Rassegna stampa 20 novembre

 

Giustizia: Convegno Seac; riscoprire valore sociale della pena

di Gianni Santamaria

 

Avvenire, 20 novembre 2009

 

Vogliono essere un "ponte" tra "società libera" e "società reclusa". In questa immagine sta tutta la filosofia dei volontari in carcere. Almeno di quelli associati nel Coordinamento di enti e associazioni di volontariato in carcere (Seac), una delle sigle che compongono questo fronte di circa 9mila persone, che ha aperto ieri a Roma il 42° convegno nazionale sul tema Lo stato del sistema sanzionatorio e le sue prospettive. Una riflessione caduta in un momento particolare per il clamore suscitato dalla morte di Stefano Cucchi, e da una serie di suicidi tra cui quello della brigatista Diana Blefari, l’altro ieri quello di un detenuto a Palmi e nei giorni scorsi di un ragazzo a Firenze.

Anche sotto i riflettori dei media, le richieste dei volontari sono quelle di sempre e vanno nel senso di sottrarre persone - soprattutto i marginali, come spesso chi compie reati di droga - al circuito carcerario, destinato a perpetuarsi. "I continui aggiustamenti normativi hanno fatto del sistema sanzionatorio un’idra a molte teste - sostiene la presidente del Seac Elisabetta Laganà -. Purtroppo a scapito soprattutto di quella che viene definita detenzione sociale". Così sono state ulteriormente riempite le carceri. Per questo è importante una "revisione generale" che preveda "per le situazioni di marginalità soluzioni alternative che danno un’effettività reale alla pena, perché accanto all’espiazione prevedono soluzioni di tipo riparatorio".

Concetto che viene espresso anche da monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani carcerari, quando invita a "cambiare la filosofia di base dell’amministrazione della giustizia, passando dal concetto di punizione a quello di costrizione a ripristinare l’ordine che si è infranto compiendo il reato".

I volontari sono, infine, "critici", riprende Laganà, verso le "soluzioni che vengono prospettate, che vanno nel senso di un aumento dei posti di detenzione". Ma per Franco Ionta, presidente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le pene alternative "non sono "la" soluzione, bensì una delle possibili soluzioni al problema". Che va calibrata dalla politica in modo da toccare solo detenuti con "bassa pericolosità sociale e condanne non elevate".

Mentre sul piano di edilizia carceraria, che punta a creare 85mila posti a fronte degli attuali 65mila detenuti - Ionta parla di "avversione incomprensibile". Proprio ieri il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha annunciato che il piano carceri sarà presto presentato al Consiglio dei Ministri. L’emergenza sta tutta in un dato: a luglio del 2006 i detenuti erano 39mila, oggi sono 65.700.

Sulla vicenda Cucchi il Commissario straordinario per le carceri è netto. Si è trattato di una "storia dolorosa, da cui bisogna trarre un insegnamento: mettere al centro la persona, abbandonando autoreferenzialità e burocrazia". Il giovane, infatti, ha avuto contatti con varie strutture dello Stato, che si sono mosse tutte in modo burocratico. Anche il "potere giudiziario", ha concluso Ionta.

Alla luce del suicidio del giovane marocchino a Firenze, infine, Bruno Brattoli, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile, ha detto che fatti questi genere "non devono più accadere". Anche se per fortuna "atti di autolesionismo e di suicidio avvengono molto raramente" nella popolazione carceraria under 18. Iniziative come questo convegno sono utili perché "uniscono il servizio della carità con lo sforzo dell’intelligenza", ha detto nel saluto portato a nome dei vescovi italiani il sottosegretario della Cei, monsignor Mauro Rivella. Il Vangelo, ha sottolineato costituisce "la migliore risposta" da un lato "alla tentazione di facili scorciatoie, indicate da quanti vorrebbero soluzioni drastiche" - che però, "non risolvono alla radice i problemi" - dall’altro "al buonismo di maniera che offende la responsabilità personale".

A soffermarsi sulla soluzioni tecniche è stata, infine una tavola rotonda, moderata dal presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, Luca Palamara, protagonisti tra gli altri il giudice Piercamillo Davigo, già membro del pool "Mani Pulite" e l’avvocato penalista ed ex parlamentare Giuliano Pisapia.

Giustizia: detenuto morto a Palmi, sapeva della scarcerazione

 

Ansa, 20 novembre 2009

 

Martedì scorso nel carcere di Palmi (Reggio Calabria) si è tolto la vita usando un sacchetto e il gas contenuto in una bomboletta di alimentazione per il fornello. Dall’11 novembre scorso sapeva che era stata accolta la sua richiesta di accedere alla comunità e l’ordine di scarcerazione era giunto via fax a Palmi il 16 novembre. Inspiegabilmente però nessuno gli aveva notificato il buon esito del provvedimento che sarebbe stato eseguito il 20, circostanza questa che per prima ha ingenerato forti perplessità nella famiglia.

La madre, che vive a Milano, aveva parlato con lui al telefono nei giorni precedenti annunciandogli la buona notizia. Inspiegabile, quindi, il suo gesto, alla vigilia della scarcerazione. I parenti sollevano poi altri dubbi rievocando la frattura ad una mano che il detenuto raccontava di aver riportato litigando con una guardia carceraria di Ariano Irpino, il carcere in cui si trovava prima del trasferimento in Calabria avvenuto 15 giorni fa. Su quell’episodio non è stata mai fatta luce. Così come non è stato mai chiarito, riassume l’avvocato Martina Montanari, perché sia stato trasferito a Palmi (mentre da Rimini ad Ariano Irpino era stato trasferito l’estate scorsa per i problemi legati al sovraffollamento, ndr) e perché non gli sia stata comunicata tempestivamente l’imminente scarcerazione.

Inoltre le cartelle cliniche dell’uomo in possesso del legale non evidenziano alcun stato depressivo, tali da giustificare l’insano gesto. E qualora si fosse davvero ritrovato in una situazione di prostrazione, perché era stato lasciato solo in cella? Sono state intraprese tutte le misure adeguate previste in questi casi? Per fugare i dubbi la magistratura calabrese ha aperto un’inchiesta e disposto l’autopsia. Ma c’è di più. Nella cella dell’uomo è stata ritrovata una lettera indirizzata alla famiglia, missiva che non è stata ancora inoltrata ai parenti e che potrebbe sciogliere molti nodi su questa brutta storia.

Giustizia: nelle carceri italiane si muore più che in quelle Usa

di Ilaria Sesana

 

Avvenire, 20 novembre 2009

 

Ripercorrendo la storia dell’Italia dietro le sbarre, si scopre che il "tetto" di sessanta suicidi registrati in un solo anno è stato superato solo in due occasioni. Nel 2001, quando 69 persone si tolsero la vita. E nel 2009: con il drammatico gesto di Giovanni Lorusso, che si è tolto la vita nel carcere di Palmi (Reggio Calabria), siamo a quota 65. Un conteggio che sembra non volersi arrestare. Segno, commentano alcuni addetti ai lavori, che la situazione dietro le sbarre è allo stremo.

Chi parla del carcere come di una "discarica sociale", non ha scelto a caso questi termini. In carcere infatti finiscono sempre più frequentemente malati mentali, tossicodipendenti, cittadini extracomunitari, persone provenienti dall’area del disagio sociale: negli istituti di pena c’è un’alta concentrazione di gruppi vulnerabili al rischio suicidio. "Si tratta di persone che, anche quando si trovano all’esterno, sono a rischio emarginazione - spiega la psicologa Laura Baccaro, co-autrice del volume "In carcere: del suicidio e di altre fughe" -.

In cella faticano ancora più degli altri a sopportare la loro condizione". Non a caso, ogni anno, si registra un suicidio ogni 924 detenuti (uno ogni 283 in regime di 41 bis), con una frequenza 21 volte superiore rispetto al resto della società. Numeri altissimi, insopportabili. E che fanno ancora più impressione se confrontati con la realtà penitenziaria degli Stati Uniti: nelle carceri italiane le morti violente sono quattro volte più frequenti che nei penitenziari Usa. Nel nostro paese si sono verificate, dal 2000 al 2008, una media di 10,24 morti violente (suicidi o omicidi) su 10mila detenuti (elaborazione del Centro Studi Ristretti Orizzonti del carcere di Padova su dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, ndr).

In pratica una morte imposta ogni mille detenuti circa. Nelle carceri americane invece i detenuti che si sono tolti la vita o che sono stati uccisi (tra il 2000 e il 2006) sono 2,55 ogni 10mila. In pratica una morte violenta ogni 4mila reclusi. In termini assoluti, nel 2006, a fronte di una popolazione carceraria di oltre 2 milioni 250mila persone, le morti violente sono state 596 (497 suicidi e 99 omicidi). "Le autorità americane - spiega Francesco Morelli, curatore del dossier "Morire di carcere" - negli ultimi 20 anni sono riuscite ad abbattere di due terzi il tasso dei suicidi, malgrado in forte aumento della popolazione detenuta".

Giustizia: Schifani; modificare le norme su benefici penitenziari

 

Apcom, 20 novembre 2009

 

La riforma della giustizia "dovrà riguardare l’intero sistema penale" e per affrontare le paure dei cittadini vanno modificate anche le norme che riguardano le misure alternative alle pene detentive. Lo afferma il presidente del Senato Renato Schifani, intervenendo alla VI Conferenza nazionale promossa dall’Organismo unitario dell’avvocatura (Oua).

Per Schifani la riforma "dovrà significare piena attuazione dei principi del giusto processo, della ragionevole durata del processo e della certezza della pena, dovrà tendere all’abolizione di quelle scorciatoie dannose che impediscono la vera ed effettiva espiazione della pena in presenza di gravi reati che attentano all’incolumità e alla sicurezza dei nostri cittadini".

"Alcune attuali norme sulla concessione di benefici penitenziari, come, ad esempio la semilibertà, gli arresti domiciliari, le liberazioni anticipate che riducono sensibilmente la durata delle pene inflitte, possono ingenerare nei cittadini - avverte la seconda carica dello Stato - timori, paure, sensazione di essere in pericolo. Sarebbe opportuna, allora, anche in questo settore, qualche modifica".

Giustizia: Flick; bene Piano carceri, ma servono più operatori

 

Redattore Sociale - Dire, 20 novembre 2009

 

L’intervento di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale al Convegno nazionale del Seac. Sul piano carceri: "Bene l’aumento di spazio, ma servono più operatori e volontari".

"Quella di Stefano Cucchi è stata una morte senza dignità". Lo ha detto Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, nel corso di una Lectio magistralis al 42° Convegno nazionale del Seac sullo stato del sistema sanzionatorio. "Per la morte di Stefano Cucchi sono emblematiche le imputazioni contestate: omicidio preterintenzionale e colposo, così come sono emblematiche le condizioni in cui quel ragazzo è morto, in solitudine, senza poter incontrare il difensore di cui aveva chiesto nei parenti. Questo nega il diritto a morire con dignità", ha affermato Flick. L’ex Presidente della Consulta ha parlato di "indignazione in riferimento alle ultime notizie drammatiche, dal suicidio di Diana Blefari alla vicenda di Teramo, dove si usava il termine massacro".

Sul piano carceri, "l’aumento di spazio è necessario ma non basta - ha detto ancora Flick - occorre l’aumento anche degli operatori penitenziari e dei volontari. Il trend di crescita della popolazione carceraria rischia di vanificare l’aumento di posti". Nel suo intervento ha sottolineato che "la pax carceraria sovraffollata, patogena e criminogena è contraria alla Costituzione. Si deve andare progressivamente verso le misure alternative. Il carcere è diventato una discarica sociale per tossicodipendenti, clandestini e disoccupati. L’unico percorso in linea con la Costituzione è il reinserimento sociale, che non può essere azzerato in toto per esigenze di sicurezza".

Secondo Flick il Terzo Settore è necessario per abbandonare la separatezza del carcere, calarlo nella realtà sociale e rendere accessibili a tutti, anche agli immigrati irregolari, le misure alternative. Sul dibattito per riaprire Pianosa e l’Asinara, ex carceri di massima sicurezza, l’ex ministro guardasigilli ha ricordato di averli chiusi nel ‘96 sul richiesta del Parlamento. "avevamo ipotizzato di renderle strutture per l’espiazione della pena per detenuti a bassa pericolosità". "Il volontariato grida nel deserto, la politica in questo momento non ascolta" è stato il commento di Elisabetta Laganà, presidente del Coordinamento degli enti e delle associazioni di volontariato penitenziario.

Giustizia: Cgil-Fp; c’è una "questione carceraria" da risolvere

 

www.aprileonline.info, 20 novembre 2009

 

Le drammatiche notizie di cronaca di queste settimane ripropongono, in modo allarmante, la questione basilare del dovere, da parte degli organi di giustizia e delle forze dell’ordine dello Stato di diritto, di garantire l’incolumità e la salute delle persone che sono private della libertà ed affidate alla pubblica autorità.

È un diritto fondamentale da parte di ogni donna o uomo (cui corrisponde un preciso dovere di salvaguardia da parte delle autorità) quello di avere la certezza che, in caso di fermo, arresto, reclusione, detenzione amministrativa, la propria persona sarà garantita da qualsiasi offesa nel corpo e nella psiche e curata in modo adeguato, se le sue condizioni di salute lo richiedono. È del tutto evidente come queste considerazioni, che dovrebbero costituire delle ovvietà, nel momento attuale rischino - viceversa- di apparire rivoluzionarie. L’on. Giovanardi ha ben rappresentato, intervenendo sul caso Cucchi, il venticello di rancoroso cinismo che aleggia sul Paese e che - sempre più - tende a disconoscere l’esistenza di diritti universali, quasi che la vita e la salute fossero prerogative riservate ai cittadini italiani non devianti e non a qualsiasi essere umano.

Si usa recitare, in casi come quello di Stefano Cucchi, il rassicurante mantra secondo cui, nel confermare assoluta fiducia nelle autorità inquirenti, si auspica che il singolo episodio non divenga un pretesto per criminalizzare le istituzioni e le diverse forze dell’ordine: insomma, per "non fare di tutta l’erba un fascio". E però, al di là del rischio di facili quanto errate generalizzazioni, resta un fortissimo senso di disagio e di preoccupazione in chi osservi un po’ più da vicino il concreto e quotidiano mondo della giustizia penale nel nostro paese. Perché è purtroppo una percezione diffusa quella per cui la cultura della legalità e dei diritti va subendo, nell’ultimo periodo, l’onda lunga del clima di impunito arbitrio che si respira nel paese: ed i primi luoghi a rischio, quando l’argine del diritto cede, sono - com’è ovvio - quelli laddove la legge smette i panni eleganti dei raffinati ragionamenti giuridici, per indossare quelli decisamente più concreti della custodia e della gestione dei corpi.

Sta divenendo senso comune la percezione che ciò che alberga dentro le mura del carcere non debba avere nulla a che fare con la società civile, quasi che le regole, le norme, le garanzie cui i comuni cittadini sono (più o meno) avvezzi possano o debbano subire una sospensione non appena si varchi quella soglia. Anche perché, se quella soglia si varca, si è - nella maggioranza dei casi - perdenti (cioè stranieri, tossicodipendenti, malati psichiatrici: categorie che, da sole, assommano a ben più della metà dei detenuti italiani) ed, in quanto tali, destinati a non essere tutelati. Come se il sistema dei diritti e delle garanzie fosse posto a tutela dei vincenti, di coloro che, a prescindere dalla propria colpevolezza, possono permettersi di non sperimentare cosa sia concretamente il carcere (o di viverlo protetti dal riconoscimento di una certa "aristocrazia criminale"), piuttosto che le fasce deboli della popolazione.

Questa ipertrofia di "sfigati" ai confini della legalità che gonfia le mura del carcere oltre ogni sovraffollamento possibile, nella sorda indifferenza di governanti impegnati a tutelare sé stessi, svuota e snatura quel po’ di rispetto della legalità che faticosamente si era costruito anche nelle carceri: quale il senso e la possibile applicazione di regole penitenziarie pensate per persone giudicate colpevoli e da reinserire in un percorso sociale graduale e complesso, quando la maggioranza dei detenuti non supera l’anno di reclusione? Par che sia molto più importante, per chi continua a sfornare pacchetti sicurezza, "mandare in galera" categorie eterogenee ed indeterminate, piuttosto che giudicare, eseguire e gestire la condanna di soggetti che veramente pongono in essere reati allarmanti.

Così, le patrie galere vengono sempre più attraversate da una folla indistinta di corpi all’ammasso, senza la possibilità di capire, governare, gestire; così l’ordinamento penitenziario, il suo sistema di regole, sanzioni, benefici, agonizza dentro istituti sempre più sinistramente simili a centri di detenzione temporanea; così un personale esausto tenta sempre più flebilmente di frenare la deriva dell’illegalità montante; così, dentro le carceri, le ragioni della forza prendono il sopravvento sulla forza della ragione.

Nel frattempo, al furore sanzionatorio di iniziativa governativa fa da controcanto l’assoluta e silenziosa impotenza di un’Amministrazione Penitenziaria che continua a produrre ossessivamente bozze di Piani Carceri e circolari arditamente tese a sfidare il principio dell’impenetrabilità dei corpi, riducendo il proprio mandato al reperimento di posti letto (che, peraltro non reperisce, se non in misura assolutamente inadeguata): così, può accadere che una condanna della Corte Europea per il trattamento degradante cui il sovraffollamento (ma anche la assoluta mancanza di attività tratta mentali) conduce nei confronti dei detenuti, sia tradotta in una direttiva ministeriale che autorizza e dispone di aumentare la capienza degli istituti sino a ridurre la superficie a disposizione del singolo detenuto a tre metri quadri; siamo, oramai, di fronte al teatro dell’assurdo e del grottesco.

Noi dirigenti penitenziari della Fp Cgil siamo assolutamente convinti che il tracollo del sistema penitenziario italiano imponga una riflessione seria e profonda, assolutamente irriducibile a facili o demagogiche prese di posizione: occorre ridare coerenza ad un sistema penale che è andato smarrendo il senso della propria funzione; occorre ristrutturare dalle fondamenta una Amministrazione Penitenziaria ormai irrimediabilmente aliena dai dettami costituzionali in materia di esecuzione penale. Occorre ridare dignità a quanti, ogni giorno,si ostinano a considerare i luoghi di detenzione come luoghi del diritto e non dell’arbitrio. Ed occorre farlo presto, prima che si producano conseguenze ancor più devastanti di quelle alle quali stiamo, purtroppo, già assistendo.

 

Rita Andrenacci, Domenico Arena,

Neris Cimini, Massimo Di Rienzo

Dirigenti Penitenziari della Fp Cgil

Giustizia: Uil; "emergenza carceri", tragedie ormai quotidiane

 

Ansa, 20 novembre 2009

 

"Il sistema carcere è in emergenza, il rischio sommosse e il rischio morte sono dietro l’angolo ogni giorno. Questo ognuno di noi lo deve tenere presente nelle proprie coscienze". È il messaggio lanciato dal coordinatore regionale del Lazio della Uil-pa Penitenziari, Daniele Nicastrini, aprendo il terzo Congresso provinciale di Roma dell’organizzazione sindacale sul tema Riflessioni - prospettive nell’organizzazione penitenziaria.

"Serve un urgente e serio intervento di Istituzioni, Parlamento e Società civile per un impegno totale a ripristinare un livello di vivibilità ed operatività nel sistema carcere degno di un Paese civile", ha detto Nicastrini, sottolineando come l’organizzazione penitenziaria "in questi anni è stata abbandonata a un’assenza totale di programmi e progetti. L’Amministrazione ha fallito in tutto; nessuno vuole ascoltarci. Gli oltre 65mila detenuti presenti su 42mila posti disponibili, le 35mila unità di polizia penitenziaria presenti, le poche decine di educatori e assistenti sociali, le oltre 200 strutture ormai obsolete e anticostituzionali, sono dati che non permettono più di evitare le tragedie che quotidianamente avvengono nel pianeta carcere".

Giustizia: estradizione Battisti è nelle mani di Presidente Lula

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 20 novembre 2009

 

Cesare Battisti è ancora in Brasile e l’intricata vicenda della sua estradizione è ben lontana dall’essere conclusa. Cessata la danza macabra dei festeggiamenti, seguiti all’annuncio del via libera all’estradizione concesso mercoledì sera, anche se di stretta misura (5 contro 4), dal Supremo tribunale federale brasiliano, diradati i fumi dell’odio, seccata la schiuma del rancore, il risveglio per le tante tricoteuses che siedono sugli scranni del Parlamento o nelle redazioni dei giornali e delle televisioni è stato mesto e sbiascicato.

Dopo la sbornia il ritorno alla realtà ha infranto il miserabile sogno della vendetta. Il sabba della sera prima è apparso in tutta la sua fallace illusione, effetto su gestivo, stato di trans della coscienza provocato dall’acido lisergico del livore. L’applauso che ha interrotto i lavori parlamentar i all’annuncio del voto favorevole all’estradizione, le centinaia di lanci d’agenzia che riportavano slavine di dichiarazioni avventate e invasate manifestazioni di vittoria, tutto è finito in fumo, svanito come una nube tossica di menzogne, ricordo confuso di una serata di follia. Tanto rumore per nulla. Il golpe giudiziario tentato dal presidente del tribunale supremo federale del Brasile, Gilmar Mendes, non è riuscito.

Dopo aver fatto pesare con il proprio voto, ampiamente scontato da mesi, la bilancia contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, Mendes aveva puntato tutto sul furto della decisione finale dalle mani del presidente della Repubblica Lula, in barba a tutta la tradizione giuridica internazionale. Tentativo eversivo di modificare unilateralmente l’equilibrio dei poteri previsto nella costituzione. Ma la bilancia del voto si è ribaltata grazie al cambio di fronte del giudice Ayres Britto, che ha permesso alla corte (con un 5 a 4 capovolto) di rispettare il dettato costituzionale. Il capo dello Stato non è un notaio, un passacarte che sigla col suo nome sentenze altrui. Il potere di firma indica una capacità di valutazione qualificata e autonoma.

Ora l’argomento della "politicità" dei reati ascritti a Battisti non potrà più essere utilizzato per giustificare il rifiuto della sua estradizione, perché censurato dalla corte, anche se nella dichiarazione di voto Mendes ha ammesso, contraddicendosi, la natura politica di buona parte delle incriminazioni. Lula dovrà fondare l’eventuale rifiuto di consegnarlo all’Italia con altre giustificazioni giuridiche, che tuttavia non mancano nella lunga lista di violazioni, abusi, norme in deroga presenti nel dossier. Non ultimo il fatto che Battisti non avrà diritto ad un nuovo processo, come invece era stato promesso alla Francia pur di estradarlo.

Mendes ha sostenuto che la responsabilità diretta o morale negli omicidi contestati a Battisti è priva di politicità perché questi sono stati commessi in azioni individuali, estranei a contesti di piazza, a manifestazioni pubbliche. Ma seguendo questo ragionamento estemporaneo, solo i linciaggi sarebbero politici mentre tutti i tirannicidi della storia rimarrebbero volgari omicidi a carattere privato. È con questi fragili argomenti che il Stf ha negato la natura politica dei reati attribuita nelle sentenze dalla stessa magistratura italiana.

Come riportava ieri il quotidiano brasiliano O Globo, l’esecutivo sta valutando la possibilità di mantenere Battisti in Brasile utilizzando altre formule legali. "Nessuno, nel governo, crede che Battisti debba tornare in Italia", sostiene una fonte vicina al presidente. Per farlo, Lula ha dalla sua le clausole d’eccezione presenti nel trattato bilaterale, che gli consentono di bloccar e anche un processo di estradizione avallato dal massimo potere giudiziario. Ma forse non avrà nemmeno bisogno di farlo, se l’Italia non si dimostrerà in grado di adempiere alla condizione posta dal Stf per concedere l’estradizione: commutare l’ergastolo ad una pena non superiore ai 30 anni.

Giustizia: Napolitano; carceri hanno cura di salute dei detenuti

 

Ansa, 20 novembre 2009

 

Grande soddisfazione c’è, da parte del capo del Quirinale, per la decisione della Corte costituzionale del Brasile per l’estradizione di Cesare Battista in Italia. "È una decisione importante - ha detto il presidente -, una decisione diversa avrebbe dato un giudizio assolutamente negativo sul sistema giudiziario e penitenziario italiano". "Il nostro sistema penitenziario ha tutte le cautele per avere cura delle condizioni di salute dei condannati che devono scontare una condanna in carcere". Concedergli lo status di rifugiato politico, ha detto Napolitano, "sarebbe stato veramente un colpo duro, una palese ingiustizia per i familiari delle vittime degli omicidi e degli atti di terrore compiuti dal signor Battisti".

Lettere: detenuti suicidi, possibili responsabilità del ministero

di Nicola D’Agostino (Avvocato di Vibo Valentia)

 

Quotidiano della Calabria, 20 novembre 2009

 

Ho, come difensore, recentemente citato in giudizio il ministero della Giustizia al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dai prossimi congiunti in conseguenza di due diversi suicidi verificatisi nel carcere di Vibo Valentia. I recenti suicidi, ed in particolare, sia quello di un tunisino nel carcere di Pavia, che quello dell’ex Br Blefari Melazzi nel carcere di Rebibbia, mi inducono ad esprimere alcune riflessioni, in ordine alla possibilità di individuare delle responsabilità, quantomeno di natura civilistica, per dette morti annunciate.

Le particolari modalità di detti suicidi sembrano far emergere un evidente collegamento causale con le funzioni pubbliche attribuite a soggetti che avevano l’obbligo giuridico di impedire qualsiasi atto autolesionistico. In sostanza, non può certo escludersi qualsiasi forma di responsabilità per il solo fatto che la morte è stata conseguenza di un suicidio, in quanto l’ordinamento giuridico individua delle posizioni di garanzia (come ad esempio quelle dell’amministratore di condominio, del maestro di sci, del medico, eccetera) che impongono determinati comportamenti proprio al fine di evitare che eventuali omissioni possano provocare tragici eventi. E che il suicidio, di per sé non sia idoneo ad escludere qualsiasi ipotesi di responsabilità della Pubblica amministrazione, è un fatto assolutamente certo, tant’è che, anche di recente, il Tribunale di Catanzaro ha condannato il ministero della Pubblica istruzione al risarcimento dei danni subiti dai familiari di una ragazza suicidatasi a scuola.

Nell’ambito del sistema penitenziario il suddetto principio della responsabilità conseguente ad una condotta omissiva è ancor più evidente in considerazione della frequenza dei suicidi che ha indotto il ministero della Giustizia ad emanare, sin dal 02.05.2000, una circolare contenente una dettagliata serie di disposizioni, non sempre rispettate (in alcuni casi per le croniche carenze strutturali e di personale), "ai fini di una riduzione dei suicidi nelle carceri". Ritengo, pertanto, giusto ed opportuno che, di fronte a delle morti "preannunciate", debba essere individuata ed accertata qualsiasi tipo di responsabilità (penale, civile e disciplinare), non essendo assolutamente immaginabile che lo Stato di diritto possa consentire ad alcuno la violazione di norme poste a tutela di diritti fondamentali, come appunto quello alla vita, che il nostro ordinamento, fortunatamente, riconosce a tutta la popolazione, senza eccezione alcuna, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla pericolosità sociale del condannato.

Poco importa se qualcuno, di fronte alla morte della Blefari, ha ritenuto di dover pubblicamente esprimere la propria mancanza di compassione (v. Giuseppe Cruciani su "Panorama" del 12.11.2009) e ciò in considerazione di alcune frasi agghiaccianti ("fosse stato per me Biagi lo avrei torturato prima di giustiziarlo..") pronunciate dalla stessa Blefari; certamente più importante è che lo Stato accerti se vi siano responsabilità della Pubblica amministrazione in un suicidio che probabilmente avrebbe potuto essere evitato da un’azione doverosa ed omessa (come ad esempio un controllo a vista, il ricovero presso una struttura specialistica, eccetera).

A tal ultimo proposito non emergerebbe, sia pur soltanto dai resoconti giornalistici, una stretta collaborazione tra i Pubblici ministeri, titolari di attuali inchieste giudiziarie che avrebbero potuto avere un ulteriore impulso dalla eventuale collaborazione della Blefari, e l’amministrazione Penitenziaria, verosimilmente già a conoscenza della particolare condizione di fragilità psicologica della detenuta, condizione ovviamente aggravata sia dal possibile recente coinvolgimento del proprio compagno in detta inchiesta e sia dalla conferma definitiva dell’ergastolo irrogato nei suoi confronti.

Per quanto riguarda il suicidio del tunisino nel carcere di Pavia la situazione è ancora più paradossale, tant’è che è stato avviato anche un procedimento penale per omicidio colposo, in quanto non si è efficacemente intervenuti nonostante un mese di sciopero della fame. Nel caso dei suicidi della Blefari e del tunisino Sami Mbarka sembrerebbe quindi ipotizzabile la responsabilità civile dell’amministrazione penitenziaria con il conseguente obbligo per il ministero della Giustizia di risarcire il danno, fermo restando che, ovviamente, soltanto l’Autorità giudiziaria potrà, in concreto, accettarne la sussistenza. È bene quindi che dei suicidi in carcere se ne parli, in quanto, a differenza di quanto recentemente sostenuto da Adriano Sofri, non è argomento di interesse esclusivo dei familiari e degli specialisti, poiché il grado di civiltà di un popolo si misura anche dal tipo di sistema carcerario. In tutto ciò l’avvocato (insopprimibile figura costituzionale di difensore dei diritti), troppo spesso e troppo superficialmente, ritenuto come un "faccendiere", oppure come un "vampiro assetato del proprio cliente", svolge un ruolo di primaria importanza non indietreggiando di fronte alla prospettiva di chiamare in causa "pezzi pregiati" della Pubblica amministrazione, con la convinzione di ottenere concreti risultati che, pur non restituendo ai familiari l’insostituibile presenza del proprio congiunto, possano consentire, soprattutto per i figli ancora in tenerissima età, un minimo di aiuto per affrontare le innumerevoli difficoltà della vita quotidiana, e ciò al di là del pur importante contributo fornito dalle autorità preposte per la tutela delle persone private della libertà personale (come ad esempio i vari garanti, regionali, provinciali e comunali, recentemente istituiti nel nostro ordinamento).

Lettere: suicidi in carcere; il Dap rifiuta di assumere psicologi

 

Lettera a Redazione, 20 novembre 2009

 

Vi scrivo per rendere nota una vicenda paradossale che si verifica all’amministrazione penitenziaria. Negli istituti penitenziari assistiamo purtroppo ad un aumento vertiginoso dei fenomeni suicidari che sono venti volte superiori a quelli che si verificano tra i cittadini liberi, conche ad un numero di atti autolesionistici che supera i 4.500 episodi per l’anno corrente. Di contro l’amministrazione penitenziaria si rifiuta di assumere i 39 psicologi che nel 2006 hanno vinto un concorso pubblico.

I 39 psicologi vincitori di concorso, infatti, continuano a vedersi negare l’assunzione dal Ministero della giustizia, nonostante la disastrosa situazione delle carceri italiane, nelle quali, purtroppo, continua a salire vertiginosamente il numero dei suicidi e dei gesti autolesionistici, segno evidente di grave disagio psicologico dei detenuti.

Il Ministero della giustizia - Dap - sin dal 2004 aveva avviato un concorso per l’assunzione di 39 psicologi per coprire almeno parzialmente la totale carenza in organico di tali figure professionali (previste in totale 70) e aveva quindi approvato la graduatoria nel 2006 (B.U. Min. della Giustizia n.17 del 15.09.2006). Da allora, sorprendentemente, l’Amministrazione non ha proceduto ad alcuna assunzione, pur in presenza di tutte le condizioni economiche (disponibilità di risorse per assicurare tali prestazioni essenziali) e giuridiche e pur a fronte dell’aggravarsi della situazione nel sistema penitenziario, preferendo, invece, affidarsi ad un sistema di frammentate collaborazioni precarie e insufficienti. Non si riesce, a questo punto, a capire come sia possibile che autorevoli rappresentanti di Governo e gli stessi Dirigenti dell’Amministrazione continuino a dichiararsi attenti e sensibili a quanto sta accadendo nelle carceri e poi non si attivino concretamente e seriamente ad affrontare tale stato di crisi, opponendosi addirittura, con pretestuose argomentazioni, all’assunzione degli psicologi vincitori di concorso, ledendone in modo così palese i diritti.

L’Amministrazione Penitenziaria, infatti, sostiene che le prestazioni svolte dagli psicologi sarebbero state trasferite al Servizio Sanitario Nazionale in base alla recente riforma sulla sanità penitenziaria attuata con il Dpcm 1° aprile 2008, quando poi contraddittoriamente afferma che le prestazioni psicologiche trattamentali e dell’osservazione sarebbero rimaste di sua competenza. Esso non spiega allora il motivo per cui tali prestazioni non possano essere svolte anche dai vincitori di concorso, ma solo da consulenti esterni.

D’altro canto il Servizio Sanitario Nazionale pare non curarsi dell’assistenza psicologica dei detenuti, tant’è che in Italia gli psicologi che si occupano di sanità penitenziaria sono solo 17 per oltre 65.000 detenuti (in base alle tabelle allegate al Dpcm 1° aprile 2008 ) e nessuna Regione ha neanche lontanamente pensato di aumentare il numero dei professionisti in organico assumendo i 39 psicologi vincitori di concorso, pur potendolo fare.

Riteniamo, quanto meno, poco responsabile l’atteggiamento di tutte le amministrazioni coinvolte in questa kafkiana vicenda e, paradossalmente, pur avendo vinto un regolare concorso pubblico, siamo stati costretti, a ricorrere alle vie legali per vedere riconosciuti i nostri diritti. Pur potendo essere assunti sia dal Ministero della Giustizia, sia dal Servizio Sanitario Nazionale, i 39 psicologi si trovano oggi senza lavoro, non ostante abbiano superato un lungo e complesso concorso durato due anni, prova della loro motivazione e competenza nel settore penitenziario.

Come mai il Ministero della Giustizia e quello della Salute non hanno ancora trovato un accordo per garantire assistenza psicologica dignitosa per i detenuti? A quante morti dovremo ancora assistere inermi prima della nostra immissione in ruolo?

 

Per i 39 psicologi, la coordinatrice

dott.ssa Mariacristina Tomaselli

Modena: 571 detenuti; ora nelle celle da due, ci dormono in 5

 

La Gazzetta di Modena, 20 novembre 2009

 

Il carcere di Sant’Anna è al collasso. Mai come oggi. Si è arrivati al massimo storico di 571 detenuti. La struttura scoppia. Situazioni igieniche disumane, persone costrette a dormire in cinque senza letti in stanze strette per due persone. La situazione e il quadro più che mai veritiero è dipinto dai sindacati di polizia penitenziaria, che lanciano un appello ai politici.

Proprio il Pd, nei giorni scorsi, aveva fatto richiesta per entrare con una delegazione in carcere e vedere dal vivo la situazione. I sindacati di polizia penitenziaria denunciano una situazione arrivata ad un apice più pericoloso che mai: "La popolazione detenuta oggi è arrivata al suo massimo storico con ben 571 detenuti, costretti a dormire anche in cinque, in celle che ne potrebbero ospitare due o in casi estremi tre. Non vi sono più né materassi né lenzuola, i letti - anche se ci fossero - non potrebbero essere sistemati nelle celle per mancanza di spazio. Non vi sono neanche risorse economiche per pagare i poliziotti che dovrebbero essere impiegati per l’eventuale trasferimento dei detenuti presso altri istituti.

Qualche giorno fa a fronte delle denunce fatte dal personale era stato annunciato in modo propagandistico un probabile trasferimento di 32 detenuti. Un’informazione parziale e fuorviante. I detenuti sono costretti a vivere in condizioni igieniche e alloggiative disumane. Ma soprattutto il personale della polizia penitenziaria è esasperato perché è sempre più difficile governare l’esasperazione. Gli annunci di questa estate dicevano dell’arrivo di 40 poliziotti e il trasferimento di 150 detenuti. A Modena fino a qualche giorno fa c’erano solo 5 agenti in più, oggi ridotti a 3 per trasferimenti temporanei presso altri istituti. Per contro assistiamo ad un aumento esponenziale di detenuti, che necessario ricordare, vivono in un carcere che è fatto per contenerne non più di 220". Un appello a tutti gli amministratori che il Pd ha colto al volo e proprio dei giorni scorsi è la richiesta inoltrata al direttore del carcere per una visita, che necessita di un permesso: "È necessaria la massima vigilanza per garantire la sicurezza della città".

Piacenza: Antigone; affollamento ed inadeguatezza strutturale

 

Asca, 20 novembre 2009

 

"Il carcere di Piacenza, uno degli istituti in regione dove più penetranti sono i limiti imposti ai momenti di socialità dei detenuti e minori le risorse, in termini di opportunità formative, lavorative, ludico-espressive, cui questi possono accedere." A denunciarlo è Antigone, l’associazione di magistrati, parlamentari, studiosi e insegnanti che dalla fine degli anni ‘80 si battono per i diritti e le garanzie nel sistema penale.

Il gruppo di Bologna di Antigone ha visitato ieri la casa circondariale di Piacenza. Una visita da tempo programmata nel quadro delle attività dell’Osservatorio sulle Condizioni di Detenzione che la l’associazione svolge su tutto il territorio italiano, e che è giunta a pochi giorni dalla morte di un detenuto tunisino di 27 anni, avvenuta il 5 novembre. Il quadro che ne esce è di una "situazione di difficoltà causata dal pesante sottodimensionamento degli organici a fronte di una popolazione detenuta ben oltre i limiti di capienza tollerabile fissati dal Ministero".

"Il sovraffollamento - continuano i soci di Antigone - amplifica inoltre le criticità legate all’inadeguatezza di una struttura con pesanti problemi di umidità, infiltrazioni d’acqua e salubrità degli ambienti. In particolare appaiono assolutamente intollerabili i disagi che i detenuti sono costretti a vivere a causa del pessimo stato dei locali docce, con tre piatti doccia per sezioni che possono arrivare ad ospitare oltre 60 detenuti, dove anche l’acqua calda scarseggia a causa della mancata manutenzione della caldaia. L’effetto combinato di tali fattori contribuisce senza dubbio ad aumentare la tensione all’interno del carcere piacentino, moltiplicando le difficoltà per chi in carcere è costretto a vivere e lavorare".

"Spiace infine - conclude il comunicato - dover segnalare una certa riluttanza da parte del personale che ha accompagnato i nostri osservatori nel corso della visita a parlare del recente episodio di morte sospetta, liquidato nel corso dei colloqui informali avuti durante la visita come un mero arresto cardiaco. L’Associazione Antigone auspica che l’amministrazione della Casa Circondariale di Piacenza e i responsabili della medicina penitenziaria vogliano al più presto fare chiarezza sull’episodio, assumendo a riguardo un atteggiamento più trasparente e pubblicando se del caso la cartella clinica del detenuto deceduto".

Ferrara: arrivati 5 agenti e 1 ispettore di Polizia penitenziaria

 

La Nuova Ferrara, 20 novembre 2009

 

Hanno preso servizio ieri mattina i cinque nuovi agenti di Polizia penitenziaria più un ispettore che il ministero di Grazia e Giustizia ha inviato nel carcere di Ferrara. In via dell’Arginone si passa così da 165 uomini (proprio martedì un altro agente ha temporaneamente lasciato per distacco politico) a 171, a fronte di un numero legale previsto da un decreto ministeriale del 2002 pari a 232. I detenuti nel carcere ferrarese sono invece 536 - contro una capienza regolare di 256 e una tollerata di 466 - di cui 235 italiani e 301 stranieri. I nuovi agenti giunti ieri si alterneranno fino a gennaio con altro personale in arrivo da Roma, sempre nella misura di cinque agenti più uno al mese, nell’ambito delle attività di formazione. Quando con l’inizio dell’anno nuovo i corsi finiranno, il dipartimento di amministrazione penitenziaria dovrà provvedere ad assegnare il personale mancante di circa 60 unità.

Sassari: una raccolta di firme per la "territorialità della pena"

 

La Nuova Ferrara, 20 novembre 2009

 

Fino a sabato 21 novembre, presso i banchetti allestiti in Piazza Azuni a Sassari, sarà possibile firmare la petizione per chiedere l’applicazione della legge sulla Territorialità della Pena.

Il Comitato per la Territorialità della Pena, si è costituito per chiedere il rispetto della Legge 354/75 e del Protocollo d’intesa tra la R.A.S. ed il Ministero della Giustizia, che prevede di favorire il rientro in istituti penitenziari dell’isola dei detenuti che sono nati o sono residenti in Sardegna. La richiesta di applicazione della territorialità della pena prende spunto dalla nota vicenda di Bruno Bellomonte, attualmente rinchiuso a Catanzaro, ma riguarda tutti i detenuti sardi segregati in carceri della penisola. La detenzione in carceri del continente, crea per i detenuti di origine sarda pesanti ostacoli ad esercitare il proprio diritto alla difesa, soprattutto per quelli in attesa di giudizio, e produce sofferenza e disagi per le famiglie sia per i costi elevati che devono essere sostenuti per le visite, sia per l’inadeguatezza dei trasporti legati all’insularità, difficoltà che si trasformano così in un iniqua pena aggiuntiva.

Alla richiesta di applicazione delle norme sulla territorialità della pena hanno aderito Enti, Associazioni e singole personalità politiche in maniera trasversale, in particolare: la Regione Sardegna, il Consiglio Provinciale di Sassari e di Nuoro ed il Comune di Sassari hanno presentato un Ordine del Giorno sull’argomento.

In un momento in cui, si propone di "importare" in Sardegna circa 400 mafiosi, detenuti in regime di 41 bis, aprendo la porta ad infiltrazioni della criminalità organizzata, il Comitato, chiede invece, con forza, l’applicazione delle norme in vigore sulla territorialità della pena, come la 354/75, con una raccolta di firme a sostegno di una petizione popolare.

I giorni 18-19-20 novembre dalle ore 17 alle ore 20 e sabato 21 dalle ore 10 alle 12, presso i banchetti allestiti in Piazza Azuni, sarà possibile firmare la petizione per chiedere l’applicazione della legge sulla Territorialità della Pena, che stabilisce il criterio di destinare in Sardegna i detenuti di origine sarda reclusi in istituti di pena della penisola.

Avezzano (Aq); fiaccolata per ricordare Niki, morto in carcere

 

Il Messaggero, 20 novembre 2009

 

"No all’archiviazione" e "Giustizia per Niki" sono stati gli slogan che hanno animato la fiaccolata di mercoledì sera che ha sfilato per le strade del centro di Avezzano. Amici e parenti del giovane Niki Gatti, morto misteriosamente in carcere un anno e mezzo fa, sono scesi di nuovo in piazza per chiedere giustizia. Il giovane infatti era stato arrestato il 19 giugno del 2008 per una presunta frode a Cattolica.

Rinchiuso nel carcere di Sollicciano dopo 5 giorni, il 24 giugno, venne trovato morto nel bagno del penitenziario. Per la magistratura si trattò di un suicidio, ma per quanti lo conoscevano no. Niki aveva 26 anni ed era dipendete di una società informatica con sede nella Repubblica di San Marino. Nell’ambito di un’inchiesta della Finanza, partita dalla Toscana, su attività di compagnie telefoniche, Niki venne arrestato per presunta frode. A tre mesi dalla morte in carcere la magistratura archiviò il caso parlando di suicidio. Niki era morto per un arresto cardiocircolatorio per impiccagione, il giovane si impiccò con un laccio delle scarpe e con i jeans.

Fin da subito la tesi non convinse quanti lo conoscevano. La mamma e gli amici sono tutt’oggi convinti che è stato ucciso e per questo chiedono giustizia. In questi giorni la storia di Niki è tornata alla ribalta a causa di un’altra storia simile, quella di Stefano Cucchi, morto misteriosamente nel carcere di Regina Coeli a Roma. Stando alla denuncia della mamma, Niki Gatti aveva deciso di collaborare coi magistrati. Allora perché uccidersi dopo poche ore dall’ingresso in cella? E perché il ragazzo fu rinchiuso con due detenuti per i quali era stata disposta una sorveglianza assidua? E poteva un laccio di scarpe reggere il peso di un corpo di 92 chili? A questi interrogativi nessuno ha dato una risposta ma i familiari e gli amici aspettano che sia la magistratura a farlo. Nel frattempo sono nati in città due comitati, guidati da Roberto Sorrentino e Ciro Sabatino.

Lecce: agente condannato a 8 anni, portava droga nel carcere

 

Ansa, 20 novembre 2009

 

Otto anni e 38 mila euro di multa per Riccardo Mele, 34enne leccese, che fece arrivare la droga in carcere. Droga direttamente nelle mani dei detenuti di Borgo San Nicola. Con l’accusa di aver favorito l’ingresso illecito di sostanze stupefacenti nel carcere di Lecce, tra l’ottobre 2007 e l’aprile 2008, sette persone sono state condannate a diversi anni di reclusione.

Il dispositivo di sentenza è stato pronunciato dal Gup Annalisa De Benedictis a conclusione del processo celebratosi col rito abbreviato. Tra loro, Riccardo Mele, 34enne di Lecce, agente della polizia penitenziaria, in servizio all’epoca dei fatti presso l’istituto friulano di Tolmezzo, ma distaccato nel capoluogo salentino. L’uomo venne arrestato nell’agosto scorso dagli agenti della Squadra mobile perché trovato in possesso di ottanta grammi di eroina e due grammi e mezzo di hashish: dalle indagini, poi, emerse come il 34enne facesse in modo che la droga arrivasse dietro le celle dei detenuti nascondendola in pacchetti di sigarette che gli venivano consegnati direttamente dai familiari dei reclusi nei paraggi di attività commerciali e previo appuntamento telefonico, dai quali avrebbe anche ricevuto alcuni compensi.

Mele è stato condannato a otto anni di reclusione e al pagamento di 38mila euro di multa, a fronte dei nove invocati dal pm Giovanni De Palma. Roberta Candido, 27enne leccese, dovrà scontare quattro anni e pagare 20mila euro di multa; Agnese Forte, 34 anni di Galatina, sei anni e 28mila euro; Marcello Cristian Ingrosso condannato invece a quattro anni e due mesi di carcere e a 22mila euro di multa, a fronte dei sette e 4 mesi richiesti dall’accusa; infine Emiliana Vetrugno, 29enne leccese, dovrà scontare una pena di quattro anni e quattro mesi e al pagamento di 24mila euro. Assolti, per non aver commesso il fatto, Gregorio Leo, 45enne di Melendugno, Stefano Podo, 37enne leccese, e Gianluca Vetrugno, 24enne di Lecce. Gli imputati erano difesi, tra gli altri, dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti.

Padova: il 27 novembre, la Camera Penale proclama sciopero

 

Il Mattino di Padova, 20 novembre 2009

 

La Camera penale di Padova, che raggruppa gli avvocati penalisti del foro, aderirà alla giornata di astensione dalle udienze penali proclamata dall’Unione Camere penali italiane (l’organismo nazionale) con un documento sulla "questione carcere".

"A fronte della gravissima situazione carceraria causata da un sovraffollamento ormai insostenibile che, oltre a violare i diritti umani dei detenuti, comporta la violazione dello stesso diritto di difesa - scrive la Camera penale di Padova presieduta dall’avvocato Gianni Morrone - riteniamo che il giorno di astensione debba e possa essere un momento di confronto per individuare proposte concrete idonee a combattere il fenomeno denunciato dall’Unione Camere penali.

La politica del governo volta alla costruzione di nuove carceri non solo non risolve il problema del sovraffollamento... ma risulta inattuabile nella misura in cui i nuovi istituti non potrebbero entrare in funzione per l’assoluta carenza di personale.

Lo stesso Comitato Europeo di Prevenzione contro la Tortura... faceva presente come l’aumento della capienza del "parco penitenziario" non costituisca una soluzione al problema del sovraffollamento e indicava nelle misure alternative la soluzione più corretta". C’è di più. "Anche sotto il profilo della sicurezza dei cittadini, le misure alternative costituiscono una garanzia maggiore" rileva la Camera padovana che propone l’utilizzo di strutture dismesse (come caserme non più utilizzate) per i semiliberi e per soggetti in detenzione domiciliare che non dispongono di un alloggio; il potenziamento delle équipe di osservazione nelle carceri; l’abrogazione delle norme che riguardano i recidivi e non consentono la sospensione dell’ordine di carcerazione; l’approvazione in tempi rapidi del progetto di riforma del codice penale nella parte riguardante l’introduzione delle sanzioni alternative; l’estensione dell’istituto del lavoro socialmente utile e della messa alla prova per pene residue brevi.

Russia: pena morte; prorogata moratoria, in attesa abolizione

 

Ansa, 20 novembre 2009

 

A gennaio scadrà la moratoria che prevede la sospensione delle esecuzioni capitali in Russia. Ma la Corte Costituzionale, su richiesta della Corte Suprema, si è pronunciata contro il ritorno all’applicazione della pena di morte. Almeno fino a quando non sarà ratificata la convenzione europea che prevede la sua abolizione e che, di fatto, renderà superflua qualsiasi ulteriore moratoria. Attualmente nelle carceri russe ci sono 1.600 persone condannate a morte, in attesa che la condanna venga eseguita, cosa quanto mai improbabile, o dell’applicazione di una nuova moratoria.

La Russia vive il paradosso di un paese che ha sospeso la pena di morte nel 1996 - al momento del suo ingresso del Consiglio d’Europa - e dove, al contrario, la maggioranza della popolazione si è detta favorevole alla pena capitale. Lo stesso Vladimir Putin ha più volte sostenuto di volere, ma non poter procedere all’eliminazione della pena di morte, e il suo successore Dmitri Medvedev, oggi, ha parlato, ancora una volta, di una sua graduale abolizione.

 

 

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