Rassegna stampa 31 ottobre

 

Giustizia: calvario di Stefano, tutti chiedono di sapere la verità

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 31 ottobre 2009

 

Prima di tutto riguardiamo le fotografie di Stefano Cucchi. Quelle di un giovane magro, un geometra, che ha avuto a che fare con la droga e sa che gli potrà succedere ancora, e intanto vive, sorride, lavora, abbraccia sua madre, scherza con sua sorella. I giornali in genere hanno preferito pubblicare queste. E quelle di un morto, scheletrito, tumefatto, infranto, il viso che eclissa quello del grido di Munch e delle mummie che lo ispirarono, il corpo di una settimana di Passione dell’ottobre 2009. La famiglia di Stefano ha deciso di diffondere quelle fotografie. Nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte, senza guardarle.

Per una volta, sembra che tutti (quasi) ne provino orrore e sdegno, e vogliano la verità e la punizione. È consolante che sia così. Ma è difficile rassegnarsi alle frasi generiche, anche le più belle e sentite. C’è un andamento provato delle cose, e le parole devono almeno partire da lì. Certo, le parole possono osare l’inosabile. Possono, l’hanno fatto perfino questa volta, dire e ripetere che Stefano Cucchi "è caduto dalle scale". Non è nemmeno una provocazione, sapete: è una battuta proverbiale. Se incontrate uno gonfio di botte in galera, lo salutate così: "Sei caduto dalle scale". Hanno un gran senso dell’humour, in galera. Lo si può anche mettere per iscritto e firmare. Sembra che anche Stefano l’abbia messo a verbale presso il medico del carcere: "Sono caduto dalle scale". È un modo per evitare di cadere di nuovo dalle scale. Il meritorio dossier Morire in carcere curato da "Ristretti orizzonti" certifica che le morti per "cause da accertare" sono più numerose di quelle per "malattia".

Tuttavia bisogna guardarsi dall’assegnare senz’altro il calvario di Stefano al capitolo carcerario. Per due ragioni, già documentate a sufficienza. La prima: che fra la persona integra arrestata col suo piccolo gruzzolo di sostanze proibite e la persona cui vengono certificate nell’ambulatorio del tribunale "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente", e che lamenta "lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori" (i medici del carcere le preciseranno come "ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione", e quelli dell’ospedale come "frattura del corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e frattura della vertebra coccigea") fra quelle due condizioni c’è stata solo una notte trascorsa in una caserma di carabinieri.

Il ministro della Difesa - un avvocato penalista - pur declinando ogni competenza nel caso, ha creduto ieri di dichiarare: "Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione". Non so come abbia fatto. So che qualcuno vorrà ammonirmi: "Ci risiamo". Infatti: ci risiamo. I medici e la polizia penitenziaria che dichiarano che Stefano "è arrivato in carcere così" hanno dalla loro una sequenza temporale interamente vidimata.

Questa era la prima ragione. La seconda è che nell’agonia di Stefano - di questo si è trattato, questo sono stati i suoi ultimi sette giorni - sono intervenute tante di quelle autorità costituite da far rabbrividire. Carabinieri, dall’arresto fino al trasporto al processo e alla consegna al carcere. Magistrati, uno dell’accusa e uno giudicante, che in un processo per direttissima per un reato irrisorio e con un giovane imputato così palesemente malmesso da suggerire la visita medica nei locali stessi del tribunale, rinviano l’udienza al 13 novembre e lo rimandano in carcere ammanettato.

Agenti di polizia penitenziaria, che piantonano così rigorosamente il pericoloso detenuto nell’(orrendo) reparto carcerario dell’ospedale intitolato a quel gran detenuto che fu Sandro Pertini, al punto di impedire ai famigliari del giovane di chiederne una qualche notizia ai medici, facendo intendere che occorra un’autorizzazione del magistrato: espediente indecente, perché per parlare col personale sanitario non occorre l’autorizzazione di nessuno. (Sono stato moribondo e piantonato in un ospedale, e nessuno si sognò di dire ai miei che non potevano interpellare i medici: e vale per chiunque).

Espediente, oltretutto, che costringe a chiedersi quale movente lo ispirasse. Una sovrintendente e, a suo dire, un medico di turno, che, anche ammesso che non abbiano saputo delle visite ripetute e trepidanti dei famigliari, hanno dichiarato di non aver notato i segni delle lesioni sul volto di Stefano, "in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia"! Frase che insegue l’altra sulla caduta dalle scale: un detenuto malconcio al punto di essere tradotto in ospedale non viene visto da chi lo sorveglia e da chi lo cura perché si tiene il lenzuolo sulla faccia.

Non hanno visto "il volto devastato, quasi completamente tumefatto, l’occhio destro rientrato a fondo nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia in modo abnorme, la mascella destra con un solco verticale, a segnalare una frattura, la dentatura rovinata"... Non era un lenzuolo: era l’anticipazione di un sudario. Questo non ha impedito a un medico di turno di stilare un certificato in cui si legge che Stefano è morto "di presunta morte naturale". Infine, c’è l’autopsia eseguita sul cadavere straziato, nel corso della quale si proibisce al consulente di parte di eseguire delle foto.

(Quelle che guardiamo oggi, chi ne ha la forza, sono state prese per la famiglia dal personale delle pompe funebri). È stata, la settimana di agonia di Stefano, una breve marcia attraverso le istituzioni. Questo sono infatti, al dunque, le istituzioni: persone che per conto di tutti si trovano a turno ad avere in balia dei loro simili: persone delle forze dell’ordine, giudici, medici, e anche politici e giornalisti...

Tutti (quasi) chiedono giustizia e verità. Bene. Un pubblico ministero ha già imputato di omicidio preterintenzionale degli ignoti, ieri. I colpevoli non sono certo noti, e non lo saranno fino a prova provata: ma gli imputati sono noti. Quanto al preterintenzionale, è un segno di garantismo notevole, venendo da una magistratura che quando l’aria tira imputa di omicidio volontario lo sciagurato che abbia travolto qualcuno con l’automobile.

Giustizia: Stato in cerca di spiegazioni per la morte di Stefano

 

Il Foglio, 31 ottobre 2009

 

Ufficialmente, anche lo stato è in cerca di spiegazioni sulla vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne fermato a Roma dai carabinieri nella notte di giovedì 15 ottobre e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il pubblico ministero, Vincenzo Barba, ha infatti aperto un fascicolo, per ora contro ignoti, per omicidio preterintenzionale.

La magistratura avrebbe già interrogato i militari della stazione Appio Claudio che fermarono il giovane - in possesso di 20 grammi di stupefacenti -, il medico del tribunale che lo visitò la mattina dopo durante l’udienza per direttissima, oltre alle guardie carcerarie.

In serata sono arrivate anche le parole del ministro della Giustizia, Angelino Alfano: "Pieno sostegno alle indagini e celerità nell’accertamento della verità e dei colpevoli". E secondo Franco Ionta, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, "nel giro di pochi giorni", una volta terminata la fase acquisitoria da parte della procura di Roma, prenderà il via anche l’inchiesta amministrativa disposta dal Guardasigilli.

"È un primo elementare risultato della nostra mobilitazione bipartisan", dice al Foglio Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia, che due giorni fa, con i familiari di Cucchi e l’associazione A buon diritto, aveva organizzato una conferenza stampa in Parlamento assieme a rappresentanti di centrodestra e centrosinistra.

"Continuo a lavorare alla costituzione di un comitato per fare luce sulla vicenda", assicura Manconi. Eppure l’avvocato della famiglia di Stefano, Fabio Anselmo, al Foglio spiega: "Io, come la famiglia Cucchi, sono costretto ad aspettare le notizie che mi danno i giornalisti". Il pm infatti, nel pomeriggio, non aveva ancora contattato Anselmo, che pure aveva presentato alcune istanze. Passaggi procedurali a parte, l’avvocato ha chiesto ad esempio di individuare un nuovo medico legale che non sia legato alla polizia giudiziaria, come anche di indagare tutti quelli che hanno avuto a che fare con il ragazzo a partire dalla sera del fermo: "Serve a tutelarli", precisa Anselmi.

Anche perché ora il tentativo è quello di ricostruire nel modo più dettagliato possibile cosa sia avvenuto nel passaggio del giovane attraverso quattro strutture differenti: la caserma nella notte tra 15 e 16 ottobre, il tribunale la mattina del 16, infine il carcere Regina Coeli e il reparto carcerario dell’ospedale Pertini. Un percorso complesso, terminato sul tavolo di un obitorio, con il corpo di Stefano visibilmente segnato, sul volto e sulla schiena.

Fonti vicine al vertice di Regina Coeli, a conoscenza dei risultati della visita medica effettuata d’ufficio all’ingresso del penitenziario, dicono al Foglio: "Cucchi aveva già il volto tumefatto e lamentava altri dolori alla schiena. Per questo, visto che la radiologia in quel momento era chiusa, lo abbiamo portato immediatamente all’ospedale Fatebenefratelli".

Mentre il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si dice "certo" del "comportamento assolutamente corretto dei carabinieri". Ma oltre all’origine delle lesioni è ancora da spiegare la negazione del diritto del fermato a ricorrere subito all’avvocato di fiducia (lo sostengono i familiari e da ieri anche Manconi), l’impedimento per i genitori di conoscere le condizioni del figlio ricoverato e di parlare con i sanitari.

"Lasciamo tempo agli accertamenti, ma è difficile non pensare a recenti casi di cronaca dello stesso tipo", commenta al Foglio Piero Sansonetti, oggi direttore de Gli Altri, e che alla guida di Liberazione fu tra i primi a sollevare con forza il caso di Federico Aldrovandi. Quest’ultimo, diciottenne di Ferrara, nel 2005 morì per le percosse di alcuni agenti che lo avevano fermato, poi condannati in primo grado lo scorso luglio: "Se quella vicenda non si fosse trasformata in un caso pubblico - spiega Sansonetti - forse saremmo rimasti fermi alle tesi curiose che, ieri come oggi, sono addotte in un primo momento".

Il riferimento è all’ipotesi di una "caduta accidentale" per le scale, riferita mercoledì dal ministro Alfano. "Ripetevamo quanto comunicato dal carcere", hanno detto subito dal ministero di via Arenula; "della caduta si parla per la prima volta nel precedente referto del tribunale", sostengono invece da Regina Coeli. "Resta un aspetto positivo di tutta questa vicenda, se proprio lo si deve trovare - continua Sansonetti - che il mondo politico non si è fatto intimorire e ha chiesto in maniera netta che si facesse chiarezza".

E la stampa? "Da una quindicina d’anni, come testimoniano anche i recenti tormentoni su trans ed escort, i giornali sono più interessati al linciaggio ed evidentemente dedicano minore attenzione alla difesa dei diritti dell’individuo. Con una stampa più garantista, e veramente libera, questi episodi sarebbero meno frequenti". E per il futuro? "Torna d’attualità l’idea di istituire un Garante nazionale per le persone private della libertà", dice al Foglio Salvo Fleres, senatore Pdl, che ha depositato una proposta di legge in tal senso al Senato.

E lo stesso ha fatto alla Camera Rita Bernardini (Radicali-Pd): "Un organo indipendente dall’esecutivo e con poteri reali di sindacato ispettivo nelle carceri e nei luoghi di detenzione delle caserme di carabinieri e polizia - dice la deputata - costituirebbe una forma di controllo fondamentale. Un modo di inverare innanzitutto l’articolo 13 della Costituzione".

Giustizia: su omicidio scontro Carabinieri-Polizia penitenziaria

di Maria Novella De Luca

 

La Repubblica, 31 ottobre 2009

 

Adesso la verità la vogliono tutti, ma l’unica certezza per ora è che Stefano Cucchi, 31 anni e una vita difficile alle spalle, è morto. Forse di botte, forse per una caduta accidentale, di sicuro tra terribili sofferenze. Le foto, atroci, diffuse con coraggio dalla famiglia, hanno avuto la forza di scuotere il mondo politico e quello giudiziario, oltre a scatenare via web la rabbia di migliaia di persone che chiedono di conoscere cosa davvero è successo a quel giovane romano arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre con 20 grammi di droga in tasca. La Procura per adesso ha aperto un’inchiesta per omicidio preterintenzionale contro ignoti, e il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha espresso "pieno sostegno alle indagini" e chiesto "tempi brevi nell’accertamento della verità e dei colpevoli".

"Esprimo vicinanza alla famiglia Cucchi - ha aggiunto il Guardasigilli - e al contempo ribadisco fiducia nell’operato della polizia penitenziaria". Ma nell’accavallarsi di polemiche si profila già uno scontro tra agenti carcerari e militari. Dal suo canto infatti ministro della Difesa Ignazio La Russa, pur ammettendo di non avere ancora "strumenti per accertare" quanto avvenuto, afferma però di "essere certo del comportamento corretto dei carabinieri".

Affermazioni che hanno scatenato più di una reazione, con il Pd che parla di "scaricabarile tra ministri", mentre il Sappe, il Sindacato Autonomo di polizia penitenziaria, con il segretario Donato Capece afferma: "La Russa ha competenza sui carabinieri. Come fa a dire che non può fare indagini? Ci risulta che Cucchi sia arrivato in carcere già in quelle condizioni. Se il ministro sa qualcosa, che parli. Oppure taccia e lasci lavorare la magistratura".

In serata il generale Vittorio Tomasone, comandante provinciale dei carabinieri di Roma, rilancia: "Non abbiamo nulla da nascondere, il nostro operato sarà valutato dalla magistratura. Ma i carabinieri non hanno nulla a che fare con la morte di Stefano Cucchi e con le ecchimosi riscontrate sul suo corpo". Silenzio invece da parte del ministro dell’Interno Maroni, dietro un secco "no comment, c’è l’inchiesta in corso".

Ma la richiesta di chiarezza arriva da ogni parte. Che cosa è successo veramente a quel ragazzo fragile, anoressico, sofferente di epilessia e che pesava soltanto 43 chili? Per il segretario del Pd Pierluigi Bersani siamo di fronte ad un "fatto sconvolgente" mentre la presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro aggiunge: "Il Governo faccia tutto quanto in suo potere perché si arrivi a conoscere la verità".

Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, "è necessario accertare le responsabilità, perché chi ha sbagliato paghi". Dura l’analisi di Luigi De Magistris, europarlamentare di Idv: "Se muore un ragazzo affidato alla tutela dello Stato, la necessità primaria è quella di capire come sia stato possibile e punire i responsabili. Lo Stato non può avere paura di se stesso, allontanare queste schegge deviate è l’unica risposta". E su "Ffwebmagazine", la testata online della fondazione FareFuturo presieduta da Gianfranco Fini si legge: "Uno Stato democratico non può nascondersi dietro la reticenza degli apparati burocratici. Verità e legalità devono essere "uguali per tutti", come la legge".

Giustizia: Monsignor Caniato; Stefano non è caduto dalle scale

 

Adnkronos, 31 ottobre 2009

 

Il caso di Stefano Cucchi, il giovane morto in carcere a Regina Coeli a sei giorni dall’arresto e trovato con il corpo martoriato, dice chiaramente che "c’è stata una superficialità collettiva".

Monsignor Giorgio Caniato, ispettore dei cappellani, non accusa nessuno ("bisognerà fare luce su una grave vicenda che si doveva evitare") ma, parlando con l’Adnkronos, non può ignorare le immagini del giovane morto dietro le sbarre. "Le botte gliele hanno date sul serio e anche forte. Non è certamente caduto dalle scale".

Avendo alle spalle tanti anni di lavoro con i carcerati di San Vittore, monsignor Caniato può fare alcune supposizioni: "il ragazzo è stato picchiato per un motivo specifico. Potrebbe essersi trattato di un regolamento di conti e la mia è solo una supposizione o per un motivo di puro istinto. Si può pensare a tutto, ma certamente c’è stata una superficialità collettiva - ribadisce l’ispettore dei cappellani - Una certa responsabilità della struttura ci deve essere".

Giustizia: Ass. "Il detenuto ignoto"; no assoluzioni di categoria

 

Ansa, 31 ottobre 2009

 

Della vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi "ciò che ora spaventa è che non sembra esserci nessuna reazione di coraggio e igiene istituzionale all’ipocrisia di sistema, che vuole persone incaricate dell’ordine pubblico, a priori, al di sopra di ogni addebito". Lo afferma il segretario dell’associazione radicale Il Detenuto ignoto, Irene Testa, che rifiuta ogni assoluzione a priori delle forze dell’ordine.

"Non occorrono - si legge in una nota - assoluzioni di categoria, ma proprio per il bene della categoria occorre fare chiarezza fino in fondo, identificando e isolando ogni mela marcia".

Bene la richiesta di verità dalla parte della maggioranza parlamentare, "ma - continua Testa - la responsabilità di non curare l’albero della giustizia e della gestione della pena in Italia sta al Governo che continua, invece, a proporre solo degli effimeri spot, mentre condanna detenuti e agenti insieme al medesimo abbandono". "Se dalle istituzioni nei loro confronti paiono giungere solo dei Si arrangino! - conclude - non ci si meravigli che le cose, come è spesso accaduto, possano prendere pieghe drammatiche".

Giustizia: Sappe; "La Russa? ha perso un’occasione per tacere"

 

Il Velino, 31 ottobre 2009

 

"Credo che il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, abbia perso una buona occasione per tacere. Ha detto che non ha elementi per dire come andarono i fatti connessi all’arresto di Stefano Cucchi, però sostiene che l’intervento dei carabinieri è stato corretto. Su quale basi lo dice? Chi sarebbe stato scorretto, allora? Credo si debba avere per prima cosa il massimo rispetto per il dolore dei familiari del detenuto Stefano Cucchi, morto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma, ma altrettanto prioritario è consentire alla magistratura, senza alcun tipo di influenze e di dichiarazioni a prescindere, di compiere come sempre con serenità e rigoroso scrupolo ogni accertamento ed atto che potrà chiarire le ragioni della morte del ragazzo".

"Si cominci ad acquisire - prosegue - ad esempio, le carte della visita medica obbligatoria che fanno gli arrestati che accedono in carcere. Ma non si giochi allo scaricabarile. Si faccia dire dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in quali drammatiche condizioni ma nel pieno rispetto delle leggi dello Stato lavorano ogni giorno i Baschi Azzurri della penitenziaria".

A dirlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria, in relazione alla morte del detenuto Stefano Cucchi presso l’ospedale Pertini di Roma ed al dibattito in corso nel Paese. "Tengo a ribadire e sottolineare con forza che le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che lavorano nei penitenziari italiani e nella struttura detentiva dell’ospedale Pertini di Roma lo fanno ogni giorno con professionalità, zelo e abnegazione. Meritano quindi il rispetto di tutti, anche di chi ha perso una buona occasione per tacere perché parla senza avere elementi per farlo".

Giustizia: Ionta; situazione di emergenza, presto piano-carceri

 

Ansa, 31 ottobre 2009

 

La morte di Stefano Cucchi è solo l’ultimo, tragico, capitolo di una storia, quella delle carceri italiane, che si sta facendo ogni giorno sempre più drammatica. I detenuti hanno sfondato quota 65mila, contro una capienza regolamentare di 43.262 posti e un limite di tollerabilità di 63.568.

Da una parte i sindacati di polizia penitenziaria denunciano quotidiane aggressioni contro gli agenti e proteste esasperate da parte dei detenuti, dall’altra il ministro della Giustizia Angelino Alfano invoca l’aiuto economico dell’Unione europea e il rispetto dei trattati per il trasferimento dei detenuti stranieri il cui tasso è arrivato ad oltre il 37% del totale.

Ma di ricorrere a indulti o amnistie per svuotare le carcere il Guardasigilli non ne vuol sentir parlare. E da tempo preannuncia un piano straordinario per le carceri che, dopo continui rinvii (anche per la mancanza di soldi), forse la prossima settimana sarà portato all’esame del consiglio dei ministri. L’ultima versione del piano (11 pagine, più altre 19 di allegati) risale al 13 ottobre scorso, ed è stata consegnata ad Alfano da Franco Ionta, capo del Dap nonché commissario straordinario per le carceri. Si parla di una vera e propria emergenza nazionale, visto il ritmo con cui cresce la popolazione carceraria (circa 800 detenuti al mese).

"La preoccupazione per l’ordine e la sicurezza pubblici, le manifestazioni di protesta dell’estate. attenzione da parte dei media e di numerosi parlamentari - scrive Ionta - sostanziano, all’evidenza, una situazione di emergenza e legittimano l’intervento eccezionale". Che però non si potranno più sostanziare in nuovi atti di clemenza (la Lega non lo consentirebbe) ma nella costruzione di 24 nuove carceri, di cui 9 "flessibili" (vale a dire di prima accoglienza o destinate a detenuti con pene lievi, con controlli sulle mura di cinta affidati alla sola videosorveglianza) costruite nelle grandi aree metropolitane (Milano, Napoli. Bologna, Torino, Firenze, Roma, Genova, Catania e Bari) seguendo le procedure veloci utilizzate per le nuove case dell’Aquila; la realizzazione di 47 nuovi padiglioni in carceri già esistenti. Il tutto per un costo di circa 1,4 miliardi di euro.

Obiettivo: arrivare a 21.479 posti in più entro il 2012. Per fare ciò, Ionta punta a diventare commissario delegato, con la possibilità di nomina di consulenti, e con il potere di secretare le procedure di affidamento dei contratti pubblici per la costruzione delle nuove carceri, selezionando - attraverso documentazione ‘riservatissima - le aziende e gli operatori interessati agli appalti.

Nel piano è stata infine introdotta l’ipotesi di una modifica al codice penale su cui però pesa l’incognita di un "no" della Lega: per alleggerire il sovraffollamento carcerario, oltre che alla costruzione di carceri si pensa di concedere, con una procedura semplificata, gli arresti domiciliari ai detenuti che hanno un residuo di pena non superiore a un anno di carcere (ad esclusione dei condannati per reati gravi e per cui è previsto l’arresto in flagranza).

Nel caso in cui il detenuto beneficiario di questa misura dovesse fuggire, allora l’evasione verrebbe punita più severamente, fino a un massimo di tre anni di carcere. In questo modo i penitenziari potrebbero essere così alleggeriti di circa 2-3mila detenuti.

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 31 ottobre 2009

 

La galera di Trento. Carissimo Riccardo, qui nel carcere di Trento, anche dopo le visite fatte a ferragosto, le cose non sono cambiate, anzi sono peggiorate! Infatti nelle celle adesso siamo in 9 detenuti ed in altre, come la mia, siamo anche in 12 detenuti. Già 12 detenuti, non contando i topi che scorrazzano qui dentro. La capienza del carcere di Trento è di 80 persone ma noi siamo più di 150.

Di cose assurde qui ne succedono tante. Per esempio, in una cella del piano terra, ci sono 3 ragazzi stranieri malati di tubercolosi. È da un mese che sono qui. Ora ci domandiamo: cosa aspettano a portarli in un posto dove curali? Vogliono forse farci ammalare tutti? Qui un po’ tutti si domandano se ci sarà un’amnistia, ma la cosa a mio parere è molto distante dalla realtà, vedendo anche il tipo d’informazione che si fa sui giornali. Giornali che danno spazio solo agli scandali di potere e non alle persone!

A me manca solo un anno per finire la pena, ma ciò nonostante non riesco a ottenere misure alternative e a nulla conta il fatto che il mio reato risale a ben 11 ani fa! E già dopo 11 anni, dopo essermi disintossicato dalla droga, dopo che mi ero rifatto una vita, dopo che avevo un lavoro e dei figli, mi hanno messo in carcere. Ti rendi conto? Devo tornare forse a bucarmi e a fare le rapine come facevo 11 anni fa? Ti assicuro che spesso mi sento perso… davvero.

 

Nino dal carcere di Trento

 

La nostra vita all’Ucciardone. Caro Arena, siamo detenuti nella VII sezione dell’Ucciardone. Purtroppo è questo un carcere molto vecchio e molto sovraffollato. Noi, ad esempio siamo in 9 dentro una cella, ma altri stanno anche peggio! Viviamo 22 ore chiusi qui dentro. Infatti a causa della mancanza di polizia penitenziaria possiamo fare solo 2 ore d’aria al giorno e ti assicuriamo che è davvero dura passare 22 ore chiusi un questa cella senza poter fare nulla. All’Ucciardone non c’è lavoro e ci sono solo 4 corsi di formazione per tutti gli 800 detenuti che ci sono qui. Le docce sono poche e piene di sporcizia, tanto che molti di noi hanno preso dei funghi sulla pelle, funghi che ovviamente non vengono curati.

Anche i nostri familiari patiscono il degrado dell’Ucciardone. Per fare il colloquio settimanale con noi, sono costretti a lunghe file che iniziano all’alba. Un’attesa straziante che termina con un colloquio che dobbiamo fare anche con il vetro divisorio, vetro che è vietato dalla legge. Ah, dimenticavano. Noi in cella non abbiamo neanche il televisore, che praticamente è l’unica forma di rieducazione che il carcere organizza per noi. Allora ci domandiamo: se il Ministro Alfano non ha i soldi per farci avere una tv in cella, come pensa di costruire queste nuove carceri? Con stima.

 

Umberto, Carlo, Antonino, Guido, Andrea, Salvatore, Vincenzo

Davide e Giuseppe dal carcere dell’Ucciardone di Palermo

Napoli: influenza A; isolati i detenuti "a rischio"... e mascherine

 

La Repubblica, 31 ottobre 2009

 

L’Amministrazione Penitenziaria è impegnata "con la massima attenzione" per prevenire e controllare la diffusione del virus dell’influenza A: saranno vaccinati gli agenti e i detenuti a rischio, negli istituti saranno predisposte sezioni di isolamento per i casi sospetti e al personale saranno messi a disposizione guanti, camici e mascherine.

Dopo la morte al Cotugno dell’ergastolano di 50 anni, le cui condizioni presentavano peraltro un quadro clinico già gravemente compromesso prima di venire a contatto con il virus, il sindacato Uil penitenziari, attraverso il segretario generale Eugenio Sarno, aveva chiesto "la vaccinazione di tutti i detenuti e tutti gli operatori che lavorano all’interno degli istituti di pena". Ieri l’assessorato regionale ha dato via libera.

L’amministrazione comunque era già mobilitata. Il piano, spiega il provveditore regionale Tommaso Contestabile, prevede essenzialmente cinque punti: "Le direzioni degli istituti hanno trasmesso alle Asl competenti per territorio gli elenchi del personale di polizia penitenziaria in servizio presso le strutture per la vaccinazione prevista dall’ordinanza ministeriale per le forze di polizia non appena le dosi necessarie saranno disponibili". Quanto ai detenuti, chiarisce il provveditore regionale, "la dirigenza sanitaria predisporrà l’elenco dei soggetti a rischio che saranno destinatari della vaccinazione". All’interno delle carceri, prosegue Contestabile, "si stanno approntando apposite sezioni o stanze per l’isolamento dei casi sospetti o dei malati. Il personale interno a queste sezioni sarà fornito di camici, guanti monouso, mascherine filtranti". Su disposizione dei sanitari d’istituto, i detenuti "con patologie a rischio e sospetta influenza AH1N1 vengono inviati al Cotugno". Il provveditorato sta diramando "in maniera continua" le comunicazioni, "trasmettendo le indicazioni provenienti dal Dipartimento e sollecitando incontri a livello locale per la formulazione di accordi su modalità operative e di gestione di eventuali emergenze tra le direzioni degli istituti e i servizi sanitari territoriali, in particolare con l’Asl 1". Una nuova riunione è prevista fra pochi giorni.

Treviso: 12 detenuti in una cella, mancano gli sgabelli per tutti

 

La Tribuna di Treviso, 31 ottobre 2009

 

In dodici in una stanza dove dovrebbero esserci cinque persone. Un solo bagno, un’unica televisione, molta tensione e tante ore da condividere. Non ci sono sgabelli per tutti e all’ora di pranzo e cena c’è chi rimane a mangiare sul letto. È uno spaccato della vita quotidiana al Santa Bona, un carcere che fino a qualche tempo fa poteva dirsi "tranquillo", ma che sta registrando cifre da incubo e che il sovraffollamento sta trasformando in un luogo infernale. Basta dire che il numero dei detenuti è salito in questi giorni a 300, un record negativo che fa allineare l’istituto trevigiano agli altri con ben altra fama.

"Una situazione difficile da reggere anche per noi agenti penitenziari che ogni giorno vediamo mettere a rischio la nostra sicurezza" dicono senza mezzi termini i sindacalisti del Sappe, sigla impegnata anche a livello nazionale in una battaglia "che restituisca a noi e ai detenuti la dignità di uomini". Che la condizione dei detenuti al Santa Bona fosse complicata si sapeva da tempo, ma invece di registrare un’inversione di tendenza, la situazione è via via peggiorata.

Così, dalle 280 presenze denunciate appena un mese fa, si è passati alle 300 attuali. Stesso organico, stessa struttura, stessi problemi. "Ma l’obiettivo che ci hanno annunciato - dicono ancora i sindacalisti - è quello di ricevere al Santa Bona fino a 340 persone. Non ci sono spazi vitali per sopravvivere, visto che già in queste condizioni siamo al collasso". La paura è che nuovi arrivi contribuiscano a far saltare un equilibrio che appare precario.

Ogni nuovo detenuto, infatti, viene inserito in cella seguendo parametri precisi e che riguardano il suo paese d’origine, la lingua che parla meglio, l’età, la religione e anche il tipo di reato commesso. Tutto questo si deve poi coniugare con gli spazi che diventano ogni giorno più angusti e con una struttura che costringe dodici uomini ad usufruire degli stessi servizi igienici. Da tempo gli agenti chiedono di adeguare gli organici al sovraffollamento, ma fino adesso sono rimasti inascoltati.

Cagliari: l'allarme per la Tbc, nella Colonia penale di Is Arenas

 

La Nuova Sardegna, 31 ottobre 2009

 

Allarme Tbc nella casa di reclusione di Is Arenas, dove un detenuto extracomunitario è risultato affetto dalla malattia infettiva ed è tutt’ora ricoverato nell’ospedale Binaghi di Cagliari. L’emergenza, scattata l’altra settimana nell’istituto di pena, sembra adesso rientrata dopo che tutti i test medici effettuati sugli altri detenuti (circa centottanta) e il personale di polizia penitenziaria e civile hanno dato esito negativo.

Le notizie che giungono dalla casa di reclusione sono come al solito frammentarie, ma è certo che per diversi giorni c’è stata molta preoccupazione per la possibilità che si fosse diffuso un contagio tubercolare fra la popolazione carceraria e il personale. Il detenuto infetto, un extracomunitario di origine sudanese, è stato tempestivamente trasferito al Binaghi quando il medico del carcere ha avuto i primi dubbi sulle condizioni del paziente recluso. Nell’istituto penitenziario è scattato immediatamente il blocco dei trasferimenti e, nel momento in cui ha preso consistenza la presenza di un caso di Tbc nell’istituto penitenziario, sono cominciati gli screening e le visite radiologiche, con esito negativo per tutti.

Vibo Valentia: Uil; 3 agenti aggrediti e feriti da alcuni detenuti

 

Agi, 31 ottobre 2009

 

Tre agenti in servizio nel carcere di Vibo Valentia sono stati aggrediti da alcuni detenuti di origine italiana. A denunciare il fatto, avvenuto nella serata di ieri, è stati il componente della direzione nazionale Uilpa Penitenziari, Gennarino De Fazio. Secondo quanto riferito, alcuni detenuti armati di lame e punteruoli rudimentali, si sono scagliati contro due agenti ed un vice sovrintendente. I due agenti sono stati ricoverati al pronto soccorso dell’ospedale di Vibo con diversi giorni di prognosi, mentre il vice sovrintendente ha rifiutato il ricovero, anche se dovrà essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. Solidarietà ai tre agenti feriti arriva anche dal segretario provinciale del Sappe, Francesco Ciccone, che in passato aveva denunciato i problemi del sovraffollamento nelle carceri di Vibo Valentia.

Caserta: per tutelare reinserimento dei giovani usciti dall’Ipm

di Antonio Franco (Associazione Scugnizzi)

 

www.casertanews.it, 31 ottobre 2009

 

"Sono di questi giorni le notizie sulla stampa cittadina della fuga di alcuni detenuti, non più minorenni, dall’Istituto per minori di Airola. Queste notizie hanno gettato, legittimamente, un alone di sospetto sul lavoro di reinserimento sociale per i giovani usciti dalla detenzione quando rientrano nel tessuto civile.

Noi dell’Associazione "Scugnizzi" che lavoriamo da anni in sinergia con gli Istituti per i Minori di Airola e di Nisida siamo molto preoccupati che questi episodi possano bloccare il buon lavoro che si era fatto fino ad oggi.

Spesso ci capita di recepire le lamentele del personale di custodia in riferimento ai gravi tagli nel bilancio di questi istituti che determinano gravi problematiche sia per quanto riguarda le condizioni di vita dei giovani detenuti che nella conduzione generale degli istituti. Nessuno deve ritenersi indifferente rispetto a questa grave problematica perché il reinserimento sociale di questi giovani è un problema che riguarda l’intera società politica e civile.

Non c’è futuro per questa Regione se non ci occupiamo dei nostri figli più sfortunati che, avranno anche sbagliato, ma nel momento in cui hanno pagato il loro debito devono essere particolarmente tutelati in quanto, come giovani, devono essere totalmente recuperati e sottratti all’abbraccio soffocante della malavita organizzata. Noi dell’Associazione "Scugnizzi" ultimamente abbiamo ricevuto in un incontro presso la struttura di Nisida il plauso delle Autorità presenti per il lavoro da noi svolto a sostegno dei giovani e del loro reinserimento nella società, chiediamo a tutte le istituzioni, cittadine e nazionali, di riprendere con forza il lavoro a fianco degli istituti per difendere questi ragazzi. Deliberare nuovi sostegni economici affinché tutto funzioni in maniera migliore, sostenere le attività di socializzazione all’interno degli istituti, aiutare i ragazzi quando escono. Su questi punti la nostra Associazione continuerà il proprio lavoro a difesa dell’unica ricchezza di questa città e della Regione: i suoi giovani".

Bologna "Provarci gusto"... e nell’Ipm si impara la ristorazione

 

Redattore Sociale - Dire, 31 ottobre 2009

 

Cucina, forno-pasticceria e gelateria: sono le tre nuove aree in cui potranno formarsi i ragazzi del Pratello. Il progetto al via nei prossimi mesi.

Un laboratorio di ristorazione per i ragazzi del Pratello. Si chiama "Provarci gusto" il progetto ai nastri di partenza, fra qualche mese, all’Istituto penale minorile di Bologna, grazie alla cooperazione tra Fomal (Fondazione Opera Modonna del lavoro) e ministero della Giustizia. "Il progetto prevede la ristrutturazione degli spazi dell’Istituto - spiega Giuseppe Centomani, dirigente del Centro giustizia minorile per l’Emilia Romagna - e la creazione di tre aree formative: cucina, forno-pasticeria e gelateria". La ristrutturazione e una quota delle attività formative saranno finanziate con il contributo della Fondazione Del Monte (120 mila euro).

"Il progetto si inserisce in una fase di rinnovato slancio per le attività formative del Pratello - continua Centomani - dovrebbero arrivare infatti i fondi della Cassa delle ammende (ente del ministero della Giustizia) per finanziare una serie di attività formative, comprese quelle teatrali, che permetteranno a Bologna di fare un salto di qualità". La riprogettazione delle attività è in corso di messa a punto da parte dell’Asp Irides (ovvero dal comune). Nel frattempo la provincia di Bologna ha aumentato le risorse a disposizione dell’Istituto per la formazione edile dei ragazzi. "Palazzo Malvezzi quest’anno ha aumentato il suo contributo da 40 a 60 mila euro", spiega Anna Pariani, assessore provinciale a Istruzione, formazione e lavoro.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Home Su Successiva