Rassegna stampa 24 settembre

 

Giustizia: in 10 anni più 200 nuovi reati e molte pene inasprite

di Rossella Anitori

 

Terra, 24 settembre 2009

 

In Italia dal 1999 a oggi sono stati reintrodotti oltre 200 crimini e molte pene sono state inasprite. Le case di reclusione esplodono e i tribunali sono bloccati, sarebbe doveroso riformare la giustizia. Il governo, però, non sembra intenzionato a farlo.

Carceri sovraffollate e tribunali ingolfati: la funzione rieducativa dell’istituzione penitenziaria viene meno e tanti reati cadono in prescrizione con un danno alla giustizia e alla società. Per uscire da quest’impasse "bisogna rendersi conto che non è possibile risolvere ogni problema con il diritto penale e quindi con l’introduzione di nuovi reati", sostiene Giuliano Pisapia, penalista già presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati.

Dal 1999, anno in cui è avvenuta la più ampia depenalizzazione dalla nascita della Costituzione, tra pacchetti sicurezza, leggi d’emergenza e altro sono stati reintrodotti oltre 200 reati e molte pene sono state inasprite. La "Repubblica delle manette", però, non ha prodotto i risultati sperati.

"L’attuale sistema penale - dice Pisapia - sortisce effetti opposti a quelli auspicati: fa aumentare il numero dei reati e il tasso di recidiva e, soprattutto, non provvede a reinserire i detenuti una volta fuori dal carcere. Crea dunque disastri sotto ogni profilo". Nei penitenziari del Paese le persone imputate o condannate per criminalità organizzata o per reati di sangue sono meno del 12 per cento. In Italia, però, "sanzione" significa "carcere" e con la detenzione si cura ogni tipo di problema. È così che le patrie galere si riempiono di ladri di pane, malati di mente e tossicodipendenti. "Il governo ha ritenuto di risolvere problemi di carattere personale e sociale con la prigione - continua Pisapia -.

Una maniera di fare che, in tutti questi anni, si è rivelata non solo inutile ma anche controproducente. Basti pensare ai 18mila tossicodipendenti attualmente detenuti che costano alle casse dello Stato oltre un miliardo di euro e una volta fuori dal carcere non hanno altra alternativa, in quanto non disintossicati, che tornare in piazza e commettere nuovi reati danneggiando se stessi, la collettività e altri cittadini". Il problema è dunque uscire da questa logica. Purtroppo, però, governo e Parlamento sembrano muoversi in senso diametralmente opposto. "È necessario rendersi conto del fallimento di un sistema penale che considera reato ogni comportamento illecito, e che punisce ogni comportamento deviante con il carcere - sostiene Pisapia -.

Malgrado tutti gli operatori del diritto e le commissioni di Riforma del Codice penale che si sono succedute negli ultimi 15 anni abbiano auspicato un diritto penale minimo ma efficace, si continua sulla strada sbagliata. Con le ultime scelte, le ronde e l’immigrazione clandestina si è arrivati a una situazione che pare irreversibile. La speranza è che il collasso dell’intero sistema possa far riflettere chi è ancora in grado di riflettere". L’Italia attende, dunque, una riforma del Codice penale, pene alternative per reati di minore allarme sociale e un carcere diverso. Le ultime rilevazioni confermano una tendenza che lascia riflettere: chi sconta l’intera pena in galera ha un tasso di recidiva di oltre il 70 per cento, chi invece paga con sanzioni diverse ha un tasso di recidiva inferiore al 18 per cento.

"L’obiettivo è duplice - prosegue Pisapia - da un lato è necessario assicurare che la pena sia certa, in modo da eliminare quel senso di impunità che spesso è presupposto di altri reati; dall’altro evitare il carcere come unico rimedio anche in considerazione del fatto che spesso la detenzione genera devianza. C’è bisogno di una riforma complessiva della giustizia per uscire dalla logica dell’emergenza e discutere in Parlamento di provvedimenti tesi a una maggiore efficienza, celerità e garanzia per imputati e vittime dei reati".

Giustizia: il buon uso dell’indulto... che la politica non ha fatto

di Luigi Manconi

 

www.innocentievasioni.net, 24 settembre 2009

 

Davvero singolare la sorte del provvedimento di indulto approvato nel luglio del 2006. Ispirato da Giovanni Paolo II, che lo richiamò esplicitamente nel suo discorso in parlamento nel novembre del 2002; sollecitato da una manifestazione dei Radicali nel Natale del 2005 cui parteciparono l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga e il futuro capo dello Stato Giorgio Napolitano; "imposto" dall’abnorme sovraffollamento carcerario, l’indulto venne approvato da oltre due terzi dei parlamentari, come vuole la Costituzione. E, poi, ripudiato da pressoché tutti coloro che lo votarono.

Il provvedimento nasceva già limitato dalla mancata approvazione di un’amnistia che, contemporaneamente all’intervento sulla popolazione reclusa avrebbe potuto ridurre il vertiginoso accumulo di fascicoli processuali, destinati in percentuale rilevante alla prescrizione, dopo aver intasato, i canali giudiziari. Sia chiaro: indulto e amnistia sono misure eccezionali, previste dalla Costituzione, per "liberare" carceri e aule giudiziarie da un sovrappiù di uomini e di pratiche, che ostacolano una decente amministrazione della giustizia. Saggezza vuole, e così è sempre stato, che camminassero insieme. Non così nel 2006.

Per giunta, l’indulto - in qualche modo inevitabile - venne approvato in un clima sociale dove la questione dell’insicurezza assumeva un ruolo crescente nei meccanismi che determinano le ansie collettive. E mentre, proprio in quel periodo, accadeva che, lo spazio dedicato alle cronache criminali dal complesso dei telegiornali nazionali cresceva fino a più che raddoppiare. Cosicché l’indulto diventò, rapidamente, il capro espiatorio di tutti i guai della giustizia italiana e la presunta causa dell’aumento dei delitti.

Va detto, innanzitutto, che tale aumento non ci fu affatto: se non per un periodo brevissimo e relativamente ad alcune tipologie di reato. E ciò vale per l’intera fase storica: nel 2008 gli omicidi volontari sono stati 605, mentre erano 1916 nel 1991. Certo, nelle settimane immediatamente successive al ritorno in libertà degli indultati, una parte di essi commise un nuovo reato (recidiva): e questo produsse un autentico corto circuito nell’opinione pubblica.

Ma, a distanza di oltre tre anni, un’accurata ricerca, condotta da Giovanni Torrente, dell’università di Torino, dimostra inequivocabilmente che quell’ allarme fu comprensibile, ma infondato. Si prenda il dato più significativo, la recidiva: il 28,45% degli indultati ha commesso un nuovo reato. Percentuale elevatissima, tale da segnalare incontrovertibilmente - parrebbe - il fallimento della misura di clemenza, se non vi fosse un piccolo e ineludibile dettaglio: tutte le ricerche nazionali e internazionali concordano nell’indicare come la percentuale di recidiva tra coloro che scontano interamente la pena, senza condoni o misure alternative, è più che doppia.

Una rilevazione dell’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998 abbia fatto reingresso in carcere una o più volte , negli anni successivi. Non solo: la ricerca di Torrente evidenzia che, a partire dal 2006, il tasso mensile medio di recidiva diminuisce progressivamente. Ancora: coloro che scontavano la pena in misure alternative (ai domiciliari, per esempio), sono stati recidivi in percentuale inferiore (21,78%) rispetto a chi proveniva dal carcere (30,31%). Si noti, infine, che l’incremento dei detenuti stranieri (circa il 38% dei reclusi) non è dovuto al comportamento recidivante dei soggetti indultati, ma a un progressivo inasprimento del controllo e, in prospettiva, agli effetti dell’introduzione della "aggravante per clandestinità".

Tant’è vero che, mentre la recidiva tra gli italiani supera il 30%, quella tra stranieri si ferma al 21,36%. Che non è male come colpo inferto a uno degli stereotipi più robusti del senso comune nazionale. In conclusione quel provvedimento di clemenza ha avuto più di un effetto positivo: certo, la popolazione detenuta - a distanza di tre anni - ha non solo raggiunto il tetto di allora, ma lo ha superato.

Si pensi, tuttavia, a cosa sarebbe accaduto in assenza di quell’effetto deflattivo, pur provvisorio: oggi, prevedibilmente, le carceri ospiterebbero, si fa per dire, circa 80mila detenuti. Si ha un’idea di quali sarebbero state le conseguenze di tale super-affollamento? Più in generale si può dire che un provvedimento, anche così contradditorio come l’indulto del 2006, abbia confermato una verità spesso dimenticata: una concezione dinamica e non rigida della pena - non ridotta alla detenzione in una cella chiusa - può avere effetti pratici assai positivi. Può costituire - lo dico sinteticamente - un contributo alla sicurezza collettiva (meno recidiva) e un vero e proprio risparmio, oltre che sul piano della sofferenza individuale, su quello strettamente economico (meno risorse da destinare alla repressione dei reati e a una custodia carceraria eccezionalmente onerosa).

Giustizia: le proposte di Legge del Movimento "Uomo Nuovo"

 

Ansa, 24 settembre 2009

 

Misure alternative obbligatorie fino a quattro anni di reclusione; "adozione" dei detenuti da parte delle parrocchie; una nuova "disciplina dei rapporti" affettivi tra detenuti e coniugi, che tradotto significa la possibilità, per i reclusi, di avere momenti di intimità con la propria moglie o il proprio marito. Sono le proposte di legge del Movimento "Uomo Nuovo", promosso da don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale di Napoli e direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Carceraria, che saranno presentate il prossimo 26 settembre alla presenza del cardinale Crescenzio Sepe, miranti a risolvere il grave problema del sovraffollamento delle carceri.

"Non si tratta di mitigare le pene o addolcire il carcere - precisa subito il sacerdote - soprattutto in un periodo come questo, in cui è molto forte la domanda di sicurezza dei cittadini". Ma di ridare all’esperienza detentiva il suo significato originario: "rieducare il detenuto e reinserirlo nella società". Durante i cinque anni trascorsi come cappellano a Poggioreale, don Franco matura la convinzione che "la detenzione non sia la risposta giusta alla voglia di sicurezza, se attuata in queste forme, poiché isola le persone dalla famiglia e dalla società".

In particolare pensa ai detenuti "a lunga scadenza, come gli ergastolani che avrebbero diritto ad un momento di intimità con la propria moglie". "Ha mai visto la sala degli incontri di Poggioreale? - conclude don Franco - in uno stanzone di 200 metri quadrati ci sono centinaia di persone che parlano, urlano; ci sono bambini piccoli, parenti, amici. Stare un po’ di tempo, in tranquillità, con il coniuge è un diritto. È un modo per non abbrutirsi".

Giustizia: direttori delle carceri... responsabilità civile e penale

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 24 settembre 2009

 

30 novembre 2003. Carcere Rebibbia di Roma. Nel penitenziario capitolino, che potrebbe ospitare 1.194 detenuti, ci sono ristrette 1.526 persone. La direzione del carcere fatica a gestire il sovraffollamento. Un vero e proprio overbooking. Ed in effetti in celle fatte per ospitare due detenuti ce ne stanno quattro, e in quelle da tre posti ci sono sei persone.

In una di queste celle c’è rinchiuso Izte Sulejmanovic. Il quale fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il motivo: è rinchiuso in una cella grande 16 mq insieme ad altri cinque detenuti. Di conseguenza ha a disposizione solo 2,70 mq. Uno spazio di vivibilità ben lontano da quello individuato dal Comitato Europeo di Prevenzione della Tortura, che ha indicato in 4 mq l’area minima che deve avere a disposizione un detenuto, ristretto in una cella con più persone. Disumano e degradante. È il giudizio espresso dai Giudici di Strasburgo per il trattamento patito dal signor Sulejmanovic all’interno del carcere Rebibbia di Roma.

23 settembre 2009. Carcere Rebibbia di Roma. A fronte di una capienza di 1.194 posti, ci sono rinchiusi 1.579 detenuti. Ovvero 385 persone in più. E già. Dal 2003 ad oggi nel carcere di Rebibbia nulla è cambiato. Anzi, il trattamento riservato ai detenuti è anche peggiorato. Le celle sono più sovraffollate e, quindi, minori sono gli spazi minimi di vivibilità che spettano ad ogni detenuto. Spazi indicati dal Comitato Europeo di Prevenzione della Tortura.

Ma non basta. A Rebibbia ci sono dei giorni in cui i detenuti sono talmente tanti che per loro non c’è posto neanche dentro le già sovraffollate celle. Quando ciò accade la Direzione del carcere, invece di negare l’ingresso a quelle persone che non hanno posto in cella, cerca soluzioni. S’inventa posti per i detenuti in più. Trasforma in celle stanze che non lo sono. È così che a Rebibbia, si rinchiudono cinque o sei persone all’interno della stanza per la socialità. Ovvero una stanza destinata alle attività ricreative dei detenuti, e non certo per farceli vivere per 21 ore al giorno.

In altre parole, nel carcere di Rebibbia, il trattamento riservato ai detenuti resta, secondo i criteri già adottati della decisione della Corte di Strasburgo, disumano e degradante. Un trattamento che determina danni nei confronti delle persone detenute. Danni che hanno ovviamente una rilevanza sia dal punto della responsabilità civile che di quella penale.

Responsabilità civile per i danni morali e patrimoniali, conseguenti al trattamento disumano e degradante, accertato dalla Corte di Strasburgo. Responsabilità penale sia per le lesioni psicofisiche causate ai detenuti da questo disumano trattamento e sia per i danni cagionati dall’atto illegittimo di consentire una limitazione della libertà degradante. Consentire l’ingresso in un carcere sovraffollato, con la consapevolezza di violare la legge, nell’esercizio delle sue funzioni e di arrecare un ingiusto danno, sembra integrare il reato di abuso d’ufficio.

Chi il colpevole, chi il responsabile? La responsabilità diretta è di colui che consente il trattamento disumano e degradante. Ovvero il Direttore dell’istituto penitenziario. Una conclusione che appare anche condivisa dal Dap che, nella sua ultima circolare, ha chiesto proprio ai direttori delle carceri di "vigilare affinché non si verifichino, ed eventualmente non si protraggano, situazioni analoghe a quelle sanzionate dalla Corte di Strasburgo".

Infine il paradosso. Dopo la decisione di Strasburgo, si discute di come vengono trattati i detenuti nel carcere di Rebibbia. Carcere che resta, condanne a parte, uno dei migliori penitenziari d’Italia. E quindi la domanda è: ma cosa succede in strutture ben più sovraffollate e degradate. Come definire i trattamenti riservati ai detenuti di Trento, Bologna, San Vittore, Poggioreale e l’Ucciardone?

Giustizia: Uil-pa; rammaricati per assenza di attenzione da Pdl

 

Il Velino, 24 settembre 2009

 

"Non possiamo non manifestare tutto il nostro apprezzamento e la nostra gratitudine alle numerose personalità politiche che hanno voluto inteso testimoniare solidarietà ed attenzione rispetto ai problemi del sistema penitenziario che la Uil ha portato in piazza ieri a Roma". Lo ha dichiarato il segretario generale della Uil Pa penitenziari Eugenio Sarno, dopo la manifestazione di categoria che ha visto in piazza circa quattrocento agenti, in seguito alla quale "cominciano a intravvedersi timidi segnali di attenzione da parte della "politica sensibile". "Siamo davvero rammaricati dalla mancata presenza in piazza Montecitorio di esponenti del Pdl.

La nostra manifestazione non era solo di contestazione ma anche di sollecitazione. Una richiesta di aiuto, un disperato grido di allarme che avrebbe dovuto essere ascoltato in forma bipartisan. Sono fiducioso, però, che non mancheranno occasioni di confronto anche con quella parte di maggioranza che è sensibile al grave problema sociale che è oggi la questione penitenziaria". La Uil Pa penitenziari ha accolto con "evidente soddisfazione - si legge in una nota - la notizia di una prossima audizione in commissione Giustizia dei rappresentanti sindacali, chiesta e ottenuta dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro".

"Il presidente Di Pietro - ha aggiunto Sarno - aveva preso con noi un impegno che ha concretamente, immediatamente, mantenuto. Ne prendiamo atto, rendendogli il giusto merito. La prevista audizione in commissione Giustizia sarà un altro passo verso quella necessaria sensibilizzazione sulle criticità del sistema ed una opportunità di confronto tra il legislatore e le dirette esperienze degli operatori penitenziari. Analogamente la presenza del responsabile dipartimento Giustizia del Pd, Lanfranco Tenaglia, è da noi interpretata come una ritrovata attenzione. Non di meno riteniamo molti utili anche le diverse visioni e posizioni sulle possibili soluzioni, emerse anche ieri, tra il Partito radicale, il Pd e l’Idv.

Se non altro hanno, comunque, un unico comun denominatore: rilanciare quel dibattito sull’emergenza penitenziaria e sulla giustizia giusta che Marco Pannella e Rita Bernardini hanno sempre invocato e sollecitato. Sarebbe davvero inconcepibile e ingiustificabile, però, che a tale dibattito possa, come sembra far presagire il suo perpetrato silenzio, sottrarsi proprio il ministro Alfano . Ovvero colui che detiene le responsabilità politiche del dicastero della Giustizia. Noi ribadiamo che il 23 per cento dei detenuti (circa 15mila persone) in custodia cautelare; i 75 bambini di età inferiore a tre anni detenuti con le madri; i 22 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare; i cinquemila agenti in meno e le infamanti condizioni di lavoro, sono problemi che investono direttamente, istituzionalmente e moralmente il ministro Alfano".

"Noi - conclude Sarno - continueremo nella nostra opera di sensibilizzazione e denuncia. Restiamo convinti della necessità di mettere riparo a una situazione insostenibile. Non rinunceremo, ovviamente, a rivendicare il rispetto dei diritti e della dignità degli operatori penitenziari e di quanti sono ristretti nei nostri istituti. La strada maestra è, e resta, una riforma organica e strutturale della giustizia e del momento sanzionatorio con un ripensamento innovativo delle modalità d’irrogazione delle pene.

Auspichiamo, quindi, che si accantonino progetti astratti, utopici e irrealizzabili e ci si concentri sul possibile e sull’immediatamente fattibile. Pena l’ingestibilità del sistema carcere e una inevitabile deriva violenta delle proteste interne. In tal caso, avendo chiuso le porte alla speranza, i politici faranno bene a non recarsi nelle carceri perché potrebbero essere accolti a fischi e pernacchie. Stante la quotidiana contrizione dei diritti elementari, comunque, stiamo studiando l’ipotesi di ricorrere alla Corte di Strasburgo perché anche al personale della polizia penitenziaria possa essere riconosciuto un indennizzo per le incredibili, indicibili, infamanti e penalizzanti condizioni cui è costretto a lavorare. Solo così, forse, potremo dare una vera sveglia a una Amministrazione penitenziaria sempre più distante e indifferente".

Giustizia: gli "uomini ombra" scelgono un blog per comunicare

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.info, 24 settembre 2009

 

"Sei arrivato nel Territorio degli Uomini Ombra", si legge in homepage del nuovo blog Le Urla del Silenzio (http://urladalsilenzio.wordpress.com). "Questo blog è stato creato per loro. Per i condannati all’ergastolo ostativo, quello senza nessun beneficio, senza mai un giorno di permesso: anni e anni, decenni, senza mai un giorno fuori dal carcere, senza mai un Natale in famiglia, senza mai un abbraccio libero con i propri cari".

Poesie, dialoghi, denunce di ordinari pestaggi, ricordi di compagni morti, fotografie dal carcere.

"Alcune cose nascono quasi come una pallina di neve che lentamente cresce, cresce e cresce e poi va a finire che è una valanga. Il blog fu una idea lanciata là, un’improvvisa intuizione notturna", racconta Alfredo, tra gli ideatori di questo spazio e suo principale amministratore. L’idea rimbalzò a un altro paio di persone fuori dal carcere. Ma fu da dentro che arrivò l’entusiasmo decisivo affinché si realizzasse. Carmelo Musumeci, che per Linkontro.info cura la rubrica "L’ergastolano", detenuto a Spoleto, condannato all’ergastolo ostativo, principale animatore della campagna Mai dire mai per l’abolizione della pena perpetua, una delle persone che ci hanno mostrato come dal carcere si possano utilizzare gli strumenti del diritto, una delle persone che ci hanno mostrato come questi strumenti, se provengono dal carcere, restino spesso inascoltati. Carmelo Musumeci, che non si stanca di cercare canali di comunicazione tra il dentro e il fuori, diede la spinta che trasformò in cosa fatta quella pallina di neve embrionale.

Il blog, questa forma libera di comunicazione, utilizzato da coloro che meno liberi in assoluto sono nel nostro paese. Riconosciamo in questo le pacifiche modalità di lotta di Carmelo e dei suoi amici, che nel novembre del 2008 riuscirono a organizzare la consegna simultanea di 750 ricorsi di ergastolani alla Corte Europea di Strasburgo. Le mura delle galere interrompono la comunicazione. Per la burocratizzazione, per il senso di inutilità che fa passare la voglia, per il silenzio cui riducono tramite tanti leciti e meno leciti meccanismi. Ci pare importante, allora, che nascano oggi queste Urla del Silenzio.

"Ma c’è un’altra genesi", dice ancora Alfredo, "quella che ha dato vita alle premesse senza le quali non ci sarebbe stato il blog. Più di un anno e mezzo fa mi imbattei in uno scritto di Carmelo Musumeci, Racconto di esame di un carcerato. Fu una folgorazione, per lo stile assolutamente originale e imprevedibile e per l’anima e il fuoco, il dolore e la volontà che lo animavano. Conservai quel racconto, come si conserva un dono prezioso. E lo condivisi con alcune persone. Questo blog ha radici che coinvolgono più persone nel loro incrociarsi".

Nelle intenzioni dei creatori, Le Urla del Silenzio non vuole essere uno spazio solo militante, uno spazio che dia conto delle iniziative politiche per l’abolizione dell’ergastolo, che lanci appelli, proponga riflessioni. "Queste cose ci sono e ci saranno pure. Ma prima di tutto immaginavamo uno spazio che non fosse neutro e indifferenziato. A partire dalla grafica, evocativa e capace di trasmettere energia, di dare il senso di un’emozione. Chi lo visita deve sentire che questo blog racchiude le viscere, il cuore e le ali spezzate degli Uomini Ombra".

È a loro che il blog è dedicato, sono loro che hanno scelto di servirsi di questo canale di dialogo con il mondo esterno. Non un sito genericamente dedicato al carcere, ma il blog dell’ergastolo ostativo e di chi lo abita. "Un posto dove le persone del mondo dei vivi avessero l’occasione di poter vedere quante storie, quanto dolore, quante braccia che si sostengono a vicenda, quante urla lanciate in cielo, quante storie tatuate sulla pelle, quanto amore questi uomini stigmatizzati da tutti riescono a dare".

Giustizia: un mese di sciopero della fame; Fabio Savi ricoverato

 

Asca, 24 settembre 2009

 

Ricoverato in ospedale il killer della Uno bianca: un mese fa aveva iniziato lo sciopero della fame Fabio Savi, uno dei killer della Uno bianca, accusato insieme ad altri di 24 omicidi commessi tra il 1987 e il 1994 in Romagna, è ricoverato all’ospedale di Voghera. Savi, detenuto dal giugno scorso nella sezione di massima sicurezza nel carcere della città oltrepadana, dal 27 agosto scorso aveva iniziato uno sciopero della fame. Una protesta per chiedere il trasferimento in un penitenziario vicino a casa (la moglie lavora a Firenze), una cella singola e un lavoro fisso. Richieste che non sono state esaudite, da qui la sua protesta. Per ragioni prudenziali Savi è stato ricoverato in ospedale.

In una lettera i motivi della protesta - La sua protesta - in carcere ha già perso dieci chili - Savi l’ha affidata al suo legale, l’avvocato Fortunata Copelli, con una lunga lettera nella quale spiega i motivi della sua protesta e del suo disagio. "So di dovere scontare una giusta pena ed intendo farlo con la massima correttezza e dignità.

Ma, come io ho il dovere di rispettare le regole, ho anche il diritto della tranquillità di una cella singola, di un lavoro per potere sostenere la mia famiglia, di reclamare per essere stato inserito in un circuito detentivo con mafiosi mentre non ho nulla a che vedere con questo titolo di reato, e di vedere assicurato il principio di ‘territorialità della pena", scrive Savi. "Ho una moglie che vive e lavora onestamente a Firenze - scrive - tra affitto e bollette non si può permettere di venire a Voghera" e ciò nonostante "l’ordinamento penitenziario preveda il massimo favore ai contatti con la famiglia.

Più volte ho chiesto di essere trasferito in una casa di reclusione in Toscana: comunque sconterei la pena. La mia famiglia non c’entra nulla col mio passato"."Non si può tornare indietro" - Nella lettera Fabio Savi scrive anche ai familiari delle vittime della banda della Uno Bianca. "Non ho mai chiesto scusa - scrive - e non lo farò fino al giorno in cui le mie scuse potrebbero essere interpretate in modo strumentale.

La migliore forma di rispetto sia il silenzio. Vorrei tornare indietro nel tempo e impedire tutto quello che è successo, ma purtroppo non ci si può riscrivere la vita; tutto ciò che posso fare è cercare di essere un uomo migliore, perché la vera pena io l’avrò dentro me stesso fino all’ultimo dei miei giorni".Parole che i parenti delle vittime respingono al mittente.

"Lui può vedere la moglie, noi i nostri mariti, i nostri figli non li possiamo più vedere" dice Rosanna Zecchi, presidente della associazione che riunisce i familiari delle vittime della banda della Uno Bianca. "Noi non possiamo perdonare e nemmeno avere pietà: lui con i nostri non ne ha avuta", conclude amaramente Rosanna.Il sindaco solidarizza con le famiglie - "Savi è un criminale, e ogni volta che parla riapre una ferita", ha commentato il sindaco di Bologna Flavio Delbono, che si associa al dolore dei familiari delle vittime della Uno bianca e mette un severo stop alle richieste di trasferimento avanzate dal killer. Savi - che si trova nel carcere di Voghera dove sconta la condanna all’ergastolo per i 24 omicidi commessi dal 1987 al 1994 insieme agli altri componenti della banda - sta facendo da un mese lo sciopero della fame.

Giustizia: l’Anm contro lo "scudo fiscale"; intollerabile amnistia

di Roberto Petrini

 

La Repubblica, 24 settembre 2009

 

È rivolta contro il colpo di spugna dello scudo fiscale. Opposizioni che abbandono l’aula, magistrati indignati, Cgil severamente contraria. Mentre dal Colle si osserva con attenzione l’evoluzione del decreto legge che, come emerse fin dalle bozze circolate prima dell’estate, si avvia a diventare un maxi condono per tutti coloro che hanno esportato capitali all’estero, evasori e bancarottieri.

Ieri si è fatta sentire con forza la voce dei magistrati. "Siamo preoccupati: il diritto penale richiede certezza ed effettività della pena, e non può tollerare un così frequente ricorso ad amnistie o sanatorie, in particolare nel settore delicatissimo dei reati economici e fiscali. C’è il serio il rischio - spiega una nota dell’Anm - di minare la fiducia di chi ha agito nel rispetto delle regole". Il ministro della Giustizia Alfano ha tuttavia replicato duramente: "Chi vuole che sia riconosciuta la sua autonomia deve accettare che è il Parlamento sovrano che fa le leggi".

Il decreto sarà approvato oggi definitivamente dalla Camera, dopo sarà il Capo dello Stato a dire la parola definitiva: "Nessun commento - ha osservato ieri Napolitano rispondendo ad una domanda dei giornalisti - , quando mi sarà trasmesso il testo da promulgare, approvato dal Parlamento, valuterò le novità". Espressioni che non svelano l’atteggiamento del Colle ma che tuttavia segnalano l’attenzione con cui il Quirinale segue la spinosa vicenda.

"È una vergogna", ha detto il leader Pd Franceschini. Casini ha definito la sanatoria "inaccettabile". Contraria la Cgil mentre solo il vicepresidente di Confindustria Bombassei ha concesso che la norma "può aiutare a superare un momento difficile".

Tuona l’Italia dei Valori (uno striscione in aula recitava: "Mafiosi ed evasori ringraziano") che con Di Pietro parla di una legge "criminogena pro-Berlusconi" ma il presidente di Mediaset Confalonieri, interpellato ieri dai giornalisti, non si è scaldato più di tanto: "Non ne penso nulla, non ne ho bisogno". A sollevare il velo su un vero e proprio "giallo" delle date è Elio Lannutti (sempre dell’Idv): secondo il quale la norma sullo scudo è stata fatta "su misura per la diatriba degli Agnelli". Il parlamentare in una dichiarazione rileva che il "procedimento tributario" nei confronti degli eredi dell’Avvocato per i presunti beni all’estero è stato aperto il 7 agosto, e che la norma varata consente l’accesso allo scudo a tutti coloro che fino al 5 agosto non avevano un procedimento aperto.

Ma è proprio così? Sulla questione delle date e sugli esclusi ieri si sono intrecciati sottili interrogativi tecnici. Chi è dentro e chi è fuori? La soluzione è resa difficile dal fatto che i decreti sono due, lo "scudo fiscale I" (convertito il 5 agosto) e il decreto correttivo (che sarà probabilmente convertito oggi). Siccome la legge dice esplicitamente che sono esclusi "i procedimenti in corso alla data di conversione del decreto", bisogna vedere di quale decreto si parla. Secondo il Servizio studi del Senato chi ha avuto notizia di un procedimento prima del 5 agosto è fuori, mentre l’Agenzia delle Entrate sposta la soglia al 15 settembre. Tuttavia l’accesso allo scudo dal punto di vista fiscale e condono penale non camminano di pari passo. "Bisogna distinguere tra godibilità dello scudo a fini tributari ed eventuali suoi effetti esonerativi a fini penali - spiega Tommaso Di Tanno uno dei maggiori tributaristi italiani - . Può accedere allo scudo con i relativi effetti tributari chi al momento della presentazione della dichiarazione non ha ricevuto atti che iniziano un procedimento tributario, il che vuol dire che se si è ricevuto un tale atto prima del 15 settembre (prima data buona per la presentazione della dichiarazione) certamente non ci si potrà avvalere dello scudo".

Giustizia: Consulta divisa sul Lodo Alfano, il 6 ottobre si decide

di Liana Milella

 

La Repubblica, 24 settembre 2009

 

Sette sicuri contro il lodo. Cinque a favore. Tre incerti. Con nomi e cognomi ben individuati. Corte spaccata. Conciliaboli riservati per portare da una parte o dall’altra chi non ha ancora deciso. Meno 13 giorni all’inizio dello showdown sul lodo Alfano alla Consulta. Palazzo blindatissimo. I 15 alti giudici che, meno che mai, si concedono perfino al telefono. La cena di due di loro, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, col Cavaliere, Letta e il ministro Alfano, nel maggio scorso, tuttora incombe e turba il futuro consesso. Diktat severi anche per i magistrati assistenti che oggi, da mattina a sera, s’incontreranno per discutere il coté tecnico della questione giuridica dell’anno.

Nessuna decisione, per carità, ma un’analisi dettagliata sulla scienza costituzionale preesistente, e soprattutto sulle sentenze della Corte. Focus su quella che, il 20 gennaio 2004, bocciò il precedente lodo Schifani e costò all’allora premier la ripresa del processo Sme. Sul tavolo ci saranno anche i comunicati di Napolitano che, nel luglio di un anno fa, sulla base di quella sentenza, consentirono l’entrata in vigore di una legge - lo scudo per congelare i processi, ma non le inchieste, delle quattro più alte cariche dello Stato - tra le più contestate della storia giuridica italiana.

Berlusconi li considera il suo atout ed è sicuro di farcela. Così si sforzano di convincerlo i suoi esperti, Niccolò Ghedini in testa, che alla Corte ha buoni agganci e già mette in tasca i tre dubbiosi. Sul fronte opposto ex presidenti e membri della Corte sono convinti del contrario. E l’opposizione, Pd e Idv, è certa della bocciatura. Basta che uno dei tre si schieri con i sette e la partita è chiusa. Il Cavaliere sarà di nuovo alle prese con i processi Mills e diritti tv, e con una difficile stagione politica.

Girano da una scrivania all’altra i comunicati di Napolitano. Letti e approfonditi. Nessun valore giuridico, ovviamente. Ma un peso, politico e non solo, quelle due pagine, fotocopia l’una dell’altra, ce l’hanno. Napolitano le ha rivendicate quando Beppe Grillo lo ha attaccato per aver firmato il lodo. Scrisse il presidente quando autorizzò il governo a presentare il testo alle Camere (era il 2 luglio) e quando lo promulgò (era il 23) che "il punto di riferimento" per la decisione era stato "la sentenza 24 del 2004" con cui la Corte aveva bocciato lo Schifani. "A un primo esame, quale compete al capo dello Stato in questa fase, il ddl è risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza".

Esultarono i berluscones. Fuori della Camera, del Senato, dello stesso Quirinale correva la protesta contro una legge giudicata incostituzionale. Vergò il presidente: "La Consulta non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale". Batterono le mani Ghedini e Alfano. Grillo gli ha gridato contro per mesi in tutte le piazze. Ma non basta. Il presidente ha usato anche un altro essenziale concetto espresso nel 2004 dalla Corte, quando essa, ha citato quattro anni dopo Napolitano, "giudicò "un interesse apprezzabile" la tutela del bene costituito dalla "assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche"".

Valore solo politico o anche giuridico? È questo l’interrogativo che corre alla Corte. Chi vuole salvare il lodo ne sfrutta gli argomenti, nessuna necessità di ricorrere a una legge costituzionale, come sostiene invece la procura di Milano che vede violati gli articoli 3 (uguaglianza) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione. In aggiunta, "l’interesse apprezzabile" riconosciuto (cioè il diritto di governare con le mani libere da impedimenti processuali) giusto nella sentenza scritta da Francesco Amirante, l’attuale presidente della Corte, che fu relatore sul lodo Schifani.

Chi, tra gli alti giudici, vuole bocciare il nuovo lodo segna in rosso un rigo di Napolitano ("a un primo esame, quale mi compete in questa fase") e sottolinea che lui non ha mai pensato di sostituirsi "preventivamente" al lavoro della Consulta. Ma i suoi argomenti, la congruità del lodo Alfano con la sentenza della Corte che bocciava la legge Schifani, è sul tavolo. Di questo si discuterà oggi tra i tecnici, di questo si parlerà il 6 ottobre quando, dopo l’udienza pubblica, s’avvierà la camera di consiglio. Dove sarà sufficiente una sola voce per chiedere un rinvio.

Lettere: gli affetti negati in carcere e l’intervento della Chiesa

di Adriana Tocco (Garante dei diritti dei detenuti della Campania)

 

La Repubblica, 24 settembre 2009

 

Forse, ma non vorrei illudermi, lo spesso muro d’indifferenza innalzato intorno all’invivibilità delle carceri italiane inizia a mostrare qualche crepa. Forse, le denunce sul sovraffollamento dei penitenziari e la conseguente violazione sistemica dei più elementari diritti delle persone sottoposte a misure restrittive stanno riacquistando un diritto di cittadinanza almeno per una parte degli organi di informazione.

Il silenzio non sembra più accogliere le poche voci che si levano a denunciare "l’infamia" di questa stagione. Ecco perché mi pare degno di plauso lo spazio informativo riservato da "Repubblica", nell’edizione di ieri, alla iniziativa della Curia di Napoli sul dramma delle carceri. Le proposte elaborate da don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale di Napoli e direttore dell’ufficio diocesano per la Pastorale carceraria, che saranno illustrate sabato 26 settembre alla presenza del Cardinale Sepe, hanno il merito di sollevare il velo su di una grande rimozione e di ribadire l’esercizio di un diritto contemplato dalla legge e tuttavia, di fatto, disapplicato.

Affermare le ragioni di una nuova disciplina dei rapporti affettivi tra detenuti e coniugi, come intende fare la Curia di Napoli, significa scegliere di stare dalla parte dei diritti umani ed allo stesso tempo segnalare al legislatore la necessità di ripensare il ruolo e la funzione di un carcere, la cui esistenza stessa, si configura al limite di una illegittimità che viola lo stesso complesso di norme poste a fondamento della sua ragion d’essere.

Sollevare oggi il problema dell’affettività negata in carcere, significa avere il coraggio, come don Franco che da cinque anni svolge la sua missione nel carcere più affollato d’Europa, di gridare che la detenzione, nelle condizioni date, non è la risposta alla voglia di sicurezza di noi cittadini. Parlare di questo obbliga ad interrogare e interrogarsi su di un carcere che più diventa grande e meno riesce a rispondere all’obbligo costituzionale di finalizzare la sua esistenza al recupero ed al reinserimento. Parlarne significa infine affermare che lo spirito della riforma penitenziaria del 1975 è negato da un carcere lasciato colpevolmente nelle condizioni attuali e che continuare a cianciare di valore rieducativo del carcere è ormai una tragica finzione.

Lo dice bene Carlo Brunetti nel suo saggio sul diritto all’affettività per le persone recluse, quando, commentando la importante sentenza numero 7791/2008 della Suprema Corte di Cassazione, I sezione penale, afferma: "Il diritto non si identifica e non si esaurisce nella legge come la tutela dei diritti non si esaurisce nello jus dicere.

In tutti i settori dell’esperienza giuridica non esiste, infatti, giustizia né diritto senza una corretta ed efficace esecuzione. Questo è ancor più vero nel caso della tutela dei diritti dei detenuti. A solenni affermazioni di principio ed a sofferte elaborazioni giurisprudenziali non seguono, a volte, progressi sotto il profilo della concreta attuazione di principi costituzionali fondamentali".

Per parte mia posso testimoniare che la maggior parte dei detenuti che ho incontrato in questo intenso anno di lavoro, mi ha sempre rappresentato la mutilazione degli affetti come la più ingiusta delle privazioni. Se il senso comune, quasi mai identificabile con il buon senso, considera anche questa privazione parte integrante della pena, è necessario che quanti hanno un’esperienza diretta del carcere non si stanchino di ripetere che la detenzione, comportando la limitazione della libertà, è punizione in quanto tale.

Sardegna: mozione Consiglio regionale contro carceri speciali

 

Ansa, 24 settembre 2009

 

Approvata dal Consiglio regionale la mozione presentata dal Centro Sinistra, primo firmataria l’On. Claudia Zuncheddu, sulle carceri speciali nell’isola. L’intervento a Cagliari dell’onorevole algherese Carlo Sechi.

Approvata dal consiglio regionale la mozione presentata dal Centro Sinistra, primo firmataria l’On. Claudia Zuncheddu, sulle carceri speciali in Sardegna. A seguito delle notizie riguardanti la possibilità di realizzare in Sardegna nuove carceri speciali, da destinare a detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis del Codice Penale, il Consiglio Regionale ha approvato una mozione che impegna il Presidente e gli Assessori competenti a contrastare questa scelta.

"Ho posto all’attenzione del Consiglio che ancora una volta la Sardegna viene utilizzata dallo Stato per risolvere i suoi problemi a danno del Popolo Sardo", sottolinea l’algherese Carlo Sechi. "Ancora una volta la Sardegna, che non conta nulla nei confronti dello Stato quando deve risolvere i temi dell’istruzione, dei precari della scuola, delle servitù militari, delle entrate fiscali e dei trasporti, viene individuata, per la sua insularità, per la creazione di due sezioni carcerarie da destinare a detenuti sottoposti al regime dell’art.41 bis del Codice Penale".

"Occorre scongiurare questa ipotesi, che esporrebbe il territorio sardo a periclose infiltrazioni mafiose". Bisogna invece applicare la Legge n. 354/75, il protocollo d’intesa tra la Regione Sarda e il Ministero della Giustizia del 7/2/2006, l’ordine del giorno n. 37 approvato dal Consiglio Regionale il 22/11/2007 sulla territorialità della pena.

"A questo proposito ho citato l’esempio del cittadino sardo Bruno Bellomonte, esponente di "A manca pro s’Indipendentzia" è stato arrestato e incarcerato a Roma il 10 giugno 2009 ed è in attesa di giudizio. Il 25 luglio, dopo 45 giorni di isolamento - precisa Carlo Sechi - è stato trasferito nella Casa Circondariale di Catanzaro. Il trasferimento non ha tenuto conto, nonostante la richiesta avanzata dal legale, dell’applicazione della Legge n. 354/75 che prevede di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie. Per visitare Bruno a Catanzaro, i familiari devono affrontare un viaggio di due giorni, spendono circa 400 euro. Questo rende impossibile, di fatto, usufruire delle quattro visite mensili concesse, penalizzando fortemente la famiglia".

Per ultimo la mozione ha impegnato il Presidente della Regione e gli Assessori competenti perché si facciano carico della situazione di grave allarme per lo stato di degrado in cui versano le carceri sarde e di attivarsi per il superamento di tale emergenza sociale.

Firenze: Sollicciano; mille detenuti emergenza sempre più seria

 

www.nove.firenze.it, 24 settembre 2009

 

"Il carcere di Sollicciano sta raggiungendo le mille presenze. Il Comune faccia quanto è nelle sue possibilità e competenze per porre fine a questa inaccettabile situazione".

Sono le parole di Ornella De Zordo alla vigilia della riunione congiunta delle commissioni IV, VII e II di Palazzo Vecchio, a seguito della mozione presentata dalla capogruppo di perUnaltracittà "per assicurare condizioni di vivibilità ai detenuti nella casa circondariale di Sollicciano". Verranno ascoltati, tra gli altri, anche il Presidente della Fondazione Michelucci Margara e il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze Corleone, che proprio oggi ha annunciato l’ennesimo digiuno per denunciare la situazione.

"A Sollicciano l’emergenza è sempre più seria - ha spiegato De Zordo - la mozione che abbiamo presentato è frutto del lavoro elaborato insieme a numerose associazioni e movimenti che si occupano del problema, e fanno seguito alle recenti iniziative messe in atto in città a sostegno dei detenuti. Si tratta di un atto che chiede l’adozione di diversi provvedimenti, di competenza comunale Sollicciano non può e non deve essere considerato un corpo estraneo nel territorio, soprattutto per quanto riguarda la situazione igienico-sanitaria dei detenuti, l’accesso a misure alternative alla detenzione, il reinserimento sociale".

In particolare la mozione chiede una puntuale azione di verifica delle condizioni igienico sanitarie della struttura, che sia completato il passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale, che si intervenga con decisione sulle politiche di reinserimento dei detenuti (misure alternative, sistemazioni temporanee a fine pena, diritto alla casa), si favorisca l’inserimento lavorativo dei detenuti ammessi al lavoro esterno e il processo di reinserimento degli ex detenuti.

L’atto sollecita anche il potenziamento dell’Ufficio del Garante dei Detenuti e, in generale, la predisposizione di contatti permanenti con gli enti presposti e le associazioni per meglio legare l’istituzione carcere alla realtà del territorio. Per far questo si chiede anche di potenziare in termini di personale e risorse finanziarie l’Ufficio carcere del Comune di Firenze.

Trapani: nel 2010 sarà costruito nuovo padiglione con 200 posti

 

Ansa, 24 settembre 2009

 

Presso la Casa Circondariale di Trapani, nelle aree libere disponibili, sarà realizzato un nuovo padiglione da 200 posti. Lo ha comunicato oggi il Ministro della Giustizia, On. Angelino Alfano, in una nota di risposta alle sollecitazioni del Presidente del Consiglio Provinciale, Peppe Poma, che già nell’aprile scorso e poi anche successivamente aveva formalmente chiesto il diretto intervento del Guardasigilli per cercare di risolvere i problemi causati dal notevole sovraffollamento di detenuti che si registra nel carcere trapanese di San Giuliano dove, peraltro, l’organico della polizia penitenziaria risulta essere carente di almeno 40 unità. Inoltre, rispetto alla capienza totale (400 posti) sono presenti più di 500 detenuti.

La costruzione del nuovo padiglione da 200 posti, fa sapere l’On. Alfano, è stata già inserita nel Piano straordinario per l’edilizia penitenziaria, con previsione di finanziamento nel programma ordinario per l’anno 2010.

Per quanto riguarda, invece, la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterna, per il quale esiste una proposta di finanziamento da parte del Comune di Erice, si è in attesa di ricevere dal Provveditore Regionale di Palermo il parere richiesto dalla competente Direzione Generale delle Risorse Materiali dei Beni e dei Servizi, sullo schema di convenzione trasmesso dal Prefetto di Trapani.

Esprimo la mia soddisfazione - ha dichiarato il Presidente Poma - per la risposta che il Ministro della Giustizia ha voluto farmi pervenire nonostante i mille impegni del suo Ufficio. Si tratta di un segno di sensibilità istituzionale al quale, mi auguro, faccia presto seguito l’annunciata realizzazione del nuovo padiglione che potrebbe risolvere, almeno in parte, i problemi di sovraffollamento del carcere di San Giuliano, mentre l’organico della polizia penitenziaria e degli altri dipendenti risulta purtroppo carente rispetto alle problematiche derivanti dalla gestione di un complesso attualmente composto da tre sezioni maschili (giudiziaria, penale ed ex minorenni), una sezione femminile ed una sezione isolamento.

Caserta: carcere e Opg in condizioni igienico sanitarie precarie

 

www.ecodicaserta.it, 24 settembre 2009

 

"La situazione igienico sanitaria delle carceri campane è al collasso, particolarmente difficile la vita all’interno del carcere Circondariale di Santa Maria Capua Vetere e dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa che ho visitato il 14 agosto scorso".

Secondo Nicola Caputo, vice capogruppo Pd in Consiglio Regionale, "Ci sono gravi carenze igienico sanitarie dovute, alla fatiscenza delle strutture, al sovraffollamento, alla mancanza di acqua per diverse ore al giorno, come nel caso della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, nonché la mancanza di strumenti e misure atti a prevenire il diffondersi di infezioni"

"La cosa che mi sembra più grave, se fosse accertata, è che i detenuti del Carcere di Santa Maria e dell’Opg di Aversa non vengono sottoposti ad esami del sangue per stabilire che non siano portatori di malattie infettive e trasmissibili, al momento del loro ingresso nell’istituto di pena. Manca o è inutilizzabile, nelle due strutture, un laboratorio per le analisi cliniche".

"Nonostante abbia appreso con soddisfazione che, all’Opg di Aversa, dopo la mia visita è stato risolto, l’annoso, problema tecnico alla macchina radiologica che costringeva, detenuti/degenti e personale a costose e complicate traduzioni in strutture esterne all’istituto, rimangono aperte le enormi difficoltà legate alle visite specialistiche (le più frequenti, dermatologia, cardiologia e oculistica). Anche in questo caso con la conseguente traduzione all’esterno della struttura dei ricoverati, impiegando personale e risorse economiche".

"Non è più possibile che degenti, (circa il 25% ad Aversa), rimangano in carcere mentre potrebbero iniziare un processo di reintegrazione sociale. in strutture residenziali, esterne, aperte e sotto l’autorità delle regioni così come previsto dalla legge 180/78".

"È una situazione di grave disagio in cui vive l’intera comunità penitenziaria. - dichiara Caputo - I detenuti, ma anche chi in queste strutture carcerarie lavora, hanno raggiunto il limite della sopportabilità".

"Ho presentato una interrogazione consiliare all’Assessore alla Sanità, Mario Santangelo - annuncia il Consigliere Regionale - su cui ricade la responsabilità sanitaria degli istituti di pena dal1 aprile 2008, per capire se alcune di queste problematiche possano essere risolte".

"Devono essere attivate al più presto gli organismi dell’Assessorato e le altre strutture competenti - conclude Caputo - al fine di predisporre un piano di interventi per permettere a detenuti e al personale penitenziario di vivere e lavorare nel rispetto della dignità umana e in condizioni igienico sanitarie adeguate" .

L’Aquila: protesta Sindacati sul futuro della Giustizia minorile

 

Ansa, 24 settembre 2009

 

Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Pa, segnalano il perdurante stato di incertezza del personale dipendente di tutti gli Uffici della Giustizia Minorile di L’Aquila che non riescono ad oggi ad avere notizie certe riguardanti il destino del proprio Ufficio e quindi l’organizzazione della propria vita.

"Il perpetuarsi delle dichiarazioni che danno per certa l’occupazione - segnalano i sindacati in una nota - da parte dell’Università, del complesso che ospita gli Uffici della Giustizia Minorile, compreso l’istituto penale per i minorenni, e l’assordante silenzio da parte del Ministero e delle Autorità locali sull’eventuale nuova collocazione degli Uffici ivi presenti, destano preoccupazione soprattutto nell’eventualità dello spostamento di questi servizi in altra città. Poiché il 14 aprile avrebbero dovuto avere inizio i lavori di ristrutturazione già appaltati per 2 milioni di euro, inizio slittato per il sisma ma già sollecitato più volte dai competenti servizi del Ministero della Giustizia nei mesi scorsi, chiediamo risposte sul perché tali lavori non sono ad oggi iniziati". "Le OO.SS. - conclude la nota - chiedono alle Autorità politiche ed istituzionali competenti risposte certe sulla permanenza dei servizi della Giustizia Minorile a L’Aquila".

Firenze: a Sollicciano detenuta fa sciopero di fame e della sete

 

Asca, 24 settembre 2009

 

Una donna detenuta nel carcere di Sollicciano a Firenze ha cominciato lo sciopero della fame e della sete. Lo rende noto il capogruppo di Sinistra per Firenze Eros Cruccolini, che ha ricevuto una lettera da parte della donna. Alla base della protesta della donna (40 anni e un figlio minore), spiega Cruccolini, c’è "la mancata assistenza all’interno del penitenziario, successiva a un intervento per un carcinoma alla gola che l’ha resa completamente afona". "Chi è privato della libertà perché ha commesso un reato, non può e non deve essere privato del diritto all’assistenza e alla salute", afferma Cruccolini in una nota.

"Sono costretto - conclude Cruccolini - a rendere pubblica questa lettera e mi farò carico di segnalare questa situazione al Garante dei detenuti con l’auspicio che si possa arrivare a una soluzione in tempi rapidi. Mi sembra tuttavia anacronistico come nel 2009 si debba ricorrere ad azioni come lo sciopero della fame e della sete per ottenere un diritto sacrosanto".

Diritti: in Italia ci sono 17mila homeless, il 60% sono stranieri

di Alberto Giannino

 

www.imgpress.it, 24 settembre 2009

 

In tutta Italia, i senza fissa dimora, sono 17 mila: 5.000 a Milano ( lo scorso inverno ne sono deceduti per freddo ben nove), 2.000 a Torino e poco meno a Napoli, Firenze e Bologna, almeno secondo un rapporto illustrato a Roma e basato su rilevazioni Caritas e sulle cifre riferite dalla Comunità di S. Egidio.

Nella Capitale 4.000 senza tetto dormono per strada ogni notte, 1.000 sono ospiti nei centri di accoglienza notturni del Comune e dei volontari e altri 1000 occupano fabbricati fatiscenti, baracche o altro. In tutto sono 6 mila solo a Roma di cui il 60% sono stranieri, la maggior parte dei quali provenienti dall’Est, dall’Afghanistan e rifugiati. Gli italiani, il 40%, nell’ultimo anno sono stati in lieve aumento.

Tra le persone che si sono rivolte alla mensa romana di via Dandolo gestita dalla Comunità di S. Egidio, aumenta l’età degli italiani, che si attesta intorno ai 44 anni. Invece secondo i dati nazionali il 50% degli homeless italiani dichiara di vivere per strada da più di 4 anni e il 18,7% provengono da situazioni di disgregazione familiare. Oltre il 20% degli senza fissa dimora sono alcolisti, il 15% tossicodipendenti e un altro 15% ha problemi psichici.

Tra costoro vi sono, ovviamente, vagabondi, immigrati ma anche nuove realtà, come quelle delle famiglie penalizzate dalla crisi economica o, semplicemente, disorientate da un divorzio. Negli ultimi anni, con i repentini cambiamenti della società, sono mutate anche le forme di povertà. Gli studiosi ed i giornalisti che seguono più da vicino questi aspetti sociali emergenti hanno anche coniato un sillogismo che li descrive definendoli nuove povertà. In realtà, più che nuove forme di disagio, le povertà sono oggi aspetti di un problema più ampio, quello dell’esclusione sociale.

È meglio impiegare questo termine anziché parlare di nuove povertà, per non dare l’impressione che le vecchie povertà, quelle basate sulla mancanza di reddito, sulla precarietà e l’indigenza, siano scomparse: non è così, non sono sparite affatto, sono sempre tra noi ed hanno sempre le stesse espressioni di un tempo. Tuttavia, la povertà è cambiata nel senso che oggi il rischio di cadere in povertà non è più un qualcosa che proviene dall’esterno, dalle epidemie, dalle carestie, dalle calamità naturali o da un destino iscritto sin dalla nascita nella vita delle persone.

Oggi, questo rischio proviene soprattutto dall’interno; è un rischio autoprodotto, che viene dalla società stessa, dal funzionamento del sistema economico. Sono aumentate le disuguaglianze di reddito, sono cresciuti i lavori precari, sono diminuiti tutti quegli ammortizzatori sociali che mettevano un freno alle degenerazioni sociali, soprattutto però è andata sempre più perdendo il suo ruolo di "protezione e crescita sociale" la famiglia.

Ma chi sono i nuovi poveri? L’esclusione da alcuni servizi sanitari è certamente una forma di povertà, come lo è la solitudine degli anziani che vivono abbandonati nelle proprie case e come lo sono tutte quelle "devianze" che avvengono in famiglie cosiddette normali: disgregamento degli affetti, abbandono scolastico dei figli, le difficoltà di integrazione e convivenza con altre culture, la microusura, l’alcolismo e le altre dipendenze.

Povertà sono anche quelle dei malati di Aids che grazie alle nuove cure hanno allungato la propria speranza di vita, al momento però solo per rimanere emarginati più a lungo. Povertà è anche un sistema carcerario che non riesce a costruire un futuro per i detenuti, e che quando li "rilascia" l’unica cosa che dona loro è un sacco nero per l’immondizia dove mettere i vestiti. Tutte forme di disagio che spesso rimangono nascoste tra le quattro mura, a cui non si pensa perché impegnati nei nostri stili di vita e nella scala di valori che ci siamo dati. Questi mutamenti richiamano noi cristiani a riflettere sul termine di carità. In particolare a soffermarci sul suo significato.

L’impegno della Chiesa in questi anni, secondo l’ex Direttore della Caritas di Roma, mons. Di Tora, è stato anzitutto rivolto a purificare il significato di carità, invitando la comunità a viverlo come basilare valore del cristianesimo e come quotidianità nella vita dei credenti. Dire carità vuol dire Dio e Dio, sappiamo che, nella concezione cristiana, è comunità di persone uguali e distinte: uguali nella distinzione.

Ancora oggi invece, nelle comunità cristiane, la carità è interpretata in termini di assistenza, devitalizzando l’originario significato che riveste e che costituirebbe un fondamentale lievito per quanti si impegnano per la giustizia e per l’uguaglianza.

Il concetto di carità, in particolare nella sua accezione che richiama ad uno stile di vita solidale, rappresenta certamente un grande valore della storia del cristianesimo ma, soprattutto, costituisce per il futuro il fondamento della società chiamata a confrontarsi con i problemi legati alle diversità. Ecco allora l’impegno a cui sono chiamati tutti i cristiani e per cui le Confraternite, organizzazioni che nella storia della Chiesa sono tradizione di carità, devono essere guida ed esempio: affrontare il problema della diversità - diversità di ogni genere, a livello sociale, economico, culturale, religioso, razziale - considerandole come occasione di solidarietà e condivisione.

Sono molti gli ambiti in cui concretamente si può intervenire. Organizzazioni radicate nel territorio, a volte in singoli quartieri delle città, come molte Confraternite, hanno la possibilità di sviluppare quelle forme di volontariato "porta a porta". Gli anziani soli, l’assistenza domiciliare ai malati che non possono spostarsi dall’abitazione (malati oncologici, malati terminali di Aids), il sostegno ai familiari di persone disabili, malate psichiche. Altri ambiti di intervento possono essere le forme di sostegno alle famiglie.

Opere di sostegno ai nuclei in difficoltà economiche, di rapporti, di alloggio, per aiutare a preservare la Famiglia, istituzione della società. Tutte situazioni in cui, oltre ad una formazione specifica al volontariato, occorre - secondo mons. Di Tora - la capacità evangelica di saper discernere i bisogni dei più poveri alla luce di quella che Giovanni Paolo II chiamava nella Novo Millennio Ineunte la "fantasia della carità".

Il compito primario degli organismi che lavorano nel sociale però, è molto più ampio della pura e semplice risposta diretta alle povertà con aiuti materiali. Siamo chiamati infatti ad educare alla carità. Come cristiani inoltre siamo chiamati a spronare la comunità ad un salto epocale: il passaggio dalla carità fatta con animo superficiale ad una carità solidale, che coinvolga in prima persona le persone e le istituzioni, che oltre ad aiuto materiale sia anche condivisione.

"Nella preghiera eucaristica - diceva il Vescovo di Molfetta mons. Tonino Bello (morto nel 1993) - ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell’uso corrente, come ad esempio l’espressione "nuove povertà". La frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli...".

Essa ci suggerisce tre cose diceva mons. Bello. Anzitutto che, a fare problema, più che le "nuove povertà", sono gli "occhi nuovi" che ci mancano. Molte povertà sono "provocate" proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle Diottrie. Resi strabici dall’egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che "rende" in termini di produttività.

Sono così vittime di quel male oscuro dell’accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell’interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità - secondo mons. Tonino Bello - di implorare "occhi nuovi".

Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all’improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d’attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre. Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa diceva don Tonino. Oltre alle miserie nuove "provocate" dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono "tollerate".

Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch’esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia.

Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l’uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi.

Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione. E, infine, concludeva don Tonino, ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono "rimosse". Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare.

La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: "Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di "aggredirle". Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l’olocausto dei valori ambientali, sull’altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari. Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra.

I popoli della fame uccisi dai detentori dell’opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi.

Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott’acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema.

Occorre chiedere "occhi nuovi". "Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore".

A 16 anni di distanza dalla sua morte vogliamo ricordare cosi, mons. Tonino Bello, vescovo degli ultimi e dei sofferenti con la sua preghiera originale e speciale che, ancora oggi, ci deve far riflettere seriamente sul problema dei senza fissa dimora.

Immigrazione: Prefettura chiude 3 Centri per richiedenti asilo

 

Lettera alla Redazione, 24 settembre 2009

 

Sono un operatore sociale di un Centro di accoglienza per rifugiati richiedenti asilo politico che lavora in un centro di accoglienza di Roma. Nei giorni scorsi la Prefettura ha ordinato la chiusura di tre Centri, il 30 settembre ha ordinato la chiusura del nostro centro.

Tengo a precisare che i centri nulla hanno a che vedere con i Cie, ma sono gestiti da cooperative che hanno il massimo rispetto degli immigrati. Venerdì prossimo abbiamo organizzato una manifestazione davanti la Prefettura, sia per protestare contro la messa in strada degli stranieri che sono fuggiti da guerre assurde e sono in attesa dello status di rifugiati politici, sia per protestare contro l’improvviso licenziamento di numerosi operatori sociali che già erano precari con contratti a progetto rinnovabili ogni tre mesi e sotto pagati e che ora si ritroveranno disoccupati senza alcuna possibilità di inserimento in altri centri per il totale disinteresse del Governo che ha varato la legge sui clandestini e sui respingimenti.

Gli immigrati che ospitiamo non delinquono né sono venuti in Itali per turismo ma costretti dalla sopravvivenza e la risposta del Governo è la cacciata in massa per poi arrestarli se trovati senza documenti. Tutto ciò accade nel totale disinteresse della stampa e della tv.

 

Lettera firmata

Iraq: in 13 evadono da finestra del bagno nel carcere di Tikrit

 

Adnkronos, 24 settembre 2009

 

Tredici detenuti, tra i quali alcuni condannati per terrorismo, sono evasi dal carcere di Tikrit, a circa 170 chilometri a nord di Baghdad, attraverso una finestrella del bagno. Lo hanno riferito le forze della sicurezza irachene, precisando che quattro evasi erano stati condannati a morte per collegamenti con al Qaeda. Nella caccia all’uomo per ritrovare i detenuti in fuga i poliziotti ne hanno ricatturato soltanto uno. Dopo l’evasione è stato imposto il coprifuoco a Tikrit e un alto funzionario dell’antiterrorismo della polizia provinciale di Salah al-Din è stato rimosso dall’incarico.

 

 

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