Rassegna stampa 29 ottobre

 

Giustizia: Alfano; l'Ue ci aiuti a fare carceri, stranieri rimpatriati

 

Adnkronos, 29 ottobre 2009

 

L’Europa "ci dia i soldi per costruire nuove carceri nel nostro Paese". È questa, ha ricordato il ministro della Giustizia Angelino Alfano, una delle richieste avanzate in sede europea per far fronte al problema del sovraffollamento carcerario in Italia, dovuto anche all’alto numero di detenuti stranieri presenti nel nostro Paese.

Rispondendo durante il question time alla Camera a un’interrogazione sulle iniziative per la concreta applicazione delle convenzioni internazionali stipulate dall’Italia per far sì che i detenuti stranieri scontino integralmente la pena nei Paesi d’origine, il Guardasigilli ha illustrato le iniziative già assunte, affermando che, "in Italia esistono 24.084 detenuti stranieri alla notte di ieri e 4.362 di questi sono cittadini comunitari". Per Alfano, "l’Europa non può chiudere gli occhi rispetto a questo".

"Abbiamo chiesto tre cose all’Europa", ha detto il ministro. La prima, "che si erga a garante dell’ottemperanza dei trattati già esistenti tra gli Stati europei". La seconda, "che si erga a soggetto che stipuli i trattati con i Paesi del nord dell’Africa e con i Paesi extracomunitari". La terza, ha aggiunto Alfano, "anche in relazione alla difficoltà eventuale di procedere alla soluzione dei primi due aspetti, che ci dia i soldi per costruire le nuove carceri nel nostro Paese".

Ricordando ancora le iniziative già assunte, Alfano ha sottolineato come questo sia stato fatto "anche insieme al ministro Maroni, recandoci a incontrare i colleghi rumeni, alcuni mesi fa e proprio in considerazione dell’elevato numero di detenuti rumeni e albanesi nelle strutture carcerarie italiane è stato sottoscritto con la Repubblica di Romania un accordo bilaterale sul trasferimento delle persone condannate, alle quali sia stata inflitta la misura dell’espulsione o quella dell’accompagnamento al confine. Analogo accordo aggiuntivo - ha proseguito - è stato sottoscritto con la Repubblica di Albania".

Alfano ha poi spiegato che, "a livello europeo, nell’ambito del consiglio Gai (Giustizia e Affari interni, ndr) del 27 novembre del 2008 è stata approvata una decisione quadro relativa all’applicazione del principio del riconoscimento reciproco delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea".

"La legge comunitaria del 2008 - ha continuato il ministro - all’articolo 52 contiene la delega al governo, che prevede l’attuazione della decisione quadro europea che consentirà di rendere certe e rapide le procedure per il trasferimento dei detenuti comunitari nell’ambito degli Stati membri. Il nuovo meccanismo di cooperazione - ha spiegato Alfano - prevede tra l’altro, per la prima volta, termini certi per la decisione sul trasferimento".

"La decisone definitiva - ha aggiunto Alfano - deve essere adottata entro 90 giorni dal ricevimento della sentenza stessa e del certificato contenente le informazioni necessarie affinché si possa disporre il trasferimento del condannato per l’esecuzione della pena". Inoltre, ha detto il ministro, "è previsto l’obbligo per gli Stati membri di eseguire il trasferimento del detenuto entro 30 giorni dalla decisione definitiva".

"Con l’attuazione di questo importante strumento di cooperazione giudiziaria - ha sottolineato Alfano - il trasferimento di detenuti tra Stati membri non sarà più discrezionale ma obbligatorio e cioè in coerenza con l’idea di fondo che il reinserimento sociale dei condannati possa essere favorito se l’esecuzione penale ha luogo nello Stato di cittadinanza o di residenza".

Per il Guardasigilli, "tutto questo si inquadra nell’ambito di un ragionamento che il governo sta portando avanti e di una decisione politica che prevede, da un lato il piano delle carceri, per altro verso il fatto di fare scontare nelle loro patrie la pena ai detenuti stranieri".

Giustizia: Bernardini (Pd); le carceri italiane stanno esplodendo

 

Agi, 29 ottobre 2009

 

"Le carceri italiane stanno esplodendo. E se non ci fosse stato quell’indulto di cui tanto oggi si sparla, in questo momento nelle carceri italiane ci sarebbero più di 100mila detenuti: non so quale invenzione avrebbe potuto fare il governo di fronte a 100mila detenuti". Lo ha affermato in question time alla Camera il parlamentare della delegazione radicale del gruppo del Pd, Rita Bernardini, replicando al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che aveva risposto ad una interrogazione sulla morte del detenuto Stefano Cucchi.

Una morte su cui deve "aiutarci a fare chiarezza - ha chiesto Bernardini -, perché le morti che avvengono nelle carceri sono morti oscure, non chiare: su questi decessi noi vogliamo che sia fatta un’indagine conoscitiva".

Giustizia: Molteni (Lega); gli stranieri scontino la pena in patria

 

Il Velino, 29 ottobre 2009

 

"Ho apprezzato quanto affermato oggi in Aula dal ministro Angelino Alfano, in merito alla necessità di far scontare ai detenuti stranieri la pena nei paesi di origine. Da sempre la Lega nord sostiene che, per affrontare e risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, serva indirizzarsi concretamente verso due soluzioni: implementare le politiche di edilizia carceraria con un sostegno economico da parte dell’Ue, inoltre bisogna far scontare ai detenuti stranieri la pena nelle carceri dei paesi di provenienza".

Lo dichiara il deputato della Lega nord Nicola Molteni, componente della commissione Giustizia a Montecitorio, commentando le affermazioni del ministro della Giustizia Angelino Alfano durante il question time. "Ad oggi - spiega l’onorevole Molteni - nelle carceri italiane sono presenti circa 24mila detenuti stranieri, questo anche a causa del totale fallimento del vergognoso provvedimento di indulto voluto dal governo Prodi e avversato unicamente dalla Lega nord. Il Carroccio apprezza quindi l’impegno e l’intervento del ministro, e continuerà a vigilare e a stimolare lo stesso affinché gli accordi internazionali vengano da un lato applicati e dall’altro implementati".

 

Follegot (Ln): stranieri sconteranno pene nel loro Paese

 

"Sono soddisfatto che ci sia una precisa volontà politica di fare in modo che i detenuti stranieri in Italia scontino le pene comminate nei paesi d’origine". A dichiararlo è il deputato leghista Fulvio Follegot membro della commissione Giustizia alla Camera dei deputati che intervenendo al question time di ieri ha sottolineato: "In alcuni istituti penitenziari, soprattutto del Nord, la popolazione carceraria straniera supera abbondantemente la soglia del 60 - 70 per cento". "Ricordando gli effetti fallimentari e scellerati del provvedimento di indulto voluto dal governo Prodi - si legge in una nota", l’esponente del Carroccio ha ricordato inoltre che: "L’ Europa deve farsi garante dei trattati sottoscritti e diventare organo sottoscrivente nei confronti dei paesi extracomunitari. Bisogna inoltre pensare - conclude Follegot - ad altri accordi simili a quelli stipulati con Romania e Albania che prevedono il reciproco riconoscimento delle sentenze emesse".

Giustizia: Osapp; affollamento irrisolvibile con il piano-carceri

 

Il Velino, 29 ottobre 2009

 

"A queste condizioni il piano carceri non risolverà mai il problema del sovraffollamento". Lo ribadisce Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il secondo sindacato della polizia penitenziaria, a proposito delle dichiarazioni rilasciate oggi in conferenza stampa dal ministro della Giustizia Alfano. "Il ministro della Giustizia faccia presto a ricredersi sulle false speranze di una classe dirigente efficiente, come quella che esprime ancora via Arenula.

Con i numeri che indica il Piano carceri - continua Beneduci - è improponibile che si affrontino le questioni di un’amministrazione ormai sull’orlo del baratro. Chiediamo a questo governo di ritirare ogni iniziativa che contempli la messa in opera di piani, progetti o simulacri vari fintanto che a guidare il palazzo ci sarà ancora lui: il magistrato Ionta, e non solo.

Ionta che alla fine rappresenta solo la punta dell’iceberg e che non ha determinati poteri che gli derivano dall’essere anche Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria. In un’amministrazione oramai strutturata come se fossimo in uno Stato Feudale, che conta 205 direttori d’istituto, è come se avessimo 205 direttori generali e altrettanti capi della penitenziaria. Non esiste alcun controllo, le periferie sono in mano a fatidiche masse di irresponsabili, senza che il capo possa verificare e dire la propria".

"Ma diciamoci la verità - insiste Beneduci - , alcuni dirigenti si trovano ai posti di comando da anni, da decenni: come è possibile, allora, che con un piano messo a punto dal governo in questo modo, con i fondi trovati chissà in che modo e dove poi, si risolva quello che a stento non si è risolto prima? Con le garanzie poi di un capo del Dap che tutto fa tranne quello che gli viene imposta dai propri doveri istituzionali. È necessario un azzeramento totale dei vertici, centrali e locali, prima di parlare di qualsiasi altra iniziativa. Parliamo prima di assunzioni, di dotazioni, il ministro Alfano faccia un censimento vero sulle dotazioni di organico e del perché sono dislocate in un determinato territorio anziché in un altro. Poi inizieremo a parlare anche delle misure da adottare per far fronte al problema del sovraffollamento".

Giustizia: influenza suina; vaccinazioni al personale carcerario

 

Ansa, 29 ottobre 2009

 

Nelle carceri sono già cominciate le vaccinazioni per l’influenza A, anche se al momento riguardano solo il personale sanitario. Ma l’auspicio del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è che presto il vaccino sia a disposizione anche dei detenuti oltre che di tutte le categorie che operano nei penitenziari.

"Si è già cominciato a vaccinare il personale sanitario che opera nelle carceri e speriamo che quanto prima toccherà anche ai detenuti" dice Santi Consolo, vice capo del Dap, titolare della delega sul passaggio, avvenuto nel 2008,della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale; che assicura che l’amministrazione penitenziaria, che ormai non ha una competenza diretta, si è attivata sin dai primi casi di influenza H1N1.

"Ho chiesto l’inserimento dei detenuti tra le categorie a rischio, i vaccini per tutti e di seguire pratiche virtuose", spiega Consolo. Indicazioni rivolte a tutte le autorità competenti, che vanno dall’isolamento dei detenuti che si sospetta siano stati colpiti dal virus H1N1 al ricovero immediato nei casi più gravi. Il tutto accompagnato da misure di prevenzione: come per esempio quella di evitare assembramenti, promuovere l’utilizzo di fazzoletti monouso, predisporre detergenti nelle celle.

Il Dap si è mosso per tempo non a caso, vista la maggiore diffusione nelle carceri, rispetto a quanto avviene fuori, di gravi patologie. "Su 65mila detenuti l’incidenza delle patologie croniche è enormemente più elevata rispetto al resto della popolazione" spiega Giulio Starnini, medico che al Dap si occupa dei servizi sanitari. Anche perché "nelle carceri transitano oltre 110mila persone (molti detenuti restano meno di tre - cinque giorni),senza contare il personale, i volontari, gli avvocati e visitatori". E quanto sia più elevato il rischio di contagio nei penitenziari lo dicono i numeri: "Il 7% dei detenuti soffre di patologie legate all’Hiv, il 30 per cento di epatite cronica C e la diffusione della tubercolosi è 100 volte superiore a quella del resto della popolazione".

Giustizia: Amapi; da novembre vaccinazione anche ai detenuti

 

Adnkronos, 29 ottobre 2009

 

Per la nuova influenza A la situazione nelle carceri italiane "è sotto controllo: non è rosea, ma nemmeno plumbea". Si è appena conclusa "la vaccinazione stagionale a cui si è sottoposto il 60% della popolazione carceraria. E tra il 7 e l’8 novembre arriverà negli istituti penitenziari il vaccino contro il virus H1N1 a cui aderirà, presumibilmente, la metà dei detenuti". A fare il quadro della pandemia nei penitenziari italiani è Francesco Ceraudo, ex presidente dell’Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiani (Amapi) e direttore del Dipartimento per la salute in carcere della Regione Toscana, dove controlla i 20 istituti regionali.

Dopo la morte all’ospedale Cotugno di Napoli di un detenuto del carcere di Poggioreale, ricoverato insieme ad altri tre ospiti dello stesso istituto, Ceraudo invita ad evitare gli allarmi. "Sui rischi della pandemia l’amministrazione centrale dei penitenziari - spiega Ceraudo - anche se non è più direttamente responsabile della sanità in carcere, ha fatto ripetute circolari per richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità di sanificare gli ambienti, mettere in ogni cella il sapone disinfettante, evitare assembramenti. E anche per dare indicazioni ai detenuti su come lavarsi le mani e su come starnutire. Bisogna dare atto che c’è stata una forte attenzione sul tema".

Grande attenzione anche da parte delle Asl, alle quali dal 1 aprile 2008 è affidata l’assistenza ai detenuti, che "hanno messo a disposizione guanti, mascherine. In Toscana - continua Ceraudo - hanno messo a disposizione tutta la loro rete dei servizi. Oltre alle raccomandazione, hanno inviato materiale per sanificare gli ambienti e per equipaggiare i medici". In Italia i detenuti sono circa 65 mila. Per loro sono in arrivo le dosi di vaccino contro l’influenza A che "serviranno a immunizzare circa la metà delle persone in carcere", dice Ceraudo, sottolineando che ad accettare il vaccino è in genere una percentuale non superiore al 60%.

Giustizia: Osapp; pandemia potrebbe partire da istituti pena

 

Asca, 29 ottobre 2009

 

"Qualcuno ci aveva assicurato che di allarme influenza A non era opportuno parlare, soprattutto per il carcere. Ora il detenuto morto la scorsa notte all’ospedale Cotugno di Napoli ripropone la questione dell’alto rischio a cui è sottoposto il nostro personale".

È quanto ha dichiarato Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il secondo sindacato della Polizia penitenziaria che ha lanciato l’allarme sul rischio del diffondersi del virus proprio negli istituti carcerari.

"Non diremmo questo se nelle attuali strutture carcerarie non ci fosse quel livello di promiscuità tra detenuti, e tra detenuto e poliziotto, che ci obbliga a lanciare l’allarme", ha spiegato il rappresentante dell’Osapp che è tornato a parlare di "promiscuità, sovraffollamento e scarso livello igienico" nelle carceri italiane. "Non vorremmo - si conclude - che proprio dal carcere inizi quella pandemia che in molti, nelle scorse settimane, hanno ipotizzato".

Giustizia: famiglia e politica chiedono verità su Stefano Cucchi

 

Redattore Sociale - Dire, 29 ottobre 2009

 

Verità su Stefano Cucchi. E in tempi rapidi. La invocano la famiglia, i legali e la politica. Tutti insieme oggi hanno convocato una conferenza stampa in Senato per chiedere di fare luce sulla morte del 31enne romano, fermato giovedì 16 ottobre nel parco degli Acquedotti perché in possesso di venti grammi di sostanze stupefacenti, e morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini giovedì 22, dopo essere passato per il Tribunale, il Regina Coeli e il Fatebenefratelli. Otto interminabili giorni durante i quali la famiglia ha tentato invano di vedere il loro caro e di parlare con i medici che lo avevano in cura.

Per sollecitare l’opinione pubblica, il padre Giovanni e la sorella Ilaria hanno distribuito le foto del corpo di Stefano scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Immagini "drammaticamente eloquenti", come le ha definite Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto e promotore dell’iniziativa: "Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo - aggiunge - E danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano. La famiglia ha pensato molto se distribuirle, perché oltre ad essere scioccanti fanno parte della sfera intima".

Si vede così un corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo è passato ai 37), con il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura.

Al momento è stata aperta un’inchiesta d’ufficio. Il legale della famiglia, Fabio Anselmo, spiega che "l’atto di morte è stato acquisito dal Pm, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale". Dal quale si evince che "sul corpo non sono stati riscontrati traumi lesivi che possano aver causato la morte, ma escoriazioni, ecchimosi e presenza di sangue nella vescica. Aspettiamo gli esiti dell’esame istologico".

L’avvocato, poi, ci tiene a precisare che "noi non accusiamo nessuno. Stefano è uscito di casa in perfette condizioni di salute e non è più tornato. Chiediamo che non ci sia un valzer di spiegazioni frettolose e spesso in contraddizione tra loro e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano". Il prossimo passo sarà la costituzione di un pool di medici esperti in grado di "vagliare criticamente il poco materiale che abbiamo".

Anche il mondo della politica farà la sua parte. Così promettono Emma Bonino, Flavia Perina, Renato Farina e Marco Perduca, presenti oggi alla conferenza stampa. "Cose di questo genere - ha detto Perina - succedono nel far west e non in uno Stato di diritto". Secondo Bonino, poi, "è in gioco la credibilità delle istituzioni. Lo Stato deve rispondere all’opinione pubblica". Marco Perduca, infine, annuncia che "come commissione parlamentare sui diritti umani prenderemo in considerazione una missione ispettiva al reparto detentivo del Pertini". Farina, che ha visitato il nosocomio, ha riferito infine di "una struttura peggio del carcere".

 

Il padre: chiediamo chiarezza al ministro La Russa

 

"Mio figlio in quei momenti era sotto la tutela dello Stato e dunque questa vicenda non può passare sotto silenzio. E dato che è stato preso in consegna dai carabinieri chiediamo chiarezza al ministro della Difesa, Ignazio La Russa". È quanto ha affermato Giovanni Cucchi, padre di Stefano, il 31enne romano arrestato il 16 ottobre per possesso di droga e morto il 22 ottobre all’ospedale Pertini dopo essere stato rinchiuso nel carcere Regina Coeli.

Nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta in Senato, Giovanni Cucchi è apparso visibilmente provato ("Siamo una famiglia distrutta dal dolore"), ma determinato, e ha tentato di raccontare il figlio: "Era un ragazzo come tanti, pieno di vita, cordiale. Era un geometra, in passato incappato nella droga, da cui però era uscito grazie a una comunità di recupero". Quindi ha rivolto una serie di domande: "Chiediamo allo Stato perché non è stato chiamato il suo avvocato di fiducia, come aveva chiesto, quando è stato arrestato? Perché ha subito le lesioni? Chi e quando sono state prodotte? Perché ci è stato impedito di parlare con i medici? Perché in sei giorni ha avuto una tale debilitazione?".

La sorella, Ilaria, ha commentato le dichiarazioni rilasciate ieri dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nel corso di un question time alla Camera: "Lo ringrazio, spero che ora inizi a interessarsi davvero perché non mi sembra che abbia risposto o abbia detto qualcosa di nuovo. Ha letto gli atti".

Anche lei, poi, ha ricordato suo fratello Stefano: "Lo abbiamo visto uscire di casa sano e lo abbiamo rivisto in condizioni pietose. Mio fratello è stato lasciato morire in solitudine, aveva chiesto una Bibbia perché sapeva che stava per morire. Nessuno lo ha tutelato". Inoltre, Ilaria Cucchi ha voluto precisare anche che "è stato fermato per una modica quantità di hashish. Quello che qualcuno ha detto essere ecstasy, in realtà erano due pasticche regolarmente prescritte dal medico perché mio fratello soffriva di epilessia".

 

Marroni (garante detenuti): esposto a procura su morte Stefano Cucchi

 

"Auspico che le indagini avviate dal Prap e dalla Procura della Repubblica, di cui ha parlato oggi il ministro della Giustizia, contribuiscano a fare piena luce sulla morte di Stefano Cucchi, una vicenda che presenta lati oscuri non ancora del tutto chiariti che meritano un approfondimento". È questo il commento del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni dopo aver ascoltato la riposta del ministro della Giustizia Angelino Alfano all’interrogazione presentata dai parlamentari Bernardini e Giachetti sulla vicenda del 31enne romano morto il 22 ottobre nella struttura sanitaria protetta dell’Ospedale Sandro Pertini. Sul caso, il Garante dei detenuti ha preannunciato anche l’invio di un suo esposto alla Procura della Repubblica di Roma.

Spero che l’impegno del ministro a fare piena luce sull’accaduto abbia un immediato riscontro - ha detto Marroni - Però, come Garante ho l’obbligo di contribuire a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti nelle carceri della Regione, primo fra tutti quello alla vita. Per questo, non disponendo di poteri specifici di intervento, al fine di accertare l’eventuale commissione di reati mi limito a riferire i fatti alla magistratura". Nel suo esposto alla Procura il Garante ripercorre, per sommi capi, la vicenda del giovane Cucchi, arrestato nella notte tra il 15 e 16 ottobre per possesso di una modesta quantità di stupefacente e morto una settimana dopo.

"Dalle verifiche condotte dall’Ufficio del Garante presso le autorità sanitarie e quelle penitenziarie - riferisce la nota del Garante - risulterebbero, in particolare, due punti importanti: il pomeriggio prima della morte i medici dell’ospedale Pertini avrebbero avvisato con una relazione allegata alla cartella clinica, il magistrato delle difficoltà a gestire le condizioni del paziente, che avrebbe tenuto un atteggiamento di rifiuto verso i trattamenti terapeutici. Inoltre, il personale sanitario non sarebbe mai venuto a conoscenza, se non dopo la morte, della richiesta di colloquio dei familiari, per altro ritenuto dai medici fondamentale in ogni caso".

"Ora - conclude Marroni - attendiamo l’esito degli esami autoptici per comprendere cosa è esattamente successo a questo ragazzo. Al di là tutto, io credo che aver impedito ai genitori di vedere il figlio per giorni è un fatto di una gravità estrema, così come è grave, se vera, la circostanza riferita dai parlamentari secondo cui al perito della famiglia sarebbe stato impedito di assistere all’autopsia".

 

Manconi: lesioni e traumi sul suo corpo

 

"Ho avuto modo di vedere le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata": è quanto dice, in una nota, Luigi Manconi, già sottosegretario alla Giustizia, presidente dell’associazione A Buon Diritto.

È inconfutabile - aggiunge - che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi, come testimoniato dai genitori, è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi nella regione palpebrale bilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni.

È inconfutabile - dice ancora Manconi - che, una volta giunto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. È inconfutabile che l’esame autoptico abbia rivelato la presenza di sangue nello stomaco e nell’uretra. È inconfutabile, infine - aggiunge - che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture statuali (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere, senza che una sola delle moltissime circostanze oscure o controverse di questo percorso che lo ha portato alla morte sia stata ancora chiarità.

 

Venier (Pdci): Alfano faccia chiarezza su caso Cucchi

 

Quante persone "cadono" nelle caserme e nelle carceri italiane? Ciò che ha detto il Ministro Alfano è del tutto insufficiente a fare chiarezza su una vicenda che rischia di minare la credibilità delle Istituzioni come è già successo in altri casi terribili. Speriamo di non dover assistere alle stesse sofferenze che hanno dovuto affrontare i familiari di Federico Aldovrandi e Aldo Bianzino per ottenere un minimo di giustizia per la morte dei loro cari". È quanto afferma Jacopo Venier, dell’ufficio politico del Pdci - Federazione della Sinistra, riferendosi alla vicenda di Stefano Cucchi.

 

Alfano: la morte di Stefano Cucchi esige immediati approfondimenti

 

La morte di Stefano Cucchi, come tutte le morti avvenute in condizioni apparentemente non chiare, esige un approfondimento immediato che ho già avviato, per i poteri di mia competenza". Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano, nel corso del question time alla Camera. Alfano ha poi voluto precisare: "Io personalmente seguirò con estrema attenzione tutti gli sviluppi della vicenda e adotterò ogni iniziativa di mia competenza che possa risultare utile per fare luce sugli eventi". Il Guardasigilli ha anche comunicato che: "La Magistratura inquirente romana ha avviato le indagini e acquisito la documentazione medica del detenuto conferendo un incarico a un perito per l’esame autoptico al fine di appurare le cause e i mezzi che hanno prodotto la morte".

Alfano, in base ai dati riferiti dall’Amministrazione penitenziaria, ha ricostruito in Aula la vicenda del detenuto morto il 22 ottobre. "Stefano Cucchi è stato tratto in arresto il 15 ottobre per rispondere del reato di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti - ha ricordato Alfano - il 16 ottobre è stato condotto dinanzi al Tribunale di Roma per la convalida dell’arresto e quivi refertato dal medico dell’ambulatorio della città giudiziaria". Il medico, ha riferito Alfano, ha riscontrato "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente" e, ha aggiunto, "ha avuto riferite dal Cucchi medesimo, lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori e queste ultime non verificate dal sanitario a causa del rifiuto di ispezione espresso dal detenuto".

"Condotto al carcere di Regina Coeli - ha continuato il ministro nella sua ricostruzione - il detenuto è stato regolarmente sottoposto alla visita medica di primo ingresso. Il referto redatto in istituto - ha detto Alfano - ha evidenziato la presenza di ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione e arti inferiori". Il medico, inoltre, ha continuato Alfano, "ha dato atto di quanto riferito dal detenuto". Vale a dire, ha spiegato, che il detenuto "ha detto di una caduta accidentale dalle scale, necessitante, a parere dello stesso sanitario, di una visita ambulatoriale urgente presso un ospedale esterno, ove il Cucchi è stato accompagnato alle 19.50 dello stesso giorno".

"Visitato presso l’ospedale Fatebenefratelli - ha continuato il ministro - gli sono state riscontrate, "la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea". Sebbene invitato al ricovero, il Cucchi ha rifiutato l’ospedalizzazione ed è stato quindi dimesso contro il parere dei sanitari". "Il giorno 17 - ha continuato Alfano - il Cucchi è stato nuovamente visitato dal medico di Regina Coeli il quale, riscontrati quelli che il detenuto riferiva essere i postumi di una caduta accidentale, verificatasi il giorno precedente, ha disposto ulteriori accertamenti da effettuarsi presso il Fatebenefratelli.

Trasferito nella struttura ospedaliera, il Cucchi ha chiesto il ricovero per via del persistente dolore nella zona traumatizzata e per riferita anuria".

"Alle ore 19 del medesimo giorno - ha aggiunto Alfano - il Cucchi è stato ricoverato presso il reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini dove è deceduto la mattina del 22 ottobre per presunta morte naturale, come da certificazione medica rilasciata dal sanitario ospedaliero".

"Faccio presente - ha detto il ministro al termine della sua ricostruzione - che il 23 ottobre, con un provvedimento della competente Direzione generale dell’Amministrazione penitenziaria, è stata affidata al provveditore regionale per il Lazio un’indagine immediata, volta ad appurare le cause e le circostanze e le modalità dell’accaduto".

Giustizia: Osapp; indagini su tutto ciò che accade nelle carceri

 

Il Velino, 29 ottobre 2009

 

"Perché allora non estendere le indagini conoscitive a tutto ciò che accade nelle carceri italiane?". Lo chiede Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il secondo sindacato della polizia penitenziaria, a proposito delle dichiarazioni rilasciate oggi dal ministro della Giustizia Alfano alla Camera dei Deputati sulla vicenda del detenuto morto a Regina Coeli, e sull’iniziativa proposta dai parlamentari Giachetti e Bernardini. "È necessario fare chiarezza sul caso, soprattutto quando in gioco c’è un’istituzione sacra come quella del carcere, e c’è in ballo la vita di chi entra in quelle strutture penitenziarie. La nostra non vuole essere solo una levata di scudi a protezione della categoria, deprechiamo qualsiasi evento che non faccia altro che ingigantire quell’alone di mistero che ruota intorno a un’altrettanto autorevole istituzione come quella del ‘poliziotto penitenziario.

Disporre un’interrogazione parlamentare paventando l’idea di chissà quale episodio non è molto diverso dall’accusare 43 mila poliziotti impegnati ogni giorno per la salvaguardia della sicurezza dei detenuti".

"Se vogliamo dare un nome a ciò che è avvenuto a Stefano Cucchi - aggiunge Beneduci - , in risposta alla domanda di giustizia invocata dai genitori, risposte che certamente non devono venire da noi, di aggressioni ne avvengono di continuo in carcere. D’altra parte sappiamo tutti come vengono gestiti i feudi penitenziari, al nord come al Sud: e per quale motivo il carcere stia diventando oramai e sempre più, per responsabilità diretta di chi li gestisce, una terra di nessuno dove a capitarci è sempre più spesso il detenuto, come l’agente penitenziario.

Quanti agenti finiscono ogni mese in ospedale perché aggrediti e picchiati? Diversamente da ciò che è l’intento propagandistico di certe iniziative, non faremo facili ragionamenti di schieramento. Esortiamo comunque i radicali e Bernardini a non dare retta a certe sirene, che oscurano la mente, per impegnarsi con tutte le energie possibili, invece, in un’indagine conoscitiva a tutto raggio che concepisca il carcere come istituzione da salvare. Probabilmente qualche testa finalmente cadrà".

Giustizia: Sappe; dopo morte Cucchi di noi immagine negativa

 

Ansa, 29 ottobre 2009

 

Nell’esprimere rispetto per il dolore dei familiari di Stefano Cucchi, il detenuto morto all’ospedale Pertini di Roma, il segretario del Sappe, Donate Capece, respinge - in una lettera a un quotidiano - l’immagine negativa che alcune cronache giornalistiche hanno reso del personale di polizia penitenziaria.

"Le regole di accesso alla struttura detentiva dell’Ospedale Pertini - sottolinea il segretario - sono le medesime, rigorose, di un carcere, disciplinate da leggi e regolamenti dello Stato". Per visitare un detenuto degente, ricorda Capece, bisogna osservare le stesse procedure preliminari necessarie per i colloqui con i detenuti in carcere. "E da quanto a noi risulta - aggiunge - questo è quanto ha detto la nostra collega, senza alcun scatto d’ira, ai familiari di Stefano Cucchi accorsi in carcere. Null’altro avrebbe potuto dire loro".

"Si deve dunque - conclude - rigettare l’immagine negativa che si ricava da certe cronache giornalistiche sull’operato del Personale di Polizia penitenziaria, donne e uomini che quotidianamente lavorano con grande professionalità nel difficilissimo contesto penitenziario, arrivando a salvare una media di 10 detenuti al mese che tentano di togliersi la vita".

Lettere: davvero l’ergastolano non ha sesso… come gli angeli?

di Carmelo Musumeci (ergastolano detenuto a Spoleto)

 

www.linkontro.info, 29 ottobre 2009

 

L’amore in carcere è misterioso per necessità. Gli affetti e le relazioni erotiche, il rapporto stesso di un individuo con le persone amate, con la propria vitalità e con i desideri viene sepolto. Di fronte alla impossibilità di coltivare i sentimenti se non in forme frammentare ed episodiche, spesso i detenuti e le detenute cancellano l’idea stessa di potersi sentire ancora vivi e vive nel cuore. Mentre il corpo viene abbandonato come un cadavere nel fiume, oppure, al contrario, imbalsamato nella cura ripetitiva degli esercizi di palestra, fino a raggiungere una forma perfetta quanto inservibile.

Mi hanno raccontato molti giovani ergastolani che la prima cosa che hanno pensato quando hanno sentito di essere condannati all’ergastolo è stata che non avrebbero più fatto l’amore. Spesso questa constatazione è più dolorosa della perdita della stessa libertà. Il divieto di non poter dare un bacio passionale per dieci, venti, trent’anni, forse per sempre, alla compagna che si ama è devastante. Nel vedere alla televisione lo scambio di carezze e di baci e nel sentirsi esclusi, ci si rende conto di non far più parte di questo mondo. Molti ergastolani sono consapevoli di avere buone probabilità di non avere più contatti ravvicinati con il sesso femminile, almeno in età funzionale. I più giovani ne fanno una tragedia, i più anziani sperano invece nel viagra. Quando passa un ergastolano, i detenuti con pena temporanea gli dicono dietro: "quello non la vedrà mai più."

Molti detenuti usano il palliativo della masturbazione. Questa diventa uno sfogo fisico, un’abitudine senza nessun desiderio, senza arte né parte. Ci si masturba per aiutare il sonno, per noia. Molti non facevano l’amore in libertà tutti i giorni con le proprie compagne ed invece in carcere si masturbano tutte le sere. La cosa buffa che gli stessi detenuti non sanno è che masturbarsi in carcere è reato perché questo è un luogo pubblico e puoi essere denunciato per atti osceni o punito con la perdita di un semestre della liberazione anticipata e sono 45 giorni di galera in più. Senza contare che spesso avere un attimo di intimità in carcere è più difficile che fare una rapina. Devi pianificare tutto. L’orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l’infermiera con la terapia, ecc. Se tutto va bene, non devi tirare l’acqua perché in una cella accanto all’altra si sente tutto ed il tuo compagno a lato, dal tempo passato che ha sentito chiudersi la porta del bagno e da quando hai tirato lo sciacquone, si può immaginare che ti sei masturbato. E dà fastidio il pensiero che un compagno possa immaginare quando ti "fai una sega". Insomma l’amore in carcere è difficile in tutti i sensi. È esperienza comune che gli attimi migliori d’amore sono quando sei in punizione in isolamento.

Nel gergo carcerario i giornali pornografici vengono chiamate "famiglie cristiane". Un mio conoscente teneva con sé da ben cinque anni una rivista pornografica che raffigurava le performance erotiche di una donna alla quale si era particolarmente affezionato; ne era sessualmente stimolato come nessun altra protagonista riusciva a fare, e con lei nel tempo aveva stabilito "un rapporto" tale per cui se ne considerava e se ne diceva innamorato e perfino "geloso". Infatti non prestava mai a nessuno quel suo porno del cuore.

Ho sentito da fonte diretta che molti ex detenuti, una volta fuori, non riescono a fare l’amore se non hanno l’aiuto di un pornografico perché ormai sono abituati ad eccitarsi con gli occhi e non riescono più a farlo con il resto del corp. Anzi rimangono delusi dalla fisicità del rapporto.

 

Alcune testimonianze

 

Giulia: "E forse alla fine si sublima tutto. Lo fanno gli uomini, con gli innamoramenti di fantasia, ma anche le donne: perché si scrivono con il mondo intero ‘ti amo, ti voglio, sono solo tua, ti faccio questo, ti farei quello, ti prendo ti smonto e poi ti rimontò? Naturalmente è solo un rapporto virtuale, però ti riempie la vita. Ho conosciuto una donna in carcere che aveva un rapporto epistolare con un uomo conosciuto tramite lettera. Bene, questa persona è uscita e non riescono ancora ad incontrarsi davvero. Scopano per telefono. Cioè questa persona non è riuscita ad avere un rapporto normale dopo che ha fatto tanti e tanti anni di carcere. Questa persona è ancora legata al carcere, è stata istituzionalizzata fino in fondo".

Catello: "Ho due figlie, una avuta quando ero fuori, ed è il dono più bello che il Signore mi ha dato da libero, e una nata quando già ero detenuto da cinque anni. È stata concepita nell’area verde di Rebibbia. Sono riuscito a beffare tutti, anche la morte, dando la vita ad un angelo. È stata la gioia più grande".

Nicola: "Quando sono entrato in carcere ero ancora un ragazzo. Avevo diciannove anni, e la prima volta che sono uscito ne avevo trentuno. Premetto che avevo fatto l’amore per un breve periodo prima del mio arresto. Poi mi sono astenuto forzatamente per dodici anni. Dunque, la prima volta che sono uscito un amico mi ha chiesto cosa volessi da mangiare. La mia risposta è stata di portarmi a donne. Così è stato. E però in un certo modo sono rimasto con l’amaro in bocca. Quella prima esperienza aveva in pratica smitizzato la mia attesa, deluso ogni aspettativa, annullato tante illusioni che mi ero fatto prima".

 

Cosa accade negli altri Paesi: uno sguardo in giro per il mondo

 

In Croazia sono consentiti colloqui non sorvegliati di quattro ore con il coniuge o il partner.

In Germania alcuni Lander hanno predisposto piccoli appartamenti in cui i detenuti con lunghe pene possono incontrare i propri cari.

In Olanda, Norvegia e Danimarca vi sono miniappartamenti, immersi nel verde, forniti di camera matrimoniale, servizi e cucina, dove si ha diritto di ricevere visite senza esclusioni relative alla posizione giuridica dei reclusi.

In Finlandia quanto sopra vale per coloro che non possono usufruire di permessi.

In Albania, una volta alla settimana, sono previste visite non sorvegliate per i detenuti coniugati.

In Québec, come nel resto del Canada, i detenuti incontrano le loro famiglie nella più completa intimità per tre giorni consecutivi all’interno di prefabbricati siti nel perimetro degli istituti di pena.

In Francia, come in Belgio, sono in corso sperimentazioni analoghe: la famiglia può far visita al detenuto in un appartamento di tre stanze con servizi, anche per 48 ore consecutive; il costo dell’iniziativa è a carico dei parenti.

In Canton Ticino (Svizzera), chi non fruisce di congedi esterni può contare su una serie articolata di colloqui anche intimi in un’apposita casetta, "La Silva", per gli incontri affettivi.

In Catalogna (Spagna) si distinguono i "vis a vis", incontri in apposite strutture attrezzate per accogliere familiari e amici, mentre nell’ospedale penitenziario di Madrid, un progetto prevede l’istituzione di tre camere "per le relazioni affettive" fornite di servizi.

Pur rigidamente regolata da norme, la possibilità di coltivare i propri affetti è prevista anche in alcuni Paesi degli Stati Uniti d’America, precisamente in Mississippi, New York, California, Washington e New Mexico. Tra gli anni 70 e 80, negli istituti di pena sono stati introdotti i cosiddetti "Coniugal Familiy Visitation Programs": i detenuti possono incontrare ogni due settimane il coniuge e ogni mese tutta la famiglia in una casa mobile sita all’interno del carcere, per tre giorni consecutivi.

Persino in realtà molto lontane e disastrate l’affettività è considerata una componente ineliminabile della vita del detenuto: in Brasile, ove le condizioni detentive sono spaventose, ogni recluso ha diritto, ogni settimana, ad un incontro affettivo di un’ora con chi desidera, indipendentemente da precedenti rapporti di convivenza riconosciuti dallo Stato.

Nel carcere femminile di Caracas in Venezuela, dove manca praticamente tutto, vi sono cinque piccole camere con servizi dove le detenute possono ricevere, ogni 15/30 giorni, il marito o il fidanzato.

Lettere: Olindo e Rosa sono alle prese con un avatar kafkiano

di Stefano Anastasia (Difensore civico dei detenuti dell’Associazione Antigone)

 

Terra, 29 ottobre 2009

 

Olindo e Rosa, a sentire la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, devono potersi incontrare almeno una volta ogni quindici giorni, e l’Amministrazione penitenziaria deve assicurare che ciò avvenga, portando l’uno a colloquio dall’altra (o viceversa) con gli ordinari mezzi di traduzione dei detenuti. Anche gli autori dei delitti più efferati, nel rispetto della Costituzione, della legge, del regolamento penitenziario e di una infinità di raccomandazioni degli organismi internazionali, hanno diritto di coltivare le loro relazioni familiari e affettive. Figuriamoci se questa previsione possa essere negata a Silvia e Rinaldo, in carcere da un paio d’anni per spaccio di stupefacenti, e dunque, senza aver ammazzato nessuno, e che per di più hanno la fortuna di essere alloggiati in due istituti limitrofi, non l’uno a Parma e l’altra a Vercelli, come la coppia più famosa dei penitenziari d’Italia.

E invece no: nonostante l’autorizzazione del Pm che, a chiusura delle indagini preliminari, garantiva ai due la possibilità di incontrarsi le quattro volte mensili previste da regolamento, da allora a oggi, in un anno e mezzo, Silvia e Rinaldo hanno potuto vedersi solo cinque volte, una volta ogni tre mesi.

Abbiamo partecipato anche noi, in anni ormai lontani, alla diffusione della vulgata che vuole ogni carcere come un mondo a sé, e sarebbe facile prendersela con il direttore del carcere di lui o con il direttore del carcere di lei: chi dei due impedisce a Silvia e Rinaldo di vedersi quattro volte al mese e di dar seguito a uno dei sacri principi del "trattamento penitenziario", il mantenimento delle relazioni familiari?

E invece (ancora) no: non è colpa della balcanizzazione degli Istituti penitenziari. C’è un potere centrale, occhiuto e severo, che ha deciso così: Silvia e Rinaldo non possono vedersi per la surreale ragione che "la normativa vigente non contempla il diritto di un detenuto a traduzioni e/o trasferimenti provvisori per l’effettuazione di colloqui", e se la normativa non contempla, l’amministrazione non dispone. Lasciamo perdere questa infantile concezione del potere discrezionale delle amministrazioni pubbliche, che possono - secondo l’estensore della nota di risposta alla richiesta di chiarimento della direzione di uno dei due istituti - soltanto fare ciò a cui sono obbligati dalla legge: giustamente l’esperta direttrice del carcere di lei "fa peraltro presente che in analoghi casi il nulla osta alla traduzione… è stato concesso senza problemi di sorta".

Olindo e Rosa hanno trovato un giudice a Reggio Emilia; Silvia e Rinaldo sono ancora alle prese con un avatar kafkiano, asserragliato tra codici e pandette nei corridoi bui dell’Amministrazione penitenziaria.

Parma: detenuto si uccide impiccandosi con i giornali arrotolati

 

Ansa, 29 ottobre 2009

 

Un presunto affiliato alla ‘ndrangheta, Francesco Gozzi, di 52 anni, esponente della cosca Latella di Reggio Calabria, si è tolto la vita nel carcere di Parma dove stava scontando, in regime di 41 bis, la condanna all’ergastolo. Gozzi si è impiccato utilizzando alcuni fogli di giornale intrecciati in modo da formare una corda. La Procura della Repubblica di Bologna ha avviato un’inchiesta ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. In precedenza Gozzi aveva attuato altri due tentativi di suicidio. Stando a quanto emerso Gozzi era psicologicamente provato dal regime carcerario cui era sottoposto. Una situazione che era stata segnalata dai difensori di Gozzi, gli avvocati Carmelo Malara e Lorenzo Gatto, che avevano chiesto, senza ottenere alcuna risposta, il trasferimento dell’ergastolano in un centro clinico specializzato.

Napoli: detenuto 50enne muore, a causa dell’influenza "suina"

 

Asca, 29 ottobre 2009

 

Il detenuto morto la scorsa notte all’ospedale Cotugno di Napoli stava scontando nel carcere di Poggioreale - nella sezione destinata ai definitivi - una pena all’ergastolo. A Poggioreale era giunto nello scorso mese di maggio. A quanto si apprende, l’uomo - che era originario della Sicilia - era sottoposto ad un particolare regime di vigilanza. Il detenuto morto, Marcello Calì, 50 anni, era stato arrestato nel 1990. Era stato condannato per violenza sessuale su una bambina di sei anni e per omicidio. Nel 2004 Marcello Calì, originario di Aidone, un piccolo centro della provincia di Enna, tentò il suicidio nel carcere di Sulmona: si taglio le vene ma venne soccorso in tempo dagli operatori della polizia penitenziaria.

A Poggioreale era stato trasferito la scorsa primavera dal penitenziario di Reggio Calabria e proprio a causa delle sue condizioni di salute era stato destinato al centro clinico del penitenziario napoletano.

Isernia: detenuto tunisino 30enne trovato morto, è un infarto

 

Il Centro, 29 ottobre 2009

 

"È triste pensare che Rahmoni non ci sia più". L’improvvisa morte del detenuto 30enne di origine tunisina stroncato lunedì da un infarto cardiaco nel carcere di Isernia provoca sconcerto e dolore fra i detenuti ed il personale di custodia di Torre Sinello. Fra le mura del carcere di Punta Penna, Rahmoni Wissem ha trascorso otto mesi. Un passato di droga alle spalle, il giovane tunisino a Vasto ha lasciato molti amici. Lo ricordano tutti in buona salute.

"Se Rahmoni soffriva di problemi cardiaci è stato molto bravo a nasconderlo, certo non aveva un carattere facile: a volte era allegro e ben disposto verso tutti, altre volte era cupo, si chiudeva in se e discuteva per un nonnulla con i compagni di cella", raccontano alcuni operatori. Arrestato nel 2008 a Perugia per reati legati allo spaccio di droga, il giovane tunisino è arrivato a Vasto dopo aver trascorso prima un periodo di reclusione in Umbria. Nonostante gli sbalzi d’umore, era riuscito a integrarsi e a farsi voler bene. All’inizio del mese è stato trasferito ad Isernia.

Nessuno ha più avuto notizia di lui fino a due giorni fa quando è stato trovato morto nella sua cella del carcere a Ponte San Leonardo da un agente di custodia. L’intervento dei medici non è servito a nulla. Il referto parla di "blocco dell’attività cardiaca". La Procura di Campobasso non ha ritenuto necessaria l’autopsia ed ha messo la salma a disposizione dei familiari. La polizia penitenziaria, attraverso l’ambasciata tunisina a Roma, ha avviato le ricerche dei parenti.

Teramo: registrazione audio, proverebbe violenze su detenuto

 

Ansa, 29 ottobre 2009

 

La Procura della Repubblica di Teramo ha aperto un fascicolo d’indagine sul caso del presunto pestaggio di un detenuto rinchiuso nel carcere di Castrogno, da parte di agenti di polizia penitenziaria, riportato questa mattina dal quotidiano locale La Città.

Il sostituto procuratore David Mancini ha disposto l’acquisizione dei supporti magnetici su cui sarebbe stato registrato il colloquio tra alcuni agenti che raccontavano l’episodio, verificatosi alla presenza di altri detenuti. Nella registrazione audio, catturata con un cellulare, è chiaramente udibile il colloquio, agitato, tra due dipendenti del carcere, in cui si fa riferimento all’episodio del detenuto picchiato con sottolineature dell’errore commesso "a farlo in sezione" e non sotto, lontano dalle celle, dove nessuno può vedere.

Ancor più grave, sarebbe la contestazione di aver pestato il detenuto dinanzi a un altro, dunque testimone dell’accaduto. La registrazione è stata recapitata in una busta, a mezzo servizio postale, con una lettera di accompagnamento in cui l’anonimo si dichiara un detenuto stanco delle vessazioni all’interno del carcere. L’ipotesi è che, in considerazione del filtro per la posta in uscita, e del divieto di avere con sé telefoni cellulari, a registrare il colloquio sia stato un altro agente di polizia penitenziaria.

Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), in una nota "prende le distanze dalle accuse di un presunto pestaggio" ed esprime solidarietà nei confronti del personale di Castrogno e in particolar modo "al commissario Giovanni Luzi, comandante della polizia penitenziaria", che viene indicato come una delle due voci della registrazione.

"Gli uomini e le donne del corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto teramano - ha affermato il segretario provinciale, Giuseppe Pallini -, eseguono servizio con grande senso di responsabilità, abnegazione e professionalità più volte dimostrati nel recente passato, salvando la vita a detenuti che volevano suicidarsi e mai ha usato la forza nei confronti dei detenuti, se non per reprimete atti di violenza".

Ferrara: carcere invivibile; il sindaco chiede aiuto alla regione

 

Dire, 29 ottobre 2009

 

Dare una mano alla polizia carceraria con l’aiuto del presidente della Regione Vasco Errani, ma intanto a Ferrara per verificare le condizioni del carcere, arriva anche il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli. "Sostegno alla protesta delle guardie penitenziarie" con un’azione di pressing congiunta nei confronti del ministero attraverso un documento da sottoporre al presidente della Regione Vasco Errani. Il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani e il suo vice Massimo Maisto hanno incontrato questa mattina in municipio la delegazione delle organizzazioni sindacali che operano nel carcere cittadino.

Questo in attesa che venerdì mattina, riferiscono i sindacalisti oggi, il senatore del Pdl Filippo Berselli si rechi in visita alla casa circondariale ferrarese "per rendersi personalmente conto della situazione". Ma intanto la polizia incassa ancora l’appoggio del Comune. Sindacati e guardie, infatti, sono stati ricevuti dopo la manifestazione che dall’Arginone è culminata in piazza municipale (una cinquantina i presenti) allo scopo, ribadiscono i protagonisti, "di sensibilizzare e allarmare le forze politiche e i cittadini sulle condizioni critiche in cui il personale penitenziario lavora". Le sigle di settore lamentano unite che "invece di 232 gli agenti sono 166", e chiedono "condizioni di lavoro decenti e turni regolari".

Tagliani ha assicurato la sua attenzione nei confronti del problema, "che riguarda - ha scandito il primo cittadino - non solo il disagio lavorativo ma anche la sicurezza dentro e fuori la struttura di via Arginone". Tra le azioni messe in campo l’invio di una richiesta al ministro della Giustizia Angelino Alfano e al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta di "maggiore attenzione" rispetto alla situazione ferrarese. Inoltre, Tagliani inviterà il Consiglio comunale e successivamente sia la presidenza della Regione sia l’assemblea regionale a occuparsi della vicenda. "Su questo importante tema per la città - ha rimarcato Tagliani - auspico che tutte le forze politiche possano condividere queste preoccupazioni e sostenere le proposte degli operatori di polizia penitenziaria".

Da parte loro, gli agenti si dicono "molto soddisfatti" dell’attenzione ricevuta, ma promettono di tornare in piazza "nel giro di 2 settimane" se non ci saranno sviluppi concreti. Una proposta arriva anche dal consigliere provinciale Pdl Mauro Malaguti: "Si cominci a pensare al carcere inutilizzato di Codigoro e a impiegare gli addetti in lavori socialmente utili come fanno negli Usa. I lavoratori di Ferrara hanno bisogno di risposte certe".

Lodi: reinserimento, poche ditte vogliono assumere ex detenuti

 

Il Giorno, 29 ottobre 2009

 

"Finora non ho riscontrato una grossa disponibilità da parte degli artigiani di Zelo, e anche del Lodigiano, nell’assumere detenuti ed ex detenuti. Bisogna tenere conto che per il mondo artigiano questo è un momento di difficoltà economica. Secondo me questa iniziativa dovrebbe essere riproposta più avanti nel tempo".

Questo è stato il consiglio di Angelo Carelli, presidente della cooperativa artigiani riuniti di Zelo Buon Persico, durante la tavola rotonda tenutasi nella sede dell’Unione artigiani sul progetto "Il lavoro debole". Un’idea avviata nel 2005 e nata per promuovere l’inserimento nel mondo lavorativo di detenuti, "dimessi" dal carcere o che scontano pene alternative. Il progetto è nato dall’analisi della situazione domanda - offerta di lavoro. Tenendo conto di questa realtà complicata, i curatori del progetto hanno deciso di coinvolgere associazioni imprenditoriali, aziende e Amministrazioni pubbliche.

Cercando così di sensibilizzare i datori di lavoro nel reperimento di dipendenti anche tra chi ha, o ha avuto, un vissuto carcerario. La serata è stata aperta dall’intervento dell’assessore provinciale Mariano Peviani che ha dichiarato: "Un detenuto costa 300 euro al giorno. Soldi che non vanno visti come una spesa, ma come un investimento. Bisogna imparare a vedere il carcere come un luogo dove chi ha sbagliato possa avere la possibilità di crearsi una nuova vita. Per far questo i detenuti devono avere la possibilità di inserirsi nel mondo lavorativo".

Alle parole dell’assessore Peviani è seguito il discorso di Grazia Grena, curatrice del progetto. "Per le imprese lavorare con i detenuti ha valori diversi: etici, di utilità sociale, vantaggi economici e d’immagine - spiega -. Va ricordato che per le imprese pubbliche o private e le coop sociali che assumono persone detenute ammesse al lavoro esterno è previsto un credito d’imposta di 516 euro al mese per ogni assunto. Inoltre sono previsti benefici contributivi per le cooperative di tipo B. Importante è anche il vantaggio d’immagine per le ditte che così dimostrano d’assumersi una responsabilità sociale". Durante la serata ci sono stati interventi da parte dei tre datori di lavoro che hanno avuto più esperienze lavorative con ex carcerati.

Ognuno ha raccontato il rapporto che avuto con la persona e il vissuto professionale che c’è stato: negativo in alcuni casi, positivo in altri. Stefania Mussio, direttrice del carcere, ha concluso la serata: "Bisogna rafforzare le misure alternative e aver fiducia rispetto al lavoro di tutti. Spesso c’è una mentalità di diffidenza generalizzata. L’atteggiamento degli artigiani di Zelo è un atteggiamento comune ma molto poco normale, è una mentalità campanilistica, di chiusura. Non fatico a ipotizzare che chi sia diffidente nell’assumere un detenuto non voglia la colf romena!".

Gorizia: il volontariato, per reinserimento detenuti in società

 

Messaggero Veneto, 29 ottobre 2009

 

Stimolare una riflessione sulla situazione delle carceri e sulle loro prospettive: è questo l’obiettivo con cui il presidente della conferenza nazionale volontariato giustizia e i delegati delle conferenze regionali hanno indetto per venerdì a Roma un incontro di presentazione del documento "Non c’è soluzione al sovraffollamento delle carceri? Il volontariato dice sì". In qualità di responsabile della conferenza per il nostro territorio, per l’esperienza maturata alla guida della comunità Arcobaleno, don Alberto De Nadai ha invitato all’iniziativa i parlamentari del Friuli Venezia Giulia.

"La presenza degli onorevoli non solo sosterrebbe il lavoro quotidiano dei volontari che operano nelle cinque carceri della regione, ma darebbe anche fiducia a tutto il personale degli istituti penitenziari per la realizzazione di progetti necessari a un dignitoso reinserimento dei detenuti sul territorio", rimarca don Alberto nella lettera che ha inviato ai parlamentari. E a proposito delle finalità con cui è stato promosso l’incontro di venerdì, prosegue facendo esplicito riferimento allo stato critico della casa circondariale di via Barzellini: "Da tempo fra i volontari impegnati nel settore giustizia si è sviluppato un dibattito appassionato sulle possibilità di superare il concetto e la politica della pena detentiva da scontarsi nelle carceri.

La loro esistenza spesso smentisce l’applicazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione che individua nella riabilitazione del soggetto il vero scopo dell’espletamento della pena". "Operatori istituzionali e volontari, unendosi ai distretti, denunciano con sempre maggiore insistenza la situazione di pesante disagio in cui si vive negli istituti di pena, i problemi legati al sovraffollamento, al protrarsi dei termini di custodia preventiva, alla sempre più numerosa presenza di cittadini extracomunitari, nonché di soggetti a rischio come i tossicodipendenti e le persone affette da disturbi psichici.

Senza descrivere le strutture fatiscenti e inadeguate a garantire - prosegue don Alberto - condizioni di permanenza dignitose ai detenuti e al personale delle carceri di Pordenone e Gorizia". Infine, don Alberto chiarisce: "Da un anno è stato richiesto un incontro con il ministro della Giustizia, e ancora non è stato concesso. Per questo la conferenza organizza la presentazione nella sala del Cenacolo della Camera dei deputati".

Roma: a Rebibbia; è nata una ludoteca, per i bambini in visita

 

Redattore Sociale - Dire, 29 ottobre 2009

 

La ludoteca, realizzata con il contributo della regione Lazio, sarà aperta a partire da novembre il lunedì, il giovedì e il sabato. L’obiettivo? Attutire l’impatto negativo che hanno i bambini quando entrano in carcere.

Fasciatoi per bebè e play station per adolescenti, ma anche bambole, orsacchiotti, fattorie, pentoline e tappeti lavabili per gattonare in libertà. È stata presentata oggi alla stampa e al capo dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, la ludoteca "Giocamando", allestita dalla cooperativa sociale Cecilia all’interno della Casa di reclusione di Rebibbia per permettere ai bambini che vanno a trovare i papà in carcere di trovare in un ambiente più familiare e accogliente. "A partire dal mese di novembre la ludoteca sarà aperta il lunedì, il giovedì e il sabato - ha spiegato il responsabile del progetto, Lillo Di Mauro. - Potrà ospitare contemporaneamente tre nuclei familiari, per un totale di nove al giorno, e si avvarrà del contributo di operatori sociali e di uno psicologo che è possibile consultare su richiesta. L’obiettivo è di attutire l’impatto negativo che hanno i bambini quando entrano in carcere".

E infatti dove un tempo c’erano i banchi del parlatorio oggi ci sono tre divani tappezzati in cotone rosso, che permetteranno ai padri "detenuti" di trascorrere l’ora di colloquio con mogli e figli in un clima di maggiore tranquillità. "Il problema delle famiglie dei detenuti e dei loro bambini non può essere tralasciato - prosegue Di Mauro. - Molti di questi uomini e donne provengono da contesti sociali, culturali ed economici straordinariamente complessi ed hanno alle spalle famiglie multiproblematiche. Il nostro scopo è quello di raggiungere le famiglie e di aiutarle ad affrontare i problemi che la detenzione comporta". D’altro canto - precisa il responsabile del progetto - "un detenuto che riesce ad avere buoni rapporti con la famiglia può essere reinserito più facilmente e andare incontro a recidive in misura minore".

Al 1 ottobre 2009 i detenuti presenti negli istituti penitenziari della regione Lazio erano 5.837, di cui 3.652 italiani e 2.185 stranieri, per un totale di 3.983 figli. "Il 30% dei figli dei detenuti compie reati in adolescenza", spiega ancora De Mauro. "Per questo è fondamentale lavorare con le famiglie". Giocamando, che è stata realizzata grazie al contributo della regione Lazio, non è la prima ludoteca gestita dalla cooperativa Cecilia. Attualmente, infatti, l’organizzazione gestisce anche altre due ludoteche allestite a Regina Coeli e Rebibbia Femminile e realizzate con il contributo degli assessorati alle Politiche sociali e alle Politiche giovanili e alla Gioventù del comune di Roma. Ma i progetti non finiscono qui.

"È in programma la realizzazione di una ludoteca nel carcere di Mammagialla a Viterbo - continua Di Mauro -, e ci è stato anche chiesto di mettere su una ludoteca nella sezione speciale ‘collaboratorì di Rebibbia. Si tratta di sei stanze che dovremmo rendere più accoglienti". "I ragazzi non dovrebbero entrare in carcere, ma se ci entrano devono trovare un ambiente accogliente" ha commentato il capo del Dap Franco Ionta, che è stato presente all’inaugurazione della ludoteca. E quanto al sovraffollamento delle carceri nel Lazio ha dichiarato: "Stiamo facendo molto, ieri è stato aperto il nuovo carcere di Rieti che andrà a regime nei prossimi mesi".

 

A Rebibbia il 60% dei detenuti effettua regolarmente colloqui

 

È necessario che i detenuti mantengano saldi i rapporti con le famiglie, e da anni la Casa di reclusione di Rebibbia lavora in questo senso. Lo spiega il direttore Stefano Ricca, in occasione dell’inaugurazione della ludoteca "Giocamando", realizzata dalla cooperativa sociale Cecilia per accogliere in un ambiente più piacevole i bambini e le famiglie che vengono a trovare i papà detenuti. "Circa il 60% dei detenuti presenti nella Casa di reclusione di Rebibbia effettua regolarmente colloqui con i familiari - spiega Ricca -, il restante 40% è composto da stranieri o da persone che provengono da regioni distanti".

Da anni i colloqui con le famiglie si svolgono all’aperto, almeno quando il clima lo permette. E infatti all’interno dell’istituto penitenziario c’è un giardino dotato di tavoli e gazebo dove è possibile trascorre il tempo con maggiore serenità. Sempre all’interno del carcere poi vengono festeggiati anche quattro momenti dell’anno, che favoriscono un’ulteriore occasione di incontro per i detenuti e i loro familiari: si tratta dell’Epifania, la festa del Papà, la festa della mamma e la festa della famiglia che cade in autunno.

"Per favorire il mantenimento dei rapporti con le famiglie - prosegue il direttore - abbiamo fatto in modo che il servizio di colloquio ci fosse anche la domenica. Un modo non solo per rimanere più facilmente in contatto, ma anche per far sì che non vengano perse giornate di scuola o di lavoro". Ma cosa comporta questo impegno a favore della famiglia? "Un gradito, ma ulteriore onere di lavoro per il personale penitenziario - risponde Ricca. - Avremmo bisogno di ben altre risorse, ma riusciamo comunque a lavorare. Il nostro obiettivo è non ridurre la qualità dei servizi offerti pur in carenza di risorse".

 

 

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