5.870: ovvero 159 ogni 100mila abitanti.

Una percentuale superiore si registra solo in Israele e negli Emirati Arabi Uniti. Il rapporto stilato dal Cldh, dal titolo "Prigioni in Libano: preoccupazioni legali e umanitarie", pone l’accento sulle terribili condizioni igieniche rilevate negli istituti di detenzione.

In base alle affermazioni degli autori, infatti, nella maggioranza delle carceri libanesi i servizi sanitari sono quasi completamente assenti, ed è facile immaginare quali siano le ripercussioni all’interno dei centri più affollati.

Nella prigione di Roumieh, che è già stata teatro di scontri e rivolte, i reclusi in attesa di giudizio sono circa 3.500. A nordest di Beirut, il più grande istituto del Paese dispone di celle che raggiungono una ampiezza massima di 20 metri quadrati, dove spesso vengono recluse fino a 300 persone. In altri casi, i locali adibiti alla detenzione sono ancora più piccoli, e nello spazio di pochi metri vengono confinate dalle 6 alle 9 persone.

Sopravvivere a Roumieh è quasi un’impresa. Non a caso è considerato il carcere più duro di tutto il Libano e conta attualmente il più alto tasso di rivolte (sequestro delle guardie carcerarie, tafferugli e incendi) di tutto il Paese.

Ma le accuse del Cldh non si fermano qui. Nella maggior parte dei penitenziari è stata rilevata una insufficienza strutturale degli apparati igienici: docce senza acqua calda e sanitari molto vecchi o inutilizzabili. Lo stato delle celle non è migliore: piccole, sporche, e senza un’adeguata ventilazione, con materassi ammassati sul pavimento, uno accanto all’altro. L’inchiesta del Cldh focalizza l’attenzione anche sulla situazione dei prigionieri stranieri, che rappresentano il 13% dell’intera popolazione carceraria nazionale. Nella maggior parte dei casi, i detenuti non possono intrattenere dei colloqui confidenziali con i propri avvocati, ed è una pratica comune quella di non fornire un interprete nel corso del processo o dell’interrogatorio.

Simili denunce erano già contenute nel Human Rights Report on Lebanon, redatto dal Dipartimento di Stato americano nel 2008. Il rapporto evidenziava anche un diffuso utilizzo di arresti arbitrari e il frequente ricorso alla tortura durante gli interrogatori.

Cldh è una organizzazione ufficiale libanese che svolge le funzioni di monitoraggio locale per Solida (Soutien aux Libanais Détenus Arbitrairement), un movimento francolibanese che fa parte della rete euromediterranea dei diritti dell’uomo con sede in Francia.

Solida è attiva dal 1996 nella lotta contro le detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e gravi violazioni dei diritti umani. Il Cldh è stato istituito a Beirut nell’ottobre del 2006 dal gruppo Solida e dagli attivisti locali per i diritti umani.

Cuba: cinque dissidenti in carcere iniziano sciopero della fame

 

Apcom, 27 febbraio 2010

 

Due giorni dopo la morte del prigioniero politico Orlando zapata, cinque dissidenti cubani hanno proclamato uno sciopero della fame per protestare contro il governo cubano e chiedere il rilascio di tutti i detenuti politici: è quanto riporta il quotidiano spagnolo El Pais.

I funerali di Zapata, sepolto ieri nella località cubana di Panes, si sono svolti sotto la massima sicurezza dopo che Reina Luisa Tamayo, madre del dissidente, aveva accusato il governo dell’Avana di aver provocato la morte del figlio, deceduto in carcere dopo uno sciopero della fame durato 85 giorni; "Si è trattato di un omicidio premeditato, mi resta solo da ringraziare tutti i Paesi che hanno lottato perché ciò non avvenisse". Nonostante le condizioni di Zapata si fossero aggravate da tempo solo la settimana scorsa le autorità carcerarie ne avrebbero ordinato il trasferimento nell’infermeria della prigione.

Il 42enne Zapata era stato arrestato nel 2003 in una retata che vide il fermo di 75 dissidenti accusati di cospirazione con gli Stati Uniti: al dissidente che non faceva parte del "gruppo dei 75", condannati a pesanti pene detentive vennero però inflitti tre anni di reclusione per oltraggio alle autorità, disobbedienza e turbativa di ordine pubblico; a causa dell’atteggiamento di sfida mantenuto in carcere aveva tuttavia accumulato altre condanne per un totale di quasi trent’anni, decidendo nel dicembre scorso di proclamare lo sciopero della fame per protestare contro i maltrattamenti sofferti in prigione.

 

 

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