Rassegna stampa 4 settembre

 

Giustizia: Conferenza sul carcere, contro campagne securitarie

di Pietro Ancona

 

www.imgpress.it, 4 settembre 2009

 

Quarantacinque detenuti suicidi al 31 luglio di quest’anno, 523 dal duemila. Una folla di persone scomparse per sempre nel modo più atroce inghiottite da una disperazione talmente grande, talmente insostenibile,da far compiere il terribile passo del suicidio.

Questi morti non suscitano commozione o pietà in una società incrudelita da campagne securitarie organizzate ad arte da mass media per impaurire la gente e farla chiudere in se stessa lontana da ogni possibile slancio di solidarietà umana e civile. Non so quanti siano i suicidi nelle altre carceri del mondo. Non credo che siano così tanti come in Italia.

Non credo che vengano registrati dalle istituzioni penitenziarie, dai parlamenti, dai governi dalla stampa con la stessa dura cinica ed arrogante indifferenza dell’Italia. Un carcere che produce una media di cinquanta suicidi l’anno (ma quest’anno andremo ben oltre) è terribilmente malato. Abbisogna di urgenti cure, di verifiche attente alle sue condizioni di vivibilità e di sicurezza. Il carcere dovrebbe innanzitutto offrire sicurezza ai suoi prigionieri.

Un carcere dal quale si evade con la morte non può essere considerato degno di un paese civile che oltre mezzo secolo fa si dotò di una Costituzione che lo propone al recupero ed alla riabilitazione dei detenuti. La disperazione dei carcerati è acuita dalla riforma del processo penale e dagli inasprimenti del codice penale e dei regolamenti carcerari.

I diversi livelli di trattamenti di detenzione fino ad arrivare agli inasprimenti del 41 bis della legge 94/2009 andrebbero profondamente rivisti ed aboliti. Il carcere deve riservare lo stesso trattamento a tutti i suoi abitanti senza graduare il peso della pena. La riforma del processo penale e della professione forense ha reso difficile l’accesso degli imputati di un qualche reato ad una difesa giusta ed efficiente.

Gli avvocati costano oramai moltissimo e la povera gente di cui è popolato il carcere non può, non ha i mezzi per accedervi. Il gratuito patrocinio è insidiato da una forte tendenza presente nella destra italiana che lo vorrebbe abolire. In alcuni dei processi penali pubblicizzati dai mass media si nota come soltanto coloro che riescono a mobilitare professionisti qualificati ed a servirsi di perizie che spesso vengono ripetute e che sono molto costose riescono a difendersi.

Mi riferisco in particolare al caso della ragazza di Garlasco che sta avendo sviluppi nuovi a seguito di una superperizia che ha dimostrato come alcuni dati erano stati cancellati involontariamente dai carabinieri e che ora, recuperati, possono confermare la spiegazione a suo tempo data dall’imputato. Insomma, la possibilità di difendersi con il giudice terzo rispetto il pubblico accusatore e la difesa è diventata possibile soltanto a certi livelli di reddito. Il processo penale di prima garantiva assai di più la difesa di quanto non lo sia quello di oggi che agevola soltanto chi può impiegare mezzi che vanno dall’investigatore privato al superconsulente.

I detenuti italiani sono più deboli di ieri e quindi più disperati. Il sovraffollamento delle celle rende la vita più penosa ma non è certamente la sola causa che rende scottanti le carceri. Ammassati peggio delle bestie in luoghi ristretti e maleodoranti la stragrande maggioranza di loro non accede a strumenti di riabilitazione e di buon impiego del tempo come le attività artigianali dei laboratori (quanti ce ne sono in Italia? Come funzionano?).

Bisogna certamente anche esaminare il ruolo della polizia penitenziaria per capire se denunzie di bastonature o di torture o di trattamenti inumani siano casi particolari oppure se rientrano in certi protocolli non scritti che vengono applicati a certe categorie di detenuti.

Penso al caso Aldrovandi e agli orrori del G8 di Genova. Corrono voci di un possibile indulto o di un condono. Dubito molto che questo governo che mostra i denti ai poveri ed ai migranti e che vive sulla paura degli italiani accederà mai a simili misure a meno che non debba salvare dal carcere parte della oligarchia che lo sostiene. Si potrebbero però emettere subito misure di pene alternative che potrebbero essere capaci davvero di svuotare di almeno un terzo le carceri.

Mi riferisco ai cosiddetti lavori socialmente utili, all’affidamento del detenuto ad un tutore che lo segue e ne risponde, ed alla depenalizzazione di una parte di reati attribuiti agli extracomunitari. Bisognerebbe risolvere il problema delle carcerazioni di breve durata e dei reclusi in attesa di giudizio. Misure razionali ed umane potrebbero evitare il congestionamento della macchina carceraria.

Bisognerebbe organizzare una Conferenza nazionale sulla carcerazione, contro le campagne sicuritarie, impegnando gli specialisti del settore e ascoltando la voce delle organizzazioni dei detenuti e degli stessi detenuti. Una Conferenza capace di varare un progetto che recuperi alla civiltà ed alla umanità la popolazione oggi di sessantatremila persone che vive in luoghi che spesso risalgono al Medioevo, ai Borboni, all’Italia che ancora non c’era.

Insomma, "bisognerebbe" agire subito! Ho usato questo verbo diverse volte ma mi rendo conto che si dovrà andare controcorrente. Sarà difficile! La destra è riuscita a fare diventare tabù molte questioni ed ad imbevere di odio l’opinione pubblica. Al securitarismo che sempre più spesso si accompagna alla violenza contro i migranti e i diversi si aggiunge il disprezzo per coloro che sono finiti in prigione.

Giustizia: Radicali; indagare su suicidio in cella 28enne malato 

di Irene Testa

 

Terra, 4 settembre 2009

 

Ennesima tragedia in carcere. Luca Campanale, un detenuto di 28 anni, si è ucciso la notte del 12 agosto scorso impiccandosi alla finestra del bagno della sua cella nel carcere di San Vittore a Milano.

Quando le tragedie sono annunciate allora non resta che la frustrazione amara di chi aveva lanciato allarmi per scongiurare un triste epilogo, tanto più devastante quando la vittima di un suicidio che si sarebbe potuto evitare è il proprio figlio. Non si dà pace Michele Campanale, pur nella rassegnazione a cui deve abituarsi, ora che Luca, 28 anni, se ne è andato impiccandosi alla finestra del bagno della sua cella a San Vittore. Non dovrà più corrergli dietro. Lo faceva sempre da quel giorno in cui Luca, allora diciassettenne, sopravvisse a un brutto incidente. Da quel momento la sua vita si trovò costretto a seguire le peripezie di una testa che non funzionava più a dovere.

Due tentativi di suicidio, due trattamenti sanitari obbligatori, il tutto condito da numerosi ricoveri in comunità terapeutiche di disintossicazione dalla dipendenza - catalizzata dai suoi problemi psichici - da alcol e cocaina. Tutto scritto nero su bianco sulle perizie psichiatriche prodotte in sede processuale, portate in aula nelle udienze per quelle due rapine, e in appello. Secondo l’avvocato di famiglia, da queste perizie emergerebbe l’assoluta incapacità di intendere e di volere del ragazzo. Ma tant’è, le sentenze sono due condanne a due anni di reclusione ciascuna, e ulteriori sei mesi di permanenza in una casa di cura e custodia.

La patologia non la si può negare, è bollata e certificata, ma per i giudici è solo parziale, e questo dà loro modo, sottratta una doverosa diminuente della pena, di assicurare Luca alla giustizia. Ed è proprio quella giustizia, quella stessa che, nonostante i suoi ripetuti avvertimenti e allarmi, ha concorso all’estremo gesto del figlio, che ora Michele vuole interrogare e mettere alla prova, portandola in causa innanzi a sé stessa. Per capire come muoversi in un campo tanto delicato, da poco Michele ha postato un messaggio sul sito della senatrice Poretti, radicale che si è spesa con generosità nell’iniziativa della sua compagna di partito Rita Bernardini, "Ferragosto in carcere 2009", campagna che ha visto la partecipazione di numerosi parlamentari e consiglieri di ogni schieramento in una massiva visita ispettiva presso 189 dei 220 istituti di pena italiani.

Intanto, per il caso del suicidio tra le sbarre di Luca Campanale, la senatrice Poretti ha già preparato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, in cui si ricorda che, stante la comprovata sofferenza psichica del detenuto e il pericolo che commettesse atti gravemente autolesionistici e suicidi, questi veniva pochi giorni prima del suo gesto trasferito in una cella non dotata di adeguati sistemi di controllo e dove non si provvide alla vigilanza nei suoi confronti.

A nulla valse, dunque, il profluvio di lettere e parole veicolanti preoccupazioni sulle condizioni psichiche di Luca, intercorso tra il padre, il legale di famiglia e le direzioni sanitarie degli istituti di pena dove era alloggiato. E a nulla valsero pure le indicazioni dei medici che lo visitarono nel carcere di Pavia e che ne raccomandarono "il trasferimento urgente presso altra struttura protetta, al fine di rendere possibile al giovane quelle cure mediche di cui realmente bisogna".

Perizia che la terza sezione penale del Tribunale di Milano ha interpretato in modo da motivare il rigetto di un’ultima istanza di trasferimento, notifica che è arrivata solo poche ore prima del suo suicidio. Del perché di tale trattamento per un soggetto la cui vigilanza avrebbe dovuto essere alta la senatrice chiede conto; inoltre, suggerisce che, in attesa di una causa civile da parte del padre di Luca, si svolga un’indagine ministeriale per capire se non ci siano state responsabilità e negligenze professionali da parte di chi avrebbe dovuto garantirne l’incolumità anche in prigione. (Vedi l'interrogazione parlamentare - in pdf)

Giustizia: morte in carcere di un incensurato, nessuno ne parla

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

 

L’Unità, 4 settembre 2009

 

Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni di Rovereto. È morto circa un mese fa, nel carcere di quella città, suicidatosi tramite impiccagione con il cordino elastico del pantalone di una tuta. Era stato fermato, al ritorno dal lavoro, da due agenti in borghese con il pretesto di una sua infrazione in bicicletta; pare che i due, invero, stessero indagando sul presunto spaccio di hashish in un bar lì vicino.

Frapporti, perquisito senza esito, avrebbe confessato spontaneamente di detenere nella sua abitazione una certa quantità della stessa sostanza; e dunque sarebbe stato lì condotto, senza testimoni e, con tutta probabilità, senza un mandato di perquisizione. La casa, poi, non sarebbe stata "perquisita" dal momento che al mattino seguente non vi era segno alcuno della ricerca che gli agenti vi avrebbero svolto, come se Frapporti avesse indicato loro dove fossero i 99 grammi di hashish ritrovati.

Egli avrebbe firmato un modulo con cui rinunciava ad avvertire i suoi famigliari dell’arresto; in seguito la sua richiesta di un contatto con sua sorella sarebbe stata rifiutata a causa di quel brogliaccio. Alcuni poliziotti penitenziari lo descrivono ancora tranquillo e pronto alla battuta alle 23.30, l’ora in cui avrebbe fatto ingresso in cella. Poco dopo veniva rinvenuto cadavere. I familiari, avvertiti il giorno seguente, hanno potuto vedere il suo corpo solo 48 ore dopo.

Di questa storia si sono occupate le "solite" testate giornalistiche e i "soliti" ambienti: ovvero è stata raccontata nel mondo antiproibizionista e tra chi si occupa di carcere. Questa storia, che pure ha suscitato molta emozione tra i concittadini del Frapporti, è rimbalzata in questo microcosmo e non più oltre: ovvero non la conosce quasi nessuno.

Non è la prima volta che ci occupiamo di morti in carcere avvenute in circostanze poco chiare. Ma questa vicenda chiama in causa, ancor prima, una legge (la Fini-Giovanardi) irrazionale e criminogena, ottusa e crudele, che finisce col penalizzare indiscriminatamente comportamenti diversi, assimilando consumo e spaccio.

E chiama in causa, poi, una amministrazione penitenziaria sempre più incapace di custodire in sicurezza i detenuti, specie chi varca la soglia del carcere per la prima volta (è qui che è maggiore la percentuale dei suicidi). Infine. Se la ricostruzione dei fatti fosse davvero quella indicata all’inizio di questo articolo, chiediamo: qualcuno è in grado di motivarne la totale assurdità? Perché in assenza di una spiegazione diversa, il dubbio di un carcere incapace di garantire l’incolumità di quanti vi sono reclusi, senza tutela e senza diritti, si fa sempre più incalzante. E temibile.

Giustizia: i detenuti scrivono al Difensore Civico di "Antigone"

di Fiorentina Barbieri (Difensore Civico dei detenuti dell’Ass. Antigone)

 

Terra, 4 settembre 2009

 

L’impatto è forte per chi era in vacanza e torna ora: tra tutte le richieste di assistenza per il ricorso alla Corte Europea giunte ad agosto alla sede di Antigone, i nostri avvocati ne avevano selezionate una quarantina come ammissibili. Poi però capita che apri una busta e trovi lunghe liste di firme. Generalmente si tratta di denunce di insufficienza degli spazi: il minimo consentito dalla Ue è per lo più assai al di sopra della media disponibile per molti detenuti italiani.

Qualcuno ci scrive ironico (13 persone in 20 mq. = 3 letti a castello + 4 materassi da tirare fuori per la notte, lo fate voi il calcolo? Oppure nove, dentro celle da quattro). Ma non solo. Che dire dei rapporti con i familiari? A parte il ricorso alla Cedu, le richieste più numerose che arrivano al Difensore civico di Antigone sono quelle di essere aiutati per il trasferimento in sedi più vicine alla famiglia, soprattutto ora che, per cercare di compensare il sovraffollamento, si sta procedendo a ondate di sfollamento, specie, ma non solo, di chi protesta.

E i trasferiti non vengono vissuti molto bene all’arrivo in altri istituti, né dagli agenti, né dagli altri detenuti, per ovvii motivi di riduzione di spazio. Ma soprattutto lasciano dietro di sé familiari, a volte bambini, che per i colloqui devono inseguire i loro congiunti lontano, troppo spesso, con gravi disagi economici, per cercare di tamponare la loro depressione, i tentativi di autolesionismo, i suicidi, a volte.

Assai scarse - denunciano le lettere - le attività, quelle lavorative soprattutto, per la drastica diminuzione dei fondi erogati al settore, per non parlare delle disposizioni che di fatto escludono i detenuti stranieri dal lavoro in carcere. Significa che per molti le ore in cella sono, di fatto, 24 -1, - 2, al massimo.

Quanto ai criteri previsti per riscaldamento, bagni, presenza di doccia e bidet, acqua calda e fredda in cella (da mettere a norma già dal regolamento del 2000), valgano per tutte le proteste dei 400 detenuti della Casa Circondariale di Pisa per l’assenza di acqua nel loro istituto, o di un carcere campano, dove - ci scrivono - vorrebbero... che ci fosse restituita la dignità.

Lì l’acqua c’è, ma fredda e solo di notte, oppure solo bollente, nelle 3 docce settimanali: così per farsi una doccia bisogna fare scorte di acqua fredda di notte e poi miscelarla al momento della doccia. I detenuti di questo istituto ce ne descrivono la dislocazione: da un lato è in prossimità di un sito di ecoballe, da cui arrivano miasmi insopportabili, dall’altro, vicinissima, incombe una centrale elettrica. La lettera che ci è arrivata finisce con diversi fogli di firme che non abbiamo ancora contato esattamente. Vale per tutte la firma di apertura: I detenuti tutti.

Giustizia: un Ramadan dietro le sbarre, per 10 mila musulmani

 

Vita, 4 settembre 2009

 

Sono almeno 10mila i detenuti musulmani che stanno praticando il rito religioso nelle loro celle. Il sindacato Sappe: "Il sovraffollamento può creare tensioni".

Lontani dal proprio Paese e dalla propria gente, senza i piatti tradizionali e la possibilità di ritrovarsi con gli altri fedeli musulmani in Moschea. Così i detenuti islamici in Italia trascorrono dietro le sbarre il Ramadan, il mese dedicato ad Allah, durante il quale si digiuna fino al calar del sole e si fa l’unico pasto del mattino prima che il sole sorga. Si tratta di digiuno completo anche senza assunzione di bevande, un sacrificio necessario per purificarsi. È un mese di profonda religiosità vissuta anche dai tanti detenuti musulmani dei penitenziari italiani, anche se con molte restrizioni.

"Su 27mila detenuti stranieri un terzo è di religione islamica", spiega Donato Capace, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Quasi 10mila in tutto. Ma come cambia la celebrazione del Ramadan dietro le sbarre? Prima di tutto la mancanza dei familiari nei giorni di festa, il pregare insieme a parenti e amici in Moschea, i cibi tradizionali. In carcere viene comunque rispettata l’alimentazione del fedele musulmano, che si autodisciplina nel mangiare.

Ma a preoccupare il sindacato non sono tanto queste restrizioni, quanto lo stato dei penitenziari italiani, saturi allo stremo. In questo mese tanto importante per i detenuti islamici in Italia, evidenzia Capace, "l’acuirsi della tensione in Afghanistan e in Iraq potrebbe avere delle ripercussioni. In considerazione del sovraffollamento delle celle e dell’elevato numero di detenuti stranieri, tanto più che oggi nei penitenziari italiani vi sono più detenuti di religione islamici che cattolici o aderenti ad altri credi, la cella potrebbe diventare il luogo in cui, sempre più spesso, piccoli criminali sono tentati da membri di organizzazioni terroristiche detenuti".

Giustizia: le "gang" dei bambini con il coltello, paura a Napoli

di Dario Del Porto

 

La Repubblica, 4 settembre 2009

 

Vestono firmato e ascoltano neomelodico. In tasca, insieme al cellulare, tengono un coltello o una pistola giocattolo che sembra vera. A sera, montano sul motorino e cominciano a girare. Vorrebbero diventare come i più grandi, che stanno già nel "sistema" e fanno i soldi con la droga. Ma sono ragazzini e intanto sfangano la serata facendo rapine. Spesso non hanno neppure 14 anni, però in branco fanno paura. Picchiano anche se non serve. Possono uccidere, pure se la vittima ha le braccia alzate. E se una ragazza accetta un passaggio, rischia di trovarsene otto che vogliono obbligarla a fare sesso alla luce del cellulare. Poi capita che qualcuno finisce male, in carcere o al cimitero. Ma ce ne sono dieci che nello stesso momento sono in strada a tirare droga pronti a scatenarsi.

Così, ogni giorno che passa, la vita vale un po’ di meno, nelle strade di Napoli dove la generazione Gomorra sembra destinata inesorabilmente a perdersi, risucchiata nella spirale di una violenza che la città vive come un male incurabile. Non è un problema di questo o quel quartiere, ha giustamente avvertito il presidente della municipalità Scampia, Carmine Malinconico, dopo il drammatico episodio della sedicenne costretta a subire atti sessuali da parte di otto giovanissimi, sette dei quali minorenni: "Questi episodi sono la spia di un disagio giovanile che va analizzato in maniera approfondita". Ne è consapevole il sindaco Rosa Russo Iervolino, che commentando lo stupro di Scampia ha richiamato "tutte le agenzie educative, scuole, parrocchie, enti e associazioni ad elevare il livello di attenzione per i ragazzi".

La realtà è fotografata dai numeri: nel 2008 gli arresti di minorenni in provincia di Napoli sono aumentati di oltre il 67 per cento, i processi, prevalentemente per rapine commesse con l’uso di coltelli o per risse, del 20 per cento. "Dati particolarmente preoccupanti, che non lasciano ben sperare", secondo il prefetto di Napoli, Alessandro Pansa.

Ma sono le storie, messe insieme come le sequenze di un film, che spiegano tutto meglio di qualsiasi cifra: mercoledì, ore 17.30, nella Villa Comunale affacciata sul lungomare, un branco composto da sei persone, un maggiorenne con precedenti per rapina, tre ragazzi di età compresa fra i 15 e i 16 anni e due sorelle, una di 17 e l’altra addirittura di 13 anni, aggrediscono una coppia di fidanzati per impossessarsi del lettore Mp3. Picchiavano tutti.

Maschi e femmine. Racconta una delle vittime: "Abbiamo cominciato a correre, ma ci hanno inseguito. Avevano mazze di legno. Quello più alto ha cominciato a colpire il mio fidanzato alla spalla. Mentre i quattro ragazzi picchiavano lui, le due ragazze hanno schiaffeggiato me al volto, poi mi hanno tirato i capelli fino a farmi cadere a terra. Il più alto gridava: "dacci quel lettore Mp3, altrimenti continuiamo a darti mazzate".

Alla fine si sono fermati, ma solo perché è arrivata la polizia. Il ragazzo adesso è in ospedale con una spalla che guarirà solo fra tre settimane. La ragazza se la caverà in cinque giorni. Poteva finire ancora peggio anche l’aggressione a due turisti gay avvenuta in piazza Bellini otto giorni fa. Cominciata con un diverbio fra i visitatori e cinque ragazzi, proseguita con un gruppo di una quindicina di persone che senza neppure conoscere i contendenti si è scagliata contro i due malcapitati, picchiandoli e insultandoli.

A fine giugno, nel quartiere collinare del Vomero uno studente ha scritto una lettera a "Repubblica" per raccontare si essere stato "calunniato e pestato selvaggiamente da un gruppo di ragazzi che neanche conoscevo prima". Il branco lo ha circondato, istigato dalle ragazze che, mentendo, accusavano il giovane di averle toccate. Poi ci sono gli episodi che sui giornali non arrivano neppure, come il caso dei residenti di intere zone che nel fine settimana non escono di casa per evitare di incrociare gli scooter che invadono la carreggiata, le risse per uno sguardo.

"Una volta a Napoli esisteva la mediazione di quartiere - ragiona il maestro di strada Marco Rossi Doria - che aiutava ad allentare le tensioni. Progressivamente questo elemento è venuto a cadere perché le teste pensanti delle fasce più deboli stanno andando via. Per uscire dalla disoccupazione e dall’esclusione sociale, hanno preso la via dell’emigrazione come avevano fatto i loro nonni. Così non ci sono più quei fratelli maggiori, quegli zii, quei cugini che in passato aiutavano, come si dice, a "levare occasione", smorzavano i contrasti e guidavano i più giovani".

Sottolinea, Rossi Doria, che il problema di fondo sta "in un’esclusione sociale che a Napoli dura da 40 anni: se per un tempo così lungo togli speranze e prospettive a un territorio, chi può salvarsi va via, gli altri restano senza speranza. Non sono necessariamente cattivi. Li puoi trovare mentre aiutano la mamma a fare i servizi o lavorano come garzoni di bottega. Ma vanno a scuola a intermittenza, se ci vanno. E covano un’energia vitale fortissima, senza avere prospettive. Passano il tempo nelle sale giochi, assumono droghe. Eleggono il più matto di tutti come capo, ma solo per quella sera. E quando li incontri, non sai cosa ti può accadere".

Giustizia; Osapp; Pannella sostenga un "pacchetto detenzione"

 

Il Velino, 4 settembre 2009

 

"A Pannella diciamo che, dati i precedenti, le amnistie in Italia si fanno solo se la Nazionale di calcio vince i mondiali, come è stato per l’indulto del 2006. Siamo fiduciosi che Lippi saprà fare bene, soprattutto per il fatto che quattro anni fa fu lui a portare in trionfo gli azzurri, non altrettanto fiduciosi su Alfano e sul fatto che gli istituti arriveranno integri al 2010". È quanto dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria, alla vigilia della conferenza stampa indetta oggi dai radicali sull’emergenza carceri e l’amnistia".

"I reclusi - spiega - hanno oramai raggiunto, ad oggi, quota 64mila e il 50 per cento è ancora in attesa di giudizio. Le presenze straniere, invece, sono arrivate a 23.699 unità, toccando il 37 per cento del totale dell’intera popolazione. Solo i reclusi di nazionalità marocchina rappresentano l’8,4 per cento del totale con 5.100 detenuti. Seguono i tunisini con 3.090 presenze, i rumeni con quota 3.004, e gli albanesi a quota 2.809. È un quadro che non si limita a questo, e che non riguarda come ha detto il ministro della Giustizia un problema dell’Unione Europea se la percentuale di detenuti europei (3.879 dato di ieri) è solo del 17 per cento rispetto quelle 23.699 unità (dato complessivo detenuti stranieri)".

"A questo punto - spiega Beneduci - non entriamo nel merito della polemica politica su l’intesa tra il presidente del Consiglio e il colonnello Gheddafi, d’altro canto ci chiediamo come faccia il Guardasigilli a sostenere ancora la linea del rimpatrio quando non si riesce nemmeno a far rientrare i 33 reclusi libici, figuriamoci 5.100 marocchini.

A Pannella suggeriamo a questo punto, anziché promuovere un provvedimento svuota carceri che rischierebbe gli stessi esiti dell’indulto del 2006, di sostenere insieme a noi e in analogia con il pacchetto sicurezza un vero e proprio "pacchetto detenzione.

Un pacchetto di misure riguardante l’accelerazione dei tempi processuali e un potenziamento dell’area penale esterna, con l’estensione delle misure alternative al carcere di natura non detentiva a tutti i reati di minore allarme e pericolosità sociale. Oltre che l’introduzione della fattispecie di reato per lesioni gravi o gravissimi nei confronti del pubblico ufficiale addetto agli istituti penitenziari e i cani antisommossa nelle sezioni".

"Le aggressioni - ricorda il segretario del sindacato Osapp - ad agenti sono in continuo aumento, infatti solo 750 episodi nei primi otto mesi di quest’anno e c’è comunque e sempre il problema del personale che manca e che mancherà sempre di più per cui una delle possibili ipotesi per recuperare unità ai servizi a turno e di sezione negli istituti potrebbe essere quella di privatizzare il servizio delle traduzioni con esclusione dei collaboratori di Giustizia e dei 41 bis".

Giustizia: Gasparri; sì al "lodo Alfano", no ad "alcuna amnistia"

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

"Non so quale sarà la pronuncia della Consulta sul Lodo Alfano ma noi supereremo un eventuale giudizio negativo". Lo ha detto il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri parlando alla Summer School della Fondazione Magna Carta a Frascati. "Avremo un avvocato, un Ghedini o Ghedoni - ha ironizzato Gasparri - che troverà un cavillo".

"‘No ad alcuna amnistia. Fermiamo con decisione sul nascere anche solo l’ipotesi di un dibattito che veda nell’amnistia la soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri". Lo ribadisce il presidente del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri in una nota.

I giudici della Consulta si riuniranno il 6 ottobre per stabilire la legittimità della legge che congela i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato. In caso di bocciatura, riprenderebbe il processo al premier per corruzione in atti giudiziari, anche se davanti a un collegio diverso da quello presieduto da Nicoletta Gandus che ha già condannato a quattro anni e mezzo in primo grado il coimputato di Berlusconi, l’avvocato inglese David Mills, per aver reso falsa testimonianza dietro un compenso di 600 mila dollari. Le riforme in cantiere (ddl intercettazioni e ddl sul processo civile) e anche testi come la modifica al sistema elettorale del Csm e la separazione delle carriere avranno un destino legato alla decisione sul "Lodo".

Umbria: Polizia Penitenziaria in protesta per carenza organici

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

Stato di agitazione, a partire da oggi, di tutto il personale operante nei carceri dell’Umbria. Lo hanno indetto Sappe, Sinappe, Cisl-Fsn, Fp-Cgil, Uil-Pa, Cnpp e Ugl in considerazione dell’assoluta mancanza di risposte relativamente alla carenza organica a fronte dell’immutata situazione di sovraffollamento della popolazione detenuta.

Una lettera aperta è stata quindi inviata al ministro della Giustizia Angelino Alfano, al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, al provveditore regionale per l’Umbria, ai prefetti di Terni e Perugia, al presidente delle Regione, ai parlamentari umbri e ai sindacati nazionali. I sindacati sono anche tornati a sollecitare la richiesta di incontro con il capo dipartimento Ionta per definire e condividere soluzioni utili a far fronte all’emergenza. I sindacati - si legge nella lettera aperta - hanno indetto anche assemblee e deciso forme di protesta quali l’astensione della fruizione dei pasti presso la mensa per arrivare all’autoconsegna.

Bologna: alla Dozza aggrediti 3 agenti di Polizia Penitenziaria

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

Nel pomeriggio di ieri, tre poliziotti penitenziari in servizio a Bologna sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari per ferite riportate con una prognosi di sette giorni ciascuno a seguito di una aggressione da parte di un detenuto che si è avventato contro i poliziotti con un manico di scopa.

"Oramai alla Dozza - spiega Domenico Maldarizzi, Coordinatore Provinciale della Uil Pa Penitenziari - è come essere in guerra. Solo in questa settimana due aggressioni e quattro Agenti feriti. Cosa deve accadere ancora affinché i nostri vertici e la politica prendano seriamente in esame il dramma che si consuma nelle carceri?

Tutti gli agenti aggrediti svolgono il proprio servizio al primo piano Giudiziario dove sono ubicati i detenuti con problemi di tossicodipendenza in pratica quelli con più problematiche e di difficile gestione e proprio in questo piano vi sono circa 310 detenuti, il maggior numero di attività tratta mentali, ma il personale ivi impiegato è continuamente sotto organico come del resto in tutta la Dozza. È pur vero - sottolinea Domenico Maldarizzi - che quando si ammassano esseri umani in pochi centimetri quadrati dove manca pure l’aria per respirare occorre mettere nel conto questo tipo di reazione. A Bologna il quadro è ancora più drammatico considerata la grave carenza organica del personale di polizia penitenziaria e amministrativo.

Como: la protesta degli agenti; siamo abbandonati a noi stessi

di Corrado Cattaneo

 

Il Giorno, 4 settembre 2009

 

Un comunicato fiume per ribadire lo stato di agitazione degli agenti di guardia al carcere del Bassone determinato, tra le tante problematiche sollevate, dalla "grave carenza di organico". Prendono posizione le sigle sindacali della polizia penitenziaria comasca (Fp Cgil, Fns Cisl, Uil Pa, Sappe e Osapp) dopo la protesta durissima dei detenuti a cavallo di Ferragosto finita con un agente contuso, un altro ferito al volto durante un controllo di routine, e il trasferimento ad altra struttura per sette carcerati.

"L’attuale pesante sovraffollamento dell’Istituto, unitamente alla drammatica carenza di personale della polizia penitenziaria, costringe i poliziotti a sostenere inaccettabili carichi di lavoro, oltre ogni limite di sopportabilità, con grave pregiudizio per la sicurezza e soprattutto per l’incolumità degli operatori coinvolti", scrivono i sindacati. Al Bassone oggi sono presenti 550 detenuti, quando la capienza regolamentare è di 421 e quella massima tollerabile di 581, mentre a fronte di questa situazione di sovraffollamento gli agenti, su un personale previsto di 308 unità, sono 216. Questo significa, denunciano i sindacati che ribadiscono di voler mantenere lo stato di agitazione dichiarato nel novembre scorso, che in una sezione detentiva è "abitudine ormai che vi siano anche 100 detenuti", ospitati in celle di 8-10 metri quadri dove trovano posto tra i 4 e i 6 persone.

Ogni sezione è controllata da "un solo agente", che rischierebbe "quotidianamente la propria incolumità fisica". Per questo il personale di polizia penitenziaria al Bassone è descritto dai sindacati come "abbandonato a se stesso". Critiche pesantissime anche alle concessioni date ai detenuti per placare la protesta di metà agosto, in particolare per quanto riguarda l’apertura dei blindati delle celle durante la notte, "in quanto a protezione della chiusura rimane così il solo cancello", il quale avendo delle serrature obsolete non assicurerebbe "una corretta chiusura". Per questo la polizia penitenziaria "chiede un fattivo intervento da parte di tutte le autorità istituzionali".

Prato: affollamento, organico all’osso e scarsi mezzi economici

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

I problemi del carcere La Dogaia di Prato, il secondo della Toscana, sono gli stessi di tutti i penitenziari d’Italia anche se qui la presenza di stranieri si fa sentire più che altrove e rappresenta oltre il 50% del totale dei detenuti. Il nuovo direttore della casa circondariale pratese, nominato nel maggio 2009 dopo dieci anni da vicedirettore, parla liberamente ai nostri microfoni delle luci e delle ombre della struttura che gestisce e di come potrebbe essere migliorata. In questo momento le celle pratesi ospitano ben 663 detenuti contro i 644 tollerabili e i 420 regolari. I reati più frequenti sono spaccio di droga, reati contro la persona, associazione a delinquere anche mafiosa. L’effetto indulto che ha permesso di scarcerare 200 persone, è durato ben poco: in tre anni i numeri sono tornati ai livelli della situazione precedente e circa la metà degli indultati ha fatto rientro proprio alla Dogaia.

Tutto ciò a fronte di un personale insufficiente che conta 245 unità contro le 345 previste dalla pianta organica, circa il 30% in meno. La recente protesta a suon di battitura delle inferriate da parte dei detenuti era volta proprio alla denuncia di un sovraffollamento nelle celle. La Dogaia pero si distingue anche per i percorsi formativi e rieducativi che offre ai suoi ospiti. Ben 200 detenuti sono iscritti a corsi scolastici che vanno dalle elementari all’università i cui esami vengono tenuti direttamente in carcere.

Altri 150 detenuti lavorano all’interno della struttura o se sono in regime di semilibertà sono impiegati all’esterno da cooperative sociali. Solo per fare un esempio l’ampliamento del carcere che sarà pronto all’inizio del 2010 e darà 50 posti in più, è stato eseguito in economia dai carcerati.

Ancona: Prc; nel carcere vita difficile per detenuti e personale

di Giuliano Brandoni (Presidente del Gruppo consiliare regionale Prc-Se)

 

Ristretti Orizzonti, 4 settembre 2009

 

Le pessime notizie che arrivano da Montacuto testimoniano per tutti le difficoltà di vita nelle carceri sia per i detenuti quanto per il personale carcerario. È solo di poche settimane fa l’iniziativa "in carcere a ferragosto" promossa dal Partito Radicale alla quale ho aderito insieme ad altri consiglieri della Regione Marche.

Proprio da quella visita è venuta la proposta di chiedere la convocazione della 3° e della 6° commissione del Consiglio regionale per una verifica urgente e soprattutto per un’iniziativa altrettanto pronta a garantire almeno interventi di emergenza. Ad oggi non ho, purtroppo, ricevuto ancora alcun riscontro.

Le urla e i silenzi di Montacuto ci dicono che bisogna far presto. Intanto mi auguro che l’organo di garanzia dei diritti, che la Regione ha istituito e che ha tra le sue prerogative anche quella di garante dei detenuti, abbia attivato la sua azione e faccia conoscere quanto prima i risultati di questa a tutti i consiglieri regionali e all’intera comunità regionale.

Tolmezzo (Ud): il carcere ha 300 mila euro di debiti, verso l’Asl

 

Messaggero Veneto, 4 settembre 2009

 

L’assistenza sanitaria per i detenuti del carcere di Tolmezzo rappresenta una delle criticità fatte emergere dal consigliere regionale Roberto Antonaz. "Mi è stato riferito dalla direttrice Silvia Della Branca che il debito dell’Amministrazione penitenziaria nei confronti dell’Azienda sanitaria n° 3 "Alto Friuli" è ormai vicina ai 300 mila euro - riferisce Antonaz-.

In pratica l’assistenza medica all’interno della Casa Circondariale è garantita con alcune convenzioni: cinque medici generici e due o tre specialisti. Ma, spesso, succede che ci sia la necessità di ulteriori accertamenti clinici o del pronto soccorso e allora i detenuti vengono portati nel vicino ospedale, che dista poco più di un chilometro. Queste prestazioni però sono a pagamento e così il debito nei confronti dell’Ass n° 3 aumenta.

Sarebbe molto più saggio trasferire le competenze della sanità direttamente all’azienda sanitaria, così si eviterebbero anche le spese per la contabilità. Ci sono persone che devono tenere i conti per il carcere e dall’altra parte chi contabilizza come mancate entrate i soldi mai incassati: un’ipocrisia che lo Stato può e deve cancellare". Per quanto riguarda l’assistenza c’è anche da segnalare che la piata organica degli educatori prevede sei persone, mentre quelle assegnate ed effettivamente in servizio sono due. A questi si aggiunge uno psicologo, che nella pianta organica non è previsto, ma che invece è stato assegnato.

 

Tagliati anche i fondi per la formazione

 

Al centro della riforma carceraria tutte le forze politiche condividono l’idea che: il detenuto come persona che deve avere la possibilità, dopo aver sbagliato, di recuperare la sua dignità, di riscattarsi. La pena non deve essere pura repressione perché come tale, produce solo rancore, odio e altra violenza ma deve essere rieducativa come recita l’articolo 27 della Costituzione. Il lavoro è uno dei mezzi più efficaci per far sentire il detenuto parte attiva della società. In quest’ottica c’è da segnalare il successo della seconda edizione del progetto di formazione e tirocinio nel settore della manutenzione ambientale promosso dalla Casa Circondariale di Tolmezzo, dalla Regione e dal Comune di Tolmezzo.

Per due mesi e mezzo 8 detenuti in semilibertà, adeguatamente formati dal Cesfam di Paluzza, hanno svolto numerosi lavori in cantieri regionali e comunali a Verzegnis, Paluzza e Tolmezzo effettuando interventi come quelli alla scalinata della pieve di Santa Maria Oltre But, le attività di sfalcio e pulizia di aree verdi e stradali, la pulizia di caditoie e tombini e delle aree adiacenti al cimitero.

Ma questa è stata l’eccezione, in quanto, come riferisce il consigliere regionale Roberto Antonaz: "La direttrice del carcere mi ha detto che lo scorso anno erano stati tagliati i fondi destinati ai corsi di falegnamerie, di giardinaggio e di cucina. Ora, a quanto pare, dovrebbero essere di nuovo a disposizione, ma sarà mia cura verificarlo a Trieste".

"Iniziative simili dovrebbero essere incentivate con vantaggi economici per quelle imprese pubbliche, private, cooperative che intendono avviare un’attività all’interno di un istituto di pena - continua Antonaz -. Così come va potenziata la formazione di squadre di volontari di detenuti per lavori socialmente utili. La direttrice mi ha detto che sarebbe pronta a preparare delle squadre di spalatori di neve.

Nel caso di un inverno come quello trascorso potrebbero intervenire per aiutare gli anziani e i più bisognosi. Ma è chiaro che si deve pensarlo ora per preparare adeguatamente questo intervento, mi auguro che anche in questo caso le istituzioni rispondano all’appello. I detenuti sarebbero contenti di lavorare all’esterno e anche la comunità vedrebbe con occhio diverso chi deve espiare la pena".

Sarebbe anche auspicabile che le aziende della zona, ma non solo, trovassero il modo di far assemblare o far lavorare in qualche modo i detenuti. Attualmente sono una quarantina quelli che hanno accettato di lavorare per conto dell’amministrazione penitenziaria, in pratica effettuano i lavori di pulizia. Ma potrebbe essere attivato un servizio di lavanderia, purché ci sia lavoro garantito in modo tale da coprire le spese vive. Oppure seguire l’esempio del carcere di Padova dove i detenuti realizzano i panettoni che poi vengono venduti all’esterno.

Firenze: domani manifestazione solidale davanti a Sollicciano

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

L’annuncio è arrivato attraverso un comunicato stampa che porta le firme di Cpa Firenze sud, Cantiere Sociale K100fuegos, Collettivo Politico Scienze Politiche, Fuori Binario, Perunaltracittà, Partito della Rifondazione Comunista, Unione degli Studenti, Csa Nextemerson, Comunità di Base Isolotto, Comunità delle Piagge, Associazione L’Aurora, Movimento di lotta per la casa, Associazione Liberarsi, Centro Carlo Giuliani: domani, sabato 5 settembre 2009, dalle ore 18 si svolgerà davanti al carcere di Sollicciano una manifestazione di solidarietà ai detenuti e di appoggio alle loro richieste.

La manifestazione ha luogo dopo gli episodi di protesta per le condizioni in cui i detenuti si trovano accaduti nei mesi passati.

Bollate: "Salute inGrata", giornale Area Sanitaria, ha un anno!

di Viviana Brinkmann (Editoriale di "Salute inGrata" n. 8/2009)

 

Ristretti Orizzonti, 4 settembre 2009

 

Abbiamo l’abitudine, in redazione, di prenderci un paio d’ore al mese per il feed-back all’editore. L’utilizzo di questo tempo si è sempre rivelato utile per i redattori ma anche per le altre funzioni più tecniche come gli art director, i segretari, il fotografo, il correttore testi, i traduttori, l’incaricato alla diffusione interna all’istituto, il contabile, i free-lance.

Più ancora è tempo prezioso per il direttore e i vice. All’editore sono esposte le difficoltà incontrate per l’edizione appena chiusa, se si è riusciti ad applicare i correttivi decisi insieme nel numero precedente; anche si ri-concordano le linee generali e specifiche da seguire per offrire ai nostri lettori e lettrici un buon prodotto. Gran lavoro, un brain-storming dove tutti siamo chiamati a spremerci le meningi e far funzionare equamente la logica che attiene all’impresa giornalistica e la creatività.

È così che ci siamo accorti che era il nostro compleanno! Un anno di attività ricchissimo di soddisfazioni per potervi offrire uno spaccato sulla salute nel carcere di Bollate, a più voci. Non nascondiamo che è stata anche avventura molto impegnativa, a tratti faticosa, per l’argomento delicato che investe la quotidiana vita dei detenuti e delle detenute, dei medici e degli infermieri, del corpo di Polizia Penitenziaria, degli educatori di reparto, della direzione d’istituto, di noi volontari.

Nella scelta delle tematiche che ci hanno accompagnato, mese dopo mese, abbiamo toccato il maggior numero di argomenti, spaziando a ventaglio dai nuovi giunti, al trasferimento del Servizio Sanitario Penitenziario al S.S.N., alle problematiche dei tossicodipendenti detenuti, alle attrezzature e ambienti ambulatoriali, alla prevenzione, al valore aggiunto del lavoro trattamentale ed educativo, alle visite specialistiche interne, alle normative e leggi, al ruolo degli psicologi e degli psichiatri, al medico di reparto, alle malattie trasmissibili, all’igiene ambientale, all’alcool dipendenza, allo sport e salute, all’apporto costruttivo della polizia penitenziaria. Abbiamo inserito rubriche fisse: gli Sportelli Salute da tutti i reparti maschili e femminile, la voce della spiritualità nella malattia, il cucinare e mangiare sano ed anche… ridere, condito di fotografie e disegni!

In diverse occasioni abbiamo proposto "inserti mirati" che, speriamo, abbiano concorso alla concretezza di quanto stavamo analizzando, a seguito di ricerca e raccolta dati, a volte cella per cella.

Ed ora incominciamo il secondo anno e lo facciamo aprendo con tre novità: la modifica del formato della testata, che passa da A4 a A5; la completa copertura della distribuzione alla popolazione detenuta e il periodico on-line, a più lingue estere, sul sito Internet dell’associazione: www.amicidizaccheo-lombardia.it . La sinergia di queste scelte sta proprio nel raggiungere tutti e tutte, dentro e fuori, con un giornale più completo, comodo e duttile, in formato tascabile per essere conservato leggendo la diversificazione e l’approfondimento che l’Area Sanitaria darà in merito alla prevenzione di malattie, molte tipiche della carcerazione, e ai servizi specialistici già in atto e dunque fruibili. Un po’ di paura per questo impegno? Un po’ sì, dobbiamo ammettere. Ricordo, però, di aver sentito che: "Se non si ha paura, non si sa cos’è il coraggio". Tanti auguri, con tutto il cuore, ai Magnifici che ci hanno creduto e che continuano.

Teatro: Compagnia del carcere di Rebibbia, in scena a Venezia

 

Comunicato stampa, 4 settembre 2009

 

"Teatro stabile assai" del carcere di Rebibbia in scena con "Mediterraneo", domenica 13 settembre a Campolongo Maggiore (Ve).

Domenica 13 settembre alle ore 20.30 a Campolongo Maggiore si terrà lo spettacolo "Mediterraneo", presentato dalla Compagnia "Teatro Stabile Assai" del carcere di Rebibbia di Roma.

Giovedì 10 settembre alle ore 11.30 presso la sede di Affari Puliti nella ex villa di "Felicetto" Maniero a Campolongo Maggiore, in via E. Fermi 3, si terrà la conferenza stampa di presentazione dello spettacolo. L’incontro, che si terrà via skype in videoconferenza dalla Casa di Reclusione di Rebibbia, illustrerà il progetto artistico e il recupero sociale promossi dalla Compagnia Stabile Assai e da Affari Puliti.

"Mediterraneo" è uno spettacolo scritto da Antonio Turco, Gianfranco Santucci e Gaetano Campo con la regia di Caterina Venturini e con la collaborazione alla sceneggiatura di Patrizia Spagnoli e Daniele Arzenta, che la Compagnia Stabile Assai dedica al tema della interculturalità. Un tema profondamente sentito all’interno delle carceri, dove la convivenza tra le varie etnie passa attraverso un percorso culturale di reciproca accettazione di usi e costumi. Il Mediterraneo è il "contenitore simbolico" dove magrebini e siciliani, napoletani e salentini, arabi e slavi ritrovano una identità unitaria.

Quadri scenici e canzoni della tradizione popolare si intersecano in un testo inedito in cui si fondono le atmosfere carcerarie a quelle dei ricordi delle terre da cui provengono gli stessi detenuti Lo spettacolo è stato messo in scena in anteprima il 9 luglio presso lo spazio teatrale della Casa di reclusione di Rebibbia.

Saranno in scena: Daniele Arzenta, Gaetano Campo, Renzo Danesi, Massimo Mazzanti, Bob Abbah, Riccardo Carbonaro, Antonio Farinelli, Ruben Paz, Patrizia Spagnoli e Caterina Venturini. Il gruppo musicale è composto da Lucio Turco batteria e percussioni; Gianfranco Santucci tammorra, zampogna e voce; Antonio Turco e Antonio Perucatti chitarre acustiche e voci, Roberto Turco chitarra basso e voce e Valeria Bianchi organetto e voce.

Lo spettacolo è organizzato grazie alla collaborazione del Comune di Campolongo Maggiore, del Comitato Regionale Aics del Veneto, dell’Associazione "Affari Puliti" e del Dipartimento Solidarietà dell’Aics Nazionale, con il supporto organizzativo di Se.smac snc.

Cinema: con "Cella 211" la claustrofobica violenza di Monzón

di Gianluca Capaldo

 

www.nonsolocinema.com, 4 settembre 2009

 

Bisogna mentire per sopravvivere. Ma in alcuni contesti è dura riuscire a farsi credere. Se poi ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, tutto si complica. Chi sono i buoni? Chi i cattivi? Cella 211 è un’ottima analisi dei comportamenti umani ed è un buon spunto di riflessione sulle condizioni fisiche e mentali in cui vivono i detenuti spagnoli.

Juan Olivier (Alberto Ammann) sta per cominciare il suo nuovo lavoro e da buon ragazzo scrupoloso e perbene anticipa di un giorno la visita nel carcere in cui lavorerà da secondino. Qualcosa va storto li dentro: nel claustrofobico carcere, dove tutto è sorvegliato, qualcosa sfugge agli occhi della polizia penitenziaria. Scoppia una rivolta. In pochi minuti Juan, per sopravvivere, dovrà suo malgrado diventare il protagonista di un gioco di ruolo che ci terrà sulle spine fino al suo tragico epilogo.

La pellicola sin dagli inizi mette in chiaro le cose: la violenza, insieme ai bravissimi interpreti, sarà la protagonista di questa storia. Ci viene mostrata la "Cella 211" e assistiamo alla rivoltante e violentissima scena in cui un detenuto decide di togliersi la vita tagliandosi con profonde incisioni i propri polsi, per poi immergerli nell’acqua del lavandino.

Juan nasconde ogni indizio della sua vera identità, ma si trova spesso in difficoltà con il leader indiscusso dei detenuti, Malamadre (Luis Tosar), che dopo una profonda diffidenza iniziale scopre nel nuovo compagno aspetti in comune: entrambi sono vittime del dolore, della falsità e della cattiveria umana. Malamadre ha già vissuto queste forme di oppressione, Juan le sta vivendo. Altri ingredienti della pellicola sono il governo, i tre carcerati appartenenti all’Eta e per ultima, non per importanza, Elena, la moglie di Juan incinta di sei mesi. Il regista spagnolo Daniel Monzón porta sul grande schermo un ottimo prodotto, interessante, ben costruito e soprattutto assolutamente incalzante: la tensione accumulata stordisce positivamente il pubblico.

Immigrazione: 1.274 migranti morti nel Mediterraneo nel 2008

 

La Stampa, 4 settembre 2009

 

I dati sui rifugiati al servizio della sicurezza e della lotta al terrorismo. Su proposta dell’Europarlamento e del Consiglio, cioè dei governi nazionali, la Commissione Ue si prepara a cambiare le regole di Eurodac, la banca dati in cui sono conservate le impronte digitali di chi chiede asilo politico nell’Unione.

L’intenzione è rendere il database accessibile a tutte le autorità nazionali autorizzate, che potranno consultarle anche nel corso di inchieste su reati criminali gravi e di matrice politica. "Lo scambio di informazioni sarà più efficace", afferma il memorandum che accompagna la proposta. La quale, strada facendo, ribattezza il diritto d’asilo in "protezione internazionale". Non una differenza da poco.

Dice il vero Jacques Barrot quando assicura che, davanti alla piaga dell’immigrazione clandestina, "la Commissione non è stata inattiva". Il titolare del portafoglio Giustizia, ormai a fine mandato, continua a lavorare a tempo pieno per dare una forma ai desiderata di europarlamentari e ministri. Mercoledì ha presentato il piano per la redistribuzione dei rifugiati. Ora sta limando l’intervento su Eurodac, 57 pagine di bozza per aprire gli archivi senza creare pericoli per chi è schedato. In autunno cercherà di svegliare gli stati timidi nei confronti della Politica comune per l’immigrazione, principalmente Austria e Germania, in modo da congedarsi senza rimpianti da Bruxelles.

Le cifre nel complesso dicono che la situazione è grave, però si vedono segnali di miglioramento. Gli arrivi di irregolari sono fortemente calati nella prima metà dell’anno in Spagna (-38%), in Italia (-57%) e a Malta (-49%), mentre sono saliti in modo significativo in Grecia (+47%). Netto pure la diminuzione delle richieste di asilo: da noi sono scese del 12% nei primi due trimestri, eppure siamo il paese del fronte mediterraneo che ne accoglie di più (9.975).

Il vero cruccio, registrano i tecnici della Commissione citando fonti non governative, è il bilancio delle vittime. Sarebbero 415 i morti nel canale di Sicilia sino a metà agosto, contro i 1.274 dell’intero 2008. Secondo le medesime fonti, fra maggio e tre settimane fa, l’Italia avrebbe respinto verso la Libia 1.216 persone fermate in acque internazionali. Troppa gente, "vuol dire che non si deve abbassare la guardia".

I respingimenti sollevano per Barrot il problema dei "flussi misti", ovvero rifugiati e clandestini ordinari che finiscono sulla stessa barca. L’Ue esige che chi ha diritto all’asilo sia accolto e non allontanato indiscriminatamente. Quando accade nel Mediterraneo non è sempre chiaro e Barrot sta lavorando su un modus operandi. La riforma di Eurodac che sarà presentata nei prossimi giorni potrà essere d’aiuto.

Attualmente ai richiedenti di asilo di almeno 14 anni vengono prese le impronte digitali. Ciascun dato biometrico viene inviato alla banca dati comunitaria. La Convenzione di Dublino prevede che si possa chiedere protezione solo in uno stato membro e, alla bisogna, l’Eurodac risponde alle richieste delle capitali per dire se una domanda è già stata presentata. Le singole autorità nazionali non hanno accesso diretto. Ora si cambia. "Stabilire in fretta l’esatta identità delle persona - promette Bruxelles - contribuisce a rendere più sicuri i rifugiati".

La bozza che La Stampa ha avuto modo leggere modifica i criteri di accesso a Eurodac, stabilendo che gli stati avranno diritto di consultarlo anche nell’ambito di inchieste sul terrorismo e sulla criminalità organizzata. In pratica, gli uffici immigrazione di verificare direttamente se esiste un’altra istanza d’asilo. E gli inquirenti potranno cercare nei file dei richiedenti asilo anche le tracce di sospetti terroristi.

Con dei limiti: serve un "caso ben definito" e "l’assenza di misure meno intrusive"; non si potranno effettuare "comparazioni di massa delle impronte"; i risultati dovranno essere avvallati dal parere di un esperto. Vista la cautela e le quantità di rassicurazioni che popolano il testo, è chiaro che Bruxelles teme di essere accusata di limitare i diritti dei rifugiati. Succederà, in questi casi è inevitabile. Però i governi lo vogliono e l’ultima parola è sempre e soltanto la loro.

Immigrazione: Fortress Europe; in agosto 104 morti a frontiere

 

Redattore Sociale - Dire, 4 settembre 2009

 

La strage degli eritrei, il massacro dei somali a Ganfuda, e poi la collisione di un barchino con una motovedetta algerina a Annaba e le vittime dell’Adriatico. Il bollettino dell’osservatorio sulle vittime dell’emigrazione.

Sono almeno 104 le vittime dell’emigrazione lungo le frontiere europee documentate nel mese di agosto dall’osservatorio Fortress Europe. Il dato si basa sulle notizie riportate dalla stampa internazionale. Nella classifica delle frontiere più insanguinate, il Canale di Sicilia continua a vantare un triste primato. Oltre ai 73 eritrei dispersi nei 23 giorni alla deriva da cui si sono tratti in salvo soltanto in cinque, nell’ultima settimana di agosto sono stati rinvenuti altri tre cadaveri tra Malta e Linosa, mentre un cittadino tunisino è dato disperso al largo di Pantelleria.

Nei primi otto mesi del 2009 i morti registrati nel tratto di mare tra l’Egitto, la Libia, la Tunisia, Malta e Lampedusa sono 418, per 373 dei quali non è stato mai recuperata la salma delle vittime. Un dato preoccupante se comparato con quello dello scorso anno. Se infatti le vittime documentate dall’osservatorio Fortress Europe sulla rotta per Malta e l’Italia, erano state 1.274 nei dodici mesi del 2008, il numero degli arrivi è però diminuito del 60%. Dall’1 gennaio al 19 agosto, secondo i dati del Viminale, ci sono stati infatti 7.567 arrivi, contro i 17.585 dello stesso periodo del 2008. Diecimila in meno. Vittime anche lungo le altre frontiere del Mediterraneo. In Grecia, un naufragio al largo dell’isola di Kos ha fatto cinque vittime, due corpi sono stati recuperati, altri tre sono dati per dispersi. In Spagna, la cronaca degli sbarchi del mese di agosto registra due vittime, una alle Canarie e l’atra a Cartagena, in Andalucia. Sei rifugiati somali sono invece stati uccisi dalla polizia libica nel campo di detenzione per immigrati senza documenti di Ganfuda, vicino Bengasi, durante gli scontri seguiti a un tentativo di evasione di massa, lo scorso 9 agosto.

Le autorità libiche hanno smentito la notizia, ma sulla rete circolano fotografie dei feriti e testimonianze dirette di chi ha visto tutto con i propri occhi. Infine, vittime anche sulla frontiera adriatica. Due morti. Uno da ogni lato del mare.

A Brindisi un uomo è stato travolto e ucciso dal camion sotto il quale si era nascosto a Patrasso per imbarcarsi su un traghetto di linea diretto in Italia. Stessa sorte a Igoumenitsa per un altro emigrante, investito mortalmente dal camion sotto il quale viaggiava all’insaputa dell’autista. Infine in Algeria, una collisione tra una motovedetta algerina di pattugliamento al largo di Annaba e una barca carica di una trentina di emigranti diretti in Sardegna ha causato la morte di 12 persone. Soltanto una salma è stata recuperata. Gli altri sono dispersi in mare. Altri 18 passeggeri sono stati feriti nello scontro.

Immigrazione: Roma; la disperazione nel Cie di Ponte Galeria 

 

Adnkronos, 4 settembre 2009

 

Situazione di alta tensione al Cie di Ponte Galeria. Questa mattina tre ospiti del centro, due uomini e una donna, si sono feriti davanti alle telecamere di sicurezza. L’episodio è stato reso noto dal garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Un uomo e una donna, di cui non si conosce la nazionalità, si sono feriti ad una coscia e a un piede mentre un altro uomo si è inferto lesioni in diverse parti del corpo prima di essere bloccato dal personale di sorveglianza. Attualmente a Ponte Galeria sono ospitate 245 persone, 120 uomini e 125 donne. "Il problema a Ponte Galeria - ha detto Marroni - non è tanto il sovraffollamento quanto gli effetti che le nuove norme in tema di immigrazione stanno creando, soprattutto quella che prevede, anche retroattivamente, un periodo massimo di permanenza nel Cie di 180 giorni. Ciò significa che questi centri stanno diventando delle vere e proprie carceri ma senza quelle possibilità positive che pure esistono nelle carceri. I Cie, giorno dopo giorno, stanno diventano dei veri e propri centri della disperazione".

Immigrazione: Milano; processo a protagonisti di rivolta nel Cie

 

Redattore Sociale - Dire, 4 settembre 2009

 

Il centro di identificazione di via Corelli venne messo a ferro e fuoco lo scorso 13 agosto per protesta contro il prolungamento a sei mesi del trattenimento. Rischiano anni di carcere.

Sono accusati di danneggiamento seguito da incendio, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. E secondo il avvocato, Mauro Straini, rischiano anni di carcere. Sono i 14 immigrati identificati dalle forze dell’ordine come i responsabili della rivolta che ha messo a ferro e fuoco il centro di identificazione e espulsione di via Corelli, a Milano, lo scorso 13 agosto, danneggiando gravemente alcune sezioni del Cie, al punto che una quarantina dei trattenuti vennero spostati il giorno dopo nei centri di Bari e Brindisi. La protesta, seguita alle rivolte in altri Cie d’Italia (da Roma a Gradisca, da Torino a Modena) era scattata dopo l’entrata in vigore della legge sul pacchetto sicurezza e la consegna delle prime notifiche del prolungamento del trattenimento agli immigrati che avevano già scontato i due mesi di detenzione nei Cie. La nuova legge infatti prolunga da due a sei mesi il limite del trattenimento per l’identificazione e l’espulsione. Ed è stata applicata in modo retroattivo.

I rivoltosi di Milano adesso si trovano in carcere, in attesa del giudizio. Altri due immigrati sono stati arrestati al Cie di Bari. Mentre i tre leader della rivolta del Cie di Modena del 17 agosto sono già stati rimpatriati. Il processo per la rivolta di Milano (per direttissima con rito ordinario) è stato rinviato al 21 settembre. La prima udienza, lo scorso 20 agosto, è stata molto concitata. Quando una delle donne imputate ha accusato un ispettore di polizia chiamato a testimoniare, di averla palpeggiata, il pubblico in aula ha iniziato a gridare slogan di solidarietà con gli imputati. Le prossime udienze si terranno a porte chiuse per motivi di ordine pubblico. Gli imputati sono 9 uomini e 5 donne.

Le donne sono 4 nigeriane e una gambiana. Tra gli uomini ci sono 4 cittadini marocchini, tre algerini, un ivoriano e un portoghese, fermato nonostante sia cittadino comunitario, in quanto ritenuto soggetto "socialmente pericoloso". Alcuni di loro hanno precedenti penali. Ma ci sono anche incensurati. E addirittura soggetti che vivono in Italia da anni. Per esempio un cittadino ivoriano arrivato con la famiglia quando era ancora un bambino, all’età di 10 anni, ma che con la maggiore età non si è visto rinnovare il permesso di soggiorno, per ragioni su cui gli avvocati stanno ancora indagando. E c’è anche chi fuori ha una moglie e una bambina di due anni. Una famiglia divisa per legge, già perché il Testo unico sull’immigrazione prevede che chi perde il lavoro perda anche il permesso di soggiorno, indipendentemente dal suo livello di integrazione nel paese.

Immigrazione: Francia; i cattolici contro detenzione dei minori

 

Ansa, 4 settembre 2009

 

"Che differenza c’è con il carcere?". Questa è la domanda di Godze, 16 anni, turca, che attende in un Centro di detenzione francese per immigrati irregolari di essere rimpatriata. Il quotidiano cattolico La Croix ha pubblicato un’inchiesta sui minori reclusi in questi centri, che ospitano gli stranieri in attesa di espulsione dal territorio francese o di permesso di soggiorno.

Il ministro dell’Immigrazione e dell’Integrazione Eric Besson, al contrario, ha spiegato che solo raramente si ricorre alla detenzione di minori e si è vantato dei circa 17.000 rimpatri di irregolari da gennaio a luglio di quest’anno. Ma i cattolici hanno denunciato la violazione della Convenzione internazionale sui diritti dei minori. La detenzione in questi Centri, 30 in tutta la Francia e corrispondenti ai centri di identificazione e espulsione italiani, non può superare i 32 giorni, durante i quali gli immigrati irregolari possono fare ricorso per ottenere il permesso di soggiorno.

La Cimade, un’organizzazione che si occupa di diritti umani e unica fonte di assistenza all’interno dei centri di detenzione, ha affermato che sui 34.235 reclusi nel 2007, 242 erano minori al seguito delle rispettive famiglie. "Optiamo per la detenzione di minori solo in casi eccezionali - ha affermato il ministro Besson - in generale ricorriamo all’assegnazione di una residenza". Ma su La Croix viene spiegato che sono i prefetti a decidere la sorte dei minori e alcuni scelgono i centri di detenzione: si tratta dunque di sentenze discrezionali.

Quanto ai dati su rimpatri resi noti oggi da Besson in un bilancio dei suoi otto mesi al ministero, il ministro ha spiegato che sul totale di 17.350 dal gennaio al luglio, 12.526 sono stati forzati e 4.824 volontari: entro la fine del 2009, ha aggiunto, sarà rispettato l’obiettivo di 27.000 rimpatri prefissati per quest’anno.

Il ministro ha tenuto a sottolineare che la Francia è il primo paese in Europa per numero di richieste di asilo accettate e per numero di concessioni di nazionalità a stranieri. Interrogato sulla situazione dei minori, il ministro ha fatto notare che i bambini detenuti sono sempre accompagnati dalla famiglia. Ma malgrado all’interno dei centri vengano riservate "zone famiglia" affinché i minori non siano esposti alle tensioni che si creano tra gli adulti, le voci dei bambini e dei ragazzi detenuti riportate da La Croix parlano di scene da prigione.

Usa: processi troppo veloci; una condanna a morte in 27 minuti

di Claudio Giusti (membro del Comitato scientifico dell’Osservatorio)

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 4 settembre 2009

 

Negli Stati Uniti il 70% dei processi penali, e il 50% di quelli per murder, si conclude in giornata. Alcuni possono proseguire per settimane o mesi, ma c’è gente che ha visto selezionare la giuria il lunedì e il venerdì era già nel braccio della morte.

Forse il record è detenuto da Wallace Fugate il cui sentenching durò 27 minuti: cioè Accusa e Difesa dibatterono della sua vita in meno di mezz’ora. Il record storico di velocità dovrebbe invece appartenere, vecchio West a parte, a Joe Zangara che sparò al Presidente F. D. Roosevelt il 15 febbraio 1933, uccidendo però il sindaco di Chicago Anton Cermak (probabile vero obbiettivo del mafioso). In 5 settimane Zangara fu arrestato, accusato, processato, appellato ed esecutato il 20 marzo 1933 (in Cina riescono ad essere così rapidi?).

La straordinaria velocità del processo americano, senza naturalmente prendere in considerazione le lower courts, è dovuta alla miriade di udienze preliminari che precedono il dibattimento vero e proprio. Le questioni procedurali, con le lungaggini che affliggono la nostra giustizia, sono sbrogliate e decise molto prima che il processo abbia inizio. Ovviamente anche questo modus operandi richiede tempi lunghi ed è raro che un processo per omicidio, capitale o meno, inizi prima di due o tre anni dal fatto.

Se dovessi fare un paragone fra il processo americano e il nostro, direi che c’è la differenza che esiste fra cucinare il pollo con le mandorle e la porchetta. Per il pollo occorre una lunga preparazione ma una cottura veloce, mentre per la porchetta la preparazione è breve rispetto alla lunghissima cottura.

Comunque è impossibile che il dibattimento per un murder arrivi in aula nei fulminei tempi dei telefilm americani e il solo impanelment della giuria può durare settimane. A volte però ci sono delle piacevoli sorprese, come è accaduto a Jamel Gauthier che, dopo avere passato tre anni nelle jails di New York, ha scoperto che l’Accusa non era più in grado di dimostrare che il decesso, per cui era accusato di omicidio di primo grado, era effettivamente stato un assassinio.

Se la giustizia americana si caratterizza per l’amplissimo uso del patteggiamento e per la sommaria rapidità dei processi nelle courts not of record accade, nelle jails texane e in buona parte di quelle del resto degli Stati Uniti, che le cose si muovono molto lentamente anche per i misdemeanors (crimini minori che prevedono condanne fino a un massimo di un anno).

Stephen B. Bright ci ha spiegato la patetica qualità della difesa nel processo penale capitale texano e, per buona misura, ci ha anche raccontato quella che è nota come slaughterhouse justice: la giustizia da mattatoio che affligge le corti di basso livello statunitensi. L’enorme quantità di persone arrestate ogni anno per piccoli reati non ha quasi mai la possibilità economica di farsi difendere decentemente ed è costretta a subire la difesa d’ufficio che, anche se condotta da qualche volonteroso, è afflitta da una micidiale quantità di casi da seguire. Così la normalità delle udienze americane consiste nel raggruppare una o più dozzine di arrestati e portarli, incatenati l’uno all’altro, di fronte al giudice, farli dichiarare colpevoli del reato contestato e appellarsi alla clemenza della corte che, di norma, li condanna al time served.

Oggi, a quindici anni dal saggio di Bright, la situazione non è cambiata e i poveri della Contea Harris, quella di Houston, stanno in prigione mesi e mesi (anche per più di un anno) in attesa che qualcuno si degni di trovargli un avvocato che gli faccia patteggiare una condanna che, in qualche caso, hanno già abbondantemente scontato intanto che aspettavano.

 

In definitiva

 

Su 1.000 delitti commessi solo metà viene denunciata alle autorità giudiziarie. Gli arresti sono cento e le condanne cinquanta. Dei 50 condannati 20 vanno in probation, 15 nelle jails a scontare meno di un anno e 15 nelle prisons per condanne superiori. Su 100 casi giudiziari definiti entro un anno dall’arresto (per gli altri ci vuole tempo) 25 hanno le charges dismissed, 65 patteggiano la pena, 7 ricevono la deferred adjudication e solo 3 vanno in aula: di questi uno è assolto e due condannati. Dei 67 condannati totali 19 vanno in probation (ci va anche il 5% dei colpevoli di murder), 27 scontano meno di un anno nelle jails e 21 più di un anno nelle prisons.

 

 

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