Rassegna stampa 3 settembre

 

Giustizia: carceri nel disastro; amnistia unico rimedio possibile

 

Redattore Sociale - Dire, 3 settembre 2009

 

"La proposta di una vasta amnistia, che ripetiamo inascoltati da trent’anni, costituisce l’unica risposta seria e adeguata alla tragedia in corso della Giustizia italiana, della quale l’attuale disastrosa situazione delle carceri non è che l’epifenomeno". Così il leader radicale Marco Pannella sul tema delle situazione della carceri italiane e della riforma della Giustizia. Ne riferisce la newsletter Notizie Radicali, giornale telematico di Radicali Italiani, che riprende un articolo apparso sul quotidiano Il Riformista.

"L’amnistia - aggiunge - è anche l’unica alternativa alla prescrizione clandestina, strisciante, di massa e di classe, che sembra essere la sola politica perseguita dal Regime Partitocratico, salito ormai dalla storica condizione di delinquente abituale al più alto rango di delinquente professionale, che gli è più congeniale".

 

Pecorella: amnistia potrebbe essere una soluzione

 

"Sul piano dei valori l’amnistia rappresenta una sconfitta per la giustizia, però bisogna essere concreti e pragmatici: oggi c’è un’amnistia che è nelle mani dei magistrati i quali stabiliscono priorità nel fare i processi e quindi alcuni arrivano ad essere giudicati e puniti ed altri invece hanno i loro fascicoli abbandonati nei cassetti". È quanto dice il parlamentare del Pdl, Gaetano Pecorella, intervistato da Radio radicale sulla proposta di amnistia avanzata da Marco Pannella dalle colonne del quotidiano Il Riformista.

"Siccome in questo momento - aggiunge Pecorella - la situazione è irrecuperabile, si può pensare ad un’amnistia legata a tempi più vecchi, ad alcuni reati commessi fino ad una certa data di alcuni anni fa e magari limitata ad alcuni reati che non destino allarme sociale".

 

Mastella: amnistia? affrontare la questione con serenità

 

"Quando si fece l’indulto sembrò che la scelta fosse solo mia, come se con un gesto autarchico avessi deciso da solo invece che con i due terzi del parlamento secondo la norma costituzionale. Anche allora si parlò di amnistia, poi ci fu una sorta di reticenza da parte della classe politica". Lo ricorda l’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, intervistato da Radio Radicale commentando la proposta di Marco Pannella di una amnistia subito.

"Ci vuole il coraggio di Pannella - aggiunge Mastella - per fare una proposta del genere, quando sembra che le condizioni politiche non portino affatto a dichiarare aperta la questione. Eppure ognuno vede il dramma che si vive nelle carceri, che poi fu la principale ragione che mi spinse a fare e mi spinge a difendere quel provvedimento".

L’ex guardasigilli continua: "Sento dire che si devono fare nuove carceri. Ma i tempi di realizzazione di nuovi carceri finora sono stati tutt’altro che veloci. Questa è una di quelle questioni neutre che dovrebbero essere affrontate con molta serenità da parte delle formazioni politiche in campo. Se Pannella riesce, con la sua autorevolezza, a far discutere di questo gli uni e gli altri è una buona ragione per la quale battersi".

 

Di Pietro: un’amnistia? la destra sragiona

 

"La destra sragiona se pensa di ricorrere ancora una volta all’amnistia o all’indulto". Così Antonio Di Pietro, presidente dell’Italia dei valori, ai microfoni di Cnr Media, a proposito di quanto detto dal parlamentare del Pdl, Gaetano Pecorella sulla possibilità di un’amnistia per risolvere l’affollamento delle carceri.

"Sono 60 anni che si va avanti con indulti e amnistie - aggiunge Di Pietro - con 30 provvedimenti per sfollare le carceri. Ma mai che si sia preso il toro per le corna e si sia deciso di costruire più penitenziari. I detenuti devono essere messi in condizioni di vita dignitose ma devono stare dentro, per non farli tornare a delinquere".

Secondo Di Pietro, "mettere fuori i delinquenti non serve, in un mese tornano a commettere reati. Se poi mancano i soldi per il piano carceri non mi stupisce, finché si spendono 5 miliardi per giocare con le Frecce Tricolori in Libia senza invece cercare risorse per i 5 mila agenti penitenziari che mancano nel nostro Paese".

 

Gasparri: finché ci sarà questa maggioranza niente amnistia

 

Maurizio Gasparri spiega che "finché ci sarà questa maggioranza non ci sarà alcuna amnistia", che non è la soluzione al sovraffollamento delle carceri. Il problema del sovraffollamento delle carceri è reale, ma il ministro della Giustizia si sta già muovendo nella giusta direzione per affrontare questa emergenza. La cui soluzione, lo ribadisco, certamente non potrà mai passare attraverso alcuna amnistia".

 

Vietti: fu un errore non fare l’amnistia assieme all’indulto

 

Michele Vietti, vicesegretario dell’Udc, afferma che "è stato un errore fare l’indulto a suo tempo senza abbinarlo all’amnistia, come era invece sempre stato fatto in passato". Vietti spiega che "non è facile immaginare la possibilità di creare il consenso che la Costituzione chiede per un provvedimento di amnistia, soprattutto con il clima di criminalizzazione generale che la maggioranza ha indotto". Tuttavia "se il governo e il ministro della giustizia continueranno a non dare risposte sul fronte della edilizia carceraria e della accelerazione dei processi penali, una riflessione su qualche soluzione che consenta di decongestionare il sistema bisognerà tornare a farla".

Giustizia: Alfano; non ci saranno indulti... costruiremo carceri

di Giovanni Galli

 

Italia Oggi, 3 settembre 2009

 

No a nuovi indulti, sì alla realizzazione di nuove carceri: è questo il "piano" del ministro della Giustizia Angelino Alfano, illustrato nei giorni scorsi a Favara, nel corso della cerimonia per la posa della prima pietra di una nuova caserma dei Carabinieri.

"Nella storia della Repubblica", ha osservato il Guardasigilli, "si è sempre seguita la strada delle amnistie e indulti, in media ogni due anni. Sono tornati in libertà alcune migliaia di detenuti per liberare le carceri e poi ci siamo ritrovati al punto di partenza". "Noi invece", ha sottolineato Alfano, "vogliamo seguire una strada diversa che non è quella di concedere nuovi indulti perché ciò cozzerebbe oggi contro la giustizia ma anche contro il bisogno di sicurezza dei nostri concittadini, intendiamo invece seguire la strada della realizzazione di nuovi istituti e a breve presenteremo in consiglio dei ministri il nuovo piano delle carceri".

Il Guardasigilli ha infine rilevato che su questa materia "la Commissione europea è pronta ad ascoltare il Governo italiano. Io stesso avevo posto la questione nel corso dell’insediamento della presidenza svedese, sostenendo che vi sono alcuni paesi rivieraschi, come l’Italia, che hanno patito più degli altri il fenomeno del sovraffollamento carcerario derivante dagli stranieri; in proposito il vicepresidente ha già convocato una apposita riunione per il prossimo mese di ottobre".

"Il nostro governo ha fatto tanto non solo perché abbiamo varato leggi importanti contro la criminalità, ma anche perché abbiamo trovato degli uomini in magistratura e nelle forze dell’ordine che ogni giorno le hanno applicate con rigore e grande capacità operativa. Ricordo in questo senso la grande mole di sequestri e di confische di patrimoni mafiosi avvenuti in un anno", ha poi aggiunto il ministro.

"Il sequestro di circa un miliardo di euro in un anno", ha osservato, "è la prova concreta non di quanto importanti siano state le leggi contro la mafia che abbiamo applicato, ma di quanto sia ancora estendibile il fronte del possibile intervento in materia di sequestri e confische perché il patrimonio della criminalità organizzata è grande e altrettanto grande deve essere lo sforzo dello Stato in questa direzione". Il ministro ha sottolineato che "per la prima volta è stato creato un nesso diretto che collega il sequestro all’utilizzo. Ciò significa che i sequestri e le confische di beni che abbiamo effettuato sono il presupposto perché questi beni vengano utilizzati contro la mafia".

Giustizia: Pagano; piano edilizia carceraria? da solo non basta

di Lorenzo Alvaro

 

Vita, 3 settembre 2009

 

Ennesimo record di presenze. Intervista a Luigi Pagano, capo degli istituti lombardi. I detenuti oggi hanno raggiunto quota 64 mila stabilendo il nuovo record negativo in tema di sovraffollamento. La politica brancola nel buio e fatica a trovare risposte. L’annunciato piano carceri non decolla. Per fare chiarezza Vita intervista Luigi Pagano, provveditore delle carceri in Lombardia, che analizza le problematiche e le possibili soluzioni.

 

In che situazione è il sistema carcerario lombardo?

Il sovraffollamento lombardo, pur essendo il più alto in termini assoluti in Italia, non ha ancora raggiunto i numeri pre indulto. Gli istituti che soffrono maggiormente sono quelli un po’ vecchi come San Vittore a Milano o il carcere di Brescia, che non solo hanno alta densità di presenze ma anche un turnover di persone in ingresso molto elevato che il vero elemento di crisi del sistema.

 

Il piano carceri sembra prevedere 17 mila nuovi posti letto. È una possibile soluzione al problema?

Il piano carceri è in mano al ministro e verrà presentato in parlamento dunque non conosco i particolari. Per quanto riguarda l’aumento dei posti letto sicuramente è una cosa positiva ma insufficiente per risolvere il problema. Sul numero non mi pronuncio perché fare una stima, soprattutto quando si parla di penitenziario penale, è pressoché impossibile. Serve di più. Si deve pensare ad esempio a rafforzare i rapporti con l’estero per permettere che i detenuti stranieri scontino la pena nei paesi d’origine e pensare alle misure alternative alla pena detentiva.

 

Si pensa anche di assumere nuovo personale per riuscire a gestire meglio la grande quantità di carcerati?

Anche questo dipende dalla politica e dal governo in particolare, ed è evidente che esiste una carenza di personale, non solo per quanto riguarda gli agenti di sorveglianza ma anche in termini di educatori e psicologi, e le assunzioni sono necessarie. È altresì chiaro che se la situazione del sovraffollamento, che le assunzioni non possono risolvere, rimarrà così si rischia di vanificare proprio quelle risorse in più impegnate.

 

Prima ha accennato alle misure alternative. Sono una strada da percorrere?

Non sono solo una strada da percorrere ma anche percorribile in quanto prevista dalle leggi di riferimento con tante misure diverse dalla detenzione. In questo caso però non basta l’impegno dell’amministrazione penitenziaria e dei giudici, serve anche un imput forte dall’esterno. È necessario creare un humus, una cultura che in Italia è presente solo a macchia di leopardo. In Lombardia c’è, magari poco organica ma reale, in altre regioni è assolutamente latitante. Questo è il motivo per cui in pochi, rispetto a quelli che ne avrebbero diritto, riescono ad ottenere le misure alternative: non ci sono, molto spesso le condizioni materiali.

 

Che prospettive per il futuro?

Siamo positivi, e crediamo che si riuscirà ad uscire dall’empasse. Mentre aspettiamo che la politica, con i suoi tempi, porti a termine il piano, noi lavoreremo sia per attenuare i disagi del sovraffollamento con il nostro personale, gli educatori, psicologi e il volontariato che in Lombardia è ricchissimo, sia per creare le condizioni di sicurezza per portare fuori il maggior numero di detenuti e favorirne il reinserimento nella società. Solo se ci sarà un impegno di tutti allora si troveranno soluzioni valide. Il piano da solo non può essere risolutivo.

Giustizia: sul sovraffollamento pioggia di ricorsi contro l’Italia

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 3 settembre 2009

 

Sono circa 120 i reclusi che a oggi si sono rivolti agli uffici del Difensore Civico dei detenuti dell’associazione Antigone con l’intenzione di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per le condizioni di sovraffollamento in cui l’Italia li costringe a vivere. Dopo la sentenza dello scorso 16 luglio con la quale la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il sovraffollamento penitenziario, Antigone si è messa a disposizione di tutti coloro che vogliano seguire l’esempio del detenuto bosniaco Izet Sulejmanovic presentando un ricorso per analoghi motivi.

A cavallo tra il 2002 e il 2003, Sulejmanovic ha condiviso con altre cinque persone per circa cinque mesi una cella di 16,2 metri quadri del carcere romano di Rebibbia, essendo ben lontano dunque dal disporre di quei quattro metri quadri pro capite che il Consiglio d’Europa stabilisce quale standard minimo in una cella multipla (in una singola si alza a sette metri quadri) affinché non sia ravvisabile un trattamento inumano e degradante. L’Italia è stata condannata a risarcire moralmente il signor Sulejmanovic versandogli la cifra di mille euro che, seppur simbolica, potrebbe venir moltiplicata per parecchie decine di migliaia di unità.

Una consolidata giurisprudenza della Corte stabilisce che condizioni carcerarie inaccettabili configurino violazioni dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti (vedi ad esempio i casi Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008; Vlassov c. Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007; Peers c. Grecia, n. 28524/95, sentenza del 19 aprile 2001, §§ 70-72). La sentenza del caso Sulejmanovic ha un precedente specifico in quella del 15 luglio 2002 relativa alla causa Kalashnikov contro Russia, che esplicitamente sottolinea come l’art. 3 venga oggettivamente violato da certe condizioni materiali di detenzione, a prescindere dall’intenzione dell’istituzione di degradare il detenuto.

I ricorsi possono essere effettuati direttamente alla Corte senza essere preceduti da un reclamo al magistrato di sorveglianza nonostante la Convenzione europea preveda che prima di rivolgersi ai giudici di Strasburgo siano esauriti i rimedi giurisdizionali nazionali. Il reclamo al magistrato di sorveglianza segue, però, una procedura amministrativa tant’è che la Corte Costituzionale con sentenza n. 26 del 1999 ha invitato il legislatore - senza che da ciò ne sia seguito nulla - a rivedere le norme dell’ordinamento penitenziario sul diritto al reclamo assicurando ai detenuti procedure giurisdizionalizzate.

Tra gli istituti interessati dai ricorsi vi sono: Milano Opera, Fossano, Bologna, Pistoia, Torino Vallette, Busto Arsizio, Milano San Vittore, Milano Bollate, Verona Montorio, Roma Regina Coeli, Santa Maria Capua Vetere, Monza, Vallo della Lucania, Caltanissetta, San Gimignano, Brescia.

Il sovraffollamento ha raggiunto quote record. Nel carcere di Poggioreale a Napoli, forse il più affollato d’Europa, ci sono 2.700 persone a fronte di una capienza di 1.300; nel carcere di Brescia celle di otto metri quadri ospitano fino a sette detenuti, facendo sì che i letti a castello a tre piani occupino quasi l’intera superficie; il carcere di Belluno ospita cento detenuti presentando una capienza pari alla metà; il carcere Ucciardone di Palermo ospita oltre il doppio delle 378 unità regolamentari, arrivando a recludere dodici persone in una cella da quattro.

Da segnalare la comunicazione ricevuta dal carcere di Vercelli e firmata da ben 73 detenuti, vale a dire tutti quelli presenti nella sezione di Alta Sicurezza che all’unanimità chiedono ad Antigone di farsi tramite del loro ricorso alla Corte europea per essere costretti a vivere per oltre 18 ore al giorno in due persone in celle dove la superficie calpestabile è di 6,12 metri quadri. La sezione, capace di ospitare complessivamente 34 detenuti, ne ospita invece appunto 73.

Giustizia: Bernardini (Radicali); la legge ex-Cirielli da rivedere

 

Il Velino, 3 settembre 2009

 

"Qualche giorno fa nel carcere S. Bona di Treviso Adriano Zanin, 55enne, è morto stroncato da un infarto. Zanin doveva scontare una condanna a trenta giorni di reclusione per un incidente stradale e, sulla base di quanto disposto dalla legge ex Cirielli, non aveva potuto beneficiare della sospensione della esecuzione della pena in quanto recidivo".

Lo afferma Rita Bernardini, deputata Radicale/Pd. "Pur essendo gravemente malato di cirrosi epatica e, quindi, fortemente debilitato - prosegue Bernardini -, lungi dall’essere ricoverato in ospedale o comunque sottoposto a sorveglianza medica, Zanin è stato sbattuto all’interno di una cella di 15 metri quadrati, dotata di un bagno alla turca, all’interno della quale, in un caldo soffocante, si trovavano già altri cinque detenuti. Ha resistito quattro giorni, la notte del quinto è stato colto da malore ed è deceduto dopo un’agonia di mezz’ora senza essere assistito dal personale medico, il quale, stando a quanto denunciato dagli altri detenuti, quella notte non prestava nemmeno servizio all’interno del carcere".

"Nulla di nuovo sotto il sole: mentre l’ultimo pacchetto sicurezza approvato in Parlamento si appresta a peggiorare il degrado dei nostri istituti di pena, dovuto al sovraffollamento e alla fine di ogni politica mirata al trattamento e mentre il ministro Alfano si prodiga ad approntare la costruzione di nuovi penitenziari, il copione delle morti in carcere continua a ripetersi uguale, con tutta la sua amarezza e tragedia". È quanto osserva la parlamentare radicale eletta nelle liste del Pd Rita Bernardini, ricordando che "nei primi sette mesi del 2009 si contavano già più di cento detenuti morti, di cui più di 40 suicidi".

Per la Bernardini, "il cocktail micidiale che produce morti come quella di Adriano Zanin nel carcere di Treviso è composto da leggi bigotte come la ex Cirielli; da finanziarie avare che continuano a tagliare fondi alla sanità penitenziaria e a tutte le attività di istruzione, formazione e scolarizzazione che dovrebbero svolgersi all’interno dei nostri istituti di pena e da una classe politica sempre più ipocrita e giustizialista capace solo di chiedere ispezioni ministeriali contro quei pochi magistrati di sorveglianza che fanno il loro dovere concedendo i benefici penitenziari previsti dall’ordinamento italiano".

L’esponente radicale chiede di "rivedere immediatamente la legge ex Cirielli che, rendendo di fatto impossibile l’applicazione dei benefici nei confronti dei recidivi e, quindi, di larga parte dei detenuti, sta facendo aumentare drasticamente la popolazione carceraria senza che nulla, salvo l’astratta previsione di nuove carceri, sia stato predisposto per fronteggiare la nuova situazione. Solo così potranno essere evitate altre morti dolorose e inutili come quella avvenuta nel carcere di Treviso".

Giustizia: 10 "braccialetti elettronici" ci costano 11 milioni di €

 

Il Giornale, 3 settembre 2009

 

Un braccialetto da un milione di euro. Braccialetto tempestato di diamanti, modello Ivana Trump? No, semplice braccialetto elettronico modello-detenuto. Il flop dei braccialetti elettronici che avrebbero dovuto "svuotare le carceri" rendendo "più agile" il nostro sistema penitenziario risale al 2001 e porta la firma di due illustri membri dell’altera governo Amato: l’ex ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e l’ex Guardasigilli, Piero Fassino.

Furono loro infatti a firmare con la Telecom un’esclusiva che ancora oggi, a otto anni di distanza, costa ai contribuenti italiani la bellezza di 11 milioni di euro all’anno. I numeri sono da beffa: i braccialetti elettronici anti-evasione attualmente operativi sono infatti solo 10 e ci costano più di un milione di euro ciascuno.

I conti li ha fatti MF, il quotidiano dei mercati finanziari secondo il quale "lo Stato spende 11 milioni di euro all’anno per applicare i braccialetti a una decina di detenuti agli arresti domiciliari". Una cifra enorme, uno spreco assurdo. Il motivo? "Dei 400 dispositivi elettronici che il Viminale ha noleggiato dalla Telecom fino al 2001, soltanto 11 sarebbero utilizzati, il resto è sotto chiave in una stanza blindata del ministero".

La denuncia arriva da Donato Capece, segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria): "Questi costosissimi aggeggi elettronici si sono dimostrati inefficaci, la loro tecnologia è ormai obsoleta e sono stati già parecchi i casi di evasione".

Ma a questo punto non sarebbe stato logico rompere il contratto con la Telecom, risparmiando così un mucchio di soldi? "Purtroppo - spiega Capece -, il contratto firmato nel 2001 contempla una clausola che obbliga lo Stato a pagare la Telecom fino al 2011; solo dopo questo termine si potrà sciogliere P"esclusi-va", scegliendo eventualmente di rivolgersi ad un altro operatore in grado di gestire - magari con prezzi più modici - la tecnologia di braccialetti elettronici di nuova generazione".

La Telecom, al momento, è in grado di monitorare grazie a una sala di controllo centralizzata 309 centraline su tutto il territorio nazionale collegate alle questure, ai comandi provinciali della finanza e dei carabinieri. Uno spiegamento tecnologico assolutamente sovradimensionato rispetto alla manciata di detenuti ai domiciliari cui è stato effettivamente applicato il braccialetto: detenuti ai quali è bastato staccare il marchingegno farlocco dalla caviglia o dal polso per rendersi irreperibili. Insomma, lo Stato paga fior di milioni per rendere il più possibile agevole l’evasione dei criminali.

Perplessità anche dall’Osapp, l’altra organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria: "Per il braccialetto servono almeno 4mila agenti, uno per ogni detenuto controllato -, avverte il segretario nazionale Leo Benedici -. Si tratta di uno strumento costoso che nel corso degli anni ha mostrato gravi problemi di applicazione e prevede un domicilio certo e una casa presso cui montare l’apparecchiatura che rimanda il segnale dal congegno indossato".

Alla buon’ora il Viminale sta prendendo le contromisure e dal ministero degli Interni fanno sapere che la "convenzione con la Telecom è in via di sospensione alla luce della nuova formulazione del progetto relativo all’utilizzo dei braccialetti elettronici".

E dire che solo l’anno scorso tutti giuravano sulla funzionalità dell’esperimento: un gioiello hi-tech simile a un orologio da caviglia, anziché da polso. Un semplice "collarino" indossato all’estremità della gamba e dotato di un trasmettitore in collegamento con la centralina della polizia per tenere sotto controllo i detenuti ammessi alle misure alternative al carcere.

Il ministro della Giustizia Alfano e il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta sprizzavano ottimismo: "Grazie al braccialetto risolveremo i problemi più pressanti di sovraffollamento delle carceri, consentendo di non perdere mai di vista i circa 4.100 detenuti italiani che hanno fino a due anni di pena da scontare e possono usufruire degli arresti domiciliari".

Negli stessi giorni lo stesso Alfano confermava l’intenzione di dare corso a un piano "svuota-carceri" che prevedeva, in particolare, l’espulsione di più di 10mila detenuti stranieri e il ricorso al braccialetto per gli oltre 4mila italiani. Poi tutto si è bloccato a causa dell’inaffidabilità di questi benedetti braccialetti. Ma il Guardasigilli non demorde e, ancora oggi, rilancia: "Il braccialetto elettronico può garantire una maggiore sicurezza delle nostre città". E a chi, anche nell’ambito dello schieramento di centrodestra, come il ministro dell’Interno Roberto Maroni, avanza dubbi sull’efficacia dello strumento, Alfano replica con l’assicurazione che "verrà adottato solo una volta messo a punto con precisione il meccanismo dal punto di vista tecnico". Come dire, il braccialetto è tanto chic ma per ora accontentiamoci delle manette.

Giustizia: "l’identità", l’immigrazione e le radici dell’omofobia

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 3 settembre 2009

 

Un mio amico gay (sapete la frase: "Non ho niente contro l’omosessualità, ho anche un amico gay") mi dice che non sa bene che cosa voglia dire questa recrudescenza di odio e violenze omofobe, e nemmeno quanto sia reale.

Può darsi, dice, che la differenza principale stia nella reazione: oggi non siamo più disposti a passarle sotto silenzio e a lasciarle impunite. La violenza omofoba non si è mai fermata. Può darsi, dice, che l’incattivimento generale del nostro tempo la irriti di più: dopotutto, gli omosessuali sono da sempre lì a fare da bersaglio, loro e gli altri diversi per eccellenza, votati a far da capri espiatori, ebrei, zingari. Roma poi, dice, è la magnifica città d’elezione delle discriminazioni e dei razzismi.

I fascistelli (grazioso diminutivo, quasi vezzeggiativo, come Svastichella) si trovano il piatto servito al giorno d’oggi: c’è la Gay Street, si va a tirare un paio di bombe, poi quando ti inseguono si tira fuori una pistola (una pistola intera, non una pistolella) e si torna al calduccio del proprio covo. Il mio amico vive in una grande città del centro in cui l’ultima aggressione a gay, peraltro fortuita, risale, dice, a due anni fa. Poi si scusa di dover chiudere la telefonata: sta uscendo per andare a una manifestazione contro la violenza omofoba.

Non mi accontenta la sua opinione, dubbiosa del resto. Non che sia un’opinione ottimista, al contrario. Vuol dire che l’odio contro i gay non ha mai conosciuto tregua, e non ne conoscerà per molto tempo ancora. Non mi convince l’idea della continuità. Mi pare che tutti i fenomeni del peggiore arcaismo e patriarcalismo, a cominciare dagli ammazzamenti di donne, abbiano un carattere modernissimo, siano insieme avanzi di passato e sintomi del mondo nuovo. Il futuro ha un cuore antico, diceva un bel titolo di Carlo Levi (che lo trovava uguale a se stesso, quel cuore, in Lucania o in Unione Sovietica).

Si può anche paventare un futuro che non abbia più un cuore, ma ce l’abbia decrepito. Gli assalti premeditati ai luoghi conviviali gay, o la coltellata improvvisata a un angolo di strada - secondata o ignorata dalla viltà degli astanti - sono fortunosamente coincisi con la decisione di "gridare al mondo" - ha scritto così D’Avanzo - che "il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio!".

Coincidenza che complica già le cose. E a complicarle ulteriormente sta l’intreccio fra la posizione assunta dalla Chiesa in questo frangente, la posizione ufficiale e tradizionale della Chiesa sull’omosessualità, e lo speciale riparo di fatto offerto dalla Chiesa all’omosessualità (e, altra questione, alla cosiddetta pedofilia). Non è facilissimo tenere assieme il rigoroso e sdegnato ripudio dell’invadenza nella vita privata delle persone e la condanna delle loro private vocazioni sessuali. Le oscillazioni di questi giorni (ancora lievi, peraltro) nell’atteggiamento della gerarchia cattolica, spiegate acutamente dagli esperti con le diverse linee politiche concorrenti, sono anche in qualche misura legate a quella contraddizione.

(Bisognava alla Chiesa esser prudente, ammoniva Messori ieri sul Corriere, e destinare il sospettato di gusti diversi ad altri incarichi). La stessa giudiziosa (a volte troppo) distinzione che la Chiesa ribadisce tra peccato e peccatore, non basta a trovare un equilibrio: oscillando a sua volta fra un’estrema indulgenza (credi forte, e pecca pure più forte ancora, magari a pagamento) e una colpevolizzazione devastante.

Alfredo Ormando venne dalla Sicilia in piazza San Pietro per darsi fuoco il 22 gennaio 1998. Un "atto inconsulto": come no. Lo aveva scritto lui stesso, qualche giorno prima, a Natale. "Vivo con la consapevolezza di chi sta per lasciare la vita terrena e ciò non mi fa orrore, anzi!, non vedo l’ora di porre fine ai miei giorni; penseranno che sia un pazzo perché ho deciso Piazza San Pietro per darmi fuoco, mentre potevo farlo anche a Palermo".

Un atto "innaturale", per definizione: che a lui sembrò il più naturale degli atti: "Spero che capiranno il messaggio che voglio dare; è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia".

Questione complicata, e insieme semplice fino all’imbarazzo. "Noi eterosessuali" dobbiamo pur pensarne qualcosa. Se non altro, per decidere se stiamo o no uscendo anche noi per andare a manifestare. Una volta, quando eravamo di sinistra e c’era la sinistra (di sinistra siamo ancora, molti di noi, la sinistra però non c’è più, o quasi), ci dicevamo che virilismo e omofobia sono connotati decisivi dei fascismi - magari per mascherare o rimuovere un’omofilia temuta - e dunque battersi per i diritti di gay e lesbiche era un capitolo del dovere antifascista.

Oggi la correttezza politica dà così per ovvia la tolleranza nei confronti delle diverse predilezioni sessuali che la questione è pressoché accantonata. Le aggressioni contro i gay si moltiplicano, i gay rispondono, le autorità, per lo più maschie, hanno il gay village e la gay street cui far visita con le telecamere. E così via. A ciascuno il suo. Agli eterosessuali maschi la loro normalità, spinta ogni tanto all’eccesso colposo di legittima difesa consistente nell’ammazzare moglie e figli, ex fidanzata o prostituta ignota dell’est, e poi tentare, quasi sempre fallendo, il suicidio. Sono dell’altro ieri i dati aggiornati sugli omicidi in Italia. Quelli in famiglia hanno il primo posto e superano nettamente gli ammazzamenti di mafia: quanto alle vittime, sono per il 70 per cento donne. Fine della digressione sulla normalità eterosessuale. Torniamo alla violenza omofoba e alla sua eventuale modernità.

Sono persuaso che al fondo della questione dell’immigrazione straniera stia il fantasma della sessualità, lo spettro che si aggira per l’Europa e, più inaspettato e improvviso, in Italia. Evocato, del resto, dalla repellente ingenuità razzista, così facile a tradirsi. Frasi come "vengono a portarci via il lavoro" sono già meno frequenti di quelle: "Vengono a violentarci le donne". Non è vero che ci portino via il lavoro, come spiega la Banca d’Italia, né che ci portino via le donne, come spiegano le statistiche criminali.

Gli italiani furono giustamente commossi e sdegnati dall’orribile violenza omicida di Tor di Quinto. Non hanno tratto abbastanza dalla lezione della strage netturbina di Erba. Gli immigrati arrivano alle nostre spiagge, provvisoriamente esanimi, come le avanguardie di un mondo povero e spaventosamente giovane e prolifico. Sono lo specchio rovesciato della nostra senescenza e della nostra demografia azzerata. Un tempo l’omosessualità era dannata come un peccato contro la specie e l’imperativo della riproduzione.

Oggi non si può più trattare del "disordine sessuale" come di un attentato alla natalità, non esplicitamente. Ma sentirlo come un tradimento della famosa identità, l’indizio più scoperto della resa effeminata dell’invaso all’invasore, una quinta colonna del mondo povero e giovane e famelico che preme per cancellare i confini, questo può succedere, succede. Come sempre i razzisti, consapevoli o no - come i nazisti, che facevano di nascosto lo sporco lavoro aspettandosi il riconoscimento dell’umanità a venire - i fascistelli che aggrediscono un ragazzo gay stanno difendendo la nostra identità. Il nostro onore. Ci stanno difendendo, Dio ci aiuti.

Lettere: i detenuti di Trento "ammassati nelle celle come cani"

 

L’Adige, 3 settembre 2009

 

I detenuti del carcere di Trento hanno preso nuovamente carta e penna per denunciare le condizioni in cui sono costretti a vivere ormai da mesi.

I detenuti del carcere di Trento hanno preso nuovamente carta e penna per denunciare le condizioni in cui sono costretti a vivere ormai da mesi. Della scorsa settimana la notizia che i 156 detenuti hanno dato mandato all’Associazione diritti dei detenuti di Roma di presentare una formale denuncia per vedere riconosciuto un indennizzo per il periodo di detenzione trascorso all’interno della struttura: "Ci troviamo a vivere una situazione ormai insostenibile - avevano detto - in una struttura che definire decadente e pericolosa è a dire poco un complimento. Infatti le celle che dovrebbero ospitare i detenuti presentano nella maggior parte dei casi i segni della muffa, ed il bagno interno alla stessa, non solo non ha il minimo rispetto per le leggi sanitarie, ma nel 90% dei casi non rispetta neanche la metratura minima richiesta".

Alla ristrettezza di spazio in cui vivono i detenuti - anche Trento non sfugge al super affollamento che riguarda tutti i penitenziari d’Italia - si sarebbero aggiunti altri problemi. "Siamo disperati - dicono - abbiamo fatto per due settimane una doccia ghiacciata, le luci non vanno e siamo ammassati come cani in celle piene con castelli di letti a tre, che se cadi da due metri e mezzo ti ammazzi. I sanitari non ci sono, assistenti che non riescono a coprire il fabbisogno perché troppo pochi".

Il problema dell’assistenza sanitaria in carcere era già stato sollevato nei mesi scorsi:i detenuti avevano inviato una lettera alla direttrice del carcere, al magistrato di sorveglianza e al dirigente sanitario della casa circondariale per protestare contro l’abolizione del servizio di guardia medica notturna. Se qualcuno sta male di notte, e più in generale quando il medico non è presente presso l’ambulatorio della struttura, dovrà essere soccorso dal 118. Ma se gli spazi interni sono angusti, la situazione non sarebbe migliore all’esterno: "C’erano i vermi nelle docce e ci sono i topi - dicono - nell’area di passeggio dei detenuti".

Sicilia: nelle carceri affollamento e assistenza sanitaria carente

di Melania Tanteri

 

Quotidiano di Sicilia, 3 settembre 2009

 

Il sistema penitenziario italiano è una bomba a orologeria pronta a esplodere. È la descrizione che il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia e Coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti, senatore Salvo Fleres, ha dato della situazione carceraria nazionale in generale e siciliana in particolare, durante una conferenza tenuta simbolicamente davanti la casa circondariale Piazza Lanza di Catania.

Fleres ha fatto il punto della situazione sulle strutture penitenziarie dell’isola, illustrando i contenuti di una lettera aperta che invierà nei prossimi giorni al ministro Angelino Alfano, al ministro Maurizio Sacconi, al presidente della Regione, Raffaele Lombardo, nonché al direttore generale del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Franco Ionta, "per fornire una serie di proposte, alcune delle quali realizzabili a costo zero o con un risparmio da parte dello Stato.

Dopo una verifica effettuata il mese scorso - spiega Fleres - è necessario passare alla fase propositiva: all’interno della lettera sono illustrati interventi di tipo organizzativo, di indirizzo, nonché di attività politica e diplomatica, come la ricerca di una soluzione internazionale che consenta di fare espiare ad ogni uomo la pena nel proprio Paese, salvo le eccezioni legate all’eventuale mancato rispetto dei diritti umani negli stessi".

Il documento descrive nel dettaglio l’emergenza carceri, sottolineando tra gli aspetti più spinosi quello relativo al sovraffollamento delle strutture e alle conseguenti condizioni di vita dei detenuti (in Sicilia sono 7.544 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 4.589 posti e una tollerata di 6.868) e quello dei turni degli agenti, dello scarso coordinamento tra amministrazione penitenziaria e servizio sanitario nazionale - che provoca una carente assistenza medica - delle condizioni dell’edilizia penitenziaria e, soprattutto della carenza degli agenti di polizia penitenziaria. "In Sicilia - spiega Domenico Nicotra, segretario generale dell’Osapp, uno dei sindacati della polizia penitenziaria - mancano almeno 1.000 uomini e la situazione sta diventando ingestibile".

Sicilia: sette carceri in condizioni precarie richiedono chiusura

 

Quotidiano di Sicilia, 3 settembre 2009

 

Le strutture penitenziarie italiane attualmente utilizzate hanno una capienza di 40.909 detenuti, estendibile a un massimo di 59.712. Ma, al 15 agosto 2009, i reclusi in Italia erano oltre 63.000 e cioè circa il 25% in più della capienza massima consentita. Il dato è stato diffuso dal garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, il senatore del Pdl, Salvo Fleres, che ha reso note le sue proposte ai ministeri della Giustizia e del Welfare per ridurre il sovraffollamento negli istituti di pena.

Sul totale dei detenuti, 21.119 sono immigrati e circa 18.000 risultano tossicodipendenti e condannati per reati legati alla loro condizione sanitaria. "Il numero da solo - ha sottolineato Fleres - è sufficiente per comprendere come le condizioni di vivibilità intra-carceraria diventano insopportabili e disumane per i detenuti e assolutamente difficili e stressanti per gli agenti di polizia e l’altro personale che ogni giorno devono operare in simili condizioni".

Secondo il garante "il numero di detenuti lavoranti, gli spazi e le occasioni di lavoro sono scarsi e del tutto insufficienti a garantire il reinserimento sociale previsto dall’articolo 27 della Costituzione. In Sicilia i detenuti sono in totale 7.544 (1.879 stranieri e 1.362 tossicodipendenti) a fonte di una capienza regolamentare di 4.589 posti e di una massima tollerata di 6.868. Soltanto 10 detenuti in Sicilia sono ammessi al lavoro in carcere. Per Fleres, in sette carceri siciliane, tra le quali quello catanese di Piazza Lanza, sono in condizioni talmente precarie da richiedere la chiusura. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio nella regione sono 4.239 a fronte di una pianta organica che ne prevede 5.163. Il risultato della carenza di organico è, per il garante, "turni massacranti" per il personale di custodia.

Friuli: carceri sono sovraffollate, tre detenuti nei posti per due

 

Messaggero Veneto, 3 settembre 2009

 

I dati al 31 agosto sulle presenze negli istituti penitenziari italiani (63.993 persone, di cui il 37% stranieri) rilevano che sono dodici le Regioni "fuori legge", quelle cioè le cui carceri hanno superato la capienza tollerabile di persone detenute: Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto. I detenuti nelle carceri del Friuli Venezia Giulia sono 858, pari al 102% della capienza tollerabile e il 156% di quella regolamentare.

Gli stranieri sono il 62%. Lo denuncia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), secondo cui tutte le altre Regioni hanno comunque ampiamente superato la capienza regolamentare, quella cioè per cui si è stimato che un carcere possa funzionare correttamente seguendo i dettami della Costituzione. Ma il sovraffollamento delle carceri non porterà a nuove misure di clemenza.

No a nuovi indulti, sì alla realizzazione di nuove carceri: è questo infatti il "piano" del ministro della Giustizia Angelino Alfano. "Nella storia della Repubblica - ha osservato il Guardasigilli - si è sempre seguita la strada delle amnistie e indulti, in media ogni due anni. Sono tornati in libertà alcune migliaia di detenuti per liberare le carceri e poi ci siamo ritrovati al punto di partenza".

"Noi invece - ha sottolineato Alfano - vogliamo seguire una strada diversa che non è quella di concedere nuovi indulti perché ciò cozzerebbe oggi contro la giustizia ma anche contro il bisogno di sicurezza dei nostri concittadini, intendiamo invece seguire la strada della realizzazione di nuovi istituti e a breve presenteremo in consiglio dei ministri il nuovo piano delle carceri". Il Guardasigilli ha infine rilevato che su questa materia "la Commissione europea è pronta ad ascoltare il Governo italiano. Io stesso avevo posto la questione nel corso dell’insediamento della presidenza svedese, sostenendo che vi sono alcuni paesi rivieraschi, come l’Italia, che hanno patito più degli altri il fenomeno del sovraffollamento carcerario derivante dagli stranieri; in proposito il vicepresidente ha già convocato una apposita riunione per ottobre".

Tolmezzo (Ud): 3 detenuti devono dividersi una cella di 11 mq

 

Messaggero Veneto, 3 settembre 2009

 

In una Sezione (1B) metà delle celle ha tre ospiti costretti a vivere in undici mq. Manca una quarantina di agenti nell’organico della Polizia penitenziaria.

"Sovraffollamento, problemi con l’assistenza sanitaria e mancanza di fondi per la formazione dei detenuti. Sono questi i problemi principali che ho accertato nel corso della mia visita nel carcere di Tolmezzo". Lo ha detto il consigliere regionale Roberto Antonaz (Rifondazione Comunista). Il quale assieme al consigliere comunale Stefano Nonino ha voluto rendersi personalmente conto della situazione all’interno della casa circondariale tolmezzina.

"Mi sono incontrato con la direttrice Silvia Della Branca, la quale mi ha evidenziato i principali problemi, in particolare quello del sovraffollamento - continua Antonaz -. Nella sezione 1 B ho accertato la situazione più critica: circa la metà delle celle dispone del terzo letto a castello. Quindi in undici metri quadrati sono costretti a convivere per venti ore al giorno (le altre quattro sono riservate alla cosiddetta ora d’aria) tre detenuti. Con un’estate calda come quella di quest’anno è facilmente immaginabile il disagio vissuto da queste persone, per la maggior parte stranieri".

Al momento della visita del consigliere regionale i detenuti rinchiusi a Tolmezzo erano 299, dei quali ben 164 sono gli stranieri, mentre la capienza regolare dovrebbe essere di 220 detenuti. La pianta organica per un istituto di pena come quello di Tolmezzo prevede l’utilizzo di 232 persone, quelli assegnati invece sono 194, ma quelli effettivamente in servizio sono 166.

Anche il sindacato dei lavoratori penitenziari in una nota aveva evidenziato che: "La presenza elevata di detenuti non italiani comporta grossi problemi al personale, che si trova a dover gestire persone con le quali diventa difficile farsi capire e per le quali, data la difficoltà linguistica, diventa aleatorio qualsiasi trattamento.

A Tolmezzo c’è anche una sezione dove sono rinchiusi i detenuti in regime di 41 bis (19 tra ergastolani e altri imputati legati ad organizzazioni mafiose). Questi dallo scorso mese di luglio non possono più cucinare all’interno delle celle, ma solo riscaldare con un fornello a gas da campeggio i cibi. Tutto questo crea lamentele e tensioni, inoltre la legge 94 approvata nel luglio scorso impedisce ai difensori di un imputato, anche se incensurato, di poterlo vedere non più di tre volte alla settimana e limitatamente a un’ora, limitando così la possibilità della difesa.

Treviso: 12 giorni sciopero fame; detenuto finisce all’ospedale

 

Asca, 3 settembre 2009

 

Con altri detenuti del Santa Bona stava facendo lo sciopero della fame e della sete. In dodici giorni ha perso 12 chili e per due volte è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari: la prima volta nel pronto soccorso del Cà Foncello, quindi è stato portato nell’infermeria del carcere.

I detenuti rinchiusi al Santa Bona hanno deciso di attuare questa forma di protesta per denunciare il sovraffollamento dell’edificio, che ospita circa un centinaio di detenuti in più di quanto prevede la sua capienza.

La protesta nelle carceri italiane è in atto da qualche settimana. A Treviso si è deciso per una forma non violenta, anche se qualche giorno fa un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito nei locali dell’infermeria. Il detenuto che si è sentito male è un 37enne che si trova alla casa circondariale di Treviso per un furto aggravato. Da diverso tempo carcerati, ma anche i loro legali e famigliari denunciano la situazione di sovraffollamento della struttura che ospita 280 persone, mentre dovrebbe accoglierne solo 187.

Da tempo si parla di un trasferimento del carcere minorile in un’altra struttura, per trovare nuovi spazi, probabilmente si riuscirebbero a recuperare 50 posti. Il carcere è strutturato in stanze di 25 metri quadrati che talvolta ospitano anche fino a 12 uomini, che hanno a disposizione un solo bagno.

Napoli: rivolta nell’Ipm di Nisida, due agenti presi a bastonate

di Giuseppe Crimaldi

 

Il Mattino, 3 settembre 2009

 

Due agenti di polizia penitenziaria in ospedale e un sospetto inquietante: il progetto di una evasione dal carcere minorile di Nisida. Uno più uno fa sempre due: e, questa volta, il risultato fa riflettere e induce a ripensare, forse, gli stessi sviluppi della politica giudiziaria rispetto a una questione delicatissima, quella dei minori reclusi.

È accaduto a Nisida, nel centro di rieducazione minorile considerato a livello nazionale un vero e proprio modello per le opportunità che offre ai detenuti reclusi: una popolazione che ha meno di 18 anni, ragazzini già alle prese con la giustizia italiama. Tanti italiani, moltissimi stranieri. Eppure qui, in questo centro considerato un modello a livello nazionale, qui dove negli ultimi cinque anni non hanno fatto mancare la loro presenza i vari ministri della Giustizia, con al seguito al completo gli apparati del dicastero che si occupano di giustizia minorile, è qui che due giorni fa si è verificato ciò che appariva probabile apparisse in una delle tante carceri italiane che già esplodono per sovraffollamento. Una rivolta. Una ribellione che avrebbe potuto determinare conseguenze anche gravissime.

Ricapitoliamo. Sono le sette di sera di lunedì. Il carcere minorile di Nisida - un centro nel quale i ragazzi vengono sottoposti a un serio e coinvolgente programma di riabilitazione e di reinserimento sociale - F.N., 17enne napoletano figlio di un esponente della criminalità organizzata che è radicatissima a Ponticelli, e un compagno di cella coetaneo, un romeno, mettono a segno il loro piano assurdo. Cercano vendetta, e i loro obiettivi sono i due agenti di polizia penitenziaria la cui unica "colpa" resta quella di fare il proprio dovere. Non è ancora chiaro dove e come i due ragazzini si siano procurati i bastoni, ma quel che è certo è che dalle loro celle escono improvvisamente alcune mazze di legno.

I due giovani reclusi iniziano a picchiare selvaggiamente gli agenti che a loro modo di vedere applicavano alla lettera il regolamento. Botte da orbi. Uno dei due secondini finisce a terra con il cranio spaccato. F.N. e il complice, intanto, scappano verso le cucine del penitenziario. Tentando di impossessarsi di alcuni coltelli a lama lunga.

A Nisida si scatena improvvisamente il caos. I due agenti feriti vengono soccorsi al San Paolo, per il primo la prognosi è di 35 giorni, ha un trauma cranico e deve essere sottoposto a tac per sospette lesioni interne. Il secondo se la cava con una prognosi di 10 giorni. Intanto arrivano i rinforzi.

Dopo un drammatico corpo a corpo ingaggiato dalla penitenziaria, F.N. e il complice romeno vengono immobilizzati. Se il loro piano fosse andato a termine, conferma il segretario regionale del Sappe, Emilio Fattorello, sarebbe stato un disastro. I due cercavano di favorire non solo la loro evasione, ma anche quella di altri ragazzi reclusi.

Lodi: sovraffollamento del carcere, in campo anche il Prefetto

 

Il Giorno, 3 settembre 2009

 

I Sindacati della polizia penitenziaria hanno incontrato ieri il Prefetto per trasmettere la propria preoccupazione sul cronico sovraffollamento della casa circondariale, ma anche per segnalare come il prossimo avvio di lavori di restauro renderà la situazione più complessa. I rappresentanti dell’Ugl polizia penitenziaria, guidati da Enzo Tinnirello, segretario regionale, hanno anche consegnato una lettera aperta al Prefetto, chiedendone la mediazione.

"La Casa Circondariale di Lodi è sempre stata sovraffollata - scrive l’Ugl -, le sezioni comuni hanno sempre avuto celle da 14 metri quadrati per 6 detenuti, celle da 10 metri per 3 detenuti, tutte compreso il bagno. L’allargamento delle competenze dell’area territoriale del Tribunale di Lodi, che oltre al territorio della Provincia ha acquisito anche i territori del Sud-Milano, come Melegnano, San Giuliano, San Donato Milanese, le zone della Strada Statale Paullese fino a Peschiera Borromeo, e della Binasca fino a Pieve Emanuele, tutti territori ad alto tasso di criminalità, hanno raddoppiato il numero degli arrestati.

Ma i numeri regolamentari parlano di 65 detenuti su tre sezioni (di cui una chiusa già da tempo, in attesa di ristrutturazione), e la capienza tollerabile di 86. con una capienza effettiva di 97 unità detenute". Ma i sindacalisti se la prendono anche con le attività rieducative. E chiedono: "Non possono essere svolte in altra struttura, visto il crescente sovraffollamento? La risposta è sì, e non si riesce a comprendere perché ingolfare un piccolo carcere come Lodi, quando abbiamo strutture come Opera o altre molto più capienti".

Per questo, ma anche per i lavori che dovranno presto iniziare, i sindacalisti chiedono se valga "la pena di tenere attiva una struttura ridotta ai minimi termini o non sia più opportuno adottare decisioni temporanee ma più logiche - proseguono? Secondo noi, la chiusura temporanea accelererebbe i lavori di almeno 8 o 9 mesi".

Eppure, a fronte delle rivendicazioni sindacali, che dipingono anche il carcere come una "polveriera" i detenuti di Lodi prendono le distanze. Nei giorni scorsi hanno fatto filtrare un documento che difende la direzione di Stefania Mussio. Una lettera firmata da tutti nella quale si legge che "il sovraffollamento esiste a Lodi come in tutti gli altri istituti d’Italia. Siamo tutti sostanzialmente d’accordo nell’affermare che nonostante questo problema la direzione fa tutto il possibile per far sì che le condizioni di vita siano più che accettabili".

Cosenza: 7 detenuti per cella, proteste contro sovraffollamento

 

Ansa, 3 settembre 2009

 

Ieri pomeriggio i detenuti della Casa Circondariale di via Popilia hanno attuato una vibrante protesta contro il sovraffollamento delle carceri. Lo hanno fatto battendo con vigore le stoviglie vicino alle sbarre. Contemporaneamente, gli aderenti al Movimento disoccupati della Calabria assieme ai familiari dei detenuti stessi si sono ritrovati all’esterno del penitenziario per un sit-in. La contestazione è stata generata da una missiva anonima inviata al Movimento disoccupati, in cui si denunciano le difficili condizioni in cui versano i reclusi, obbligati in molti casi a condividere una cella anche tra sette persone. Secondo quanto ha riferito Ninni Gagliardi, presidente del Movimento disoccupati, "i posti dovrebbero essere 190 nel padiglione S, quello in cui stanno i detenuti comuni, mentre in realtà arrivano anche a 300. C’è il sospetto e la preoccupazione che possano essere trasferiti nel carcere di Cosenza anche altri reclusi in altre strutture del Sud Italia".

Volterra: dal 18 settembre le "cene galeotte" dei detenuti-chef

 

Redattore Sociale - Dire, 3 settembre 2009

 

Al via dal 18 settembre: una serata al mese, per 100 invitati, tutti i venerdì fino ad aprile. Il ricavato sarà devoluto ai progetti di solidarietà de "Il Cuore si scioglie".

Ripartono il 18 settembre le "cene galeotte" al carcere di Volterra. Otto cene, una al mese, tutti i venerdì, fino ad aprile, il cui ricavato sarà devoluto ai progetti di solidarietà de "Il Cuore si scioglie", all’interno delle mura dell’istituto penitenziario che per l’occasione sarà trasformato in un insolito ristorante, dove a cucinare e servire sono gli stessi detenuti sotto la supervisione di selezionati chef. È un’esperienza che si ripete dal 2007 e che ha riscosso sempre maggior successo sia tra il pubblico, che è accorso numeroso, che tra i media di tutto il mondo.

Unicoop Firenze si impegna al solito a fornire le materie prime, oltre a ricercare attraverso l’esperto enogastronomo Leonardo Romanelli, gli chef e i detenuti, impegnati in cucina e regolarmente retribuiti. In tavola stoviglie di ceramica (ma di plastica restano per motivi di sicurezza, le posate), veri sottopiatti e veri bicchieri.

Massimo cento commensali a serata. Le prenotazioni vanno effettuate con anticipo per consentire i controlli indispensabili per permettere l’accesso al carcere. È necessario presentarsi con un certo anticipo e all’ingresso si devono depositare nelle apposite cassette borse, cellulari, apparecchi fotografici, che non è consentito portare all’interno. Tutto questo è realizzato con la collaborazione della Casa di reclusione di Volterra e della Condotta di Volterra Alta Valle di Cecina di Slow Food che ha inventato le cene galeotte.

Massa: per la scuola media del carcere c’è il rischio di chiusura

di Margherita Mazzarella

 

Il Tirreno, 3 settembre 2009

 

Rischio chiusura per la scuola media del carcere cittadino. Non è ancora nero su bianco, ma è già da settimane che si parla di questo rischio che appare via via più reale. In questi giorni, poi, c’è qualcosa di più ad accrescere i timori. I docenti da anni in servizio al carcere ed in questi giorni convocati per le consuete assegnazioni delle cattedre, non hanno ricevuto comunicazione del rinnovo dell’incarico, anzi, verbalmente si sono sentiti dire che la scuola media di via Pellegrini è stata abolita.

Il corso di scuola media inferiore esiste in carcere da oltre 35 anni, e le docenti, Stefania Lencioni (Lettere), Alessandra Brenzini (Scienze e matematica) e Gabriella Olivieri (lingua inglese) insegnano le loro discipline ai detenuti da una media di 10 anni: quest’anno dovranno dire addio al loro progetto, svolto - peraltro - a titolo volontario (le docenti sono già titolari di altre cattedre, tutte di ruolo, e da questo lavoro non ricevono alcun introito economico). Ironia della sorte, i detenuti che quest’anno si sono iscritti per frequentare la prima, la seconda o la terza media, sono ben 53, tra italiani e stranieri.

Un record. La cosa strana, per la stessa direzione del carcere "incomprensibile", è che a questa decisione, comunicata per il momento solo verbalmente, non è stata allegata alcuna motivazione. Il direttore Salvatore Iodice si dichiara sorpreso e dispiaciuto per la cosa: "Spero che l’allarme chiusura scuola rientri perché quella dei corsi scolastici è un’istituzione storica del nostro carcere, irrinunciabile se vogliamo continuare a seguire la linea che da sempre ci caratterizza, quella volta alla rieducazione e al reinserimento dei detenuti nella società. Un percorso che non può prescindere da un progetto educativo".

"La scuola carceraria ha sempre rappresentato anche un fiore all’occhiello in tema di sicurezza - ha concluso Iodice - e mi stupisce la decisione del provveditorato, in un momento politico poi, in cui tutti parlano di sicurezza". A stupire ancor di più è il fatto che la scuola del carcere non ha mai implicato, e non implicherebbe neanche quest’anno e negli anni a venire, alcun costo aggiuntivo per l’ente, dato che tutte le docenti in servizio al carcere hanno già una cattedra: "Noi ed il corso non costiamo nulla al provveditorato - ha detto una delle docenti, Alessandra Brenzini - perché abbiamo già tutte la nostra cattedra e facciamo i corsi al carcere perché abbiamo aderito al Ctp (centro territoriale per l’educazione) della scuola media "Dazzi", quindi questa decisione appare ancor più incomprensibile". La responsabile del Ufficio scolastico provinciale (ex provveditorato agli studi) Maria Alfano ieri mattina non era in sede e nessuno, negli uffici ha voluto dire qualcosa per chiarire la vicenda.

Venezia: alla Mostra del Cinema, un documentario sul carcere

 

La Nuova Ferrara, 3 settembre 2009

 

L’Associazione Culturale Balamòs di Ferrara sarà presente alla 66ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il 9 Settembre, alle ore 16, presso l’Area Eventi (Giardini Lido). In tale occasione verrà presentato il documentario di Marco Valentini, "Passi Sospesi".

Si tratta di un documentario relativo all’omonimo progetto teatrale che da alcuni anni Michalis Traitsis, sociologo, regista e pedagogo teatrale dell’Associazione Culturale Balamòs di Ferrara, conduce presso le Case Circondariali di Venezia. Verrà proiettata anche un’anteprima del nuovo documentario, relativo al laboratorio che è ancora in corso presso la Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia.

La documentazione video mostra una sintesi del percorso del laboratorio teatrale, illustrato da Michalis Traitsis e arricchito da alcune testimonianze dei collaboratori del progetto, delle autorità dell’Istituto penitenziario e dei detenuti. Mostra anche alcuni brani degli spettacoli "Vite Parallele", spettacolo di Teatro Forum presentato alla Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia e "Storie Sconte", spettacolo itinerante ispirato all’immaginario di Hugo Pratt e alla figura di Corto Maltese, presso la Casa Circondariale Sat di Venezia-Giudecca.

A entrambi gli spettacoli ha partecipato un pubblico "misto", composto da detenuti ed esterni. Il progetto "Passi Sospesi" 2006-2007 è stato finanziato dalla Regione Veneto, mentre il progetto 2008-2009 è stato finanziato dal Comune di Venezia. Nel progetto hanno collaborato Daniele Seragnoli, direttore del Centro Teatro Universitario di Ferrara, Roberto Mazzini, pedagogo teatrale, Roberto Manuzzi, musicista, Elena Souchilina, coreografa, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, registi e attori, Cesar Brie, regista e attore, Marco Valentini, video maker, Andrea Casari, fotografo, Nicola Zampieri, tirocinante, assistente al laboratorio.

All’interno del programma di lavoro, gli allievi del Centro Teatro Universitario di Ferrara, hanno presentato, presso la Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, gli spettacoli diretti da Michalis Traitsis: "Ecclesiazuse - Le donne all’Assemblea" da Aristofane e "Eldorado", ispirato all’omonimo romanzo di Laurent Gaudè, sulle migrazioni odierne.

Quest’ultimo lavoro ha visto la partecipazione di due detenuti. "Eldorado", su richiesta dell’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Venezia, sarà presentato a Venezia nel mese di Ottobre. Prima della presentazione degli spettacoli sono stati organizzati degli incontri di laboratorio tra gli allievi del Centro Teatro Universitario e gli allievi del laboratorio teatrale della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore. Alla proiezione dei video seguirà una Tavola Rotonda dal titolo "Teatro e Carcere: l’esperienza del progetto teatrale Passi Sospesi alle case Circondariali di Venezia". Ingresso libero.

Immigrazione: Ue; ci sia umanità, nell’accoglienza dei rifugiati

 

Corriere della Sera, 3 settembre 2009

 

"Fermezza" e "prudenza", dice il Commissario europeo alla giustizia Jacques Barrot, "l’Europa sia un modello di fermezza contro l’immigrazione irregolare e di umanità nell’accogliere i perseguitati".

Ma non è facile, non sarà facile, tutti lo sanno: lo si capisce bene anche dal progetto-pilota per la ridistribuzione nella Ue dei rifugiati extracomunitari, e la migliore definizione del diritto d’asilo, approvato proprio ieri dalla Commissione Europea, su proposta dello stesso Barrot. Con un corollario, marcato a voce dallo stesso commissario, che riguarda direttamente l’Italia: "Noi non ci opponiamo al respingimento degli immigrati illegali, ma al fatto che possano esserci fra loro dei richiedenti asilo".

Perché "il vero problema" è appunto quelli dei "flussi misti", con illegali e profughi a volte quasi indistinguibili sugli stessi barconi. Non solo: i respingimenti, aggiunge Barrot, non devono "mettere a rischio la vita delle persone: sarebbe inaccettabile". Proprio per questo, a metà luglio, Bruxelles ha chiesto a Roma delle spiegazioni su come viene applicato il diritto d’asilo nel Mediterraneo: una risposta non è ancora giunta, il termine rituale di due mesi sta per scadere, ma "non è il caso di entrare in alcuna polemica".

Per ora, quindi, la Commissione Europea si concentra sul piano-pilota, considerato l’apripista di altre iniziative future a più ampio raggio, che potrebbero alla fine coinvolgere tutti gli immigrati extracomunitari e non solo quelli in fuga da un regime. "Rifugiati" sono coloro che furono perseguitati nella loro patria d’origine, al di fuori della Ue - come ad esempio 10.000 cristiani iracheni, perlopiù fuggiti in Giordania e in Siria - e che ora, dopo aver chiesto asilo, dovrebbero o potrebbero essere ridistribuiti fra i 27 Stati-membri dell’Unione: niente "quote nazionali", almeno per adesso, ma secondo Bruxelles è già un primo passo di forte significato, perché per la prima volta verrebbe accettato dai 27 il principio della condivisione del "fardello", del peso rappresentato dall’immigrazione extracomunitaria. E i Paesi mediterranei di prima linea, come Italia e Malta, non si troverebbero più soli.

Barrot ha annunciato che si recherà in Turchia e in Libia, "grandi Paesi di transito", per ottenere la loro collaborazione e "limitare al massimo l’immigrazione illegale in mano a organizzazioni criminali che mettono a rischio la vita delle persone", e che opererà perché "i richiedenti asilo possano presentare domanda direttamente nei loro Paesi".

L’immigrazione illegale, aggiunge il commissario, è comunque "in netta diminuzione", anche del 40%, in Italia, Spagna e Malta (non in Grecia). Ma il punto centrale resta quello della condivisione dei pesi all’interno della Ue: l’Italia aveva chiesto precisamente questa disponibilità di tutti gli Stati (anche se si riferiva a tutta l’immigrazione extracomunitaria) e questa può essere una prima, parziale risposta. Perché il piano-pilota diventi operativo manca però il via libera del Consiglio Europeo, cioè del vertice dei capi di Stato e di governo che si terrà a ottobre. E si sa che vi sono Paesi, come la Germania, per niente favorevoli a spartire il "fardello".

La strada è ancora lunga. Ma è stata imboccata. E Barrot, rispondendo indirettamente al ministro degli esteri italiano Franco Frattini e al primo ministro Silvio Berlusconi, dice "di non avere in coscienza niente da rimproverarsi", respinge cioè le accuse più o meno velate di inerzia: "Non accetterò l’accusa di inazione su questo tema, non credo sia la Commissione ad essere in causa ma solo qualche timidezza da parte degli Stati", quegli Stati in cui "si sente una certa resistenza".

Immigrazione: Ue; l'asilo è un dovere per tutti gli Stati membri

di Enrico Brivio

 

Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2009

 

Per Bruxelles il malinteso sull’immigrazione con il Governo Italiano, che ha generato le feroci critiche di martedì da parte di Silvio Berlusconi ai modi di comunicare delle Commissione europea, è ormai un caso chiarito e chiuso. Restano però da sciogliere, e non si potrà farlo in un giorno, le aggrovigliate problematiche legate alla marea di immigrati provenienti dal Sud del Mediterraneo.

In particolare, non è facile trovare una via d’uscita a quel tragico "paradosso", come definito ieri dal commissario alla Giustizia, Jacques Barrot, all’origine della richiesta di informazioni dell’Esecutivo Ue a Italia e Malta in merito al respingimento di un gommone verso la Libia. Ovvero il fatto che talvolta "anche persone che hanno diritto a domandare asilo si mescolano agli immigrati illegali", rendendo diverso lo status dei componenti del flusso dei disperati in arrivo via mare.

L’Europa dovrebbe essere in grado di discernere e presentarsi come "un modello di fermezza contro l’immigrazione irregolare e di umanità nell’ac-cogliere i perseguitati" ha specificato Barrot. Nella pratica

però diventa assai arduo distinguere tra illegali e profughi, su una stessa imbarcazione in alto mare. "Sono inaccettabili tutti i respingimenti che mettano in pericolo la vita dei clandestini" ha sostenuto Barrot, chiarendo però che in condizioni di sicurezza "niente si oppone al respingimento in sé di clandestini", ma "c’è il problema di capire se vi sono anche persone che avrebbero diritto all’asilo". Per questo, "abbiamo chiesto informazioni all’Italia, per capire come le autorità italiane affrontano questo problema", ha detto Barrot. Pure sul fronte della comunicazione "non ho nulla da rimproverarmi - ha sottolineato il vicepresidente della Commissione - e ho cercato di non condannare prima di conoscere e comprendere". Anche il capo dei portavoce dell’Esecutivo Ue, Johannes Laitenberger,ha ribadito che l’equivoco con Roma è chiarito, che la politica di comunicazione di Bruxelles "non cambierà" e nessuno si sente intimidito dalle critiche di Berlusconi.

"A quale presidente dovrei chiedere il permesso di parlare?", ha chiesto poi scherzosamente il commissario agli Affari monetari, Joaquin Almunia, pungolato dai cronisti italiani. Le sferzanti parole di Berlusconi sono suonate comunque come un richiamo all’ordine a un presidente della Commissione, José Manuel Barroso, in fremente attesa dell’investitura per il secondo mandato.

Barrot ha anche respinto l’accusa di "inazione" di Bruxelles sul fronte del contrasto all’immigrazione clandestina, sostenendo che il dito puntato sull’Europa nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, era rivolto più ai governi che non vogliono contribuire alla gestione delle frontiere che non alla Commissione.

Il vicepresidente dell’Esecutivo Ue ha quindi insistito sulla necessità di intensificare la cooperazione con Turchia e Libia, importanti Paesi di transito, per limitare al massimo l’immigrazione clandestina, spesso organizzata da criminali. Fondamentale fare in modo che i richiedenti asilo possano presentare domanda direttamente nei Paesi di partenza.

Per questo "andrò prossimamente ad Ankara e a Tripoli", ha annunciato Barrot. "Non possiamo accontentarci di condannare, dobbiamo agire, dire ai libici che non possono essere complici dei trafficanti", ha sostenuto il commissario, osservando comunque che l’immigrazione illegale ha registrato una "netta diminuzione" di circa il 40% in Italia, Spagna e Malta, ma non in Grecia.

Barrot ha anche presentato la preannunciata comunicazione per facilitare con fondi Ue il reinsediamento in Europa di profughi di Paesi terzi, come gli iracheni nei campi di Giordania e Siria. Su 10 milioni di profughi nel mondo, nel 2008 la possibilità di reinsediarsi è stata data circa a 85mila e di questi solo 4.378, par al 6,7%, sono stati reinsediati in Europa. (Solo 10 Paesi Ue partecipano sistematicamente ai piani di ricollocazione e tra questi non figura l’Italia).

Droghe: Moratti; abolire il "patteggiamento" per gli spacciatori

 

Il Giornale, 3 settembre 2009

 

Il sindaco di Milano Letizia Moratti, di concerto con il prefetto Gian Valerio Lombardi e gli altri enti locali sottoporranno al Viminale una richiesta di revisione sulle normative di contrasto alla tossicodipendenza, con l’abolizione della possibilità di patteggiamento per gli spacciatori e il superamento della distinzione discrezionale tra consumo e vendita affidato all’arbitrio dei giudici.

"Proporremo al ministro dell’Interno due punti di revisione sulla normativa nazionale contro la droga - ha spiegato Letizia Moratti al termine della prima riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza dopo la pausa estiva - che escluda la possibilità del patteggiamento per i reati di spaccio e preveda il superamento della distinzione fatta ex post tra il consumo e lo spaccio stesso in modo che oltre una certa quantità sia considerato comunque spaccio".

Nello specifico la proposta elaborata dal sindaco e dal prefetto prevede che, sulla scorta del tabellario delle singole sostanze stupefacenti allegata alla normativa contro le droghe, non ci sia più spazio per la discrezionalità del giudice. "Chiediamo che ci sia un ancoraggio rigoroso alle tabelle - ha concluso Letizia Moratti - di modo che sopra una certa soglia ci sia lo spaccio e al di sotto invece il consumo. Oggi il testo di legge lascia una certa discrezionalità ai giudici, e questo, in alcuni casi, ha perfino comportato delle discriminazioni di carattere sociale tra i soggetti".

Zimbawe: manca cibo nel carcere, amnistia per 1.500 detenuti

 

Ansa, 3 settembre 2009

 

Il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha concesso l’amnistia a 1.544 detenuti, più del 10% della popolazione carceraria, per far fronte alla carenza di cibo nelle prigioni. "Il servizio penitenziario dello Zimbabwe ha difficoltà a fornire le razioni di cibo ai prigionieri, i vestiti e il trasporto - ha dichiarato un rappresentante del ministero di Giustizia -. Un’amnistia generale è stata proposta come soluzione a breve termine".

I primi a beneficiare del provvedimento saranno le donne, i giovani e i malati in fase terminale. Ne sono esclusi i condannati per omicidio, stupro o complotto contro il governo. Secondo Amnesty International un migliaio di detenuti, su un totale di 12.900, sono morti nei primi sei mesi dell’anno nelle prigioni sovrappopolate dello Zimbabwe. In giugno il governo ha autorizzato l’intervento della Croce Rossa per portare aiuti alimentari, coperte, medicine e sapone ai detenuti, spesso vittime di malattie contagiose come il colera e la tubercolosi.

Palestina: nelle carceri israeliane da analfabeta diventa laureato

 

Apcom, 3 settembre 2009

 

"Grazie al carcere israeliano sono un uomo vivo" dice Fahad Abu al Haj. Entrato in carcere "analfabeta", è uscito dopo 10 anni "letterato, autore di tre libri e addirittura dirigente del movimento al Fatah" e a giorni discuterà la tesi di laurea all’Università. È la storia di questo palestinese , raccontata da lui stesso al quotidiano panarabo al Sharq al Awsat.

L’uomo, oggi 47enne, venne arrestato nel 1978 in Cisgiordania dai soldati dello stato ebraico. Quando arrivò nel carcere di Bir al Sabàa "non sapevo leggere né scrivere perché fino ad allora avevo passato la mia vita tra le pecore e le terre di mio padre", racconta Abu Jihad. Ma il giovane miliziano del movimento di Resistenza palestinese si sente presto "un peso per i compagni" e prova "vergogna perché non ero in grado di scrivere una lettera alla mia famiglia".

E così decide di "risparmiare i soldi per comprare penne e quaderni" e di frequentare un corso di lingua all’interno del carcere, dedicando agli studi anche "18 ore al giorno". "Piangevo perché non sapevo scrivere", dice oggi, alla soglia del "sogno". Sposato e padre di 6 figli, Abu Jihad, a giorni discuterà la tesi di laurea sulla "prima esperienza democratica palestinese" con un docente dell’Università Libera d’Olanda venuto in Cisgiordania per lui. Abu Jihad ha conseguito la maturità nella scuola del carcere dove ha scritto il suo primo libro: "i cavalieri dell’Intifada parlano da dietro le sbarre".

Ne sono seguiti altri due. Uscito dal carcere nel 1985, ha ottenuto il "Diploma Superiore" all’Università israeliana di Gerusalemme. "Senza porre limiti alle mie ambizioni negli studi", ricorda il suo passato e dice al cronista di al Sharq al Awsat, che "allora ero una nullità, oggi, grazie al carcere, sono un uomo vivo".

Il vecchio combattente di un tempo elogia anche indirettamente la democrazia israeliana, quando spiega che "la prima esperienza di elezioni democratiche palestinesi" fu quella delle comunali del 1976, ma "cinque anni prima, il nostro movimento di detenuti aveva eletto già nel 1971 la sua leadership all’interno delle carceri israeliane".

 

 

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