Rassegna stampa 30 ottobre

 

Giustizia: 65mila detenuti e in media un morto ogni due giorni

 

Redattore Sociale - Dire, 30 ottobre 2009

 

Sono 65 mila i detenuti attualmente reclusi nelle carceri italiane, 20 mila in più rispetto al numero effettivo dei posti disponibili, circa 43 mila. Ogni due giorni muore un detenuto e il 2009 è l’anno nero per i suicidi: dopo il 2001 e il 1993, gli anni nei quali si è registrato il maggior numero di suicidi il 2009, ad oggi, ha già visto 56 suicidi, con una percentuale dell’11,79% rispetto alla intera popolazione carceraria. Sono questi i dati principali che emergono del convegno in corso alla Camera dei deputati sulla situazione delle carceri italiane "Sovraffollamento carcerario: Le Alternative possibili" organizzato dalla Conferenza nazionale del volontariato giustizia. Presenti alla mattinata di confronto Elisabetta Laganà, presidente del Cnvg, Patrizio Gonnella, presidente Antigone, Paolo Beni, responsabile nazionale Arci, don Andrea La Regina della Caritas Italiana e Mauro Cavicchioli della comunità Papa Giovanni XXIII. Ospite della mattinata anche il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

La richiesta dagli addetti ai lavori è chiara e univoca: è necessario un confronto serio con il Governo e un dialogo sul tema della sicurezza. "Abbiamo chiesto un confronto con le istituzioni - spiega Laganà - ma non c’è mai stato. Ci siamo allora confrontati con gli enti locali e l’Anci, quali protagonisti attivi della realtà delle carceri e hanno risposto tempestivamente, chiedendo anch’essi un confronto con il Governo. Niente da fare". Le cose da dire al Governo però sono tante: "Le misure alternative alla detenzione sono molte - sottolinea ancora il presidente del Cvng - ma negli ultimi tre anni c’è stata una flessione nella scelta di questo tipo di soluzione". Rispetto al 2004 in cui più di 50 mila persone hanno beneficiato di misure alternative al 2008 erano solo 9 mila le persone che scontavano la loro pena fuori dal carcere". E il trend è in discesa: il 2009 conferma i numeri dello scorso anno e promette un numero ancora più esiguo di misure alternative. "Questo vuol dire - spiga Gonnella - che le carceri scoppiano e certo la soluzione non è costruirne di nuove: se pensiamo che al mese entrano in cella tra le 800 e le mille persone anche pensando ottimisticamente che le nuove strutture siano costruite in 10 anni l’esubero di detenuti attuale e quello che si creerà nei prossimi anni non verrà mai riassorbito".

Ma il luogo comune che viene ripetuto è "più carcere più sicurezza". Sull’assioma si scagliano tutte le associazioni di settore. "È dimostrato che le misure alternative danno molte meno recidive della detenzione in carcere - sottolinea Beni dell’Arci - ma il problema è che il sentire comune è orientato in questo senso. Bisognerebbe fare capire all’opinione pubblica che il reinserimento i fare comunità sono le reali condizioni per diminuire la pericolosità sociale, che aumenta esponenzialmente con la detenzione nelle carceri". Inoltre il luogo della detenzione "è completamente privo della garanzia dei diritti fondamentali della persona - spiega La Regina - anzi, le prigioni diventano spesso teatro di nuovi delitti".

Giustizia: Scalfaro; governo deve ascoltare "esperti di carcere"

 

Redattore Sociale - Dire, 30 ottobre 2009

 

La solidarietà al volontariato: "Vi ringraziamo perché volete affrontare e prendervi carico seriamente di questo problema". E sui bambini 0 - 3 anni detenuti al seguito delle madri aggiunge: "È un delitto enorme".

Un governo che non vuole ascoltare gli specializzati del settore carcerario "è un Governo che non ha capito niente, e non solo di carceri". Con queste parole il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro commenta la denuncia delle associazioni e delle realtà che a vario titolo si occupano della galassia del carcere di non essere state ascoltate dalle istituzioni, pur avendo chiesto a più riprese un confronto.

Scalfaro, intervenuto questa mattina alla Camera dei deputati al convegno "Sovraffollamento carcerario: Le Alternative possibili" ha dimostrato la massima solidarietà alla Conferenza nazionale del volontariato Giustizia, che ha organizzato la tavola rotonda e ai diversi rappresentanti del mondo del volontariato in carcere, da quello

cattolico con don Andrea La Regina della Caritas Italiana e Mauro Cavicchioli della comunità Papa Giovanni XXIII a quello laico dell’Arci con Paolo Beni, responsabile nazionale Arci e Patrizio

Gonnella di Antigone. "Vi ringraziamo perché volete affrontare e prendervi carico seriamente di questo problema, massima solidarietà da parte mia con il mondo del volontariato, guardiamo - continua Scalfaro - quante altre cose ci sono da fare mentre si costruiscono le nuove carceri". Le nuove carceri, che saranno costruite con i fondi della Cassa Ammende, tradizionalmente investiti nell’investimento sulle misure alternative, non sono neanche per l’ex presidente della Repubblica la soluzione giusta per il sovraffollamento carcerario: "I magistrati - e parlo da ex magistrato che è rimasto tale nell’anima - non possono occuparsi degli imputati come se fossero numeri: davanti - afferma Scalfaro - abbiamo persone e ci sarà pure un motivo se ad

occuparsi dei loro casi sono uomini e non macchine". Il presidente emerito della Repubblica puntualizza anche un’altra piaga grave che si crea con il sovraffollamento delle carceri: la presenza di bambini dai zero ai tre anni detenuti al seguito delle madri. "Questo è un delitto enorme - spiega Scalfaro - perché accanto al diritto dei bambini di stare con le proprie madri c’è quello che in una fase così delicata come quella della formazione della prima infanzia di un bambino questo sia costretto a vivere e assorbire il clima di un certo tipo di comunità".

Per dare voce al carcere, da sempre muto, accanto all’intervento del presidente emerito della Repubblica ha parlato un ex detenuto, ora operatore di un centro di rieducazione della comunità Papa Giovanni XXIII: "Il carcere è una vera e propria scuola per delinquere. Le persone quando escono non hanno nulla - racconta l’uomo, detenuto in carcere per 20 anni - né famiglia, né casa, né moglie né figli. La strada è una sola, quella di continuare a delinquere, per rabbia e perché non ci sono alternative". Ma per lui un’alternativa c’è stata: "Ho incontrato la comunità Papa Giovanni XXIII e mi ha dato fiducia, ora mi sembra un miracolo - conclude - faccio un lavoro normale e sono rientrato nella società".

Giustizia: sulla morte di Stefano Cucchi... commenti e polemiche

 

Ristretti Orizzonti, 30 ottobre 2009

 

Potevo salvare il carcerato massacrato (Il Giornale)

 

Stefano Cucchi, carcerato. Torturato, morto a 31 anni. Stefano Cucchi. Questo nome ce l’ho stampato nella mente da un po’, ma soprattutto ho in mente la faccia di sua mamma che lo ha perso e non ha potuto stargli vicino nel momento estremo. Neanche un prete ha avuto. Ora il volto di lei è duro. Piange il papà, piange la sorella di Stefano, ma lei è come rigida, forse non si rende ancora conto. Di tutto questo ho la necessità di scrivere. Non c’entrano però le storie pietose di madri che mostrano le foto di figli morti. C’entra un mio privato rimorso, ma anche il dovere che abbiamo tutti di aiutare lo Stato a combattere il crimine, a punire i colpevoli dovunque si annidino. Ma anche a impedire in futuro che ci sia qualcosa che oso chiamare pestaggio, pena di morte preterintenzionale, colposa, volontaria, non so. O se l’evidenza di quanto ho veduto e di cui è stata resa testimonianza è ingannevole, allora si dissipi il sospetto. Si mostri come non ci sia stato il tentativo di nascondere, occultare. Ho visto le foto di questo Stefano Cucchi, morto, uno scheletro con la pelle gonfia di botte. Occhio fuori dalle orbite, segni di mascella spezzata. E ho deciso di fornire anche la mia di testimonianza.

La storia è questa.

Il 16 ottobre, venerdì, Stefano Cucchi, peso 45 chilogrammi, epilettico, arriva a casa sua all’una e mezzo di notte, scortato dai carabinieri. Lo hanno trovato con ventotto grammi di hashish, e qualche grammo di cocaina, più farmaci antiepilettici, scambiati per ecstasy. Arrestato. Perquisizione. Non si trova nulla. I genitori lo vedono. È lui, magro, magrissimo, ma in salute. Viene annunciato per l’indomani il processo per direttissima. I genitori lo vedono con il volto tumefatto. Custodia cautelare in carcere in attesa della prossima udienza il 13 novembre. Da quel momento sparisce alla vista dei suoi cari. Si apprende che viene visitato dai medici di Palazzo di Giustizia, gli riscontrano ecchimosi alle palpebre, Cucchi dichiara di aver subito lesioni all’osso sacro, i medici non vanno a fondo. I carabinieri lo trasferiscono a Regina Coeli. Qui all’ufficio matricola si spaventano, tanto è conciato, lo mandano subito al Fatebenefratelli per esami. Lo riportano a Regina Coeli, lì capiscono che è rotto, scassato, di nuovo al Fatebenefratelli, poi di lì al reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, sempre a Roma. Siamo solo a sabato, ore 14, e Stefano è in quella cameretta al Sandro Pertini.

I genitori cercano di visitarlo, burocrazie varie, impediscono persino possano parlare con i medici. Non dico vederlo, tenergli la mano, ma sapere come sta. Una volta li tengono nel vestibolo. Quando tornano almeno per sapere, li lasciano in piedi davanti al citofono. Ovvio: è un carcere. Ma siamo anche uomini, persino da detenuti.

Li chiamano giovedì sera. I medici del reparto carcerario del Pertini dicono: "morte naturale". L’agenzia di pompe funebri fotografa quel cadavere ricucito dopo l’autopsia, mai visto nulla di simile, sembra che sia stato calpestato da una mandria di bufali. Luigi Manconi di "A buon diritto" le ha diffuse con discrezione, con il vincolo di non pubblicarle. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha risposto con immediatezza all’interrogazione parlamentare, garantendo un’indagine accurata e penetrante.

Perché il rimorso? Perché che cosa sia il reparto carcerario Pertini lo sapevo bene, l’ho visitato due volte, inorridendo. Ho preferito non fare scandali pubblici, evitare pubblicità, scrivendo al direttore degli istituti di pena, Franco Ionta, un magistrato valoroso, e per conoscenza anche al ministro. Noi deputati abbiamo questo privilegio: possiamo entrare gratis oltre che negli stadi anche nelle prigioni, senza bisogno di prenotazione.

Ecco qualche stralcio della mia lettera "in alto".

"Mercoledì 2 settembre mi sono recato nella palazzina (mi scusi per l’imprecisione dei termini) sita nel complesso dell’Ospedale Pertini di Roma e dedicata ai detenuti. Ho incontrato i vari detenuti e il Primario Professor Fierro. Nei quattro anni da che questa struttura è stata aperta, costituendo credo un unicum in Europa, mi è stato detto che io sono il secondo deputato che ci accede in visita ispettiva, ed il primo che abbia girato le varie stanze/celle.

L’igiene, quasi il lindore, di questa casa di pena testimonia una grande cura e l’umanità degli agenti, dei medici e del personale sanitario preposto. Ma questa struttura è certamente peggiore del peggior carcere. Tutto è stato disegnato e regolamentato non in vista della cura dei pazienti, ma esclusivamente per la sicurezza. Il risultato paradossale è che in queste celle sono ristretti detenuti per i quali i medici hanno stabilito l’incompatibilità con la situazione carceraria per finire in una galera al quadrato, senza neanche quel minimo di respiro e di movimento che persino la prigione più dura consente.

Ho in mente in particolare il caso di X.Y., che in quell’ambiente ha visto decadere ulteriormente le sue condizioni psicofisiche, fino al concreto rischio di accadimenti invalidanti. Tutto questo le comunico, e per conoscenza rendo noto all’autorità politica, perché si ponga uno sguardo su queste situazioni che aggiungono pene in contrasto alla Costituzione, tanto più contro chi è in questo momento presunto innocente".

Mi chiedo: se avessi scritto un articolo, alzato la voce in Parlamento magari Cucchi sarebbe stato curato al meglio, lo avrebbero potuto vedere i parenti. Invece niente. Ha chiesto una bibbia, il prete non gliel’hanno dato. Ma un po’ di giustizia se la merita. Anche se era stato un drogato e alla fine pesava 37 chilogrammi.

Lo so. Non è bello guardare dentro le carceri. Fare l’esame di come sono trattati i detenuti. Specie se sei di centro - destra rischi di essere guardato come l’amico del giaguaro, l’utile idiota eccetera. Stefano Cucchi però mi riguarda, come riguarda chiunque ami le persone e desideri uno Stato forte e giusto.

 

Altre foto, altro choc: come è morto Stefano? Secolo d’Italia)

 

Non solo Napoli, non solo le esecuzioni di camorra. Il tema della legalità incrocia in queste ore anche un altro caso sconcertante, che evoca pratiche e omertà molto lontane da quelle di uno Stato di diritto. Un po’ Sud America, un po’ Fuga di mezzanotte. La vicenda è quella di Stefano Cucchi, trentenne romano arrestato all’alba di venerdì 16 ottobre e restituito alla famiglia giovedì 22, morto, il corpo pieno di ecchimosi e fratture. Se ne è parlato ieri in Senato grazie a un’iniziativa di Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon diritto" che ha organizzato una conferenza stampa per dare voce ai famigliari della vittima, alla sorella Ilaria, al papà Giovanni e all’avvocato Fabio Anselmo. Nella cartella stampa, le foto - raccapriccianti, impubblicabili - del corpo di Stefano, gli occhi neri, i lineamenti gonfi, la mascella probabilmente rotta, la schiena massacrata. Il "film" raccontato con gli occhi lucidi da Ilaria a Palazzo Madama ha dell’incredibile. Stefano arriva a casa, nella zona della Casilina, nella notte tra giovedì e venerdì, accompagnato da due carabinieri in borghese. Lo hanno fermato poco prima, gli hanno trovato in tasca venti grammi di marjuana, una dose di cocaina e due pasticche. Cercano altra droga, probabilmente lo sospettano di spaccio. Lui sta bene, rassicura la mamma. "Tranquilla, tanto non trovano nulla". E nulla viene trovato, ma Stefano viene comunque portato via in vista del processo per direttissima, fissato per venerdì alle ore 9. Quando arriva in aula è già un’altra persona. Si dichiara colpevole di detenzione di droga "in quanto consumatore", viene rinviato a giudizio ma sta così male che il giudice lo spedisce all’ambulatorio del Palazzo di Giustizia. Il referto conferma problemi gravi alla schiena e alle gambe e il giudizio - generico ma inequivocabile - è confermato poche ore dopo dall’infermeria di Regina Coeli che manda Stefano Cucchi al Fatebenefratelli per fare radiografie alla schiena e alla testa: esce fuori la frattura di due vertebre, ma Stefano viene riportato a Regina Coeli. Sabato mattina nuova corsa al Fatebenefratelli, e poi al Pertini. Il detenuto sta male, finalmente alle nove di sera qualcuno pensa di avvertire la famiglia che si precipita al "padiglione detenuti" del grande ospedale romano e trova un piantone irremovibile: "Niente visite, tornate lunedì. E comunque non preoccupatevi, non è niente di grave". La storia si ripete lunedì, poi martedì. E il giorno dopo, mercoledì, il padre di Stefano ottiene finalmente un regolare permesso di colloquio dal tribunale di Roma, ma va controfirmato da un ufficio di Regina Coeli che chiude alle 12.45. Il tempo non basta, tutto rinviato a giovedì. Ma giovedì mattina, alle 6.20, Stefano muore. Di "morte naturale", scrive il medico di turno. Cucchi è un giovane provato da una vita da tossicodipendente. Pesa appena quaranta chili, difficilmente si può pensare a un suo atteggiamento aggressivo, e tantomeno che si siano dovute usare "le cattive" per tenerlo a bada: pure un ragazzino, probabilmente, avrebbe potuto immobilizzarlo senza danni. Anche per questo i genitori restano allibiti quando vedono il corpo all’obitorio. Per giorni, in ospedale, medici e piantoni li hanno rassicurati giurando che non era grave, e ora la menzogna risulta in tutta la sua evidenza: Stefano ha la faccia completamente tumefatta, gonfia, un occhio rientrato nell’orbita, la mascella fuori posto, i denti spezzati, lividi e lesioni su tutto il corpo. Uno choc e troppe domande senza risposta. Che restano tali anche dopo un’interrogazione dei Radicali, cui il ministri Alfano ha risposto promettendo accurate indagini. Ieri, a sollecitarle con più forza - perché i fatti sono chiari e non sembra necessario troppo tempo e fatica per tirare fuori la verità - sono stati insieme a Luigi Manconi anche molti parlamentari di tutti gli schieramenti politici, fra cui Emma Bonino, Rita Bernardini Melania Rizzoli, Flavia Perina, Renato Farina, Giancarlo Lehner, Livia Turco, Gaetano Pecorella, Andrea Sarubbi, Elisabetta Zamparutti. Uno Stato di diritto deve avere il coraggio di chiarire, individuare le responsabilità, sanzionare, e deve farlo in fretta perché è dentro il suo perimetro che hanno agito tutti i soggetti - carabinieri, agenti carcerari, piantoni, medici, infermieri - responsabili del destino di Stefano in quei micidiali quattro giorni. Perché l’Italia non è il Sud America, e nemmeno la Turchia di "Fuga di mezzanotte", e dovrebbe essere capace di dimostrarlo. Perché la qualità di una democrazia si misura dal livello di giustizia garantito ai più deboli, anche se troppo spesso la politica finge di dimenticarsene.

 

Chi l’ha ridotto così? (Gli Altri)

 

Verità e giustizia. È questo e nulla più quello che chiedono i familiari di Stefano Cucchi, il 31 enne morto all’alba del 23 ottobre scorso nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma, dove era stato ricoverato sei giorni prima in circostanze ancora da chiarire. L’unica certezza sono le gravi lesioni e i traumi sul corpo del giovane, che emergono con drammatica eloquenza dalle foto scattate dall’agenzia funebre, rese pubbliche ieri dalla famiglia Cucchi e dall’avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso di Federico Aldrovandi) in una conferenza stampa tenuta con le associazioni A buon Diritto e Antigone, che nei giorni corsi avevano sollevato il caso. "Una scelta delicata e sofferta", ha spiegato Luigi Manconi, presidente di A buon Diritto, perché quelle immagini scioccanti "parlano da sole e sono una rappresentazione efficace del calvario patito da Stefano". Il padre lo descrive come "ragazzo pieno di vita e di aspirazioni", aveva iniziato con entusiasmo la professione di geometra, "in cui riponeva tante aspettative", "come tanti giovani era incappato nel problema della droga, ma era entrato spontaneamente in comunità uscendone dopo tre anni con successo, conscio dei pericoli sempre incombenti per chi ha subito esperienze di questo tipo". Il travaglio del giovane inizia la notte tra il 15 e 16 ottobre, quando intorno alle ore 23.30 viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti, perché trovato in possesso di 20 grammi di stupefacenti, tra marijuana, cocaina e due pasticche ("ecstasy" secondo indiscrezioni filtrate da ambienti delle forze dell’ordine, ma che il padre Giovanni e la sorella Ilaria spiegheranno essere "Rivotril", un farmaco salvavita contro l’epilessia, regolarmente prescritto). Poca roba, insomma, come - secondo la ricostruzione dei familiari - gli stessi carabinieri ammettono per tranquillizzare i genitori, mentre perquisiscono la stanza di Stefano senza trovare nulla. Quando Stefano esce di casa, intorno all’una e trenta del mattino, è in buona salute e cammina sulle proprie gambe, eppure non vi farà più ritorno. Il mattino seguente, al processo per direttissima, il padre nota che il suo volto è molto gonfio, "in netto contrasto con la sua magrezza" (al momento dell’arresto Stefano pesa 43 chili), e presenta evidenti lividi intorno agli occhi. Dopo la sentenza di rinvio Stefano Cucchi viene visitato per bene tre volte. Prima presso l’ambulatorio del palazzo di Giustizia, dove gli vengono riscontrate "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente", poi al carcere di Regina Coeli, dove i carabinieri lo affidano alla custodia della Polizia penitenziaria. Qui la visita medica evidenzia la presenza di "ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione". Infine viene trasportato, per ulteriori controlli, all’ospedale Fatebenefratelli dove gli viene diagnosticata "la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea". Il giorno dopo, sabato 17, in seguito a una nuova visita medica in carcere, viene disposto il trasferimento di Stefano prima al Fatebenefratelli, poi al Sandro Pertini, intorno alle 13. La famiglia però viene avvisata del ricovero solo in serata. Qui inizia la via Crucis del papà Giovanni, della mamma Rita e della sorella Ilaria, che da questo momento in poi saranno rimbalzati da un’autorità all’altra, alla ricerca disperata di informazioni sulle condizioni del ragazzo. Per tre giorni alla famiglia viene impedito sia di vedere Stefano che di parlare con i medici, perché per le visite e i colloqui in un reparto detentivo è necessaria l’autorizzazione del carcere.

Tuttavia una sovrintendente dell’ospedale li rassicura: "Il ragazzo sta tranquillo" e li invita a tornare l’indomani quando l’autorizzazione sarebbe sicuramente arrivata. Solo martedì 20 ottobre, davanti all’ennesima porta chiusa, il piantone spiega ai familiari di Stefano che sono loro a dover chiedere il permesso per il colloquio al Giudice del Tribunale a Piazzale Clodio e, una volta ottenuto, devono farlo vistare a Regina Coeli. La trafila è lunga e mentre Giovanni Cucchi è sul punto di portarla a termine, Stefano muore. Sono le 6.20 di mercoledì 23: "presunta morte naturale", si legge nella certificazione medica.

La madre viene a sapere della morte quando un carabiniere le notifica a casa l’autorizzazione del pm alla nomina di un consulente di parte. All’obitorio i genitori si trovano davanti a un volto irriconoscibile: "devastato, quasi completamente tumefatto, l’occhio destro rientrato a fondo nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella destra con un solco verticale, a segnalare una frattura, la dentatura rovinata". Stefano, faranno sapere, adesso pesa 37 chili. "Perché al momento dell’arresto non è stato chiamato il suo avvocato di fiducia? Com’è stato possibile che Stefano abbia subito le lesioni? Chi e quando gliel’ha prodotte? Perché non è stato consentito il colloquio con i medici? Perché è stata consentita, in sei giorni di ricovero una tale debilitazione fisica?", questa alcuni degli interrogativi che, con la voce rotta dalla commozione, Giovanni Cucchi ha rivolto alle strutture carcerarie e ospedaliere, chiedendo chiarezza sulle circostanze del decesso anche il ministro della Difesa La Russa: "Mio figlio in quei momenti era sotto la tutela dello Stato e dunque questa vicenda non può passare sotto silenzio. E dato che è stato preso in consegna dai carabinieri chiediamo chiarezza al ministro della Difesa, Ignazio La Russa".

Durante il question time di mercoledì il ministro della Giustizia Alfano aveva dichiarato di aver disposto accertamenti sulla morte del giovane, affermando tra l’altro che il medico di Regina Coeli avrebbe "dato atto di quanto riferito dal detenuto, cioè di una caduta accidentale dalle scale". Indagini sono state avviate dalla Procura della Repubblica, alla quale il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha annunciato un esposto. Il direttore del Dap Franco Tonta ha fatto sapere che, quando possibile, aprirà anche un’inchiesta amministrativa. Un’inchiesta è stata inoltre annunciata dall’assessore regionale al Bilancio Luigi Nieri "per verificare eventuali responsabilità dei medici del reparto detentivo dell’ospedale Pertini".

L’avvocato Anselmo per ora esclude una propria denuncia: "l’atto di morte è stato acquisito dal pm - ha spiegato - per cui non abbiamo in mano nulla, se non le foto scattate dall’agenzia funebre e un appunto del medico legale. Non sono stati riscontrati traumi lesivi, a quanto appare, che possono averne causato la morte. Si parla di ecchimosi ed escoriazioni e sangue nella vescica, per cui è difficile sapere quando e soprattutto come è morto". Sul caso sono già state presentate diverse interrogazioni in ambo in rami del Parlamento: l’impegno è bipartisan come dimostrato dai numerosi parlamentari che ieri sono intervenuti alla conferenza stampa, tra cui le radicali elette nel Pd Bonino e Rita Bernardini, i democratici Casson e Della Seta, Farina e Perina del Pdl. In gioco, hanno avvertito Emma Bonino e Flavia Perina, c’è il principio di legalità e la credibilità delle istituzioni, perché "non è uno stato di diritto quello in cui un uomo entra in carcere sulle proprie gambe e ne esce cadavere".

 

Così è morto Stefano Cucchi (Il Fatto Quotidiano)

 

La famiglia ha deciso di far sapere com’è adesso loro figlio. Ieri, durante una conferenza stampa al Senato, i genitori e la sorella di Stefano Cucchi hanno consegnato ai giornalisti le fotografie del corpo del giovane di 31 anni, fermato il 15 ottobre scorso per droga al Parco degli Acquedotti di Roma, e morto all’ospedale Sandro Pertini il 22 dopo essere passato per gli ambulatori del Tribunale, del carcere di Regina Coeli e dell’ospedale Fatebenefratelli senza avere mai la possibilità di essere visitato dai parenti.

La famiglia è sconvolta, di un dolore silenzioso ma riconoscibile negli occhi sempre pieni di lacrime. Ripercorrono il trauma nello sguardo di chi sfoglia le fotografie del corpo scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Immagini "drammaticamente eloquenti", come le ha definite Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto" e promotore dell’iniziativa: "Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo e danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano. La famiglia ha riflettuto molto se distribuirle, perché oltre ad essere scioccanti fanno parte della sfera intima". Le foto mostrano il corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo è passato a 37), con il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Raccontano che Stefano aveva avuto problemi di droga, era stato in comunità e quando ne era uscito stava meglio. Di sicuro non si meritava di morire perché tossicodipendente, anzi, avrebbero dovuto aiutarlo.

I legali ricostruiscono l’accaduto in una memoria: giovedì 15 ottobre Stefano Cucchi viene fermato alle 23.30 dai carabinieri nel Parco degli Acquedotti di Roma. All’ 1.30 di notte del 16 ottobre si presentano, insieme al ragazzo, in via Ciro Urbino, dove risiede con la famiglia. Due uomini in borghese e due in divisa perquisiscono la stanza di Stefano. Il ragazzo rassicura la madre, dicendole che non troveranno nulla. In effetti escono senza niente dicendo alla signora Cucchi che il figlio era stato fermato "con poca roba addosso" (20 grammi di marijuana, poca cocaina e due pasticche che le forze dell’ordine hanno definito "di ecstasy", secondo il padre "di Rivotril", farmaco salvavita contro l’epilessia prescrittogli dal medico). Nella memoria si legge che i carabinieri lo portano via e comunicano alla famiglia che alle 9 si sarebbe svolto il processo per direttissima nel tribunale di piazzale Clodio. Alle 12 Stefano arriva in aula col volto gonfio e lividi vistosi intorno agli occhi. Alle 14 viene visitato presso l’ambulatorio di palazzo di Giustizia dove riscontrano "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore, bilateralmente" e dove il ragazzo dichiara "lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori". Viene trasferito al carcere di Regina Coeli - si legge ancora nella ricostruzione - e affidato alla polizia penitenziaria. La visita medica in carcere rileva "ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione". Viene quindi portato all’ospedale Fatebenefratelli per accertamenti. Diagnosticano "la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea". Sabato 17 ottobre viene riportato al Fatebenefratelli e poi trasferito al reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini intorno alle 13.15. La famiglia viene avvisata del ricovero alle ore 21, si reca subito nella struttura ma vengono avvisati di non poter entrare "perché questo è un carcere, non sono ammesse visite". All’ingresso li invitano a ripresentarsi lunedì successivo per parlare con i medici. Due giorni dopo, però, quando la famiglia ritorna viene allontanata "perché non è ancora arrivata l’autorizzazione del carcere". Martedì si presentano di nuovo per parlare con i medici e scoprono che per un colloquio occorre "il permesso del giudice del tribunale di sorveglianza". Il giorno successivo il padre riesce ad ottenere il permesso ma manca ancora il visto. Giovedì 22 ottobre Stefano muore alle 6.20 di mattina. La certificazione medica parla di "presunta morte naturale". La madre viene informata mentre il padre è a Regina Coeli a chiedere il visto per una visita. Quando riusciranno a vederlo ciò che gli si presenterà è raccontato dalle foto.

Al momento è stata aperta un’inchiesta d’ufficio. Il legale della famiglia, Fabio Anselmo, (già avvocato del caso Aldovrandi) spiega che "l’atto di morte è stato acquisito dal Pm, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale". L’avvocato, poi, precisa molte volte che "noi non accusiamo nessuno. Non c’è nessuna denuncia. Chiediamo di non leggere le notizie sui giornali ma di essere informati come parte offesa e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano, invece di indagare solo sull’ultima settimana della sua vita". Il prossimo passo sarà la costituzione di un pool di medici esperti in grado di "vagliare criticamente il poco materiale che abbiamo".

Anche il Parlamento si è mobilitato. All’iniziativa di ieri hanno aderito politici di tutti gli schieramenti: I radicali Rita Bernardini, Emma Bonino e Marco Perduca, Gianrico Carofiglio, Felice Casson e Livia Turco del Pd Flavia Perina, Renato Farina, Gaetano Pecorella del Pdl e molti altri. "Cose di questo genere - ha detto Penna - succedono nel far west e non in uno Stato di diritto". Secondo Bonino, "è in gioco la credibilità delle istituzioni. Lo Stato deve rispondere all’opinione pubblica". Farina, che ha visitato il nosocomio, ha riferito infine di "una struttura peggio del carcere". E ha ricordato ai familiari di chi vivesse storie simili di provare sempre a contattare i parlamentari perché sono gli unici che possono entrare in carcere e ottenere informazioni senza bisogno di protocolli.

 

S. Cucchi, 31 anni (Il Foglio)

 

Dopo sette giorni tra caserma, carcere e ospedali, muore. Senza spiegazioni. Le immagini Roma. Se un ragazzo entra in carcere con le sue gambe e ne esce morto dopo sei giorni, lo stato deve spiegare. Questo è forse il massimo che un parente emotivamente provato possa chiedere a qualche ora dalla scomparsa di un suo caro, e allo stesso tempo il minimo che i cittadini di un paese democratico devono pretendere. Spiegazioni e assunzione di responsabilità: è quanto esige la scarna cronaca degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, 31 anni, deceduto nella notte tra il 22 e il 23 ottobre all’ospedale Pertini di Roma, 15 ottobre, tarda serata: Stefano è arrestato dai carabinieri per il possesso di 20 grammi di stupefacenti (marijuana e cocaina).

"Così inizia quella che non esito a definire una vera e propria via crucis per lui e per i genitori", spiega al Foglio Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia. Una via crucis che si conclude pochi giorni dopo sul tavolo di un obitorio. Torniamo al 15 ottobre. Stefano, dopo essere stato fermato, è accompagnato a casa; qui, di fronte ai genitori, i carabinieri perquisiscono la sua stanza. Poi lo portano in caserma. La mattina dopo, all’udienza per direttissima, il padre nota per la prima volta tumefazioni agli occhi e al volto del figlio. E non deve essere l’unico a notarle se, secondo le ricostruzioni, è lo stesso pm a chiedere che sia eseguita una visita medica. All’entrata del carcere di Regina Coeli, altro controllo: "Come le foto segnaletiche, è richiesto dalla legge all’entrata di ogni penitenziario - spiega Mangioni - e il referto contiene gli stessi rilievi medici riscontrati in tribunale".

Alcuni "dolori alla schiena", pare, spingono i responsabili a far trasferire Cucchi all’ospedale Fatebenefratelli. Altra visita, altro bollettino: ecchimosi alle palpebre e fratture delle vertebre. Ma Stefano firma per uscire e viene riportato a Regina Coeli. In carcere. Non ci starà molto perché poi viene trasferito ancora al Pertini, ospedale attrezzato con un reparto ad hoc per detenuti. "In sette giorni, Cuochi viene a contatto con quattro differenti strutture ricapitola Manconi, presidente, dell’associazione A buon diritto - la caserma, il tribunale, il carcere e il reparto detentivo di un ospedale. Posti diversi, ma sotto un’unica responsabilità: quella di chi detiene nella sua potestà il corpo, prima vivo, di Stefano Cucchi".

Nel frattempo, spostamenti a parte, accadono alcune cose: Cucchi, già esile, perde sette chili in altrettanti giorni e scende a 35 chili di peso; poi ci sono il volto tumefatto e la schiena gravemente segnata, come testimoniano le foto rese pubbliche ieri; ci sono infine la negazione dei diritto del fermato di ricorrere all’avvocato di fiducia, come anche l’impedimento per i genitori di vedere il proprio figlio, conoscere le sue condizioni di salute e persino di parlare con i sanitari. "Come per recenti casi, quali quello di Federico Aldrovandi e Aldo Bianzino, al centro della questione - secondo Manconi - c’è l’opacità delle strutture statali. La vigilanza non deve mai deflettere, e sollevare pubblicamente tali questioni è il risultato più importante che nell’immediato abbiamo raggiunto con il sostegno di parlamentari di entrambi gli schieramenti". Ieri al Senato a parlare del caso c’erano, tra gli altri, Giulia Bongiorno, Renato Farina, Gaetano Pecorella e Flavia Perina per il Pdl; Emma Bonino e Rita Bernardini (Radicali), Felice Casson e Gianrico Carofiglio per il Pd. "Spe

o che avremo energie a sufficienza per costituire un comitato che chieda la verità", conclude Manconi, Intanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha prima riferito di una "caduta accidentale", poi assicurato l’avvio di accertamenti. Spiegazioni e assunzioni di responsabilità da parte delle istituzioni, appunto. E per il futuro? "Trasparenza e legalità, innanzitutto - dice al Foglio la deputata radicale Rita Bernardini - perciò abbiamo chiesto al governo un’indagine conoscitiva nelle carceri, da allargare alle strutture detentive nelle caserme. C’è poi una proposta di legge per istituire un garante nazionale per le persone private della libertà".

 

La verità su Stefano (Il manifesto)

 

Magrissimo, segni rossi sulle spalle, una costola fuori posto, un volto che fa impressione. Non soltanto per il rigor mortis, ma per quei segni inequivocabili di violenza. Le immagini del corpo di Stefano Cucchi non lasciano dubbi sui traumi che ha dovuto subire. Per mano di chi, quando e come è ancora tutto da capire. Ieri i famigliari del ragazzo, morto il 22 ottobre nella struttura penitenziaria dell’ospedale Sandro Pertini, hanno deciso di rendere pubbliche le foto scattate dalle pompe funebri. Non ne hanno altre, d’altronde. Al momento dell’autopsia al consulente della famiglia non è stato consentito di scattare fotografie. "Una decisione sofferta quella di mostrare queste foto, che è arrivata alla fine di una lunga riflessione", ha detto Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon diritto", che ieri ha organizzato una conferenza stampa sul caso al senato, ottenendo l’appoggio e la presenza di diversi parlamentari di tutti gli schieramenti politici. "Alla fine hanno acconsentito - ha continuato Manconi Perché sono una rappresentazione efficace di - quanto accaduto". Accanto a lui ci sono i genitori di Stefano e la sorella Ilaria. Il loro dolore traspare dagli sguardi, dalle parole che raccontano un incubo.

Un incubo italiano, in cui è incappata una famiglia come tante. C’è anche il le - gale della famiglia, Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldrovandi, il ragazzo morto a Ferrara per mano di quattro poliziotti. Quello di Stefano è un caso simile. Il ragazzo, aveva solo 31 anni, è stato fermato la notte tra il 15 e il 16 ottobre nella periferia est di Roma. Addosso gli hanno trovato 20 grammi di hashish. È finito in una cella di sicurezza dei carabinieri, e già il giorno seguente nell’aula giudiziaria dove si è svolta la convalida dell’arresto il padre lo ha visto con il viso pesto. Anche per questo Manconi ha chiesto espressamente che sulla vicenda intervenga anche il ministro della Difesa La Russa: "Occorre un’inchiesta anche sul comportamento dell’Arma".

Ma la famiglia Cucchi e i legali sono molto cauti al momento: "Non accusiamo nessuno - ha detto Fabio Anselmo ma osserviamo alcune cose. A partire dal fatto che a Stefano è stato negato il diritto più elementare: poter vedere i propri famigliari mentre stava morendo". È questo uno dei punti su cui la famiglia Cucchi non si dà pace. "Vorrei che capiste il lato umano di questa vicenda - ha detto Ilaria - mio fratello è stato fatto morire lentamente e in solitudine. Ci hanno detto che aveva chiesto una Bibbia, perché sapeva che stava morendo". Una volta tanto l’arco costituzionale è unito nel chiedere verità e giustizia sul caso.

"È in gioco lo Stato, faremo tutto il possibile", ha detto Flavia Perina, direttora del Secolo d’Italia e deputata Pd]. Interviene anche Renato Farina (il famoso "agente Betulla", ora in parlamento) che ha parlato delle pessime condizioni del reparto penitenziario del Pertini, in cui recentemente ha svolto un’ispezione. Stessa richiesta di chiarezza da parte dei Radicali, del Pd, degli esponenti di Rifondazione, dell’assessore al bilancio della regione Lazio Luigi Nieri di Sinistra e Libertà. L’onorevole Perduca ha ipotizzato la possibilità di un’indagine da parte della Commissione parlamentare sui diritti umani.

"Non si faccia passare troppo tempo, come è stato fatto in altri casi. In circostanze come queste la celerità delle indagini è fondamentale", ha detto Patrizio Gonnella, dell’associazione Antigone. La procura è al lavoro per cercare di fare luce sulle cause della morte. Il titolare dell’inchiesta, il pm, Vincenzo Barba, avrebbe già ascoltato alcune persone informate dei fatti. Mentre ieri il capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco lonta ha annunciato l’apertura di un’inchiesta amministrativa.

"Speriamo di poter collaborare con la Procura - ha detto l’avvocato Anselmo - non vorremmo avere notizie solo dai giornali. Mentre ai responsabili istituzionali chiediamo di risparmiare alla famiglia il valzer delle giustificazioni frettolose". Il riferimento è quanto detto in un question time dal Guardasigilli Alfano, e cioè che secondo i referti medici Stefano avrebbe giustificato le costole rotte con una caduta dalle scale. Ma quando è uscito di casa quel giovedì sera il ragazzo stava benissimo. "L’ho consegnato sano allo Stato - ha detto Rita Cucchi - me lo hanno riconsegnato cadavere. Voglio verità".

 

Morto dopo l’arresto sul corpo fratture lividi e gravi lesioni (Il Mattino)

 

I carabinieri lo fermano nella notte tra il 15 e il 16 ottobre a Roma con addosso venti granoni di droga. Il 22 mattina è cadavere sul tavolo dell’obitorio dell’Istituto di medicina legale, scavato oltre la sua naturale magrezza, col volto tumefatto. In mezzo, buio. Ed è luce che chiede la famiglia di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni "morto da solo", si commuove la sorella Ilaria, dopo una trafila attraverso i medici di Palazzo di Giustizia, quelli di Regina Coeli e dell’ospedale Fatebenefratelli e conclusa al "Pertini" senza che la famiglia potesse visitarlo neanche una volta - in quella settimana di buio. Ad accendere i riflettori il padre Giovanni e la sorella Ilaria, che con il supporto dell’avvocato Fabio Anselmo do stesso del caso Aldrovandi) hanno partecipato a una conferenza stampa indetta in Senato dal presidente di "A buon diritto" Luigi Manconi, a cui hanno partecipato anche numerosi parlamentari tra cui Emma Bonino, Rita Bernardini, Flavia Trina, Felice Casson e Renato Farina e l’assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri.

Mostrate le foto del giovane, già sofferente di epilessia, sul tavolo autoptico. Un cadavere dal volto devastato, l’occhio destro rientrato, l’ arcata sopraccigli are sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella fatturata e la dentatura rovinata. "Immagini drammaticamente eloquenti ha detto Manconi - che danno l’idea del calvario passato da questo corpo". "L’atto di morte è stato acquisito dal pm - ha spiegato l’avvocato Anselmo - per cui non abbiamo in mano nulla, se non le foto scattate dall’agenzia funebre e un appunto del medico legale.

Non sono stati riscontrati traumi lesivi, a quanto appare, che possono averne causato la morte. Si parla di ecchimosi e escoriazioni e sangue nella vescica, per cui è difficile sapere quando e come è morto". Intanto rispondendo a un’interrogazione di Roberto Giachetti (Pd), il ministro della giustizia Angelino Alfano ha detto d’aver disposto accertamenti sulla morte del giovane, affermando che il medico di Regina Coeli avrebbe "dato atto di quanto riferito dal detenuto, cioè di una caduta accidentale dalle scale". "Vedremo quale sarà il risultato dell’indagine. Noi avvieremo, quando sarà possibile, anche un’inchiesta amministrativa", ha detto il capo dell’amministrazione penitenziaria, Franco lonta.

 

Morto da solo: la famiglia Cucchi chiede il perché (Il Tempo)

 

I carabinieri lo fermano la notte tra il 15 e il 16 ottobre al Parco degli Acquedotti con addosso 20 grammi di droga. Il 22 mattina è già un cadavere sul tavolo dell’obitorio dell’Istituto di medicina legale, scavato oltre la sua naturale magrezza, col volto tumefatto. In mezzo, il buio. Ed è luce che chiede la famiglia di Stefano Cucchi, il giovane di 31 anni "morto da solo", si commuove la sorella Ilaria, dopo una trafila attraverso i medici del Palazzo di Giustizia, quelli del carcere di Regina Coeli e dell’ospedale Fatebenefratelli e conclusa al Sandro Pertini senza che la famiglia potesse visitarlo neanche una volta - in quella’ settimana di buio. Ad accendere i riflettori sono stati ieri mattina il padre Giovanni e la sorella Ilaria, che con il supporto dell’avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Aldrovandi) hanno partecipato a una conferenza stampa indetta in Senato dal presidente di "A buon diritto" Luigi Manconi, a cui hanno partecipato anche numerosi parlamentari tra cui Emma Bonino, Rita Bernardini, Flavia Perina, Felice Casson e Renato Farina e l’assessore al Bilancio della Regione Luigi Nieri.

Hanno mostrato le foto del giovane, già sofferente di epilessia, sul tavolo autoptico. Un cadavere dal volto devastato, l’occhio destro rientrato, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella fratturata e la dentatura rovinata., "Immagini che parlano da sole, come è stato possibile che si sia ridotto così?" la domanda.

 

Don Ciotti: diritto giusto, non afflittivo (Redattore Sociale)

 

"In questi giorni difficili siamo vicini alla famiglia di Stefano Cucchi". Lo dice don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele. "La sua è una morte che non solo chiede verità, ma che impone a tutti una riflessione vera sulle implicazioni penali di certe norme di legge e sulle politiche carcerarie del nostro paese". Politiche che è necessario ripensare perché così come sono penalizzano l’intero mondo carcerario: "Le carceri non possono essere luogo di degradazione, contesti sovraffollati e fatiscenti dove la dignità e i diritti delle persone detenute e di chi ci lavora con grande impegno - agenti, educatori, insegnanti, personale medico, cappellani, volontari - vengono calpestati. Spazi destinati in massima parte ai poveri cristi: immigrati e tossicodipendenti", commenta il presidente del Gruppo Abele.

"Nessuno vuole mettere in discussione il principio di responsabilità penale. Chi infrange la legge è giusto che paghi le conseguenze, anche se non va dimenticato che spesso abbiamo leggi a doppio registro, forti coi deboli e deboli coi forti. In nessun caso però la pena deve essere afflittiva, non deve dare alla privazione della libertà il sapore della sopraffazione. È il dettato della Costituzione a stabilirlo, nell’interesse di tutti: vittime e detenuti, personale carcerario e società intera".

Aggiunge don Ciotti: "Un carcere umano, capace di coniugare la pena con l’attenzione della persona, è un carcere che non riproduce e moltiplica la violenza ma permette a chi ha sbagliato di ricredersi e di risarcire materialmente e moralmente il danno e le ferite prodotte. C’è una legge nata da questa idea lungimirante di diritto, la Gozzini, poco o per nulla applicata. E non può essere una soluzione, come di recente prospettato, la costruzione di nuovi penitenziari. In una deriva dove i problemi sociali sono affrontati sempre più in un’ottica repressiva, più carceri significa semplicemente più detenzione".

"È necessaria una netta inversione di tendenza", conclude il presidente del Gruppo Abele. "Questo ci chiedono Stefano, Marcello, Federico, come i tanti, troppi casi di suicidio avvenuti nei nostri istituti penali. Percorrere una strada diversa, fatta di politiche sociali, di opportunità di lavoro, di reinserimento, di dignità. Nel segno di un diritto giusto e non afflittivo. Diritto che usa la pena per includere, riconoscere, responsabilizzare, che sa conciliare rispetto delle regole e attenzione alla persona".

 

La Russa: i Carabinieri sono stati corretti

 

Sulla vicenda di Stefano Cucchi, il detenuto morto in ospedale dopo l’arresto, il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha spiegato di non avere "strumenti" per dire come sono andate le cose, ma di una cosa è "certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione". Comunque, "qualunque reato abbia commesso questo ragazzo ha diritto ad un trattamento adeguato alla dignità umana".

 

Il ministro Meloni: fare chiarezza

 

"Nell’esprimere tutto il mio cordoglio alla famiglia del giovane Stefano Cucchi in questo momento di profondo lutto e di terribile dolore, auspico vivamente che da parte di tutti i soggetti coinvolti si impieghi il massimo sforzo nel fare chiarezza al più presto sull’intera vicenda". È quanto dichiara il ministro della Gioventù Giorgia Meloni in merito alla morte del giovane romano. "Fare piena luce su quanto accaduto rappresenta un imperativo. Questa vicenda - prosegue Meloni - mette sotto esame la credibilità e la serietà delle forze dell’ordine e delle istituzioni, nonché la fiducia e la stima che i cittadini ripongono in esse".

 

Capezzone (Pdl): no a divisioni politiche

 

"Dinanzi a un caso doloroso e grave come quello della morte di Stefano Cucchi, è interesse di tutti - senza distinzioni di appartenenza politica - che si giunga alla verità e all’accertamento di ogni responsabilità". Lo afferma Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della libertà. "Non è il momento delle divisioni polemiche, delle speculazioni politiche, o - peggio ancora - quello delle insinuazioni ai danni delle Forze dell’ordine, a cui va ancora una volta ribadita la fiducia e la gratitudine dei cittadini. Ma il compito di uno Stato liberale e democratico è proprio quello di fare luce anche sulle circostanze più dolorose e difficili, accertando tutte le responsabilità".

 

Sereni (Pd): "Vogliamo la verità"

 

"Gli italiani hanno bisogno di avere fiducia nelle forze dell’ordine e nel rispetto della legalità da parte di chi è chiamato a far sì che non venga mai violata". Marina Sereni, vicepresidente dei deputati PD, chiede "spiegazioni che non vanno soltanto ai suoi parenti o a chi lo conosceva, ma a chi non vuole perdere quella fiducia e quel rispetto verso lo Stato".

 

Pd: foto inequivocabile atto accusa (Ansa)

 

"In assenza di risposte concrete da parte del ministro Alfano, le foto del corpo di Stefano Cucchi sono un inequivocabile atto d’accusa al sistema giustizia italiano", lo dice la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera. Ma come è possibile - si chiede - che un ragazzo che, come dicono i familiari, al momento dell’arresto stava bene, dopo poche ore si possa trovare nelle condizioni che abbiamo visto oggi? Esiste un rapporto relativo alle lesioni e alle contusioni? E poi, chi ha disposto, e per quali ragioni processuali, il divieto di incontrare i familiari? Che cosa o chi si voleva nascondere?

Ieri alla Camera il ministro si è limitato a dire che seguirà personalmente il caso. Ma oggi, dopo aver visto le foto siamo ancora più convinti che non basta - aggiunge Ferranti - che servono risposte immediate e non un mero elenco di passaggi cronologici, che hanno il marchio della peggiore burocrazia e non aiutano a ricostruire la verità dei fatti e ad individuare eventuali responsabilità. Chiediamo risposte urgenti: ne va della credibilità delle istituzioni.

 

Anastasia: sulla morte di Stefano Cucchi (Ristretti Orizzonti)

 

C’è poco da raccontare a chi abbia aperto i giornali questa mattina. Stefano Cucchi, 31 anni, è morto giovedì 22 ottobre a una settimana dal suo arresto per detenzione di sostanze stupefacenti. Stava bene quando - scortato dai Carabinieri che lo avevano arrestato - è stato a casa l’ultima volta, nella notte tra il 15 e il 16 di ottobre. Aveva il volto visibilmente tumefatto qualche ora dopo, quando a mezzogiorno è stato portato in un Aula del Palazzo di giustizia di Roma per il processo per direttissima. Poi sei giorni, tra carcere, ospedali e carcere - ospedale (il reparto del Sandro Pertini riservato ai detenuti ospedalizzati), e - infine - la morte, senza che i familiari abbiano mai potuto vederlo o incontrare i medici "curanti" (?) durante il suo viaggio all’Inferno.

Anche questo sono le carceri, la forze dell’ordine, il sistema sanitario in Italia: indifferenza e disprezzo per la vita umana. L’individuazione delle responsabilità personali, di chi ha ridotto Stefano in quel modo, di chi (non) lo ha assistito per sei giorni, di chi ha impedito alla famiglia di incontrarlo e di sapere, è l’unica condizione possibile per distinguere le istituzioni coinvolte dai loro rappresentanti.

 

Osapp: Cucchi arrivò già così a Regina Coeli

 

Chiarezza, ed in fretta, sul caso di Stefano Cucchi, il detenuto morto in ospedale dopo l’arresto e sulle cui cause la famiglie chiede un approfondimento. La chiede Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il secondo sindacato della polizia penitenziaria, secondo il quale, secondo fonti attendibili, Stefano sarebbe arrivato a Regina Coeli direttamente dal tribunale già in quelle condizioni, e accompagnato da un certificato medico che ne autorizzava la detenzione, come di solito si fa in questi casi. Il sindacato protesta anche con Michele Santoro per come è stato trattato ieri il caso ad Annozero.

Quale rappresentanti di un’istituzione autorevole che qualcuno tenta di annientare strumentalizzando il caso - prosegue Beneduci - siamo disgustati da una vicenda grave che sta via via assumendo le fattezze di un fatto politico e che rischia di disonorarci: come per il caso Bianzino, il caso Aldovrandi. Le ombre ci uccidono, uccidono l’intera categoria alla quale ci esaltiamo di appartenere, ed è triste che fino adesso siamo stati l’unica organizzazione sindacale ad avere il coraggio di dire la propria con grande chiarezza ed onesta".

‘Siamo arrabbiati, o per meglio dire incazzati, poi - prosegue Beneduci - per quel tentativo perpetrato ieri ad Annozero di accomunare il caso Marrazzo, che ha visto coinvolti quattro appartenenti dell’Arma dei Carabinieri, al caso del povero Cucchi, quale prova della deriva autoritaria che si sta instaurando in questo nostro Paese; e proprio da quei tutori dell’ordine pubblico che dovrebbero invece preservarlo il Paese. Come ha fatto l’Arma in quel caso, anche la Polizia Penitenziaria sarà pronta a mettere al bando chi si fosse macchiato eventualmente di crimini così pesanti ed infamanti, per una categoria che come tutte le altre si ritrova in trincea ogni santo giorno. In caso contrario saremo pronti a far cadere noi le teste che dovranno necessariamente rispondere del grave delitto.

 

Casellati: è ora della chiarezza non delle polemiche

 

"Questa è l’ora della chiarezza, non delle polemiche". È quanto dichiara in una nota Elisabetta Alberti Casellati, sottosegretario alla Giustizia, in relazione alla morte in carcere del giovane Stefano Cucchi, "alla cui famiglia - aggiunge - esprimo tutto il mio cordoglio". "Il ministero della Giustizia - sottolinea - ha già avviato le procedure per accertare ciò che è effettivamente avvenuto. Se qualcuno ha sbagliato, certamente pagherà. Ma va respinto il tentativo di criminalizzare le forze dell’ordine e gli agenti di polizia penitenziaria, che svolgono ogni giorno un delicatissimo compito, al servizio della comunità".

Giustizia: Bernardini; interrogazione su un presunto pestaggio

 

Il Velino, 30 ottobre 2009

 

In seguito all’articolo dal titolo "Il detenuto si massacra quando sta da solo, non davanti agli altri", pubblicato il giorno 29 ottobre 2009 dal quotidiano "La Città di Teramo e Provincia" la deputata Radicale - Pd Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia, ha presentato un’interrogazione al ministro Alfano sui gravi fatti riportati dal giornale. Nell’articolo, riporta una nota dei Radicali, "si riferisce di un dialogo tra due agenti del carcere di Castrogno, la cui registrazione è stata inviata alla redazione del quotidiano. Il plico era accompagnato da una lettera al direttore, anonima ma sedicente voce dei detenuti del carcere, nella quale tra l’altro si legge: "Qui qualsiasi cosa succede è colpa nostra ma questa volta non finirà così, e da troppo che sopportiamo, qui quelli maltrattati siamo noi ed anche in questa occasione abbiamo subito un pestaggio da parte di una guardia". Nel dialogo riportato nell’articolo si parla di maltrattamenti ai danni dei detenuti in questi termini: "Non lo sai che ha menato al detenuto in sezione?". E l’altro: "Io non c’ero, non so nulla". Il tono di voce cresce: "Ma se lo sanno tutti?". Pochissimi secondi e poi: "In sezione un detenuto non si massacra, si massacra sotto". Lapidario.

Sotto. Non in sezione. Un detenuto non si massacra. Anzi si, si può massacrare ma non in pubblico. "Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto". Nell’articolo si riferisce inoltre che, secondo fonti attendibili del giornale, una delle voci registrate apparterrebbe al Comandante di reparto degli agenti di Polizia Penitenziaria di Castrogno, Giovanni Luzi, mentre l’interlocutore sarebbe un sovrintendente che il giorno del presunto pestaggio del detenuto, sarebbe stato di turno come capo - posto, ossia come coordinatore delle quattro sezioni in cui sono ospitati i circa 400 detenuti".

"Quanto al mittente del plico contenente la registrazione - si legge nella nota -, l’autrice dell’articolo ipotizza che la lettera di accompagnamento alla registrazione non sia stata scritta da un detenuto, ma forse da un agente, in quanto per un carcerato sarebbe stato difficile far uscire dall’istituto un plico contenente un cd, tanto più se indirizzato al direttore di un giornale. Alla luce del contenuto dell’articolo, e in considerazione degli articoli 13 e 27 della Costituzione, secondo i quali è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, la deputata radicale ha chiesto al ministro della Giustizia se sia a conoscenza dei fatti riportati dal quotidiano; se ritenga di dover accertare se questi corrispondano al vero e di promuovere un’indagine nel carcere di Castrogno di Teramo per verificare le responsabilità non solo del pestaggio di cui si parla nella registrazione, ma anche se la brutalità dei maltrattamenti e delle percosse sia prassi usata dalla Polizia penitenziaria nell’istituto".

Giustizia: Sarno (Uil); sul carcere serve dibattito alla Camera

 

Il Velino, 30 ottobre 2009

 

"La pausa forzata dei lavori parlamentari della Camera dei deputati del prossimo novembre, annunciata dal presidente Fini, potrebbe essere propedeutica ad un approfondito e serio dibattito sulle condizioni del sistema penitenziario. Una vera indagine conoscitiva, insomma, sulle criticità e deficienze del sistema". A proporlo è il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che aggiunge: "I circa 23mila detenuti in più ristretti nelle nostre carceri, le gravi vacanze organiche del corpo di polizia penitenziaria di circa 5mila unità, lo stato fatiscente delle strutture penitenziaria, le estreme e precarie condizioni igienico - sanitarie, la quotidiana sopraffazione della dignità umana, il costante calpestio dei diritti elementari degli operatori di polizia penitenziaria - sottolinea Sarno -, sono solo alcuni degli aspetti che dovrebbero indurre i nostri politici ad affrontare organicamente il tema. Al di là delle facili passerelle e degli sporadici, meritevoli, esempi di impegno permanente si ha la netta impressione che la politica preferisca volgere altrove lo sguardo e lasci nel più completo abbandono uomini e strutture".

Giustizia: Uil; lavoratori carcerari a rischio per l'influenza suina

 

Il Velino, 30 ottobre 2009

 

"Resto costernato, allibito, basito e faccio fatica a credere a ciò che ho letto al punto da augurarmi che le riportate dichiarazioni del vice capo del Dap, Santi Consolo, abbiano subito gli effetti di un refuso di stampa". Non tarda ad arrivare il commento della Uil Pa Penitenziari alle dichiarazioni di Santi Consolo, vice capo del Dap, che ha annunciato l’avvio delle vaccinazioni per il personale medico in servizio nelle carceri auspicando che altrettanto avvenga a breve per i detenuti. Eugenio Sarno, segretario generale del sindacato Uil dei baschi blu è netto e categorico nella sue affermazioni a contestazione. "Come si fa ad auspicare una vaccinazione di massa per i detenuti dimenticandosi del personale? Questa è l’ennesima conferma della superficialità con cui i vertici dipartimentali trattano il personale penitenziario. Voglio sperare e credere che il capo del Dap Ionta intervenga a correggere le affermazioni del suo vice, sempreché non siano smentite. È appena il caso di sottolineare che è il personale di polizia penitenziaria ad avere un costante e diretto contatto con i detenuti, quindi più esposto ai rischi di contagio".

Comprendiamo che il dottor Consolo possa non conoscere il sistema carcere, ma le sue dichiarazioni ci appaiono intrise di dilettantismo amministrativo. Tutti sanno che la polizia penitenziaria lavora a contatto con i detenuti, quindi se si vaccinano gli uni conseguentemente si devono vaccinare anche gli altri. Ciò evidentemente vale anche per le carceri della Giustizia minorile. Spero che al Dgm siano più avveduti.

Fortunatamente qualche amministratore è molto più avveduto dei nostri dirigenti penitenziari. Plaudo, infatti, alla direttiva dell’assessore alla Sanità della Regione Campania, Mario Santangelo, che ha disposto la vaccinazione in tutte le carceri campane per tutti gli agenti penitenziari e per tutti i detenuti in condizioni a rischio. Ciò per pervenire possibili pandemie e a prescindere dalla morte a Napoli Poggioreale del detenuto ergastolano".

"Di carcere, infine, si muore. D’altronde a confermare ciò basta elencare le numerose evasioni portate a termine nel giro degli ultimi dodici mesi, il trend di reingressi per recidiva e scorrere l’elenco delle morti e dei suicidi. Il personale penitenziario è stanco, demotivato, sfiduciato, depresso, arrabbiato.

Sentimenti ampliati ancor più dalla certezza dell’abbandono da parte dell’Amministrazione e dal ministro della Giustizia. Gli ambienti sudici, fetidi e malsani favoriscono lo sviluppo di malattie infettive, di cui è affetto il 7% dell’intera popolazione detenuta senza che a ciò si contrapponga una seria politica di prevenzione sanitaria. Sull’influenza N1H1 abbiamo lanciato per tempo l’allarme ma ancora nulla si è concretizzato".

La Uil Pa Penitenziari dopo aver portato nelle piazze italiane la protesta degli agenti, non esclude nuove e clamorose forme di contestazione: "Dovesse permanere l’ingiustificato ed offensivo silenzio del Ministro Alfano non potremo non riprendere la strada dello scontro e della contrapposizione. Se il Ministro intende ancora far cadere nel vuoto i nostri appelli al confronto noi siamo pronti - annuncia Sarno - a sommergere il Ministero della Giustizia e il Dap con iniziativa giudiziarie. saranno migliaia le richieste di decreti ingiuntivi per emolumenti non corrisposti (straordinari, missioni, ecc.). Centinaia i ricorsi alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo. Chiameremo alle valutazioni di competenza anche la Corte dei Conti".

"Disporre, infatti, di circa 500 dirigenti penitenziari e avere, nel contempo, circa 50 istituti penitenziari senza direttori titolari ci pare un ingiustificabile spreco di danaro pubblico ancor più in considerazione che tali istituti sono retti da dirigenti in missione.

Analogamente occorre valutare se i circa 700 poliziotti penitenziari impiegati in imprecisate strutture esterne alle carceri siano compatibili con le direttive di efficienza ed efficacia. Ma su questo - conclude il segretario della Uil Pa Penitenziari - sarebbe interessante ascoltare il parere del ministro Brunetta. In fondo, in questo caso, lo sosteniamo nella sua dichiarata lotta agli imboscati".

Udine: un protocollo di intesa per il reinserimento dei detenuti

 

Agi, 30 ottobre 2009

 

Sottoscritto a Udine tra Comune, provincia, azienda sanitaria, ministero della Giustizia, Caritas e Onlus - un protocollo per potenziare l’inclusione sociale dei detenuti. Si chiama "Liberarsi" e coinvolgerà, oltre a quello di Udine, i Comuni di Campoformido, Martignacco, Pagnacco, Pasian di Prato, Pavia di Udine, Pozzuolo, Pradamano e Tavagnacco. Prevede sette tipologie di azioni per favorire il reinserimento e l’inclusione sociale: formazione professionale, accoglienza in carcere, accompagnamento all’autonomia e assistenza alla dimissione, azioni di giustizia riparativa, attività socio - culturali, ricreative e sportive, attività di sensibilizzazione del territorio, informazione e orientamento.

Concretamente, i detenuti e gli ex carcerati potranno contare su percorsi di riqualificazione professionale e mirati all’inserimento attraverso stage, tirocini formativi e borse lavoro. I percorsi per favorire il loro reinserimento sociale riguarderanno anche un aiuto per trovare un alloggio e per cambiare stile di vita, in modo da ridurre il rischio di recidive. Inoltre potranno essere studiate azioni a beneficio della collettività come elemento qualitativo e integrativo del programmi individualizzati per le persone che fruiscono di misure alternative alla detenzione.

Modena: al via progetti di reinserimento sociale per i detenuti

 

Agi, 30 ottobre 2009

 

Progetti di reinserimento sociale per i detenuti del carcere di Castelfranco Emilia, grazie al sostegno della locale amministrazione comunale.

Potenziamento del rapporto tra carcere di Castelfranco Emilia e territorio attraverso la programmazione di attività tese al trattamento educativo dei detenuti e al loro reinserimento sociale. La collaborazione, già sperimentata col comune di Spilamberto, dove 7 detenuti si occupano della manutenzione del verde, prevede anche in questo caso la promozione di progetti di borse lavoro per interventi di manutenzione ordinaria del patrimonio pubblico. Grazie al sostengono dell’amministrazione comunale, attività verranno svolte dentro il carcere sui temi dello sport e della cultura come l’istituzione di un laboratorio teatrale, un laboratorio d’ascolto finalizzato all’avviamento alla musica, letture animate, mostre d’arte ma anche sostegno alla vendita di prodotti agricoli che provengono dalle serre dell’istituto. Le carceri intanto continuano a scoppiare, si calcola che saranno quasi 70mila i detenuti in Italia entro il primo trimestre del 2010. 150 quelli presenti a Castelfranco Emilia contro una capienza di 50. Investire sul reinserimento sociale dei detenuti, secondo il direttore della struttura Gianluca Candiano, significa investire in sicurezza sociale.

Bologna: lo spettacolo e un convegno per i ragazzi del Pratello

 

Redattore Sociale - Dire, 30 ottobre 2009

 

Dal 28 novembre al 6 dicembre all’Istituto minorile "Il fascino discreto della stupidità". In scena 9 attori (8 stranieri e un italiano) su testo di Flaubert. Il 30 novembre le testimonianze raccolte in 10 anni di attività saranno presentate in un convegno.

"Si sta bene in galera perché mangi, dormi, ti fai la doccia, hai vestiti tv, profumo, lavoro, branzino alla griglia, spaghetti allo scoglio, un po’ di calamari… Cosa vuoi di più? Questa è la vita giusta! Fuori la libertà è una favola". Hanno scritto così i ragazzi dell’Istituto penale minorile di Bologna, nel laboratorio di scrittura da cui è nato il nuovo spettacolo del Teatro del Pratello, "Il fascino indiscreto della stupidità", in scena dal 28 novembre al 6 dicembre. Una frase appunto "stupida", o meglio ironica, che nasconde in realtà la paura di ritrovarsi senza punti di riferimento una volta fuori dal carcere.

Una frase che il regista Paolo Billi, da più di dieci anni alla guida del progetto, tiene a citare, per sottolineare il lavoro dei suoi ragazzi e la valenza formativa del teatro in carcere. L’esperienza del Teatro del Pratello, nonostante la garante dei detenuti di Bologna Desi Bruno la definisca "un’avanguardia", ha bisogno infatti di ricordare ogni anno alla città il suo valore e di rincorrere i finanziamenti per andare in scena. Solo un anno fa il progetto sembrava sul punto di chiudere, poi è arrivata la firma di una convenzione fino al 2010 con comune, provincia e Centro giustizia minorile, ma quest’anno il budget a disposizione è comunque sceso a 60 mila euro ("due anni fa erano 110 mila", ricorda Billi). Anche per questo il nuovo spettacolo sarà seguito, il 30 novembre, dal convegno "Dei diritti e della pena. Teatro del Pratello: un investimento per la comunità?", con le testimonianze di chi in passato ha recitato nella compagnia.

"Il fascino indiscreto della stupidità", liberamente tratto da "Bouvard e Pécuchet", ultima opera di Gustave Flaubert, prosegue il percorso intrapreso da Paolo Billi negli ultimi anni per trattare stavolta il tema della stupidità. Su questo hanno lavorato i nove ragazzi (più uno, che farà l’aiuto tecnico) della compagnia. Un gruppo che si fa sempre più multiculturale, "una compagnia internazionale - come la chiama il regista - con due arabi, due rumeni, due cinesi, due africani e un solo italiano: hanno lavorato sei ore al giorno tutti i giorni".

Come sempre all’attività teatrale si sono aggiunti altri laboratori: scrittura, video, allestimento illuminotecnico e scenografia, "per rendere partecipi i ragazzi a tutti i livelli". Ma la novità di quest’anno è la partecipazione di sei attori della compagnia Botteghe Moliére, ma soprattutto il coinvolgimento di due "nonni": Viginia Veratti e Floriano Fabbi dell’Università della terza età Primo Levi. La prima è prevista per il 28 novembre alle 21: le prevendite aprono il 2 novembre al Teatro del Pratello (via del Pratello 23), l’ingresso costa 10 euro, 5 euro ridotto (per informazioni: tel. 051.0455830, prenotazioni@teatrodelpratello.it).

Per assistere allo spettacolo è necessaria l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria competente. Una misura che presto potrebbe non essere più necessaria. "Abbiamo un’utopia - spiega Giuseppe Centomani, dirigente del Centro giustizia minorile per l’Emilia Romagna - : riportare alla luce l’antico teatro del Pratello e metterlo a disposizione non solo dei ragazzi detenuti ma di tutto il quartiere". La ristrutturazione del teatro, che si trova dentro il carcere e attualmente ospita gli spettacoli della compagnia del Pratello, si inserisce all’interno di quella più generale dell’Istituto penale minorile. "L’area detentiva è già stata spostata - continua Centomani - e ora stiamo lavorando a un nuovo progetto per il teatro con la consulenza tecnica del Comunale di Bologna". Anche in questo caso si torna al nodo dei finanziamenti e al tentativo di rendere stabile e continuativa l’esperienza del Pratello.

Se ne parlerà in maniera approfondita nel convegno del 30 novembre, dalle 10 all’Alliance Francaise in via Dè Marchi 4: in programma gli interventi di operatori e ragazzi e la replica del nuovo spettacolo (per partecipare è necessario iscriversi (051 0455830, prenotazioni@teatrodelpratello.it). Il 27 novembre, invece, sarà presentato "Alla luce delle prove", libro fotografico di Alessandro Zanini (Bononia University Press) che documenta il lavoro dei laboratori teatrali della compagnia del Pratello. La presentazione si tiene alle 21 alla Coop Ambasciatori (via Orefici 19).

Droghe: svuotare le carceri… aprendo le porte delle comunità

di Cecco Bellosi

 

Il Manifesto, 30 ottobre 2009

 

In tema di giustizia e carcere, a sinistra si usa spesso contrapporre un potere politico "cattivo" ad una magistratura "buona". Non è così. Non c’è solo la legge Cirielli, voluta dal centro destra, che riempie le carceri di "poveracci"; vi sono alcuni magistrati di sorveglianza che affermano di non credere nel valore rieducativo della pena, negando nei fatti la possibilità di accedere alle misure alternative a molti detenuti che ne avrebbero diritto.

Ciò avviene anche per i detenuti tossicodipendenti. Nel nostro piccolo di associazione, armati dei nostri secchielli (di quattro comunità per persone con problemi di dipendenza), cerchiamo invece di svuotare il mare.

Nel 2006, le comunità del Gabbiano onlus hanno ospitato 193 persone: di queste, 76 erano in misura alternativa (63 in affidamento terapeutico e 13 in affidamento provvisorio). Nel 2008, sono state accolte 57 persone in misura alternativa (40 in affidamento terapeutico, 17 in affidamento provvisorio) e 5 agli arresti domiciliari. Complessivamente, 62 persone sono entrate in comunità provenendo dal carcere. Inoltre, nella casa alloggio per malati di Aids, sono ospitate due persone in libertà vigilata dimesse dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario: una di queste è tornata completamente libera da vincoli giudiziari solo dopo otto anni, quasi un ergastolo bianco.

Si conoscono le obiezioni, alcune scontate altre più incisive, all’accoglimento di detenuti in comunità.

Molti detenuti vogliono entrare in comunità solo per "scavallarsi" il carcere, si dice. A me sembra una buona e sana motivazione. Che può evolvere verso lo svolgimento di un programma comunitario efficace: con risultati migliori rispetto a quelli di chi sostiene di voler entrare in comunità con queruli piagnistei sulla consapevolezza degli errori commessi e sulla volontà di cambiare vita.

Ho citato i dati 2006, l’anno dell’indulto: su 46 persone in misura alternativa presenti al momento dell’approvazione del provvedimento, solo dieci, una volta liberi, hanno scelto di lasciare le comunità. È una quota del 22%, del tutto in linea con la percentuale fisiologica di abbandoni spontanei nel corso di un anno da parte di chi entra nelle nostre comunità senza vincoli giudiziari.

Un’altra obiezione è quella del possibile trasferimento in comunità della mentalità coatta: occorre in questi casi mettere in campo strumenti educativi di contrasto e di mediazione culturale. In ogni équipe delle nostre comunità è presente un ex detenuto di lungo corso per facilitare la comunicazione, la traduzione dei linguaggi, la sottolineatura delle differenze di contesto.

Una terza obiezione riguarda i limiti che la presenza di vincoli giudiziari pone alle attività comunitarie: in questi casi è necessario costruire programmi condivisi con gli assistenti sociali dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna e porsi come soggetti attivi nei confronti della magistratura di sorveglianza: le prescrizioni possono anche essere cambiate.

Non vorrei però che dietro queste obiezioni ci fosse il timore di doversi confrontare sui diritti delle persone. Su alcune questioni, come i colloqui con i familiari, la censura sulla posta, l’organizzazione subita dei tempi quotidiani, il carcere rispetta la persona più di molte comunità.

Un problema concreto è invece rappresentato da un effetto collaterale dell’innalzamento da quattro a sei anni di pena o residuo pena per accedere all’affidamento terapeutico, voluto dalla Fini - Giovanardi: può capitare che i programmi comunitari siano portati a termine non solo prima del fine pena, ma anche prima della possibilità di ottenere altre misure alternative. Per evitare la beffa del rientro in carcere, bisognerebbe applicare tempestivamente la norma sulla sospensione condizionale della pena prevista dalla legge antidroga (art.90).

Accogliere i detenuti in comunità non solo può avere un esito positivo, può anche accompagnare queste persone al reinserimento sociale e, in molti casi, ad un inserimento ex novo. Con il nostro piccolo secchiello, svuotiamo il carcere di 60 - 70 persone all’anno: se lo facessero con questa intensità altre 50 comunità, si potrebbero accogliere 3000 persone all’anno; se lo facessero cento comunità, si arriverebbe alla rispettabile cifra di 6.000 - 7.000 persone. Uomini e donne sottratti all’accanimento reclusorio di questi tempi.

Spagna: si è allungata la detenzione nei Cie, da 40 a 60 giorni

 

Adnkronos, 30 ottobre 2009

 

I deputati spagnoli hanno approvato oggi una controversa legge che estende da 40 a 60 giorni il periodo di permanenza degli immigrati clandestini nei centri di detenzione. Si tratta della quarta riforma in otto anni della legge sull’immigrazione.

Il provvedimento, che deve essere ora approvato in Senato,viene contestato dai conservatori del Partito Popolare che accusa il governo socialista di non fare abbastanza contro l’immigrazione clandestina. L’opposizione di sinistra critica la legge sottolineando che gli immigrati clandestini possono essere ora detenuti più a lungo dei sospetti criminali. L’estensione del soggiorno nei centri di detenzione viene stigmatizzata anche da Amnesty International e dalle organizzazioni degli immigrati.

Belgio: rissa in un carcere, un detenuto è morto, cinque i feriti

 

Ansa, 30 ottobre 2009

 

Gli incidenti sarebbero stati provocati da due detenuti che, armati di un coltello e di un bastone, hanno attaccato altri due carcerati e due guardie.

Un detenuto è morto, e altre cinque persone, tra reclusi e guardie, sono rimaste ferite la notte scorsa nel carcere di Lovanio, in Belgio, in seguito ad una rissa. Secondo quanto riferisce l’emittente televisiva Rtbf, gli incidenti sarebbero stati provocati da due detenuti che, armati di un coltello e di un bastone, hanno attaccato altri due carcerati e due guardie. La situazione sarebbe degenerata quando i due hanno preso in ostaggio in una cella un loro compagno. A quel punto è stata fatta intervenire un’ unità speciale della polizia che ha evacuato tutte le celle dell’ala interessata ed ha cominciato a trattare con i due carcerati - sequestratori. Stando alle scarse informazioni filtrate finora, uno dei due autori del sequestro sarebbe quindi stato ucciso dalla polizia. Ferito gravemente anche il detenuto preso in ostaggio.

 

 

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