Rassegna stampa 19 novembre

 

Giustizia: quelle leggi che uccidono sempre i soggetti più deboli

di Rossella Anitori

 

Terra, 19 novembre 2009

 

Un ragazzo di diciassette anni, accusato di tentato furto, si è tolto la vita nel carcere minorile di Firenze. Tre mesi di detenzione in attesa di un processo che lo avrebbe scarcerato. Rita Bernardini inizia lo sciopero della fame.

Ha infilato la testa nel cappio, è salito su una scarpiera e si è lasciato cadere morendo sul colpo. Aveva 17 anni. Si è tolto la vita dopo aver trascorso 3 mesi in carcere. Per un tentato furto. Ha atteso il momento del suo turno per la doccia, è entrato in bagno con un lenzuolo e dopo averlo reso viscido con del sapone lo ha legato alle sbarre della finestra, portando a termine il piano suicida. È successo martedì nel penitenziario minorile Meucci di Firenze. Il giovane condivideva la cella con altri 3 detenuti, sono stati loro a dare l’allarme. Veniva dal Marocco, tra qualche giorno avrebbe compiuto 18 anni. Era stato arrestato in provincia di Lucca il 3 agosto con l’accusa di tentato furto e il giorno dopo era arrivato all’istituto di via Orti Oricellari. Era in attesa di giudizio, di un processo che lo avrebbe senza dubbio scarcerato.

"Se non fosse per l’ultimo Pacchetto sicurezza non sarebbe finito in carcere - spiega Giuliano Pisapia, già presidente del Comitato scientifico della Camera penale di Milano -. Nella logica del processo penale minorile, non era infatti prevista, per reati minori, neanche la possibilità della custodia cautelare in carcere ". Secondo i primi accertamenti il gioveane doveva essere guardato a vista perché soffriva di alcuni disturbi psichici. "Tutelare i minori e salvaguardarne la formazione nell’intero percorso di crescita fisica, psicologica e intellettuale è un fondamentale investimento sul futuro, ed è compito imprescindibile dello Stato e delle sue istituzioni far sì che tutti i soggetti impegnati in questo difficile compito, possano esercitarlo nelle migliori condizioni e con tutte le risorse necessarie".

È il monito che è giunto ieri dal presidente della Repubblica Napolitano, nel corso della conferenza nazionale sull’infanzia e l’adolescenza che si è svolta a Napoli. Il giorno dopo la tragedia. "Il suicidio di un ragazzo in carcere è un evento piuttosto raro - sostiene Pisapia -, negli istituti minorili dovrebbe esserci un rapporto tra educatori e detenuto non solo di controllo, ma anche di assistenza. Evidentemente sta venendo meno". Come il giovane sia riuscito a suicidarsi eludendo la sorveglianza lo chiarirà l’inchiesta aperta dal pm Coletta. "Di fronte a un dramma del genere - continua Pisapia - bisogna chiedersi quali motivi hanno permesso che, per un tentato furto, un minore finisse dietro le sbarre.

La custodia in carcere prevede, infatti, la sussistenza di gravi e inderogabili esigenze attinenti alle indagini, ed essendo stato colto sul fatto probabilmente non c’erano. Per quel poco che si sa il giovane lavorava, non era quindi persona dedita a commettere reati. È necessario chiarire perché si trovasse in gabbia. Non si capisce poi perché, data la situazione psicologica, sia stato abbandonato a se stesso. E ancora perché dopo 3 mesi, e per un arresto in fragranza di reato, non si sia arrivati a un processo che avrebbe sicuramente avrebbe comportato la scarcerazione dell’imputato". Tre domande per riflettere su una situazione intollerabile, sull’ennesimo "delitto" di Stato. Sulle conseguenze nefaste delle norme "partorite in questi anni dall’inciviltà della maggioranza parlamentare".

Norme contenute nei pacchetti sicurezza "che dal 2001 ad oggi sono diventati - conclude Pisapia - il lavoro principale dei governi, che anziché risolvere con una modifica sostanziale un codice penale risalente al periodo fascista continuano sulla strada delle norme emergenziali, che non solo indeboliscono la lotta alla criminalità, ma portano, individuando il nemico nei soggetti più deboli, a fatti del genere. Chi non ha contrastato quelle norme deve sentirsi corresponsabile". Perché l’accaduto non passi sotto silenzio, i Radicali hanno depositato ieri una mozione parlamentare sulla situazione delle carceri. E dalla mezzanotte Rita Bernardini, membro della commissione giustizia della Camera dei deputati, ha iniziato lo sciopero della fame: "non c’è bisogno di protesta, ma di proposta - ha detto - per dare uno sbocco - alla rivolta che sentiamo dentro di noi quando le leggi fondamentali dei diritti umani vengono ignorate e calpestate".

Giustizia: la questione del reato di tortura Procede lentamente

di Patrizio Gonnella

 

www.linkontro.info, 19 novembre 2009

 

Nove disegni di legge pendono alle Camere per introdurre il crimine di tortura nel codice penale. L’ultimo in ordine cronologico è stato presentato a Palazzo Madama dal senatore Luigi Li Gotti (Idv). Gli altri otto sono così distribuiti: cinque al Senato e tre alla Camera dei Deputati. Complessivamente vi sono quattro disegni di legge targati Pd, due targati Pdl e due Idv. Uno è invece trasversale. Ed è anche il più fedele ai contenuti della Convenzione Internazionale contro la tortura delle Nazioni Unite. La prima firmataria è Donatella Poretti, radicale eletta nelle liste del Pd. La proposta risale al 26 novembre del 2008. Fu contestuale alla presentazione di un emendamento depositato durante la discussione del pacchetto sicurezza. L’emendamento - così spiegò allora la senatrice radicale - era funzionale ad assicurare la sicurezza delle persone in custodia dello Stato.

Esso definiva il crimine di tortura e lo introduceva nel codice penale. Fu scelta la procedura del voto segreto. L’emendamento non passò per soli cinque voti. Segno che dentro la maggioranza si era creata una piccola frattura. Il testo della Poretti è firmato da circa quaranta senatori. Spicca vedere insieme tra i cofirmatari l’ex pm milanese Gerardo D’Ambrosio, la radicale Emma Bonino, l’ex presidente della provincia di Milano Ombretta Colli, l’ex giudice veneziano Felice Casson, Pietro Ichino del Pd e Nicola Di Girolamo del Pdl, il presidente della Commissione sui diritti umani Pietro Mercenaro, il candidato alla segreteria del pd Ignazio Marino e Adriana Poli Bortone dell’Udc. Il testo prevede che dopo l’articolo 593 del codice penale sia inserito il 593-bis.

La definizione di tortura è quella del Trattato Onu del 1984 ratificato dall’Italia nel 1987. Commette tortura - secondo il disegno di legge - il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge a una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione. La sanzione consiste nella reclusione da quattro a dieci anni.

La pena è raddoppiata se ne deriva la morte. Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente. La proposta della Poretti si fa carico anche dell’ipotesi che il governo italiani neghi l’immunità diplomatica ai cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in un altro Paese o da un tribunale internazionale prevedendone l’estradizione. Infine viene istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un "Fondo per le vittime dei reati di tortura utile ad assicurare un risarcimento finalizzato a una completa riabilitazione". Gli altri testi depositati in Senato presentano alcune variazioni sostanziali. Sia quello dei senatori siciliani del Pdl Salvo Fleres (che è anche garante siciliano dei diritti dei detenuti) e Mario Ferrara, che quello del democratico Di Giovan Paolo, prevedono che il delitto di tortura sia generico ossia commettibile anche da colui che non è un pubblico ufficiale.

Il massimo della pena è in entrambi i casi di dodici anni. Diminuisce il minimo edittale nella proposta pidiellina. In uno dei due testi vengono specificate le ragioni di discriminazione - razziale, politica, religiosa o sessuale - che possono essere alla base delle violenze psicologiche o fisiche inferte. Alla Camera i testi che hanno quali primi firmatari Salvatore Torrisi del Pdl, Pino Pisicchio dell’Idv e Gianclaudio Bressa del Pd sono più o meno corrispondenti a quelli presentati al Senato da Fleres e Ferrara.

Nei giorni scorsi la capogruppo del partito democratico Anna Finocchiaro ha chiesto la calendarizzazione dei disegni di legge sulla tortura. Qualora fosse accordata bisognerà arrivare a un testo unico e sostanzialmente decidere se propendere per una ipotesi delittuosa specifica (ossia crimine che può essere commesso solo da addetto alle forze dell’ordine o affini) oppure generica (ad esempio tortura commessa da un sequestratore nei confronti del sequestrato) con un’aggravante nel caso di fatto commesso da un pubblico ufficiale. Infine va ricordato che l’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo Opzionale alla Convenzione sulla tortura pur avendolo firmato nel lontano 2003 per volontà del precedente governo Berlusconi. La firma fu apposta dall’allora sottosegretaria agli esteri Margherita Boniver.

Giustizia: non gli comunicano la scarcerazione... e lui si suicida

 

Agi, 19 novembre 2009

 

Sono in corso indagini della Procura della Repubblica di Palmi sulla morte per asfissia di un detenuto della Casa Circondariale di Palmi (Rc).

Era già stato formalmente scarcerato, ma nessuno glielo ha comunicato, così si è tolto la vita in carcere: l’uomo infatti, Giovanni Lorusso quarantunenne di Bari, era stato condannato a Rimini nell’agosto 2008 per il furto di uno zaino in spiaggia. Ora i familiari del detenuto suicida chiedono chiarezza e giustizia. Perché quel provvedimento di scarcerazione non è stato notificato al loro congiunto?

Gli erano stati comminati 4 anni e 5 mesi di pena per una serie di aggravanti fra cui la recidiva specifica, la dichiarazione di delinquente abituale e il fatto che si trovasse in Romagna in violazione delle misure di sorveglianza alle quali era sottoposto. Andati a vuoto i tentativi di ottenere gli arresti domiciliari in una comunità di recupero, il barese era disperato e si è tolto la vita in cella con il fornellino del gas.

Ma il provvedimento di scarcerazione era già arrivato da più di 24 ore negli uffici del penitenziario, grazie alla richiesta dell’avvocato Martina Montanari che era stata accolta dalla Corte d’Appello di Bologna.

Il provvedimento che lo autorizzava a uscire dal carcere di lì a tre giorni era già arrivato da più di 24 ore negli uffici della direzione, ma a lui si erano scordati di notificarlo. Così, detenuto da oltre un anno e disperato per il timore di dover far fronte all’ennesimo rifiuto di lasciarsi le sbarre alle spalle ed entrare in una comunità di recupero, non ha resistito alla prospettiva di restare dentro e si è tolto la vita con il gas del proprio fornellino all’interno della cella.

Per lui la scarcerazione sarebbe stata la fine di un incubo: appena due settimane fa era stato trasferito infatti dal carcere di Ariano Irpino a quello di Palmi, dopo aver lamentato nei colloqui con i propri familiari di essere stato maltrattato all’interno del precedente istituto che lo ospitava (mentre a Rimini era rimasto solo i primi mesi).

‘Tiratemi fuori, non ce la faccio più a stare dentro’, era stato il suo ultimo, disperato appello. Chi lo ha in contrato ha riferito che l’uomo aveva dei lividi e una mano fratturata: i parenti avevano manifestato al difensore l’intenzione di rivolgersi alle autorità per chiedere spiegazioni sull’accaduto. Ma la burocrazia carceraria ha impedito che gli venisse comunicato il provvedimento autorizzativo dei domiciliari (con scarcerazione e contestuale ingresso in comunità a partire dal 20 novembre), provvedimento arrivato regolarmente a Palmi il 16 novembre. "I familiari del detenuto, convinti che se fosse stato avvisato tempestivamente - spiega l’avvocato riminese Montanari che ha seguito la vicenda della vittima a partire dal furto in spiaggia - la tragedia non sarebbe accaduta, ora sono assaliti anche da altri dubbi: vogliono approfondire le circostanze della morte del loro congiunto".

‘Questa mattina sono cominciati gli esami autoptici - aggiunge l’avvocato Montanari - mentre la famiglia è a Palmi e sta raccogliendo notizie, ma prima diffonderle vorrei verificarle. Comunque è stato trasferito da un carcere all’altro dopo che aveva scritto una lettera alla sorella in cui raccontava di essere stato maltrattato. L’uomo, che era abituato ala carcerazione, aveva quindi raggiunto un grave grado di depressione. Era anche tossicodipendente ma voleva riabilitarsi e aveva scelto la comunità il Gabbiano in provincia di Sondrio.

Si sapeva far rispettare in carcere, conosceva l’ambiente carcerario, era stato spesso dentro. E non aveva mai manifestato intenzioni suicide. Non vogliamo accusare nessuno per ora, aspettiamo l’esito degli esami, ma vogliamo sapere cosa è successo nelle carceri di Ariano Irpino e Palmi. E non possiamo escludere nulla, nemmeno un delitto. Contiamo sulle indagini della Procura di Palmi".

Giustizia: Sappe; 65.700 detenuti, 85% delle carceri fuori legge

 

Il Velino, 19 novembre 2009

 

"Ieri, 18 novembre 2009, ben 177 delle 204 carceri italiane sono sovraffollate oltre il limite tollerabile. In altre parole, più dell’85 per cento degli istituti penitenziari per adulti sono fuori legge! Da gennaio 2009 fino ad oggi le persone detenute in carcere sono passate da 59.060 a 65.702, con un incremento dell’11 per cento ed una media di circa 670 persone in più ogni mese. A gestire questa drammatica situazione 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno, c’è solo la polizia penitenziaria che nello stesso periodo è scesa di 552 unità nonostante gli ingressi di oltre 200 agenti in prova nei mesi scorsi. Questa è la realtà che si cela dietro i tragici fatti di queste settimane, rispetto alla quale anche il mondo della politica ha letteralmente preso in giro poliziotti e detenuti con promesse e chiacchiere al vento. Non ci rimane che rivolgerci al capo dello Stato in qualità di garante della Costituzione". È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei baschi azzurri, commentando i dati penitenziari nazionali aggiornati alla data di oggi, 18 novembre 2009.

"Ci chiediamo - insiste Capece - dove sono ora le centinaia di persone tra parlamentari, consiglieri regionali e provinciali che hanno aderito all’iniziativa dei Radicali di visitare le carceri lo scorso ferragosto? Che cosa hanno ‘prodotto’ queste persone in virtù dei loro mandati rappresentativi? I giorni seguenti quella storica visita abbiamo chiesto a chi ha organizzato e partecipato a quella storica sequenza di visite, di intervenire e confrontarsi politicamente entro i successivi cento giorni. Oggi, scaduti quei cento giorni, quali sono i frutti di quelle visite ipocrite? Ognuna di quelle persone, nessuna esclusa, si può ritenere politicamente responsabile di quello che sta avvenendo all’interno degli istituti penitenziari della Repubblica Italiana, in cui i suicidi e i decessi che tanto fanno scalpore sono solo la punta dell’iceberg".

"Lo sa bene la polizia penitenziaria - continua l’esponente sindacale - che è l’unica rappresentante dello Stato che sta fronteggiando questa emergenza, ma oltre il danno di essere gli unici esposti a malattie come l’hiv, la tubercolosi, la meningite e altre malattie che si ritenevano debellate in Italia, si aggiunge l’altro danno di essere considerati i responsabili di questa situazione, come se gli oltre 38 mila agenti non vedessero l’ora di abbandonare le proprie famiglie per andare a lavorare in carceri maleodoranti ai limiti del Terzo mondo, esposti a malattie contagiose, senza la retribuzione delle ore di straordinario effettuate per coprire la carenza di organico che una classe politica si ostina a non considerare. Fino ad ora siamo stati gli unici a pagare, anche in termini di vite umane spezzate dallo stress generato da tali condizioni lavorative. Non ci rimane dunque che rivolgerci al capo dello Stato in qualità di garante di quella Carta costituzionale che nelle carceri italiane viene violata ogni giorno, ogni ora, ogni minuto laddove ormai, a causa del sovraffollamento, la detenzione consiste in trattamenti contrari al senso di umanità".

Giustizia: Davigo; in Italia non esiste un "problema sicurezza"

 

Redattore Sociale - Dire, 19 novembre 2009

 

Il consigliere della Corte di Cassazione alla tavola rotonda del Seac. "Dai 1.700 omicidi all’anno degli anni 90 siamo passati a 500. Abbiamo meno omicidi di Gran Bretagna e Francia, dove a nessuno viene in mente di mettere i soldati per le strade".

"In questo paese non esiste un problema di sicurezza. Dai 1.700 omicidi volontari all’anno dei primi anni ‘90 siamo passati ai 500 degli anni 2000. Abbiamo meno omicidi di Gran Bretagna e Francia, dove a nessuno viene in mente di mettere i soldati per le strade". Così Piercamillo Davigo, consigliere della Corte suprema di cassazione, intervenuto alla tavola rotonda sul sistema penitenziario organizzata dal coordinamento di enti e associazioni del volontariato Seac. "La metà degli omicidi avvengono in casa o nell’ambito parentale e familiare. Quindi è più pericoloso stare in casa che uscire - ha detto Davigo -.

Si attivano politiche di rassicurazione, non di sicurezza. Si fa credere che si mantiene l’ordine pubblico ma in realtà non si controlla il territorio". Il magistrato ha commentato anche le politiche di respingimento in mare dei migranti da parte del Governo. "Non si possono rinchiudere nei centri tutti gli immigrati che arrivano dal Mediterraneo. È propaganda, perché solo il 20% dei clandestini entra in Italia in modo irregolare, gli altri arrivano con un visto e rimangono sul territorio anche dopo la scadenza. Si crede di non essere sicuri perché si ha paura. Si crea panico nella popolazione".

Parlando del sistema penale, secondo il magistrato "è necessario ritrovare la razionalità". "Bisogna adeguare le sanzioni alla specificità del reato - ha spiegato Davigo -. L’Italia, con la Norvegia, è l’unico paese europeo con un codice penale che risale a prima della Seconda Guerra Mondiale, se pur modificato. Oggi spira aria da controriforma che spinge verso il codice Rocco, in cui c’era una sproporzione, con una tutela feroce del patrimonio privato".

Il magistrato ha anche operato una distinzione sulla pena come deterrenza e come rieducazione. "Sappiamo che per tutte le situazioni di forte emarginazione, la deterrenza non funziona - ha continuato -: un tossicodipendente disperato commette le rapine senza pensare a cosa va incontro. Ma c’è anche chi commette altri tipi di reati calcolando prima costi e benefici. Al processo per l’aggiotaggio Parmalat c’erano 40 mila parti civili. Quanti scippi deve fare uno scippatore per fare 40 mila vittime?".

Sul sovraffollamento delle carceri, per Luca Palamara, presidente dell’associazione nazionale magistrati, corretto funzionamento della macchina della giustizia, depenalizzazione dei reati e sospensione del processo con messa alla prova sono le misure da adottare. Palamara risponde così a Franco Ionta, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che aveva detto: "Le misure alternative al carcere non sono l’unica soluzione". Come presidente dell’Anm, Palamara ha dichiarato: "Se è vero che le carceri sono sovraffollate, è pur vero che tantissimi sono i fatti che costituiscono reati. Al tema della depenalizzazione del reato e dell’irrilevanza penale dei fatti meno gravi si deve aggiungere anche la possibilità di ricorrere alla sospensione del processo e messa alla prova dell’imputato per i reati minori".

Giustizia: Ionta; le misure alternative? non sono una soluzione

 

Redattore Sociale - Dire, 19 novembre 2009

 

Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è intervenuto al convegno del Seac: "Nelle carceri siamo al pre-collasso, e l’immagine del sistema penitenziario è negativa. Col nuovo piano di edilizia penitenziaria andrà meglio".

"La morte di Cucchi è una storia dolorosa da qui trarre insegnamento per abbandonare le logiche burocratiche e autoreferenziali con cui si è mosso l’ordinamento giudiziario". È quanto afferma Franco Ionta, Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, intervenuto al convegno del Seac sullo stato del sistema sanzionatorio. "Questa persona ha avuto contatti con varie strutture dello Stato che si sono mosse con atteggiamento esclusivamente burocratico - continua Ionta - da qui muove l’inchiesta amministrativa che ho disposto per fornireelementi che portino alla verità su questa vicenda".

Sul sovraffollamento nelle carceri Ionta parla di "situazione di pre-collasso, allarmante per la cronica carenza del personale, in cui la massima capienza è l’unico criterio da seguire".

Ionta ha ricordato che la popolazione carceraria è passata dai 39 mila detenuti del 2006 ai 64 mila del 2009. "L’immagine mediatica del sistema penitenziario è negativa anche quando i fatti succedono fuori dalle strutture penitenziarie - continua -: è vero che ci sono morti in carcere, atti di autolesionismo ma ci sono anche aggressioni quotidiane agli agenti".

Sulle prospettive future Ionta afferma che "si percepisce oggi lo Stato repressore e l’avversario nella polizia penitenziaria". Per il Capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, "le misure alternative non sono la soluzione dal problema del sovraffollamento delle carceri. Sono solo una soluzione parziale perché la società richiede più prigione e più sicurezza". Sul piano di edilizia penitenziaria Ionta ha detto: "Con più posti si starà meglio in carcere e la polizia penitenziaria lavorerà meglio e con più dignità".

Giustizia: Scalfaro; non generalizzare, ma Cucchi massacrato

 

Redattore Sociale - Dire, 19 novembre 2009

 

Il Presidente emerito della Repubblica al convegno del Seac. Sovraffollamento, "non è costruendo che si risolve il problema. Ma non partirei da una posizione di opposizione netta sul Piano per allargare gli spazi".

"È una cosa penosissima ma è importante non generalizzare sulla polizia penitenziaria perché non ci sono dati certi, ma indubbiamente Stefano Cucchi è stato massacrato di botte questo è inumano è gravissimo ed è un delitto". Sono le parole del Presidente emerito delle Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sul caso Cucchi, dette a margine del 42° Convegno nazionale del Seac, l’intervento di Scalfaro ha ricordato la necessità di porre una soluzione al sovraffollamento delle carceri.

"Non è costruendo che si risolve il problema ma non partirei da una posizione di opposizione netta sul piano per allargare gli spazi - ha detto l’ex capo dello Stato - le persone sono costrette a un tormento fuori dalle regole quando vivono in 10 o 15 in una cella per quattro persone". Scalfaro ha parlato anche delle procedure giudiziarie a proposito della tragedia dei suicidi. "La Costituzione dice che la responsabilità c’è quando una sentenza è passata in giudicato. Quando parlai del tintinnar di manette mi riferivo al fatto che non c’è niente di più deteriore del pensare se questo lo metto dentro parla. Questa è tortura", ha concluso.

Giustizia: Laganà; sì osservatorio permanente su morti carcere

 

Il Velino, 19 novembre 2009

 

"Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Come Seac auspichiamo che l’indignazione emotiva per questi fatti coaguli tutte le forze politiche, sociali ed istituzionali affinché siano garantiti il valore e la tutela dei diritti fondamentali per qualsiasi uomo, a qualunque circostanza o situazione sia soggetto, perché la salvaguardia dei diritti dei soggetti deboli è il metro di giudizio dell’effettiva salvaguardia dei diritti di ciascuno. In merito poi al gravissimo dramma dei suicidi, si ritiene urgente che tutte le risorse e le disponibilità dell’amministrazione penitenziaria siano mobilitati per contrastare questa tragedia in aumento, al fine di tutelare l’incolumità fisica e psichica dei ristretti. Sosteniamo pienamente, quindi, la proposta lanciata da Ristretti Orizzonti della necessità di un Osservatorio permanente sulle morti in carcere". Lo dichiara Elisabetta Laganà, presidente Seac, coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario, in apertura del 42° convegno nazionale Seac.

Giustizia: ispettore di cappellani; in carcere scontro è strutturale

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

"Il carcere è una struttura repressiva. Ci sono uomini detenuti e altri che li devono tenere. Non c’è collaborazione, ma uno scontro strutturale". Lo ha detto l’ispettore generale dei cappellani penitenziari Giorgio Caniato, a margine di un convegno sulle misure alternative al carcere, commentando la morte di Stefano Cucchi. Il sacerdote ha sottolineato come la struttura stessa del carcere obblighi "ciascuno a arrangiarsi".

Giustizia: Bernardini; "rivolta non violenta" per morti in carcere

 

Apcom, 19 novembre 2009

 

"Le leggi liberticide, le carceri illegali, l’accanimento folle verso i più poveri, i tossicodipendenti, gli immigrati, ci consegnano oggi la notizia di un altro corpo senza vita. Un uomo di 41 anni al quale una burocrazia malata non aveva riferito tempestivamente l’annuncio della scarcerazione decretata dal tribunale di sorveglianza". Lo si legge in una nota di Rita Bernardini, deputata Radicale, che come risposta alla gravissima situazione delle carceri italiane chiede di mettere in atto un "rivolta non violenta: questa - dice - è la risposta che diamo con il nostro sciopero della fame, che ha gli obiettivi puntuali di una mozione parlamentare appena depositata e che stiamo sottoponendo alla firma di tutti i deputati".

La mozione, oltre alla firma dei deputati facenti parte della delegazione Radicale all’interno del gruppo del Pd (Bernardini, Turco, Beltrandi, Farina Coscioni, Mecacci e Zamparutti), è stata già sottoscritta da Benedetto Della Vedova, Guido Melis, Mario Pepe, Roberto Giachetti, Giulio Calvisi, Lino Duilio, Jean Leonard Touadi.

Nella mozione si chiede di riavviare il sistema delle misure alternative, "ripensando quel meccanismo di preclusioni automatiche che, soprattutto con riferimento ai condannati a pene brevi, ha finito per imprimere il colpo mortale alla capacità di assorbimento del sistema penitenziario; su tale versante è anche necessario generalizzare l’applicazione della detenzione domiciliare quale strumento centrale nell’esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità anche attraverso l’attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti". Si ritiene quindi "necessaria ed urgente un’azione riformatrice che, partendo da una comune riflessione sulle cause che hanno generato l’attuale situazione di illegalità in cui versa il nostro sistema penitenziario, favorisca la reale attuazione del principio costituzionale di cui all’art. 27, comma 3, della Costituzione; dette riforme devono procedere nel senso di garantire al detenuto il rispetto delle norme sul "trattamento" all’interno delle carceri e sull’accesso alle misure alternative, risolvendo in maniera Radicale non solo il problema del sovraffollamento delle carceri ma anche tutti i problemi del mondo giudiziario che! ruotano intorno ad esso".

Giustizia: Alfano; per le carceri troveremo soluzione definitiva

 

Apcom, 19 novembre 2009

 

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sottolinea che il governo è "al lavoro perché la questione delle carceri possa trovare una soluzione". L’allarme, per Alfano, è alto e il crescente numero di suicidi impone di trovare soluzioni: "Quando troveremo una soluzione porteremo il piano carceri in Consiglio dei ministri in modo che la soluzione diventi definitiva, per quanto riguarda il problema carceri".

Intanto, "accogliamo con favore - dice il Guardasigilli - tutto ciò che può contribuire a non alimentare il clima di tensione delle carceri nel convincimento che la soluzione migliore consista nella dignità della permanenza che è collegata direttamente alla qualità delle strutture".

Giustizia: Della Monica (Pd); va garantito rispetto dei detenuti

 

Apcom, 19 novembre 2009

 

"Il ministro della Giustizia deve dare al più presto assicurazione che nelle carceri effettivamente vengano rispettati i diritti fondamentali dei detenuti, in particolare che sia garantita loro l’effettiva parità di trattamento rispetto ai diritti costituzionali, quali quello alla salute, all’eguaglianza, alla dignità e alla difesa". Lo afferma la senatrice del Pd Silvia Della Monica della commissione Giustizia e componente del Comitato Verità per Stefano Cucchi. "Lo impongono - aggiunge - i 60 suicidi avvenuti in carcere, gli ultimi verificatisi appena due giorni fa a Firenze e a Palmi, e la drammatica vicenda della morte di Stefano Cucchi. Ancora oggi la commissione Marino ha constatato che un detenuto, presso il reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale Pertini è in precarie condizioni per lo sciopero della fame che ha intrapreso non potendo comunicare con il suo difensore".

Giustizia: La Russa; suicidi? anche se celle fossero hotel 5 stelle

 

Apcom, 19 novembre 2009

 

"I suicidi ci possono essere, e ci sono, in qualunque condizione carceraria, anche se (i detenuti, ndr) fossero in hotel a cinque stelle". Lo sostiene il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Intervistato a SkyTg24, La Russa affronta il tema del piano carceri contestando "l’equazione tra condizione di vita non buone e suicidi. La condizione di detenuto può portare, ahimè, alla patologie che portano al suicidio", prosegue il ministro, che, a proposito dei 61 casi di suicidio registrati nel corso dell’anno nelle prigioni italiane, afferma: "Non è che se gli mettiamo il frigobar, otto ore di aria e la musica soffusa non ci sarà neanche un suicidio".

Giustizia: Di Stanislao (Idv); servono nuovi modelli rieducativi

 

Il Velino, 19 novembre 2009

 

"Se è vero che le carceri sono dei contenitori indistinti di contraddizioni, di vite spezzate, è anche vero che il Governo non si preoccupa minimamente di mettere in campo un modello rieducativo che abbia il peso e il senso di questa parola". Così ha detto Augusto Di Stanislao, deputato dell’Italia dei valori, stamane durante il suo intervento in aula nel quale mette in risalto nuovamente la drammatica realtà delle carceri in Italia, facendo particolare riferimento alla casa circondariale di Teramo.

"Mettere insieme tante contraddizioni - dice -, fa diventare le carceri una realtà esplosiva ed evidentemente costruire altre carceri, se non vi è un modello di recupero e di rieducazione, non serve assolutamente a nulla". Di Stanislao ha poi continuato informando il Parlamento di quanto visto durante le sue visite al carcere di Castrogno: "nel carcere di Teramo, ad esempio, vi sono sessanta sieropositivi ai quali non si riesce a dare risposte, che convivono con altre persone, anche con bambini di uno o due anni che stanno con le madri fino a tre anni di età.

In una camerata di dieci metri per due i detenuti fanno i colloqui tutti insieme, senza la possibilità di poter guardare negli occhi i propri cari, i propri congiunti ed è evidente che così il carcere diventa una polveriera. Ancora una volta per rispondere al problema si parla di edilizia carceraria piuttosto che di interventi rieducativi, di prevenzione e di recupero". Per il deputato è evidente che tale emergenza si riscontra tanto per i detenuti quanto, quanto per direttori, agenti, medici, psicologi, educatori che lavorano all’interno degli istituti.

"Presenterò un proposta di legge - conclude - per istituire una commissione d’inchiesta parlamentare sulle carceri italiane perché Teramo è la punta dell’iceberg della situazione nazionale".

Giustizia: Marroni; i Cappellani, svolgono ruolo fondamentale

 

Adnkronos, 19 novembre 2009

 

Dare vita a un coordinamento fra Cappellani e Garante dei detenuti, per assicurare ai reclusi un supporto materiale, psicologico e spirituale. Questo lo scopo dell’incontro fra il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni e i Cappellani delle carceri della regione.

"Abbiamo concordato questo incontro perché da entrambi i nostri punti di osservazione non potevamo non rilevare il progressivo deteriorarsi della situazione in carcere - hanno detto Marroni e il delegato regionale dei Cappellani don Sandro Spriano - I sacerdoti svolgono un ruolo fondamentale che, però, non può sostituirsi ai compiti delle Istituzioni chiamate a garantire ai detenuti almeno le condizioni minime di vita in una cella. Crediamo che nel prossimo futuro il dibattito sulle carceri debba occuparsi anche di garantire l’accompagnamento dei detenuti/e che escono dagli istituti - spiega - Una fase particolarmente delicata, dove è maggiore la probabilità di tornare a delinquere, oggi affidata quasi esclusivamente al volontariato".

Garante e Cappellani hanno esaminato le problematiche più urgenti che si vivono in carcere: scarsità di risorse umane ed economiche e crescente sovraffollamento, che stanno infatti contribuendo a creare una situazione sempre più invivibile all’interno degli istituti. La carenza di personale in servizio rende difficile anche il diritto/dovere di manifestare la propria religione nelle celebrazioni cultuali e nei momenti comunitari di catechesi.

Giustizia: Bruno; "l’emergenza silenziosa" è uscita dalle mura

di Gabriele Morelli

 

www.viaemilianet.it, 19 novembre 2009

 

Desi Bruno è la garante dei detenuti del Comune di Bologna. Si definisce "una figura di garanzia e di controllo che agisce in tutti i luoghi di privazione della libertà personale". In Italia è presente in 15 Comuni e in 3 Regioni, ma non in Emilia-Romagna. E siamo ancora lontani dall’avere un garante nazionale. L’emergenza carceri vista dall’interno.

Quando un problema è troppo grande, e non lo si vuole affrontare, spesso la soluzione più facile è cercare di rimuoverlo, sperando che non succeda niente di imprevisto che lo riporti a galla e ci costringa a parlarne. È così che l’Italia affronta l’emergenza carceri, girando la testa e lasciando spazio al silenzio, fino a che un suicidio - o peggio ancora una morte "per cause da accertare" - non fa tornare d’attualità una piaga che attraversa il nostro Paese e che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti.

A lanciare questa accusa è Desi Bruno, di professione avvocatessa. "Ormai - dice - qui da noi si è creata una situazione di insicurezza sociale tale per cui si pensa che per stare tranquilli bisogna isolare il diverso. Quindi è evidente che il carcere viene rimosso da gran parte dell’opinione pubblica, come una cosa che non appartiene alla nostra vita, alla nostra città, alla nostra quotidianità". E lei di voce in capitolo ne ha, visto che entra in contatto con il mondo carcerario pressoché quotidianamente.

Desi Bruno è, infatti, il garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna e la coordinatrice nazionale dei garanti territoriali. Quando le chiediamo di spiegarci meglio cosa fa, si definisce "una sorta di difensore civico delle persone rinchiuse nelle carceri, nei centri di identificazione e di espulsione o nelle camere di sicurezza degli ospedali psichiatrici giudiziari. Una figura di garanzia e di controllo che agisce in tutti i luoghi di privazione della libertà personale". In Italia questa figura al momento è presente in 15 comuni, alcune province e tre Regioni. A dire il vero c’è una legge regionale che prevede l’istituzione di un garante anche in Emilia-Romagna, ma non è stato ancora nominato.

 

Lei però, signora Bruno, in questo periodo si sta battendo perché venga istituto un Garante nazionale. Come mai?

Sono le stesse Nazioni Unite che, a partire dal 1993, richiedono la presenza di un Garante nazionale in ogni Paese membro. Solo che l’Italia, malgrado numerosi progetti di legge esaminati sia nella vecchia legislatura che in quella attuale, risulta ancora inadempiente. Anche noi, come Coordinamento dei Garanti territoriali, abbiamo presentato una proposta di legge per chiedere che venga istituita una figura nazionale e di nomina parlamentale, di modo che possa garantire al massimo l’autonomia e l’indipendenza richieste. Dovrà essere una figura terza in grado di esercitare un controllo ispettivo vero e proprio, dato che noi Garanti territoriali, pur facendo parte dell’ordinamento penitenziario, possiamo agire solo di nei luoghi di nostra competenza e purtroppo non siamo presenti in tutti gli istituti penitenziari. Inoltre, istituire un Garante nazionale sarebbe un segnale molto importante di civiltà, in un momento in cui credo che di civiltà nelle carceri sia molto difficile parlare. La situazione diventa peggiore di giorno in giorno e credo che i segnali non siano affatto tranquillizzanti.

 

Ci può fare un quadro della situazione carceraria in Emilia-Romagna?

La nostra regione è al primo posto per quanto riguarda il sovraffollamento, e credo che questo la dica lunga. Abbiamo la più alta percentuale di stranieri, che in alcuni istituti - a cominciare da Bologna - tocca ormai il 70%. La situazione è molto critica, ma non c’è nessun intervento concreto messo in atto per risolvere il problema. Invece sarebbe necessario intervenire su alcune leggi - penso a quelle sull’immigrazione o sulla tossicodipendenza - che creano, senza nessun risultato utile, una grande carcerizzazione.

 

E questo sovraffollamento cosa comporta?

Il sovraffollamento fa nascere una lunghissima serie di problemi, dalla mancanza di risorse economiche, ad una condizione di degrado sempre più preoccupante. Bisogna vederlo, ed è una cosa che fa male. Queste persone vivono in spazi invivibili: ci si chiede com’è possibile che tre o quattro adulti rimangano dentro 24 ore su 24 in dieci metri quadri. È un fatto di inciviltà, e se fino ad adesso, con grande senso di responsabilità da parte di tutti, la situazione ha tenuto, ora si sta cominciando a perdere il controllo.

 

La scorsa settimana, però, il ministro Alfano ha presentato alla Conferenza Stato-Regioni un’informativa sul piano carceri da attuare nel prossimo triennio.

Lo so, ma credo che al momento quel piano non serva a nulla. In Emilia-Romagna, per esempio, è prevista la costruzione di sette nuovi padiglioni. E fatta salva la ricostruzione del carcere di Forlì, che è quanto mai necessaria, gli altri edifici dovrebbero aggiungersi a quelli già esistenti. Solo che non si sa ancora chi li aprirà, né soprattutto con quale personale sarà possibile gestirli. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che aumentano i detenuti, ma gli organici della polizia penitenziaria, degli psicologi e degli educatori sono sempre gli stessi. Così com’è concepito, il piano è un immane investimento di denaro, in parte sottratto anche alla cassa ammende e quindi a progetti di reinserimento sociale, che non porterà nessun beneficio. Quei soldi mettiamoli in grande piano sanitario per affrontare il tema della tossicodipendenza.

 

Ma per quanto riguarda i reati di droga, non sarebbe meglio rivedere i criteri di distinzione tra i diversi tipi di sostanze stupefacenti?

Io penso che l’equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti non sia affatto ragionevole. Oltre ad essere scientificamente opinabile, ha senza dubbio creato ulteriore sovraffollamento: ormai è tossicodipendente quasi il 30% dei detenuti. Per fare un esempio di estrema attualità, una persona come Stefano Cucchi non si può arrestare perché ha con sé al momento del fermo 20 grammi di marijuana. Anzi, io credo che chi ha problemi di tossicodipendenza in carcere non ci dovrebbe proprio entrare. Mi chiedo a chi possa servire una cosa del genere.

 

Invece la droga monopolizza le carceri e le sedi giudiziarie.

Sì, e questo fa ancora più rabbia perché invece i processi per crimini molto più gravi non si riescono a celebrare. Ormai in carcere vanno le persone socialmente in difficoltà, e molte di loro hanno problemi di droga legati allo spaccio di stupefacenti - piccolo, medio o grande che sia - e compiono reati connessi all’uso di sostanze. Ma è assolutamente inutile continuare ad affrontare il problema in questo modo.

 

Cosa si dovrebbe fare, quindi, di fronte a questi casi di disagio sociale?

Bisogna modificare la legge, bisogna intervenire con più risorse. In Italia chi deve scontare fino a 6 anni di pena detentiva per droga può andare in comunità, solo che in pratica il trasferimento non è possibile perché non c’è nessuno che paga la retta. Il ministero non tira fuori nemmeno un euro per finanziare i programmi di reinserimento e anche il servizio sanitario nazionale non ha più soldi.

 

Insomma, in carcere è facile entrare ma difficile uscire.

Certo, è questo l’isolamento di cui parlavo. Ma le figure dei garanti sono state costruite proprio sull’idea opposta, sulla convinzione che il carcere fa parte della società e del territorio. Quindi bisogna farsene carico, perché lì dentro ci sono i problemi che attraversano la collettività. Rimuovere, pensare che basta dividere per affrontare i problemi e sentirsi più sicuri non è affatto giusto. Anche perché poi a volte succedono fatti eclatanti, che per una serie di ragioni - o perché ci sono dei familiari particolarmente ostinati, o perché vengono coinvolte le persone giuste - diventano dei casi di cui tutti parlano. Questo è un bene, ma nel quotidiano sa quanti tentati suicidi sventati, episodi di sopraffazione o di autolesionismo ci sono nelle nostre carceri?

Lettere: verità sulla morte Aldo Bianzino... scritta da suo padre

di Giuseppe Bianzino

 

Carta, 19 novembre 2009

 

Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.

Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lonzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire [chissà quando e sopratutto se]. Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.

Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria Gian Luca Cantore, attualmente indagato. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due

dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo [e siamo a metà ottobre, non ad agosto]. I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati [cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai]. Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml., al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).

Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle "forze dell’ordine", lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo "i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!".

L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.

Ma i veri assassini sono coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle "droghe" come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera [con le conseguenze che si sono viste] il poveraccio che coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella pesante, cocaina o altre sostanze" circola nei festini dei potenti, non succede nulla.

Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere "clandestino", pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria.

Lettere: mio figlio morto come Cucchi da 8 mesi aspetto la verità

 

www.radiocarcere.com, 19 novembre 2009

 

Cara Radiocarcere, Vi scrivo perché voglio far sapere che la morte di Stefano Cucchi non è l’unica morte invisibile avvenuta nelle carceri italiane. Mio figlio Carmelo, di soli 19 anni, è stato trovato impiccato nella sua cella del carcere di Catania il 29 marzo 2009.

Il giorno prima, Carmelo era stato arrestato con l’accusa di aver rapinato una tabaccheria. La sera dell’arresto Carmelo è stato portato in una caserma dei Carabinieri e, a quanto ho appreso, è stato massacrato di botte. Una circostanza che sembra essere confermata dalle foto segnaletiche di mio figlio che sono state pubblicate sui giornali.

Nelle foto si vedeva mio figlio con gli occhi neri, un orecchio rovinato e il labbro rotto. Comunque sia, mio figlio il giorno dopo l’arresto viene portato nel carcere di Catania. Lì Carmelo viene rinchiuso in una cella di isolamento dove, dopo poche ore, viene trovato impiccato ad un lenzuolo. Io conoscevo mio figlio ed escludo l’ipotesi del suicidio. Inoltre mio figlio è stato trovato impiccato con la bocca ancora piena di cibo, altra anomalia.

Ora io sono 8 mesi che sto aspettando che le indagini della magistratura vadano avanti. Sono 8 mesi che aspetto le analisi che devono fare i consulenti di Messina. Sono 8 mesi che temo di non conoscere la verità sulla morte di mio figlio.

 

Giuseppe Castro

Liguria: il lavoro in carcere che non c’è… lo Stato ha finito i soldi

 

Secolo XIX, 19 novembre 2009

 

Claudio Pinto, il giovane detenuto che ha scritto al Secolo XIX, lamentando di non aver avuto un lavoro in carcere (la sua lettera è stata pubblicata sull’edizione di mercoledì), deve scontare una condanna a due anni e otto mesi per rapina: "Un errore giudiziario", giura il suo legale, l’avvocato Marco Cafiero. "Claudio è rimasto coinvolto in una vicenda allucinante. Era entrato con alcuni amici in un esercizio commerciale del chiavarese. Stava pagando la merce acquistata, quando uno dei ragazzi ha rubato un pacchetto di patatine. Ne è nato un parapiglia e dandosi alla fuga i ragazzi hanno travolto i proprietari del negozio che sono finiti all’ospedale. Morale, il furto si è trasformato in rapina e quando la polizia li ha fermati, il riconoscimento non è stato chiaro. Alla fine però Claudio è stato riconosciuto come responsabile e condannato in primo grado. Non essendo incensurato (ha precedenti per piccoli reati contro il patrimonio) non ha goduto delle attenuanti. Il mese scorso la corte d’appello di Genova, nonostante uno degli amici lo avesse scagionato, ha confermato la condanna e Claudio si è rassegnato. Sconterà la condanna, senza ricorrere in Cassazione". Ne avrà fino a settembre 2010.

Nel frattempo però il giovane, sposato, 26 anni, un passato da tossicodipendente, ne ha combinata una grossa. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere il giudice lo aveva assegnato ai domiciliari presso una comunità di recupero del chiavarese. "Un giorno si è allontanato e purtroppo i responsabili sono stati costretti a segnalare la sua assenza - racconta l’avvocato Cafiero - Claudio è tornato in carcere, a Pontedecimo, e alcuni giorni fa è stato trasferito a Savona. Ma ci tengo a dirlo: è un ragazzo di un’intelligenza particolare.

Certo, ha problemi di disagio dovuti alla sua situazione familiare". Dagli schedari risulta che Pinto avesse accumulato anche una condanna per spaccio di stupefacenti. L’avvocato smentisce e dice di non sapere nulla di una denuncia per percosse presentata dal giovane nei confronti della direzione della casa circondariale di Pontedecimo che l’ha immediatamente girata alla procura della Repubblica.

Nella casa di pena di Pontedecimo, una struttura moderna, che ospita 140 detenuti, con l’unica sezione femminile in Liguria, le occasioni di lavoro sono ridotte al lumicino. Claudio Pinto era stato adibito alla distribuzione del vitto agli altri detenuti ma non ha retto la responsabilità ed è stato sollevato dall’incarico dopo appena due giorni. Chiusi per mancanza di finanziamenti i laboratori finanziati l’anno scorso dalla Provincia, ai detenuti volenterosi non rimangono che le briciole: pulire i pavimenti, tenere in ordine il grande giardino, fare qualche lavoretto domestico.

Un paio di detenute si occupano di confezionare bomboniere per un compenso irrisorio. Il denaro è un argomento forte in un carcere che, nelle sezioni maschili, conta il 70% di detenuti extracomunitari. Persone venute in Italia per mantenere le famiglie ai Paesi d’origine, che si ritrovano senza un euro in tasca, sradicate, in balia degli eventi. Un po’ di denaro farebbe comodo. Rispetto al 2008 i finanziamenti (circa 250mila euro) per attività lavorative sono stati tagliati della metà. Nell’arco del mese si riesce ad impegnare, ma su vari turni, una quarantina di detenuti sui 140 presenti.

Il Provveditorato ha varato un paio di iniziative. Un bando di concorso per un progetto di ristrutturazione di alcuni locali all’interno del carcere (si pensa di attrezzare un angolo di giardino riservato alle detenute con figli piccoli). I lavori saranno eseguiti dai detenuti. E tre borse di lavoro da 400 euro ciascuna della durata di tre mesi.

Nel luglio scorso il capo del Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Franco Ionta era venuto a Genova a perorare la causa del lavoro in carcere. La Camera di Commercio gli aveva offerto la prestigiosa sala di rappresentanza di via Garibaldi e Ionta aveva lanciato un appello agli imprenditori: assumete detenuti in semilibertà o finanziate attività lavorative in carcere, oltretutto sono previsti sconti fiscali.

Risultati? Prossimi allo zero. Nel carcere di Marassi funziona un laboratorio di panificazione. A Sanremo i detenuti fabbricano finestre. Finché ha avuto i fondi, l’assessore provinciale Milò Bertolotto ha finanziato le attività formative e scolastiche. La Compagnia delle Opere, braccio secolare di Comunione e Liberazione è impegnata a finanziare strutture per favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione. L’uovo di Colombo. Inserire ex detenuti o detenuti in semilibertà nelle cooperative sociali favorisce il reinserimento nella società. A Chiavari il meccanismo funziona già per due detenuti all’esterno del carcere. Altri due hanno ottenuto borse di lavoro in carcere.

Firenze: Cisl; il suicidio all’Ipm non sia solo l’ennesima tragedia

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

"Il suicidio di questi giorni all’Istituto Penale Minorenni di Firenze, che ha visto un ragazzo togliersi la vita, non può essere solo il fallimento degli Operatori dell’Istituto Meucci".

Esordisce così il segretario generale della Cisl Fns toscana, Fabrizio Ciuffini, che aggiunge: "Tutti devono aprire gli occhi sul sistema penitenziario, ormai al collasso totale, con 5.000 detenuti in più di quanti erano nelle carceri italiane nel 2006 e che fecero gridare allo scandalo tanti italiani per la misura dell’indulto. Ed oggi nessuno osa parlare di misure straordinarie, di nuovi provvedimenti di clemenza, anche perché questa perenne situazione da campagna elettorale che viviamo nel Paese, vede la classe politica italiana pensare solo a lanciare slogan mediatici che parlano alla pancia delle persone ma non affrontano i problemi concretamente".

"Nella nostra Toscana - spiega il segretario della Cisl - i detenuti sono almeno 4.000, rispetto ai 3.000 posti disponibili. Le carceri sono diffusamente in cattive condizioni strutturali e con personale che è numericamente insufficiente, praticamente ovunque. Infatti rispetto alle 3.011 unità previste (una stima del Ministero mai concordata con le organizzazioni sindacali) sono meno di 2.500 quelli presenti in Toscana, con molti di questi lavoratori vicinissimi al termine della carriera con 30, 35 anni di servizio ed anche oltre. Da tempo lanciamo allarmi, denuncie, segnalazioni. Protestiamo e proponiamo ma ogni appello sembra cadere inesorabilmente nel vuoto".

"Il carcere non fa audience, il carcere ha problemi gravissimi e quindi meglio che se ne occupino altri. Salvo poi assistere a campagne mediatiche che vedono politici di ogni schieramento apparire per dire che bisogna fare qualcosa, che bisogna intervenire. Ma il giorno seguente il carcere, chi ci lavora e chi ci vive dentro, tornano nell’invisibile. E allora il timore è che anche il suicidio di un ragazzo, che non aveva ancora compiuto 18 anni, tra qualche giorno sia solo un tristissimo ricordo, divorato come notizia di cronaca ma solo fine a se stessa, capace di lasciare sconforto tra gli operatori penitenziari tutti perché, per loro, quando accadono questi fatti è sempre un fallimento" spiega Ciuffini.

Poi l’esponente del sindacato di Bonanni spiega che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato in Toscana il Direttore Generale del Personale, che visiterà gli Istituti di Sollicciano, di Prato e di Pisa (aveva visitato nei giorni scorsi anche San Gimignano e Volterra). Purtroppo, l’amara riflessione della Cisl Fns, è che nel frattempo gli agenti resteranno soli mentre già quest’anno i tentativi di suicido in carcere sono stati 720.

Firenze: direttore Ipm; suicidio causato da "disagio improvviso"

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

Un improvviso disagio psichico, maturato verso metà ottobre, potrebbe essere stata la causa scatenante del suicidio del giovane marocchino, Yassine El Baghdadi, impiccatosi ieri nel bagno della sua stanza al carcere minorile di Firenze. La vicenda è stata ricostruita dal direttore dell’istituto, Fiorenzo Cerruto.

"Il ragazzo è arrivato da noi il 4 agosto scorso per un reato contro il patrimonio per cui il prossimo 23 novembre ci sarà il processo in rito abbreviato per il suo complice di 14 anni - ha ricordato il direttore - Non era classificato come tossicodipendente, non era segnalato al Sert. Quando è stato visitato dal nostro personale ad agosto, era lucido, orientato, non mostrava problemi di salute". Poi, qualcosa è cambiato.

"È successo nel corso della detenzione. Una sera gli agenti hanno segnalato un disagio del ragazzo - riferisce sempre il direttore Cerruto - Lo hanno visto particolarmente nervoso e agitato, quindi lo hanno fatto uscire dalla sua stanza e gli hanno chiesto cosa avesse. È qui che abbiamo ravvisato in lui una mania di persecuzione insorgente. Agli agenti disse che temeva che i compagni volessero avvelenarlo, mettergli qualcosa nell’acqua o nel cibo per farlo morire, che qualcuno lo volesse uccidere".

Un campanello d’allarme sufficiente a far scattare gli accertamenti della psicologa del carcere cui segue un consulto allargato ad altri specialisti. E poiché le sue condizioni peggiorano, lo fanno visitare da un neuropsichiatra infantile che gli prescrive dei farmaci. Ieri viene perfino attivata la Asl. "In attesa del processo, per cui con il giudice si stava convenendo dell’opportunità di avviarlo ad una comunità di recupero per giovani disagiati - racconta ancora il direttore Cerruto - si decide di contattare la Asl per un ricovero nel reparto di neuropsichiatria. Il posto ci sarebbe stato stamani".

Invece, Yassine non ha resistito. Ha fatto in tempo a telefonare alla madre, in Marocco, poi, mentre era il momento della doccia dopo la consueta partita di calcio nel cortile giocata con gli altri compagni, si è impiccato. L’hanno soccorso subito un agente e gli altri due compagni di stanza, ma è morto sul colpo. Stasera lo zio, fratello della madre a cui era stato affidato e che vive ad Aulla, è andato a trovare il direttore dell’istituto. Gli avrebbe raccontato delle difficoltà di seguire l’esuberanza del nipote. Lo aveva iscritto alla scuola per geometri, ma non la frequentava; diceva che preferiva fare l’elettricista ma in realtà non si applicava. Così gli assistenti sociali lo avevano iniziato a seguire da alcuni mesi. "Non era un ragazzo abbandonato prima, né lo era qui da noi dove non abbiamo sottovalutato nessun aspetto della sua vicenda", ha commentato ancora il direttore Cerruto.

L’Istituto penale minorile Meucci di Firenze accoglie in questo momento 22 giovanissimi. Sono seguiti da uno staff che comprende cinque educatori, più un medico e una psicologa, presenti tutti i giorni. Vivono in stanze da tre posti dotate di bagno.

Firenze: Pardi (Idv); suicidio è fallimento di politica securitaria

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

"Il suicidio del giovane immigrato nel penitenziario minorile di Firenze è un evento tragico e testimonia gravi fallimenti di cui dobbiamo, il governo in particolare, prendere atto". È quanto afferma il senatore dell’Italia dei Valori Pancho Pardi, capogruppo del suo partito in commissione Affari costituzionali.

"La politica securitaria che ingabbia clandestini e disperati sta affollando le carceri rendendole luoghi disumani sia per chi vi è costretto sia per chi vi lavora. La circostanza del suicidio del minorenne tunisino, che è solo l’ultimo di una lunghissima serie di suicidi in carcere, fa a pugni con l’impunità spensierata dei grandi corruttori di governo e le velleità del processo breve. Il ministro Alfano - conclude Pardi - dovrebbe preoccuparsi del fatto che ormai amministra due giustizie: quella che estingue i reati ai ricchi, e quella che ne inventa di paradossali per i disperati".

Flavio Arzarello, coordinatore nazionale della Fgci, l’organizzazione giovanile del Pdci, chiede un intervento del ministro della Giustizia Alfano. "Il suicidio di un ragazzo di 17 anni, che veniva dal Marocco, e che si è impiccato ieri nel carcere minorile di Firenze con un lenzuolo nella doccia - afferma -, deve smuovere le coscienze democratiche del nostro Paese. Il Ministro della Giustizia non può stare con le mani in mano. Nelle carceri italiane c’è una situazione che, giorno dopo giorno, diventa sempre più esplosiva. Un Paese civile non lo può tollerare".

Firenze: Yassin, morto per ingiustizia, in un anno di dis/grazia

di Franco Corleone (Garante dei detenuti)

 

Terra, 19 novembre 2009

 

Yassin avrebbe compiuto tra pochi giorni diciotto anni. Mi sono ricordato la canzone interpretata dai Tetes De Bois, "Non si può essere seri a diciassette anni" e provo uno strazio indicibile pensando alla sofferenza di un giovane venuto dal Marocco, alla sua solitudine e a una voglia di vivere disordinata.

È il sessantacinquesimo suicidio in carcere in questo anno di dis/grazia 2009, per fortuna non ci siamo assuefatti alla tragedia continua; ma questa morte in qualche modo annunciata fa aumentare la rabbia per il segno di una profonda ingiustizia.

Tutti gli operatori del carcere erano consapevoli della sua condizione difficile, psicologica e personale, e avevano sottolineato in più occasioni uno stato di incompatibilità con la detenzione. Ma la decisione del ricovero in ospedale è stata decisa fuori tempo massimo, il ritardo pare dovuto al palleggiamento sulla competenza tra il reparto di psichiatria infantile e quello degli adulti e ci sarebbe da sorridere della capacità della burocrazia medica di giocare sulla pelle dei pazienti se non fossimo davanti a una morte crudele.

Questa storia offre molte conferme del carattere di giustizia di classe e addirittura etnica che si pratica in Italia nel silenzio e nella distrazione di tanti. Solo uno straniero sostanzialmente solo poteva rimanere in carcere in attesa del processo per tentato furto di un orologio. D’altronde la retorica della certezza della pena per qualcuno deve pur valere! Così si spiega la preoccupazione del magistrato che, se rimesso in libertà, Yassin non si sarebbe presentato al processo. C’è evasione e evasione: quella dalla vita è inspiegabile ma quella dalla legalità è intollerabile, pare.

Ma possiamo anche pensare a un’altra spiegazione più sollecita della sorte di un giovane in difficoltà: meglio in carcere che in strada. Così non è stato. Anche perché la costrizione non aiuta un soggetto fragile. L’attenzione del carcere, che c’è stata, in casi del genere si traduce nella formula di assicurare un’alta sorveglianza. Forse c’era bisogno di amore ed è una richiesta impossibile.

Tanti giovani sono in carcere per reati minimi, furti o piccolo spaccio, e soffrono per la mancanza di libertà in modo lancinante; dobbiamo avere il coraggio di proporre una riforma degli Istituti Penali Minorili perché non siano dei mini carceri con sbarre e porte d’acciaio, ma "case" con pratiche di convivialità e solidarietà. La devianza dei giovani è legata ai miti degli adulti, all’esercizio del potere della violenza, della sopraffazione e della ricchezza. Occorre disegnare un luogo fondato sulla responsabilità e sulla ricerca della felicità. Il carcere è inutile e dannoso e spesso dà la morte.

Bologna: direttore Ipm; meglio le evasioni, piuttosto dei suicidi

 

Dire, 19 novembre 2009

 

"Preferisco che i ragazzi evadano piuttosto che si impicchino". Lo ha detto questa mattina Paola Ziccone, direttrice del carcere minorile del Pratello di Bologna, oggi in Comune per una seduta di commissione dedicata all’istituto minorile. Ziccone si è espressa così riferendosi al suicidio avvenuto ieri nel carcere minorile di Firenze (un 17enne marocchino si è impiccato), di cui ha informato i consiglieri all’inizio del suo intervento. "A rischio di essere retorica, devo parlare avendo presente quello che è successo, cosa che mi impone un certo tipo di discorso piuttosto che un altro", esordisce Ziccone.

Poi, dopo aver ricordato le difficoltà del Pratello, di mezzi ma soprattutto di personale ("polizia penitenziaria ma anche educatori, che in un istituto minorile dovrebbero avere parte preponderante, per mettere in piedi percorsi educativi") e esortato il Comune a fare "pressione" politica per facilitare l’arrivo di risorse, Ziccone propone questa riflessione. "Ci terrei comunque a dire che io preferisco che i ragazzi evadano piuttosto che si impicchino. Quindi - prosegue la direttrice - voglio dire che sono dispiaciuta che sia successa questa evasione quest’estate (un ghanese poi arrestato a Milano e uno slavo riuscirono a fuggire il 17 agosto, ndr), per motivi anche ascrivibili ai problemi strutturali e di mancanza di organico di cui ho parlato, ma tengo a dire che in questo istituto non si è mai verificato nessun dramma di questo tipo e mi auguro che così continui ad essere". Al Pratello, dice, "c’è un grado di attenzione molto elevato, che fa sì che i ragazzi possano sentirsi seguiti e accolti". Ma questo, dice Ziccone, "diventa difficile quando i problemi si sommano e si vive nell’emergenza. Le scintille danno presto luogo a degli incendi".

Le criticità di cui parla Ziccone (e con lei la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Desi Bruno) sono molte. Infatti, sebbene il trasferimento che si aspettava da anni (dal vecchio edificio al nuovo ristrutturato, sempre all’interno dello stesso complesso) ci sia finalmente stato, nel febbraio scorso, i problemi non sono ancora risolti: la carenza di personale, denuncia Ziccone, fa sì che alcuni spazi ristrutturati e pronti all’uso non possano in realtà essere utilizzati. Tanto che in questi giorni, al Pratello, ci sono due ragazzi che devono dormire per terra.

L’edificio ristrutturato, spiega infatti Ziccone, è su due piani e potrebbe ospitare 44 minori. Per carenza di organico, però, "la struttura di fatto può essere aperta solo per un piano", dove di ragazzi ce ne stanno 22. Ora che ce ne sono 24, "due minori li devo fare dormire in terra" dice Ziccone, precisando però che queste situazioni si superano con rapidi trasferimenti.

Quello di Ziccone è un rammarico. "Mi trovo con degli spazi vuoti e stanze arredate, che non posso usare per mancanza assoluta di personale", non rinforzato dopo l’ampliamento e il trasferimento. È sempre per questa ragione, sottolinea Bruno, che al momento l’istituto bolognese non è in grado di ospitare minori provenienti da altre regioni d’Italia, come invece dovrebbe succedere in futuro. A Bologna mancano agenti, ma anche educatori, mediatori, psicologi. E, benché a Bologna l’impegno del personale sia altissimo, "questo diventa sempre più difficile - conclude Ziccone - con un sovraffollamento che non consente la vivibilità degli spazi e il numero di attività per i ragazzi. Viviamo sempre in un’emergenza quotidiana. E quando i problemi si sommano e si vive nell’emergenza, le scintille danno presto luogo a incendi", dice la direttrice.

Bologna: la Garante; Regione faccia di più per Ipm del Pratello

 

Dire, 19 novembre 2009

 

Il Comune di Bologna reagisce promettendo un atto di indirizzo, con linee programmatiche su ciò che l’amministrazione farà per assecondare le esigenze del carcere minorile, di fronte al cahier de doleances portato oggi a Palazzo D’Accursio dalla direttrice del Pratello, Paola Ziccone. Se da un lato le criticità elencate da Ziccone, dalla carenza di agenti e psicologi al sovraffollamento che costringe in questo periodo due minorenni a dormire su materassi stesi a terra, scuotono gli animi dei consiglieri ("Si può avere nel 2009 a Bologna una struttura dove due ragazzi dormono per terra?" si indigna Daniele Carella del Pdl), dall’altro Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dal Comune, lancia un appello (ma anche una strigliata) alla Regione perché per il Pratello non fa abbastanza.

Bruno non usa mezzi termini: al Comune chiede di sollecitare la Regione a fare di più. Intanto si dice soddisfatta dell’impegno del capogruppo Pd, Sergio Lo Giudice, a definire linee programmatiche dell’amministrazione sul Pratello. "È anche vero - incalza però Bruno - che il carcere minorile non è un problema solo del Comune, c’è una sottovalutazione da parte della Regione Emilia-Romagna".

Il Pratello è il carcere di riferimento per la regione ma anche per le Marche, spiega Bruno, "è chiaro che la Regione Emilia-Romagna deve essere chiamata a una corresponsabilità, così come anche gli altri Comuni e le altre Province della regione. Questo forse aiuterebbe ad avere un intervento, una progettualità, che abbia un respiro più ampio, anche in termini di risorse".

Secondo Bruno, Palazzo D’Accursio deve spronare viale Aldo Moro. "Credo che nelle linee programmatiche del Comune ci possa essere anche una richiesta di presenza e di intervento da parte della Regione, che non può cavarsela soltanto pensando al tema della mediazione culturale - insiste la Garante - che pure è importante. Ma non c’è solo questo".

Bruno ricorda anche l’esistenza di una commissione regionale e dice: "Posso dire, credo in modo condiviso, che funziona molto poco rispetto ai temi del carcere minorile. Sono state fatte pochissime riunioni, senza che da queste sia uscito fuori un indirizzo programmatico". Secondo Bruno, il primo tema su cui sarebbe opportuno incalzare la Regione è quello del teatro, l’attività che fa capo a Paolo Billi e la più importante per i ragazzi ospiti del Pratello e che, quest’anno come ormai da diversi anni, è messa a rischio dalla carenza di risorse.

"Se ci fosse anche un coinvolgimento regionale - dice Bruno - si potrebbe pensare di risolvere e affrontare il tema del teatro in modo che non si presenti ogni anno il tema della precarietà o della riduzione. Voglio ricordare che ridurre il numero di repliche degli spettacoli, significa che i ragazzi escono di meno, incontrano meno la cittadinanza, quindi è una questione che ha serie di ricadute sul piano trattamentale".

Carella si associa alla proposta di Lo Giudice sull’atto di indirizzo, ma va oltre, tendendo la mano al Pd per un "ordine del giorno concreto", con cui si cerchino soluzioni per alcuni problemi pratici emersi nella commissione di oggi: il fatto che le guardie mediche non facciano interventi al Pratello ad esempio, o che i medici non siano presenti 24 ore su 24. "L’anno scorso ci abbiamo provato per la Dozza - ricorda Carella - non arrivano alla fine a nulla. Non rifacciamo quella bruttissima figura".

Lecce: "Fuga di Notizie"; un giornale realizzato dalle detenute

 

Lecce Prima, 19 novembre 2009

 

L’Associazione Il Borgo onlus ha realizzato il periodico "Fuga di Notizie" grazie al finanziamento della Regione Puglia - Assessorato alla Trasparenza e Cittadinanza Attiva, nell’ambito del progetto Principi Attivi.

Il Borgo si avvale della collaborazione di esperti del non profit, educatori professionali e giornalisti, accomunati dall’impegno sociale. Con i nostri progetti punta a promuovere le pari opportunità nella realtà carceraria e a contrastare l’emarginazione e la discriminazione dei detenuti dentro e fuori le mura del carcere. A tal fine l’Associazione offre strumenti utili a far acquisire a detenuti, detenute e minori a rischio competenze pratiche che possano favorire il loro reinserimento nella società.

Il Borgo, un nome che rimanda al carcere di Lecce, ma evoca anche piccole comunità fondate sulle relazioni umane, nelle quali la collaborazione e il sostegno reciproco sono i valori fondamentali della convivenza. Fuga Di Notizie è il primo progetto del Borgo. Un giornale scritto dalle donne del settore AS (Alta Sicurezza), con il quale cercheremo di superare l’isolamento più mortificante per chi vive la reclusione: l’impossibilità di raccontarsi al mondo.

Ci sono luoghi inaccessibili anche alla fantasia per chi non li ha conosciuti dall’interno. Così come ci sono esperienze in grado di modificare il percorso dell’esistenza di chiunque le viva. Perdere la libertà è una di queste. È il contrappasso che la nostra società riserva a chi ha infranto le regole della convivenza. Il carcere è il luogo dove le persone in attesa di un reinserimento vengono rinchiuse. E spesso dimenticate.

Fuga di notizie cerca di violare la condizione di marginalità forzata, imposta a chi perde la libertà, portando fuori dalle celle il racconto delle donne ristrette. Un progetto editoriale che si inserisce nel filone del giornalismo sociale, quello che si "dà voce a chi non ha voce". E che apre un necessario, vitale, canale di comunicazione tra il carcere di Lecce e il territorio salentino.

Le carceri sono sovraffollate. I servizi sanitari sono ridotti al lumicino. Il degrado è il quotidiano compagno di cella per i detenuti, nonostante gli sforzi di chi lavora alla gestione dell’Istituto. Verità che sembrano universalmente riconosciute. Fuga di notizie intende andare oltre le constatazioni e le denunce periodiche di chi per "un’ora al mese" si occupa di carcere, perché è un giornale realizzato dalle detenute. Da chi vive sulla propria pelle, ventiquattro ore al giorno, tutti gli aspetti della detenzione.

La nostra redazione si trova in un’aula del penitenziario femminile. Ci lavorano, due volte a settimana quindici detenute, incastrando la loro presenza tra processi, udienze, visite dei familiari e la noia del quotidiano tra quattro mura. Si tratta di madri, mogli, figlie, sorelle che pagano nel contesto carcerario anche la loro condizione di donna.

Immigrazione: Alfano; i giudici applichino reato di clandestinità

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha risposto alla Camera al question time sulle difficoltà interpretative del reato di immigrazione clandestina. Alfano ha osservato che, nonostante la complessità dell’interpretazione della norma, "il governo non intende sottrarsi dal riflettere su eventuali incertezze interpretative. Non è infatti la prima volta, e non sarà l’ultima, che si discute sulla portata applicativa di una norma, ovvero sulla sua legittimità costituzionale. L’autorità giudiziaria ha il dovere istituzionale di applicare la legge.

E i margini interpretativi non possono forzare il dato testuale di una norma fino a vanificarlo, non possono non considerare la volontà del legislatore che all’articolo 10bis del testo unico sull’immigrazione ha chiaramente introdotto un reato contravvenzionale e non una semplice circostanza aggravante. In estrema sintesi, la volontà sanzionatoria del legislatore in caso di immigrazione clandestina è stata chiara e inequivoca e non lascia spazio a dubbi interpretativi sulla qualificazione giuridica da dare alla clandestinità".

Immigrazione: Maroni; accordo per rimpatrio detenuti albanesi

 

Ansa, 19 novembre 2009

 

L’Albania potrebbe presto accogliere una trentina di suoi connazionali detenuti nelle carceri italiane. Dell’argomento hanno parlato oggi a Tirana il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e il ministro della Giustizia albanese, Buiar Nishani. "Stiamo verificando - ha spiegato Maroni - la posizione di una trentina degli oltre 2500 detenuti albanesi presenti nelle nostre carceri e che potranno essere rimpatriati". Maroni ha poi riferito del suo incontro con il premier albanese Sali Berisha. È stata ribadita, ha osservato, "l’amicizia fra i nostri due paesi e l’apprezzamento per il sostegno dell’Italia nella lotta alla criminalità organizzata e ai traffici illegali".

 

Alfano: detenuti stranieri scontino pena in comunità di origine

 

"Il sovraffollamento delle carceri è un problema che l’Italia ha in comune con la Spagna e l’Europa non può ignorarne l’esistenza. Il nostro Paese soffre per la presenza di tanti detenuti stranieri, stato che affligge anche la Spagna: per questo, italiani e spagnoli, faremo un fronte comune affinché nel programma di Stoccolma l’Europa si occupi anche di questa materia con l’obiettivo di far scontare la pena, ai cittadini condannati, nella comunità di origine". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, parlando durante una conferenza stampa, in Cassazione, insieme al Guardasigilli spagnolo Francisco Camano nell’ambito di un seminario sulla cooperazione giudiziaria tra i due rispettivi Stati. Alfano, inoltre, ha spiegato che "l’Italia darà pieno appoggio alla presidenza spagnola della Comunità europea, che prenderà il via il prossimo 1 gennaio di pari passo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona". Alfano ha aggiunto che "c’è stata l’Europa del mercato unico, poi quella della moneta unica, adesso è venuto il momento di avere un unico diritto comune a tutti i cittadini europei, perché solo così ci potrà essere un comune sentire".

Droghe: antiproibizionisti; fuori dalle carceri i malati e i drogati

 

Il Velino, 19 novembre 2009

 

"Gli estensori delle ultime modifiche alla legge sulle droghe, Fini e Giovanardi, vanno ripetendo che nessun consumatore finisce in carcere, ma poi Giovanardi definisce spacciatore abituale un ragazzo trovato con 20 grammi di erba. I dati ufficiali ci informano che quasi la metà dei detenuti nelle carceri italiane sono lì condannati o in attesa di giudizio per violazione diretta di quella legge. È nel frattempo diminuito sensibilmente il numero dei malati di tossicodipendenza che usufruiscono di misure alternative: 3.800 tossicodipendenti nel 2006, diventati 800 nel 2008 e 1.200 quest’anno, cifre ridicole se si considera che in carcere il 25 per cento dei detenuti si dichiara tossicodipendente". Così ha detto Claudia Sterzi, segretaria dell’associazione antiproibizionisti radicali. "C’è poi il triste capitolo dei detenuti per coltivazione di canapa, e quello ancor più triste di chi la canapa se la coltiva per curarsi e finisce, per questo, in gattabuia.

Curare i malati, liberare il consumo, legalizzare il mercato, queste le ragionevoli proposte dell’antiproibizionismo radicale. In considerazione di tutto questo, e delle ragioni che Rita Bernardini ha espresso, cioè ‘per invertire la rotta illegale e senza speranza che ogni giorno di più prende la gestione degli istituti penitenziari, con il carico di sofferenza e di abbandono in cui vive tutta la comunità penitenziaria, detenuti, direttori, agenti, educatori, medici e infermieri, psicologi e assistenti sociali, per dare uno sbocco nonviolento, intelligente e ragionevole alla rivolta che sentiamo dentro di noi quando le leggi fondamentali dei diritti umani sono ignorate e calpestate, mi unisco allo sciopero della fame dei miei compagni radicali dalla mezzanotte di oggi".

Brasile: caso Battisti; dalla Corte Federale, ok alla estradizione

 

Adnkronos, 19 novembre 2009

 

Primo via libera dal Brasile per l’estradizione di Cesare Battisti. Il Tribunale supremo federale brasiliano ha infatti votato, con 5 voti favorevoli e quattro contrari, in favore dell’estradizione dell’ex terrorista dei Pac, condannato in Italia a scontare in contumacia l’ergastolo per quattro diversi omicidi. A gennaio di quest’anno Battisti aveva ottenuto lo status di prigioniero politico in Brasile, concessogli dal ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro. Oggi i giudici hanno stabilito che i reati per cui Battisti è stato condannato non sono di natura politica e che quindi non sia legittima la concessione dello status di rifugiato politico. Adesso dovranno decidere se l’ultima parola in merito alla concessione dello status di rifugiato politico spetti al potere giudiziario (e quindi al Tribunale supremo federale) oppure al potere esecutivo, quindi al Presidente Luiz Inacio Lula da Silva.

In Brasile Battisti era arrivato dopo aver fatto perdere le sue tracce il 22 agosto del 2004, lasciando la Francia, dove, evaso da un carcere italiano, si era rifugiato nel 1980. A localizzarlo in un primo momento in Sud America dopo lunghe ricerche erano stati gli agenti francesi e i carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale.

Ma Battisti era riuscito ancora una volta a far perdere le proprie tracce fino al 18 marzo del 2007 quando venne catturato dalla polizia brasiliana e dagli agenti venuti da Parigi. Fatale per lui l’incontro con un esponente dei comitati di sostegno.

A Parigi l’ex leader dei Pac, grazie alla dottrina Mitterand, si era rifatto una vita: abbandonata la lotta armata, si era dato alla scrittura, diventando un giallista di fama e pubblicando opere in cui proponeva alcune analisi sull’esperienza dell’antagonismo radicale, tra cui L’orma rossa, edito da Einaudi. Poi, però, quando l’aria era cominciata a farsi più pesante, Battisti aveva deciso di fuggire.

A cambiare le carte in tavola era stato il parere favorevole all’estradizione dato dalla Corte d’appello di Parigi il 30 giugno del 2004. Poco dopo il presidente francese Jacques Chirac aveva fatto sapere che avrebbe dato il via libera all’estradizione nel caso in cui il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Battisti fosse stato respinto.

Pochi mesi dopo, il 23 ottobre 2004 il primo ministro francese, Jean Pierre Raffarin, aveva firmato il decreto di estradizione che costringeva l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo a scontare la propria pena in Italia. Contro il decreto nel novembre 2004 i legali di Battisti avevano presentato invano ricorso al Consiglio di Stato, che aveva al contrario convalidato il decreto nel marzo 2005. Gli avvocati ci hanno poi riprovato poco dopo, presentando un ricorso presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Pur riconoscendo di aver fatto parte dei Pac, Battisti si era sempre detto innocente. Arrivato in Francia nel 1990 dopo alcuni anni trascorsi in Messico si era appellato alla dichiarazione del presidente della Repubblica François Mitterand, che nel 1985 aveva promesso asilo agli ex militanti della lotta armata che avessero rinunciato alla violenza.

In Italia l’ex leader dei Pac era stato condannato a due ergastoli per quattro omicidi: in due di essi, quello del maresciallo Antonio Santoro, avvenuto a Udine il 6 giugno del ‘78, e quello dell’agente Andrea Campagna, avvenuto a Milano il 19 aprile del 1979, il terrorista sparò materialmente. Nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta a Mestre il 16 febbraio del ‘79, invece, Battisti fece da copertura armata al killer Diego Giacomini e, nel caso dell’uccisione del gioielliere Pierluigi Torregiani, avvenuta a Milano il 16 febbraio del ‘79, venne condannato come co-ideatore e co-organizzatore.

L’idea alla base di quel biennio di sangue, secondo quanto si appurò in seguito, era quella di colpire, oltre ad esponenti delle forze dell’ordine, i commercianti che si erano difesi durante i cosiddetti "espropri proletari". Proprio per questo nel mirino dei Pac finirono il macellaio di Venezia Sabbadin e il gioielliere di Milano Torregiani.

In quest’ultimo caso, poi all’omicidio, si aggiunse un ulteriore tragedia: nel corso della colluttazione, il figlio del gioielliere, Adriano, venne colpito da una pallottola sfuggita al padre prima che questi cadesse, e da allora, paraplegico, è sulla sedia a rotelle.

 

 

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