Rassegna stampa 10 novembre

 

Giustizia: per prevenire le violenze, ridurre l’invisibilità della galera

di Adriano Sofri

 

Panorama, 10 novembre 2009

 

Morire in carcere, morire di carcere. Salvo che le notizie esplodano grazie a luci e suoni (le fotografie di un cadavere massacrato, la registrazione di una sfuriata sul sottoscala adatto ai massacri) non se ne parla. Non si parla dei suicidi di detenuti, argomento da specialisti e da familiari. E, guardate, non si parla nemmeno dei suicidi di agenti penitenziari, benché colpiscano anch’essi per numero e circostanze. Le notizie sulle violenze in carcere mettono ancora una volta gli uni contro gli altri i detenuti e i loro custodi, guardie e ladri.

Ma la galera, nonostante tutto, li accomuna: la galera ha un odore, un rumore, un umore che corrompe e ammala fino all’ultima fibra di chi ci vive, con un’ora d’aria recintata o con la mezza giornata libera. La galera è un mondo chiuso, il più chiuso dei mondi: la quantità di mandate delle sue serrature è paradossale, superflua ed essenziale. Qualcuno è chiuso, qualcuno chiude: differenza enorme.

Ma i corpi dei detenuti, espulsi dal mondo di fuori con cento mandate, hanno una prossimità estrema con quelli dei sorveglianti, che le mascherine sulla bocca e i guanti di plastica sulle mani non bastano ad attenuare. Nel mondo chiuso c’è una comunicazione mutilata, ma ininterrotta: la gran parte dei detenuti viene spostata ("sballata") da un carcere all’altro, e anche i trasferimenti degli agenti sono frequenti. Chi sta dentro a lungo può dimenticare com’è fatto il mondo di fuori, ma impara tutto di quella sua materia separata, la geografia delle prigioni. Il cittadino libero che ascolti la registrazione di Teramo si spaventa e si scandalizza: dunque questo succede nel carcere di Teramo (sono state registrate le voci degli agenti che picchiavano un recluso, ndr).

Il detenuto che l’ascolti si meraviglia: dunque quello che succede in tante galere a Teramo è venuto fuori! Intendiamoci: le carceri non sono tutte uguali, né le persone che ci vivono. Ma la brutalità ci sta di casa, e le celle riempite senza limiti di corpi a perdere rendono pressoché impossibile una convivenza decente ed esasperano ogni rapporto. Gli agenti penitenziari sono i peggio trattati fra tutti i corpi di polizia.

E sono molto diversi fra loro. Ce ne sono che si risarciscono della propria debolezza umana abusando del potere che viene loro delegato e sfogando i peggiori pregiudizi del loro e nostro tempo: provocando, insultando, picchiando. Ce ne sono che prendono sul serio il lavoro che hanno scelto, o gli è toccato, e si sforzano di contribuire a quell’opera di socializzazione che leggi e regolamenti attribuiscono loro in teoria, e la condizione pratica non fa che frustrare.

E poi ce ne sono altri, stanchi, o rassegnati, o "bruciati", e non hanno nessuna voglia di cattiveria, ma neanche di andare contro i mulini a vento, e di misurarsi con l’entusiasmo delle cattiverie altrui: girano la testa. Tutto questo è umano, troppo umano. Per giunta, i meccanismi di gruppo e di branco che fanno perdere la testa alle persone in una curva di stadio, o all’uscita da un concerto, nel chiuso del carcere si esaltano fino a espropriare le persone di sé. Nel famigerato pestaggio collettivo di Sassari, nel 2000, successe ad agenti estranei ai reparti "speciali", raccolti lì alla rinfusa da altre sedi. Succede del resto nelle camere dette amaramente "di sicurezza" delle caserme, e perfino alla polizia in una strada, come nella Ferrara di Federico Aldrovandi.

Che fare? Certo, piantarla con le leggi criminogene, rinunciare alla cinica routine che spinge in galera migliaia di disgraziati senza difesa, cambiare le condizioni di vita quotidiana di ladri e guardie (costo per detenuto: circa 157 euro al giorno; costo dei pasti per detenuto: 3 euro al giorno). Ma una cosa prima e sopra tutto: ridurre al minimo l’invisibilità della galera. Lasciarla vedere, lasciarsi vedere. Come hanno spiegato a Teramo, il detenuto si massacra al piano di sotto. Ecco: bisogna abolire il piano di sotto.

Giustizia: adottare Protocollo Onu contro tortura nelle carceri

di Irene Testa, Lucio Berté (Associazione Radicale Il Detenuto Ignoto)

 

Il Riformista, 10 novembre 2009

 

Caro direttore, il caso di Stefano Cucchi non è isolato, come sanno quanti in questi anni hanno ascoltato i racconti a mezza bocca dei detenuti durante le visite ispettive compiute nelle carceri. Occorre uscire dall’illegalità e dall’ipocrisia. Lo Stato riconosca che tra le forze dell’ordine, nelle caserme e negli istituti di pena, esistono soggetti inclini alla violenza e al sopruso, finora tollerati e coperti perché funzionali al "carcere reale", realtà parallela e inconfessabile perché illegale.

I violenti sono lo strumento della brutale punizione fisica, extragiudiziale e incostituzionale, per spezzare la volontà e negare l’individualità di chi finisce nel tritacarne degli apparati giudiziari e poi nel carcere. Essi convivono con i nonviolenti, che riconoscono nei detenuti dignità umana e fondamentali diritti residuali, come quello alla salute, all’istruzione, al lavoro, ai rapporti affettivi. Occorre che queste due realtà vengano allo scoperto, che lo Stato dichiari da che parte sta e se non sia urgente attivare gli opportuni organismi di controllo sull’incolumità dei cittadini nei luoghi dove sono temporaneamente privati della libertà.

Sono quelli previsti dal secondo Protocollo aggiuntivo alla convenzione Onu contro la tortura, il cui scopo "è l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nelle carceri, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti". Il protocollo si applica solo agli stati che lo ratificano, ed è entrato in vigore nel giugno 2006.

Quelli che hanno ratificato sono 51: tra questi non c’è l’Italia che ha apposto la sua firma tra i primi, ma come sempre attende lunghi anni prima di dare esecuzione a ciò che firma. In Parlamento ci sono vari progetti di legge, sostenuti da organizzazioni come Amnesty International, Antigone, Radicali Italiani. Chiediamo che la memoria di Cucchi e degli altri "detenuti ignoti" morti sia onorata con tale ratifica.

Giustizia: cancellare i reati di droga… per "svuotare" le carceri

di Valentina Ascione

 

Gli Altri, 10 novembre 2009

 

Hanno da poco superato quota 65mila. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) i detenuti reclusi nella patrie galere, fino al 2 novembre scorso, sono 65.225: un migliaio in più rispetto alla capienza "tollerabile", fissata a 64.111 unità, ma soprattutto oltre 20mila al di sopra della capienza regolamentare indicata, pari a 43.327 detenuti. Il dato totale si divide quasi esattamente a metà tra condannati e detenuti in attesa di giudizio, che al 30 settembre 2009 ammontavano rispettivamente a 31.363 e 31.187. Poco meno di duemila sono invece gli internati presso ospedali psichiatrici giudiziari. La regione con il maggior numero di detenuti è la Lombardia (8455, al 30 luglio 2009), seguita da Sicilia e Campania che ne ospitano circa 7500. La regione con il dato più basso è invece la Valle d’Aosta la cui popolazione carceraria si attesta intorno a 250 detenuti. L’istituto di pena più affollato risulta quello di Poggioreale, alle porte di Napoli: quando i Radicali l’hanno visitato, lo scorso agosto, c’erano stipate 2266 persone (quasi 900 più del consentito). Un dato che fa di questo carcere il più grande d’Italia e d’Europa.

 

Chi sono?

 

In larghissima parte uomini: 60.851, a fronte di 2.779 donne, fino al primo semestre di quest’anno. Tra le detenute si contano anche una settantina di madri che scontano il periodo di reclusione con i figli a seguito, nella quasi totalità dei casi minori di tre anni. Il 50 per cento circa della popolazione carceraria ha un’età compresa tra i 25 e i 39 anni. La maggior parte è in possesso di un diploma di scuola media, ma ce ne sono alcune migliaia privi di titoli di studio. Secondo i dati raccolti e diffusi da Radicali Italiani con l’iniziativa "Ferragosto 2009 in carcere", nei penitenziari italiani ci sono più di 15 mila detenuti tossicodipendenti - di cui oltre 2mila in terapia metadonica - e circa 1250 sieropositivi. I reati più commessi - dopo quelli contro il patrimonio - sono quelli relativi alla violazione della legge sulla droga, che coinvolge oltre 26mila detenuti fino allo scorso giugno. I carcerati che scontano la pena in regime di 41-bis (carcere duro) sono stimati nel numero di 700 circa.

 

Non solo italiani

 

Oltre un terzo del totale dei detenuti nelle carceri del nostro Paese è composto di stranieri. Fino al 30 settembre di quest’anno il Dap ne ha contati 24mila, provenienti per lo più dal Nord Africa, dalla Romania e dall’Albania. Più precisamente sono 4.333 quelli che provengono da paesi dell’Unione Europea e 19.666 da paesi extracomunitari. La regione in cui è più alto il numero di immigrati reclusi è la Valle d’Aosta con il 66,37%, al contrario la Campania è quella che registra la presenza più ridotta.

Negli istituti penitenziari del Nord la percentuale di detenuti stranieri oscilla tra il 60 e il 70% e in alcune carceri si arriva all’83%, come nella Casa Circondariale di Padova. La motivazione dell’arresto è spesso legata a piccoli reati processati per direttissima che prevedono una reclusione di breve durata. E’ facile immaginare che con l’introduzione del reato di clandestinità attivo da agosto scorso - il dato relativo alle presenze di stranieri negli istituti di pena italiani sia destinato a subire presto un’impennata.

 

Quelli che... lavorano

 

Dell’intera popolazione carceraria, sono appena poco più di 13mila, di cui 4.744 stranieri. Di questi la stragrande maggioranza (11.610) lavora alle dipendenze del Dap, ad esempio nella manutenzione dei fabbricati o in servizi d’istituto. Dei restanti 1.798, i semiliberi lavorano in proprio o per datori di lavoro esterni, mentre gli altri sono impegnati all’esterno degli istituti o all’interno per conto di imprese o cooperative.

 

Dopo l’indulto

 

Secondo uno studio diffuso dall’Associazione "A buon diritto", tra i beneficiari del provvedimento di indulto del 2006 il tasso di recidiva è stato in media del 28,45 per cento: superiore tra coloro che stavano scontando la pena in carcere (30,31 per cento), rispetto a chi invece è stato dimesso da pene alternative (21,78 per cento). Dati significativi soprattutto se confrontati con il tasso medio di recidiva "ordinario" che è del 68% fra la popolazione detenuta e del 30% fra coloro che hanno scontato la pena prevalentemente in misura alternativa. Dallo studio è inoltre emerso che gli italiani si siano mostrati recidivi in misura maggiore rispetto agli stranieri, con un tasso di recidiva superiore di ben dieci punti (31,99% contro 21,36%).

 

Le morti e i suicidi

 

Nel dossier "Morire in carcere" realizzato da Ristretti Orizzonti si legge che dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane hanno trovato la morte più di 1500 detenuti, di cui un terzo per suicidio. Il dato relativo al 2009 si sta pericolosamente avvicinando con anticipo alla media annuale e molto probabilmente la supererà. Dall’inizio dell’anno, infatti, si sono già registrati 149 decessi. I suicidi sono stati oltre sessanta e nel 45 per cento dei casi hanno riguardato detenuti stranieri. Un altro dato che dovrebbe far riflettere: in carcere il tasso di suicidi è di circa venti volte superiore alla media.

Giustizia: Cucchi; arrivano i primi indagati, l’accusa è omicidio

 

Ansa, 10 novembre 2009

 

Avvocato famiglia: c’è testimone, è un detenuto

 

"Dalle informazioni che abbiamo, confermo la presenza di un testimone del pestaggio di Stefano Cucchi nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia a Roma. Si tratta di un detenuto". Così l’avvocato della famiglia Cucchi Fabio Anselmo. L’avvocato ha precisato di attendersi come imminente l’istanza di riesumazione del cadavere per svolgere una nuova autopsia. Su cosa abbia visto il testimone l’avvocato non si sbilancia. "Sappiamo cosa ha visto il testimone, chi sono le persone coinvolte. Ma in questo momento non possiamo dire di più".

 

Verso riesumazione cadavere, on-line documentazione sanitaria

 

Arrivano i primi indagati per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta nell’ospedale Sandro Pertini, a Roma, sei giorni dopo l’arresto per possesso di droga. Gli indagati, accusati di omicidio preterintenzionale, dovrebbero essere carabinieri, agenti di polizia penitenziaria e detenuti. In tutto sei persone, che si sarebbero trovate in contatto con Stefano Cucchi nelle camere di sicurezza del Tribunale di Roma. In quel lasso di tempo e spazio dove sarebbe stato isolato l’attimo dell’aggressione: dopo l’udienza che aveva deciso di lasciare in carcere Stefano e prima del suo trasferimento in cella. Tra gli indagati per ora non comparirebbero medici. E oggi approda on-line tutta la documentazione clinica relativa alla vicenda del geometra di 31 anni. Una documentazione dalla quale si evince che Stefano non collaborava col personale sanitario e rifiutava i trattamenti.

Non solo: per fare luce la salma di Cucchi sarà probabilmente riesumata per consentire il completamento degli esami disposti. Sul cadavere del geometra è già stata fatta l’autopsia. E dai primi esami degli esami clinici e della documentazione autoptica compiuti dai medici legali incaricati dalla procura la tipologia delle lesioni riscontrate sul detenuto sono compatibili sia con un evento accidentale, come potrebbe essere una caduta, sia con le percosse.

Al momento dunque non sarebbero coinvolti nelle indagini dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy il personale medico dell’ospedale, nei confronti dei quali, se emergessero responsabilità a livello di negligenze, si procederebbe per omicidio colposo. Per i legali della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni "si tratta di uno sviluppo particolarmente significativo e rilevante della delicata indagine in corso".

Intanto è stata pubblicata on-line tutta la documentazione clinica a partire dal referto del medico del 118 delle 5.30 del 16 ottobre, fino ai diari sanitari del reparto detentivo del Pertini e al certificato di morte del 22 ottobre. Dalla relazione fatta il 21 ottobre scorso dall’ospedale Sandro Pertini emerge che Cucchi presentava "condizioni generali molto scadute" e aveva "un atteggiamento oppositivo, per nulla collaborante e di fatto rifiuta ogni indagine anche non invasiva". Nella relazione si legge, inoltre, che Cucchi "ha affermato di rifiutare anche di alimentarsi, accettando di bere liquidi e assumere la terapia orale, finché non parlerà con il suo avvocato".

Dalla documentazione "emerge come una moltitudine di operatori della polizia giudiziaria, del personale amministrativo e delle strutture sanitarie, abbiano assistito, inerti quando non complici, al declino fisico di Stefano Cucchi e fino alla morte", spiega il presidente di A Buon Diritto, Luigi Manconi.

 

Bufera su Giovanardi dopo dichiarazioni

 

Intanto, sulle frasi di Giovanardi ("Cucchi era in carcere perché spacciatore abituale; la verità verrà fuori: è morto soprattutto perché pesava 42 chili") sono piovute critiche da sinistra, destra e centro e una valanga di contestazioni su Facebook. "Quando in politica, come nella vita", attacca Lorenzo Cesa, segretario Udc, "manca ogni senso di umanità, si diventa barbari: oggi è Giovanardi il nuovo barbaro". E pensare, dice Antonio Di Pietro, segretario Idv, che Giovanardi ha le deleghe alle Politiche giovanili: si dimetta per manifesta incapacità. "È vergognoso", commenta Paolo Ferrero, segretario del Prc, "che chi si scandalizza per la sentenza sul crocifisso non abbia alcun rispetto per la vita umana".

 

Carabinieri e Polizia penitenziaria si rimpallano responsabilità

 

I magistrati vogliono far luce inoltre su possibili percosse antecedenti l’arrivo in tribunale e nei giorni scorsi hanno sentito i carabinieri. Rischiano di essere indagati pure loro. Un’inchiesta interna dell’Arma ha ricostruito il ruolo dei suoi uomini escludendo responsabilità. Ma gli avvocati della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e Dario Piccioni, insistono: "Chiediamo accertamenti a tutto campo: Stefano si presentò in tribunale già con il volto segnato".

"Escludo che ci siano responsabilità di qualche collega", dice Daniele Nicastrini, segretario regionale della Uil penitenziari, "e non sono arrivati avvisi di garanzia. Qualcuno è stato convocato dai pm ma Cucchi era già in condizioni critiche prima che lo prendessimo in consegna".

 

Sospetti di manomissioni sulla cartella clinica

 

"E adesso - scrive il Corriere della Sera - spuntano alcune correzioni sospette nei diari clinici del Sandro Pertini e di Regina Coeli. Sono rettifiche che suscitano più di un dubbio in Procura, anche se non si può affermare che risalgano ai giorni successivi alla morte di Stefano Cucchi. Due aggiunte, in particolare, sono balzate agli occhi degli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, che assistono i familiari del geometra di 31 anni arrestato il 16 ottobre e morto il 22. Regina Coeli, 17 ottobre. Nel diario clinico si legge: "Il detenuto è giunto nel pomeriggio di ieri, quando sarebbe accidentalmente caduto dalle scale".

Poi, tra parentesi, la precisazione (in libertà), che secondo i legali potrebbe essere stata aggiunta in seguito. C’è poi il diario clinico compilato al Pertini il 18 ottobre. Alle note e alla firma di un medico seguono due righe molto strette, con una grafia diversa, che recitano: "Paziente non accessibile, rifiuta visita medica, si sollecita consulenza ortopedica". Questa visita risulta ripetuta due volte, il 19 e il 21 ottobre, nel diario clinico: in quello infermieristico, invece, la seconda manca.

Correzioni che rientrano nella normalità o manomissioni? È uno dei capitoli su cui la Procura, che si prepara a inviare i primi avvisi di garanzia, dovrà disporre verifiche. Nell’inchiesta infatti i dubbi sembrano ancora superare le certezze. Perché nessun medico ha mai ordinato per il detenuto una lastra alla testa? Perché al Fatebenefratelli è "saltata" l’ecografia addominale ordinata da Regina Coeli?

Tra i misteri, c’è pure il diniego di Cucchi ai medici di informare i familiari sulle sue condizioni di salute. Agli atti dell’inchiesta dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy ci sono due moduli. Nel primo, in­testato al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e datato 17 ottobre, il detenuto ha scritto due volte "no" e ha firmato per impedire ai sanitari del Pertini di riferire ai congiunti notizie sul suo stato. Nell’altro, dell’Asl Rm B, appaiono soltanto la data e il nome di Cucchi scritto a penna.

Nient’altro. A palazzo di giustizia la discrepanza non appare allarmante: probabilmente - si spiega - il secondo modulo è rimasto vuoto solo perché il giovane aveva già compilato quello del Dap. Però i pm vogliono disporre una perizia calligrafica, per stabilire se quell’unica firma è davvero di Cucchi. Tuttavia - si ragiona a piazzale Clodio - bisogna considerare che se qualcuno avesse voluto falsificare la sottoscrizione del geometra lo avrebbe fatto su entrambi i moduli. Mentre oggi il pm Barba interrogherà altri due detenuti che hanno avuto contatti con Cucchi (tra Regina Coeli e le camere di sicurezza dei carabinieri e del tribunale), la Digos indaga sugli scontri avvenuti durante la manifestazione a Tor Pignattara. Sabato pomeriggio, vicino alla casa del ragazzo, ci sono state due ore e mezza di guerriglia: cassonetti incendiati, bottiglie e sassi contro polizia e carabinieri, lancio di lacrimogeni, inseguimenti.

Ad attaccare, però, non sarebbero stati i giovani dei centri sociali o anarchici, come si era ipotizzato in un primo momento: nel mirino c’è invece un gruppo composto da una ventina di ragazzi del quartiere. Che la Digos conta di individuare attraverso i filmati registrati dalle telecamere delle banche e dei negozi".

Giustizia: Antigone; in Opg 1 detenuto su 6 subisce coercizione

 

Ansa, 10 novembre 2009

 

Sono 6 gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), ancora in funzione in Italia. Solo uno, quello di Castiglione delle Stiviere, è totalmente gestito dal servizio sanitario. Gli altri sono amministrati dal Dap mentre le terapie sono a cura del sistema sanitario regionale. Secondo gli ultimi dati forniti dall’associazione Antigone negli Opg sono recluse una media di 1.300 persone, di cui circa 100 donne.

"Un internato su sei - secondo Antigone - ha conosciuto l’esperienza della coercizione. Le condizioni di vita all’interno degli Opg, infatti, sono dure; diversi sono i casi di detenzione ingiustificata, eccessivo l’uso dei letti di contenzione. Le strutture sono spesso sovraffollate e sporche". In tutti gli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani sono presenti una o più sale di coercizione, con letti con cinghie di cuoio e in alcuni casi un buco al centro per i bisogni fisici. Il dato è preoccupante in sé, spiega Antigone, perché la pratica della coercizione è di per sé violenta, e non mancano casi di internati costretti al letto di coercizione sino a 14 giorni di seguito.

Secondo l’ultimo dato ufficiale fornito dal Dap, riferisce Antigone, nel 2005 gli episodi di coercizione sono stati 515. Sul totale degli internati il 65,1% ha commesso un reato contro la persona, il 15,4% contro il patrimonio, il 4,9% contro la libertà sessuale.

 

Ispezione in Opg Napoli: escrementi nelle celle

 

Pazienti detenuti all’interno di celle sporche di escrementi e legati ai letti di coercizione. È lo scenario descritto dal consigliere regionale campano di Sinistra e Libertà Tonino Scala che si è recato in visita a sorpresa all’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli - Secondigliano. Con Scala facevano parte della delegazione anche Samuele Ciambriello (Associazione Città Invisibile) e Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone Campania).

Obiettivo dell’ispezione verificare le condizioni degli internati e lo stato della riforma della sanità penitenziaria che nel 2008 ha sancito il passaggio di competenze al sistema sanitario regionale. Nell’Opg di Napoli sono 127 gli internati.

"Sono profondamente scosso dalle cose che ho visto - ha detto Scala -. Prendo atto che non esiste una reale presa in carico del paziente psichiatrico e che gli internati trascorrono gran parte della loro giornata chiusi anche a quattro per volta in celle spoglie e non vi sono al momento attività concrete di socio riabilitazione. Ma mi ha scosso ancora di più appurare di persona che si è tornati ad utilizzare il letto di coercizione".

In Campania, secondo i dati ufficiali, ci sono due dei sei Opg ancora aperti in Italia. "Uno dei casi che più ci ha turbato - hanno aggiunto Ciambriello e Dell’ Aquila - è quello di R.H., un ragazzo immigrato di appena 21 anni, che si trovava seminudo (con indosso solo slip e pullover) in una cella liscia priva di ogni cosa, letto incluso, e con il blindato chiuso. La cella era sporca di escrementi. Ci è stato riferito che il ragazzo ha dato in escandescenze appena giunto in Opg e che è pericoloso. Quello che possiamo testimoniare - proseguono - è che a noi è parso lucido e orientato, ha risposto a senso alle nostre domande, seppure in condizioni chiaramente precarie. E dal registro ci risulta sia stato legato al letto di coercizione per almeno tre giorni di seguito, appena giunto in Opg, e poi portato in una cella liscia. Più che un ospedale questo è un vero e proprio manicomio. Segnaleremo la cosa - concludono - alla magistratura di sorveglianza e agli organismi competenti".

Giustizia: 2.257 gli "under 18" che hanno un genitore detenuto

 

Dire, 10 novembre 2009

 

Sono 2.257 i bambini e ragazzi con meno di 18 anni che hanno un genitore detenuto. Lo ha detto giovedì scorso, intervenendo al convegno "Minori, giustizia, sicurezza sociale", Maria Pia Giuffrida, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e membro del gruppo di lavoro Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri). Ma il loro numero potrebbe essere sottostimato dal momento che "molte detenute madri, per timore di perdere i figli, non rivelano questa condizione", aggiunge Maria Pia Giuffrida. Bambini e ragazzi che "vivono e introiettano come normale una realtà anormale - sottolinea.

Manca un progetto di accompagnamento dentro-fuori per questi ragazzi". Al febbraio 2009, le donne presenti negli istituti penitenziari italiani erano 2.555. Al 30 giugno 2006, prima dell’indulto, erano 2.923 e, dopo il calo determinato dal provvedimento di grazia (1.670 unità) il loro numero ha continuato a crescere.

 

Rete integrata di servizi e tutela giuridica dei diritti dei minori

 

Rete integrata di servizi e tutela giuridica dei diritti dei minori, con proposte di modifiche legislative ad ampio raggio. È ricca di spunti anche la seconda parte dello schema di Piano di azione e interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, elaborata dall’Osservatorio e all’attenzione ora del governo.

Si parla della generalizzazione delle scuole dell’infanzia, di azioni a tutela dei minori vittime di tratta, di misure in favore degli adolescenti con particolare riferimento ai consultori familiari, ai quali affidare accresciute competenze puntando ad una loro capacità di affrontare situazioni di disagio.

Per questo, previsti anche corsi nelle scuole, creazione di centri di aggregazione giovanile, formazione di operatori di strada, promozione di gruppi di auto-mutuo aiuto. Punto particolarmente delicato è quello della definizione di livelli essenziali dei servizi educativi, tempo libero e semiresidenziali, con un potenziamento delle azioni di orientamento scolastico e professionale, attività di contrasto alla dispersione scolastica e formativa, servizi semiresidenziali intesi come strutture di prevenzione, e lavoro in rete con i Servizi sociali.

Fra i suggerimenti contenuti nel Piano anche interventi a favore degli adolescenti nell’area penale, con percorsi di inclusione socio-lavorativa dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile.

Spazio anche ad interventi per minori con disabilità (maggiore integrazione scuola, risposte a bisogni educativi speciali) e al potenziamento della rete dei servizi integrati per la prima infanzia: su tutto il territorio nazionale dovrebbero sorgere servizi per bambini da 3 mesi a 3 anni sotto forma di nidi d’infanzia, nidi aziendali, micronidi, e con la sperimentazione dei nidi domiciliari. Fra le proposte, anche quello della creazione di un sistema informativo nazionale sui bambini fuori famiglia, con promozione di percorsi per adozione nazionale e internazionale e promozione dell’affidamento familiare.

Quanto al quarto e ultimo ambito, quello del rafforzamento della tutela dei diritti, si ipotizza la riforma del Tribunale per i minorenni e le relazioni familiari, prevedendo un intervento legislativo che unifichi le competenze del Tribunale per i minorenni, del Tribunale ordinario in materia di famiglia e persone e del giudice tutelare.

Insieme a questo si propongono anche una riforma dei procedimenti civili in materia di persone, famiglia e minori, e una riforma del sistema penale minorile, con individuazione di altre tipologie di pene rispetto a quelle attuali, che il giudice possa applicare direttamente ai minorenni autori di reati (semidetenzione, permanenza domiciliare stabile o nel fine settimana, libertà controllata, sanzioni a contenuto interdittivo o consistenti in condotte riparatorie). A corredo, la semplificazione dei riti, con rito sommario per fatti lievi e citazione diretta a giudizio.

In sostanza si tratteggia la promozione di un ordinamento penitenziario per i minorenni e i giovani adulti, con ampia possibilità data al giudice di determinare percorsi penali diversificati per trovare la risposta più idonea al caso concreto. Con questo, la messa in opera di carceri minorili a forma di comunità a dimensione familiare, con la presenza di mediatori culturali per detenuti stranieri, il coinvolgimento del terzo settore, e attenzione riservata sia al minore detenuto sia ai minori figli di genitori detenuti. C’è posto anche nel Piano per la proposta di istituire il Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e per la redazione di un Testo unico delle leggi sull’infanzia e l’adolescenza sul modello del Children Act inglese del 1989.

Per i minorenni disabili è previsto il superamento completo del ricovero in strutture sanitarie e la definizione di interventi di sostegno formativo ed economico alle famiglie disponibili all’affidamento e all’adozione di minori con disabilità. E proprio a proposito di adozione, infine, lo schema di Piano suggerisce una legge di riforma all’insegna della flessibilità nell’interesse del minore, ad esempio prevedendo il mantenimento di rapporti con la famiglia d’origine o con precedenti affidatari.

Giustizia: più condanne e detenzione per i minori rom e romeni

 

Dire, 10 novembre 2009

 

Discriminati soprattutto i ragazzi soli per la difficoltà di collocarli in comunità o in famiglia rispetto agli italiani. La denuncia in un libro "Oltre la rete", curato da Raffaele Bracalenti (Iprs) e Serenella Pesarin (Dipartimento giustizia minorile).

Per i ragazzi stranieri e rom le porte del carcere si aprono più facilmente che per gli italiani, a parità di reato. Ci sono inoltre migliaia di minori romeni soli in Italia a rischio invisibilità a causa dello status di cittadini neocomunitari, che li taglia fuori dalle statistiche e dai fondi per i minori extracomunitari.

A pagare sono i comuni che devono gestirli senza copertura economica. Una situazione che fa a pugni con le cifre delle procure, dove, negli ultimi anni, sono i romeni la componente maggioritaria tra i minori stranieri denunciati. Una spia del fatto che sono ragazzi spesso precipitati nella rete della criminalità e dello sfruttamento. Sono i due allarmi sociali emersi incrociando i dati della giustizia minorile con quelli del Comitato per i minori stranieri degli ultimi dieci anni.

A tirare le somme è la ricerca "Oltre la rete. Bambini rom, immigrati e giustizia minorile", edizioni Edup, a cura di Raffaele Bracalenti, presidente dell’Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali (Iprs) e di Serenella Pesarin, direttore generale per l’Attuazione dei provvedimenti giudiziari della Giustizia minorile. Il fenomeno migratorio dei minori si diversifica per tipologie e bisogni. Nel giro di qualche anno ha assunto dimensioni non trascurabili. E sta mettendo in discussione la risposta dello Stato e della giustizia, dalla ripartizione dei fondi alle procedure da adottare nei casi più delicati ai percorsi di inclusione sociale.

I destini dei minori stranieri o rom e italiani non sono gli stessi. "A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza, sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità alloggio o in famiglia", scrivono gli autori. Nei Cpa il numero di minori stranieri che esce con misure di custodia cautelare è significativamente più alto rispetto a quello degli italiani.

Nel 2006, su 726 minori per cui il giudice ha disposto il carcere, 504 erano stranieri. Il diverso trattamento dipenderebbe dall’alto tasso di allontanamento arbitrario dalle comunità per i rom e, in particolare, per le ragazze dei Paesi dell’ex-Jugoslavia, "talvolta in stato di gravidanza o sottoposte a forti condizionamenti e a sfruttamento da parte del gruppo di appartenenza". Un’altra causa risiede nel fatto che "sono privi in genere di documenti di identità e di riferimenti familiari, ciò consente loro di sottrarsi con maggiore facilità a impegni cui potrebbero essere assoggettai in caso di provvedimento penale non restrittivo". Senza genitori, progetti di vita né identità, i minori stranieri e in particolare i rom, "possono usufruire in maniera fortemente ridotta delle misure alternative alla detenzione previste dal codice", spiegano Pesarin e Bracalenti. Di qui l’urgenza di ripensare le pratiche di intervento, come lo stanziamento di fondi ad hoc dai ministeri e dagli enti locali.

Sono minori, stranieri di prima e di seconda generazione e rom, spesso soli in Italia. Hanno storie, culture e progetti migratori diversi. Difficile scattare una fotografia d’insieme della nuova fascia di ragazzi che entrano nel circuito penale, perché cambia molto rapidamente. "Ai primi arrivi di minori marocchini, hanno fatto seguito quelli della ex-Jugoslavia, poi gli albanesi, infine i rumeni - scrivono gli autori - Quasi sempre si è trattato di minori non accompagnati, spesso di etnia rom come nel caso degli ex-jugoslavi e dei rumeni". A essere coinvolte nella gestione di questi nuovi flussi di devianza minorile sono tutte le strutture del penale: dai 12 centri interregionali per la Giustizia Minorile, ai 18 penitenziari, ai 24 centri di prima accoglienza (Cpa) fino ai Sevizi sociali con 29 uffici (Ussm) e alle comunità socio educative ministeriali (12) e del privato sociale.

È un quadro complesso e preoccupante, quello che emerge dal lavoro quotidiano dei servizi giudiziari minorili, soprattutto per la questione dei minori rom, che tende a sovrapporsi a quella dei minori stranieri. "Sovente sfruttati, spinti a delinquere, privati delle esperienze dell’infanzia - secondo Bracalenti e Pesarin - la grande maggioranza dei rom che attualmente entrano nel circuito penale minorile sono stranieri, per lo più provenienti dalla Romania, o dalla ex - Jugoslavia". Si sottolinea anche l’ elevato numero di bambini sotto i 14 anni : nei Cpa nel 2006 sono stati ben 274, di cui solo 6 italiani. Altro dato significativo è che "la componente femminile vede fortemente rappresentati Romania e Paesi dell’Est".

Nel caso dei ragazzi marocchini, partono da contesti di estrema povertà e viaggiano da soli, ma hanno parenti in Italia. "La via dell’illecito è un mezzo per modificare situazioni di bisogno ed estrema povertà", afferma la ricerca. In Italia li aspetta spesso lo spaccio al dettaglio e il furto. "Tale scelta è favorita dall’esistenza di una rete deviante all’interno del gruppo di connazionali che le fornisce supporto. Per i rumeni invece il dato della povertà si combina con un forte elemento di disgregazione del contesto d’origine sociale e familiare". Per quanto riguarda i rom, nel 2006 ne sono stati segnalati all’Autorità giudiziaria e ai servizi sociali 2.424, pari al 12% del totale dei minori segnalati. Il maggior numero di denunce al centro Italia: 1434, seguito dal Nord con 599. Emerge anche una presenza di stranieri nel circuito della Giustizia minorile disomogenea a livello nazionale. Se il Centro e il Nord Italia sono zone "ad alta emergenza", al Sud e nelle Isole, il problema non è sentito e a finire nella rete del crimine sono ancora prevalentemente i ragazzi italiani.

Giustizia: oltre 2.300 i minori romeni soli in Italia e senza tutele

 

Dire, 10 novembre 2009

 

Sono bambini invisibili secondo il volume "Oltre la rete": da due anni non rientrano più nei programmi degli enti locali per extracomunitari e spesso finiscono nelle mani della criminalità

Il libro "Oltre la rete", di Raffaele Bracalenti, presidente dell’Iprs e da Serenella Pesarin, direttore generale per l’Attuazione dei provvedimenti giudiziari della Giustizia minorile, lancia l’allarme sul caso dei minori soli "neo-comunitari", bulgari e rumeni. "Quando nel 2007, Romania e Bulgaria hanno fatto il loro ingresso nell’Unione Europea, le amministrazioni locali si sono trovate a dover garantire accoglienza a un elevato numero di minori in assenza di un quadro normativo certo e di un organo centrale di riferimento", scrivono gli autori. Infatti, il Comitato per i minori stranieri che ha il compito di tutelare i minori extra-comunitari non accompagnati, non è più competente per questi ragazzi, il cui status giuridico è cambiato quando il loro paese è entrato a far parte degli stati comunitari. "Il rischio di rimanere senza tutele a causa di un vuoto di competenze è alto - sottolineano gli autori - confrontando il vuoto normativo con il dato statistico che dice come tra i minori stranieri denunciati alle procure, la componente maggioritaria negli ultimi anni è quella dei romeni.

In base al censimento del Comitato per i minori stranieri, ogni anno sul territorio italiano vivono 7 mila minori stranieri soli. Una cifra stabile dal 2000 al 2008, quando registra un live calo. Ma dal 2007 non vengono più conteggiati né i bulgari, né i romeni. Albanesi, marocchini e romeni sono il 60% del totale dei ragazzi non accompagnati. Ma nel corso degli anni, la maggiore crescita è stata quella dei romeni, passati dal 5% nel 2000 a quasi il 40% nel 2004, anno di punta in cui hanno raggiunto il numero più elevato di presenze in Italia. Al 31 dicembre del 2006, ancora ne sono stati censiti un numero altissimo: 2336, più alto di qualsiasi altra cifra relativa a diverse cittadinanze. "Di questi, ben 1229 erano collocati in strutture di accoglienza, un numero assoluto molto elevato, soprattutto considerato l’esborso economico che ne consegue per i comuni che li hanno in carico", sottolinea la ricerca. La concentrazione maggiore si trova in tre regioni: Lazio, Lombardia e Friuli Venezia Giulia, dove si concentra anche la presenza di adulti con la stessa cittadinanza.

Un altro campanello d’allarme è la presenza di ragazze (30%) superiore alla media di altre cittadinanze di minori stranieri non accompagnati. "Questo dato ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori poiché purtroppo ha raggiunto numeri così alti a causa dei fenomeni criminali della tratta e dello sfruttamento sessuale", scrivono i ricercatori. A partire dal gennaio 2007, oltre 2300 minori romeni soli vengono a trovarsi in Italia senza procedure chiare relative alla loro accoglienza e al loro rimpatrio. Si tratta di un’utenza a elevato rischio di fragilità. All’interno di questo quadro, sono gli enti locali i soggetti maggiormente coinvolti con scelte economiche difficili da gestire in quanto per questi minori non si può più accedere ai fondi per minori extra-comunitari. Sarebbe dunque necessario modificare i parametri di ripartizione dei fondi per non lasciare i comuni senza copertura finanziaria.

Giustizia: Alfano; Centri minorili sono luoghi laici di redenzione

 

Ansa, 10 novembre 2009

 

Nel corso della sua visita a Caltanissetta ieri il ministro Angelino Alfano ha visitato anche il centro di accoglienza per minori, dove è stato accolto dalla direttrice Alfonsa Micciché, dal direttore del centro giustizia minorile per la Sicilia Michele Di Martino, dal presidente e dal procuratore del Tribunale dei minori Piergiorgio Ferreri e Maria Vittoria Randazzo, e dall’assessore alla Famiglia Caterina Chinnici per tanti anni a capo della procura minorile nissena.

"Nei luoghi della giustizia minorile - ha detto Alfano - si costruisce il bivio per superare la difficile strada che i vostri ospiti hanno conosciuto fuori da queste mura; qui loro imparano un’alternativa esistenziale perché questi centri sono luoghi di redenzione dello spirito in senso laico. I trattamenti detentivi non possono essere contrari al senso di umanità perché al centro c’è comunque l’uomo; la pena deve esercitare la sua funzione rieducativa".

"Non siamo per le teorie retributive della pena - ha aggiunto Alfano rivolgendosi ai giovani detenuti - siamo uno Stato che aiuta a far rinascere chi ha pagato il conto con la società. Questa è una sfida difficile dell’anima ma noi vi siamo accanto". Prima di lasciare il centro di accoglienza, il Guardasigilli ha fatto i complimenti ai giovani detenuti per come curano i luoghi in cui vivono: "Ciò manifesta un sentimento di amore per la vita, quindi voi non avete abbandonato una prospettiva di amore".

Giustizia: Riforma; Berlusconi e Fini cercano un compromesso

 

Asca, 10 novembre 2009

 

È previsto per oggi a Montecitorio il faccia a faccia tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sulla riforma della giustizia. Per domani è invece in calendario un altro vertice tra i due leader, questa volta dedicato alle candidature per le elezioni regionali, al quale parteciperà pure Umberto Bossi.

Tra il premier e il presidente della Camera le divergenze non riguardano le tradizionali posizioni del Pdl sulla giustizia (separazione delle carriere dei magistrati con conseguente raddoppiamento del Consiglio superiore della magistratura), bensì l’eventuale riforma sulla durata dei processi e sulle norme per la loro prescrizione. Fini non è d’accordo con una soluzione ad personam che servirebbe a proteggere Berlusconi dai processi che lo vedono imputato e riapertisi dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta.

Il premier sottoporrà a Fini una bozza di riforma a cui hanno lavorato Niccolò Ghedini, presidente della Consulta per la giustizia del Pdl oltre che avvocato dello stesso Berlusconi, e Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia della Camera e tradizionalmente legata alle posizioni politiche del presidente di Montecitorio. Fini ha già visionato la bozza ieri sollevando qualche obiezione per trovare una mediazione finale.

Secondo le indiscrezioni, la bozza si incardina su quattro punti. Il primo (che potrebbe tramutarsi in un disegno di legge di iniziativa parlamentare) riguarda la prescrizione processuale: in caso di processi per reati con pene non superiori a dieci anni (ad eccezione dei reati di mafia, terrorismo o grave allarme sociale come rapina o omicidio), ciascuna fase del processo non potrebbe durare più di due anni (sei in totale), altrimenti scatterà la prescrizione.

La nuova legge entrerebbe in vigore anche per i processi in corso di primo grado. In questo modo, l’ombra della prescrizione coprirebbe anche il processo sui diritti tv Mediaset e quello Mills che si sono riaperti a Milano e che tornano a vedere imputato Berlusconi.

Il secondo punto, motivato dall’esigenza di stabilire una sorta di riparazione per chi ha subito processi troppo lunghi, prevederebbe il taglio di un quarto dei termini di prescrizione per i procedimenti pendenti relativi a reati di non grave entità commessi prima del 2 maggio 2006 (data in cui è entrato in vigore l’indulto). Questo tipo di prescrizione entrerebbe in funzione solo per gli incensurati e per reati che non riguardano atti di terrorismo e associazione mafiosa.

Gli altri due punti della bozza riguarderebbero le modalità generali che darebbero la possibilità agli uffici giudiziari di celebrare i processi in tempi brevi. Ma è sui primi due che il presidente della Camera dovrà tornare ad esprimersi, dopo che nei giorni scorsi aveva evidenziato la preoccupazione della ricaduta delle nuove norme sui cittadini che da tempo attendono giustizia. Si calcola infatti che sarebbero almeno 600 mila i processi che cadrebbero in prescrizione, qualora fossero approvate le nuove norme.

Se l’incontro di questa mattina dovesse verificare un eventuale accordo ritrovato tra Berlusconi e Fini, il presidente della Camera - in ossequio al proprio ruolo istituzionale - non apporrebbe in ogni caso la sua firma alla bozza predisposta dagli onorevoli Ghedini e Bongiorno.

Condizione di condivisione del progetto invece richiesta da Berlusconi a tutti i parlamentari del Pdl. L’opposizione resta molto critica. Dichiara Donatella Ferranti, capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera: "Se quanto anticipato dalla stampa venisse confermato, soprattutto con riferimento alla cosiddetta prescrizione sostanziale, saremmo palesemente di fronte a norme ad personam mascherate da riforma della giustizia. E non è certo questo il terreno su cui si può chiedere alle opposizioni e al Parlamento di confrontarsi".

Domani nel vertice dei leader del Pdl si discuterà di elezioni regionali. Il presidente della Camera aveva espresso nei giorni scorsi la propria contrarietà alla candidatura come capolista del Pdl in Campania di Nicola Cosentino, Pdl, sottosegretario all’Economia e alle Finanze, indagato per presunti rapporti con i clan della camorra di Casal di Principe. Da ieri pomeriggio si rincorrono voci sulla richiesta di misure cautelari per l’onorevole Cosentino che sarebbe giunta a Montecitorio da parte dei giudici motivata dalle indagini per "concorso in associazione mafiosa".

Giustizia: La Russa; processo breve ma solo per gli incensurati

 

Adnkronos, 10 novembre 2009

 

Fini e Berlusconi troveranno un’intesa su una riforma della giustizia, dopo la bocciatura del lodo Alfano. Il ministro e coordinatore del Pdl, Ignazio La Russa, ne è convinto e spiega le ragioni del suo ottimismo in un’intervista al "Corriere della Sera". "Noi - chiarisce subito La Russa - non siamo indifferenti agli effetti creati dalla bocciatura del lodo Alfano. Vorremmo che i processi si svolgessero in tempi ragionevoli, come ci indica l’Europa, a prescindere dai termini di prescrizione che non vanno più toccati".

"Un modo per circoscrivere gli effetti di questa riforma - aggiunge La Russa - è quello di limitare, almeno per ora, il processo breve a chi se lo merita: agli incensurati". Il coordinatore del Pdl puntualizza che "oltre a mafia e terrorismo, dovremmo prevedere esclusioni non solo pensando all’entità della pena ma anche rispetto all’allarme sociale di certi reati. Penso, per esempio, agli incidenti nei cantieri". Quel che "è certo che le esclusioni ci saranno".

La Russa spiega infine di non essere contrario a una norma transitoria da applicare ai processi in corso, osservando che "non sarebbe un’eccezione. È normale che prevalga il principio favor rei". La soluzione praticabile appare quindi quella del processo breve e non il taglio della prescrizione. "Quella dei tempi brevi - conclude il coordinatore pidiellino - è una norma di civiltà giuridica. Non è che non si può fare perché di mezzo c’è Berlusconi".

Sardegna: riforma sanità penitenziaria bloccata, cure a rischio

 

Agi, 10 novembre 2009

 

"Si annuncia un nuovo anno particolarmente difficile per i detenuti in Sardegna. Tra poche settimane infatti non sarà più possibile garantire ai cittadini privati della libertà il diritto alla salute. Ciò è particolarmente grave in istituti come Buoncammino in sovraffollamento e con detenuti con gravi patologie. Sono già a singhiozzo il pagamento di medici e infermieri che operano a parcella e per ridurre le spese vengono garantiti i farmaci di fascia C solo ai detenuti indigenti".

Lo denuncia l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" facendosi interprete del disagio degli operatori, dei detenuti e dei loro familiari costretti a spese aggiuntive. "Il problema - rileva la presidente Maria Grazia Caligaris - si trascina da tempo. La Sardegna è rimasta infatti l’unica regione italiana a non aver completato l’iter per l’acquisizione della sanità penitenziaria. Nonostante Giunta e Consiglio abbiano ormai provveduto a nominare i componenti della Commissione paritetica nazionale, il Governo non mostra alcuna attenzione nei riguardi dell’isola e non ha ancora individuato i propri rappresentanti nell’organismo competente.

Il Presidente Ugo Cappellacci - sottolinea l’ex consigliere regionale - deve intervenire nei confronti del Ministro Raffaele Fitto affinché completi il percorso istituzionale. Altrimenti la situazione diventerà incontrollabile in quanto è stato costruito un limbo nel quale è difficile operare. L’assistenza sanitaria in carcere infatti è un tassello fondamentale non solo per rispettare il diritto dei cittadini alla salute, sancito dalla Costituzione e dalla legge sull’ordinamento penitenziario, ma anche per contenere la mortalità.

La questione non riguarda solo il Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino, dove sono ricoverati oltre una trentina di detenuti con gravi patologie e dove trovano ospitalità i disabili, ma più in generale tutti i reclusi moltissimi dei quali sieropositivi e immunodepressi. L’assenza di certezze sul futuro crea inoltre un clima di diffusa preoccupazione in tutto il personale e tra gli agenti di Polizia Penitenziaria costretti a turni aggiuntivi e a protrarre le ore di servizio per far fronte alle emergenze.

È trascorso un altro anno e l’associazione continua registrare il disagio di sempre sulla condizione in cui si trovano i detenuti nonostante l’assessore della Sanità Antonello Liori abbia inserito in Finanziaria un fondo apposito in attesa del provvedimento governativo. Occorre anche sottolineare che le limitazioni nell’erogazione gratuita dei farmaci di fascia C incidono - ha concluso Caligaris - sulla qualità della vita di detenuti che per età o per patologie particolarmente dolorose".

Taranto: riesumata salma detenuto, forse morto di tubercolosi

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 10 novembre 2009

 

È stata riesumata la salma di Michele Montervino, di 39 anni, il detenuto morto il 7 settembre del 2008 poco dopo essere stato ricoverato all’ospedale "Santissima Annunziata". L’autopsia è stata compiuta dal medico legale Massimo Sarcinella su disposizione del pubblico ministero Filomena Di Tursi. I familiari del detenuto avevano presentato una denuncia, tramite l’avv. Giancarlo Catapano. Ora si attende l’esito degli esami tossicologici per verificare eventuali contraddizioni con quanto riportato nelle cartelle cliniche.

Michele Montervino era affetto da tubercolosi sin dal 1995 e in più occasioni aveva chiesto di essere scarcerato per curarsi in una struttura sanitaria. L’ultima istanza era stata presentata il 27 agosto dello scorso anno. La Corte d’Appello aveva risposto dopo una settimana (il 2 settembre), sottolineando che erano necessari altri accertamenti clinici da eseguire in carcere. Nei giorni successivi, Montervino era stato colto da malore in due circostanze mentre si trovava all’interno della sua cella. In entrambi casi, a quanto si è saputo, i sanitari del 118 non avevano ritenuto necessario il suo ricovero in ospedale.

Il 7 settembre, il detenuto aveva avvertito dolori lancinanti al fegato e allo stomaco ed era stato trasportato d’urgenza al "Santissima Annunziata", dove morì poco dopo. L’uomo era stato ricoverato nel febbraio del 2006 all’ospedale Moscati e nel maggio del 2007 all’ospedale di Altamura. Il detenuto era stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere, ma aveva presentato appello contro la sentenza di primo grado.

Bergamo: assunzione di detenuti è opportunità per le imprese

 

L’Eco di Bergamo, 10 novembre 2009

 

Unioncamere e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia hanno promosso insieme il progetto "Detenuti al lavoro. Un’opportunità per le imprese". Si tratta di un’ iniziativa promossa dalla Camera di Commercio di Bergamo, che mira a favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti, garanzie alle opportunità, in termini di sgravi contributivi e fiscali, messe a disposizione delle imprese da leggi nazionali.

Il progetto, coordinato da Bergamo Formazione, vede il coinvolgimento di 10 organizzazioni di categoria del territorio ed ha visto l’apertura di sportelli informativi per le imprese interessate ad assumere detenuti e/o a rilevare attività già avviate all’ interno degli istituti penitenziari. Un motivo in pi per diffondere la responsabilità sociale d’ impresa.

 

L’assunzione dei detenuti

 

Per fruire dei benefici, le aziende devono assumere, con contratto di lavoro subordinato (a tempo pieno o parziale) non inferiore a un mese: detenuti ammessi al lavoro esterno, ai sensi dell’art. 21 della Legge 354/75 (Ordinamento penitenziario), ossia detenuti che possono uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario a svolgere l’attività lavorativa; detenuti interni agli istituti penitenziari, da coinvolgere in attività lavorative che possono essere svolte all’ interno dell’istituto stesso.

 

Gli sgravi disponibili

 

Le agevolazioni sono quelle previste dalla Legge Smuraglia, che nel 2000 ha introdotto una serie di sgravi fiscali e contributivi (assicurativi, previdenziali e assistenziali) per le imprese e le cooperative sociali che assumono detenuti. Eccone alcuni: le imprese private e le cooperative sociali che assumono un detenuto ammesso al lavoro esterno hanno diritto a: un credito d’imposta di 516,46 euro mensili, valido anche per il periodo necessario alla formazione (massimo un mese), che precede il contratto di lavoro; beneficiare delle agevolazioni sopra indicate anche nei 6 mesi successivi alla scarcerazione del detenuto, qualora il rapporto di lavoro dovesse proseguire.

Per le cooperative sociali è anche previsto un abbattimento dell’80% dei contributi assistenziali e previdenziali. Per le imprese private e le cooperative sociali che assumono un detenuto per impiegarlo inattività da svolgere all’interno del carcere, sono valide tutte le agevolazioni sopra indicate. In tal caso, l’Amministrazione penitenziaria cede in comodato gratuito i locali e le attrezzature eventualmente disponibili.

Firenze: monitoraggio cardiologico per i detenuti di Sollicciano

 

Ansa, 10 novembre 2009

 

Nel carcere fiorentino parte un progetto promosso da Società della salute, comune e Asl 10. Attraverso un sistema portatile, il medico di turno in carcere eseguirà un elettrocardiogramma e invierà le informazioni a una centrale operativa nella sede di Montedomini. Da questa sede di smistamento, l’esame verrà inviato all’ospedale Torregalli dal quale partirà il referto che dovrà poi fare ritorno in carcere.

Il sistema è stato appositamente sviluppato e progettato sulla base delle specifiche esigenze di Sollicciano e a precise direttive di sicurezza. Si tratta di un progetto sperimentale - con un costo che si aggira sui 12 mila euro - che punta ad applicare ai carcerati lo stesso sistema di monitoraggio domiciliare usato per i cittadini con scompenso cardiaco cronico. "Il rischio cardiologico è un elemento critico anche per gli ospiti della struttura carceraria - ha detto il direttore di Sollicciano, Oreste Cacurri - che presentano numerose patologie spesso dettate da dipendenze debilitanti".

Cagliari: Commissione Diritti Civili domani visita carcere e Ipm

 

Agi, 10 novembre 2009

 

La commissione Diritti civili e Politiche comunitarie del Consiglio regionale, presieduta da Silvestro Ladu, sarà domani in visita al carcere di Cagliari e a quello minorile di Quartucciu. Il sopralluogo a Buoncammino è previsto per le 9,30. Nel pomeriggio, alle 16,30, la visita al carcere di Quartucciu.

La Commissione si riunirà inoltre giovedì, alle 10,30, nel quadro dei lavori preparatori sulla proposta di legge in materia di Informazione e comunicazione. All’ordine del giorno anche la proposta di legge sulla "Partecipazione della Regione al processo normativo comunitario".

"La visita al carcere di Buoncammino e a quello minorile di Quartucciu, fissata per la giornata di domani, era stata programmata dalla Commissione regionale già da prima che si riparlasse della riapertura di carceri speciali in Sardegna". Lo precisa Silvestro Ladu, consigliere regionale del Pdl e presidente della Commissione Diritti civili del Consiglio regionale. "Con le ricognizioni, stiamo operando un lavoro approfondito negli istituti di pena della Sardegna, - prosegue il presidente Ladu ricordando il sopraluogo a Macomer e a Mamone dello scorso 21 luglio - perché vogliamo conoscere, non solo la condizione della struttura, ma la condizione in cui operano gli agenti di custodia e il personale civile i quali parrebbero ridotti del 50% rispetto all’organico necessario, e la situazione di sovraffollamento di detenuti in una situazione che rischia di esplodere da un momento all’altro".

"Sono favorevole alla realizzazione di nuove strutture carcerarie - dichiara ancora Ladu - ma non lo sono, e tutta la commissione è d’accordo con me, con la presenza in Sardegna di detenuti speciali in carceri speciali. Creare nuove strutture, invece, permetterà ai sardi che operano delle carceri italiane di trovare una occasione per rientrare e lavorare nell’isola, così per consentire ai detenuti sardi reclusi nella penisola di ravvicinarsi alle famiglie ma soprattutto di poter vivere la loro condizione in strutture più idonee. Quando ultimeremo i sopralluoghi - conclude Ladu - faremo una relazione dettagliata sulla condizione carceraria in Sardegna e ne daremo conto agli organi competenti".

Verona: petizione e fiaccolata per Daniele, in carcere da 4 mesi

di Luca Ingegneri

 

DNews, 10 novembre 2009

 

È dietro le sbarre da quattro mesi. E non ha ancora capito perché. Parenti, amici e colleghi di lavoro, guidati dalla sorella, hanno recapitato inutilmente al magistrato una lettera corredata da duecento firme per ottenerne la scarcerazione. Ma non si arrenderanno. Domenica prossima organizzeranno una fiaccolata davanti al castello di Montorio.

Lui potrà vederli dalla finestra della sua cella all’interno del carcere veronese. Daniele Ardino, trent’anni, fedina penale immacolata, un lavoro da tecnico di stampa alla Mondadori, è dietro le sbarre dal 17 luglio scorso. La Procura di Bologna lo accusa di traffico di droga nell’ambito dell’operazione "Alexander ", un vasto giro di stupefacenti con una trentina di indagati.

Daniele Ardino sarebbe stato il destinatario di 916 grammi di hashish. A tirarlo in ballo è stato il cugino Davide, 39 anni, arrestato due mesi prima. Il parente, residente in India dove risulta aver avviato un’attività artigianale, gli avrebbe inviato un mobiletto in legno. Doveva essere il regalo per l’inizio della convivenza con la fidanzata. Daniele non ha mai ricevuto il pacco. Gli investigatori della Squadra mobile di Bologna l’hanno bloccato nel capoluogo felsineo, nella ditta di

spedizioni incaricata di recapitarlo. Nel mobiletto era nascosto l’hashish. Daniele era stato intercettato mentre parlava al telefono con il cugino. Gli suggeriva di inviare il regalo al domicilio della nonna. Nella breve conversazione non figurano altri riferimenti. "Daniele - spiega la sorella Francesca - è in carcere per aver suggerito un indirizzo diverso dal suo. La nonna era l’unica che poteva ricevere il pacco. Nessuno di noi è a casa durante il giorno. Tutti sapevamo del regalo in arrivo dall’India ma nessuno poteva immaginare che vi fosse nascosto l’hashish. Mio fratello sapeva dell’arresto di Davide ma ha continuato la sua vita come nulla fosse. Non aveva niente da nascondere. Sono andati a prenderlo sul posto di lavoro. Gli hanno perquisito casa, garage, auto e armadietto alla Mondadori senza trovare nulla". Anche la chiamata in correità da parte del cugino non convince: Davide Ardino ha prima negato per due volte il coinvolgimento di Daniele, salvo poi tornare sui propri passi. Nell’ultimo interrogatorio ha riferito di non essere sicuro che il cugino sapesse della droga nascosta. Finora ogni tentativo di modifica della misura cautelare è stato vano. "Il pm vuole che Daniele confessi - conclude Francesca - ma noi lo esortiamo ad avere fiducia nella giustizia. Lotteremo fino all’ultimo per far emergere la sua innocenza".

Roma: dal 19 al 21 novembre 42° convegno nazionale del Seac

 

Il Velino, 10 novembre 2009

 

Dal 19 al 21 novembre presso l’istituto Suore Maria Bambina e il carcere di Regina Coeli, con l’alto patrocinato del presidente della Repubblica, del comune e della provincia di Roma e del CsVnet, si terrà il 42esimo convegno nazionale del Seac (coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario) su "Lo stato del sistema sanzionatorio e le prospettive". È quanto si legge in un comunicato stampa del Seac.

Le recenti modifiche legislative hanno ribadito la centralità della reclusione come risposta sanzionatoria. È evidente osservare che, negli ultimi anni, l’istituzione carceraria è diventata il mezzo sostitutivo delle carenti risposte sociali. L’aumento della detenzione è il chiaro risultato di scelte politiche orientate a scapito di pratiche di integrazione.

La concezione delle recenti modifiche legislative è un ulteriore tentativo di rimarcare la condizione di marginalità dei soggetti socialmente svantaggiati. La riduzione dell’area della detenzione attraverso interventi legislativi e sociali necessita di una riscrittura globale che coinvolga non solo gli apparati della giustizia, ma la società nel suo complesso. L’integrazione sociale va posta come un elemento inevitabile nella riflessione del sistema della penalità, accanto alle misure alternative, al lavoro, alle risposte che una comunità offre, senza dimenticare l’attivazione di pratiche riparative, nella prospettiva di una vera volontà riformatrice del carcere e dell’esecuzione penale esterna.

Immigrazione: una settimana di fuoco nei Centri di detenzione

di Rossella Anitori

 

Terra, 10 novembre 2009

 

Nel Centro di identificazione ed espulsione di Milano lo scorso sabato sono scoppiati violenti scontri tra forze dell’ordine e detenuti. Quattro i migranti arrestati. Pochi giorni prima a Torino, un uomo ha tentato il suicidio.

"Aiuto. I materassi bruciano. C’è fumo dappertutto. Non riusciamo a respirare". Nel Centro di identificazione ed espulsione di Milano è scoppiato il panico. Sono le 23.30 circa di sabato 7 novembre. Qualcuno ha appiccato il fuoco in segno di protesta, le fiamme mangiano l’aria e i reclusi fanno fatica a respirare. Siamo in diretta con l’inferno: urla, gemiti e lamenti. Qualcuno piange, altri reclamano disperati, poi silenzio: blackout all’interno del Cie. "Non si vede più nulla, è buio pesto - urla un detenuto che ci ha contattato telefonicamente - hanno staccato la luce. Il cortile è pieno d’acqua. Fuori ci sono i militari, ci minacciano con gli idranti. Se esci ti colpiscono. Siamo in trappola, aiuto".

Amad (nome di fantasia) non fa che raccontare, ripetendolo compulsivamente, quel che sta accadendo. Vuole rimanere in linea, è terrorizzato. Non è la prima volta che le prende. Sono passate un paio di settimane dall’ultimo episodio, uno sciopero della fame sedato al ritmo di manganelli, e se i lividi si sono riassorbiti, il ricordo della violenza è ancora vivo. A Via Corelli proteste e circostanze di attrito sono all’ordine del giorno, se non capita in un settore accade nell’altro. Sabato gli scontri si sono conclusi con l’arresto di quattro immigrati imputati di danneggiamento, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. L’accusa di danneggiamento pende anche sulla testa di tre ragazzi detenuti nel centro di Corso Brunelleschi, processati ieri a Torino. Il giudice ha convalidato gli arresti, ma ha disposto la scarcerazione degli imputati che dalle sbarre del carcere passeranno dunque a quelle del Cie.

Disordini e proteste a Torino come a Milano, ma è anche un altro l’anello che lega i due centri di identificazione ed espulsione. È la storia di un uomo trasferito dal lager del Piemonte a quello della Lombardia, che nella notte tra il 4 e il 5 novembre ha fatto di tutto per morire. La detenzione, il trasferimento inatteso e la lontananza da sua figlia appena nata hanno fatto da detonatore.

Si è tagliato mani e polsi poi la gola, ha ingoiato un accendino e vari altri ferri. La Croce Rossa, secondo le testimonianze dei compagni di cella, avrebbe rifiutato di intervenire. Il detenuto avrebbe iniziato a lesionarsi intorno alle 20 e solo quattro ore dopo, alle 23.40 circa, i responsabili del Centro avrebbero chiamato un’ambulanza per condurre il ferito al Pronto soccorso. Tra il prima e il dopo, la rivolta. I detenuti per protesta hanno iniziato a danneggiare il centro e dal Cie è partito un giro di chiamate per avvisare le radio e i movimenti e sollecitare i responsabili a curare il ferito.

"La situazione è sotto controllo" rispondevano da via Brunelleschi, mentre all’esterno si radunavano i manifestanti. All’una il recluso ferito è arrivato al reparto chirurgia dell’ospedale Martini. Dopo qualche tafferuglio nel Centro torna la calma. Senza visibilità né diritti, gli immigrati reclusi nei Cie spesso possono solo far affidamento sui loro cellulari per far sentire la loro voce. Ogni volta imparano sulla propria pelle che non gli conviene manifestare ma non hanno scelta. Nelle loro condizioni, non ci sono molti modi per comunicare il disagio, a volte non gli resta che fare lo sciopero della fame. Eppure non si rassegnano. Reagiscono, sperando che il dolore abbia fine.

Immigrazione: rivolta nel Cie di Brindisi, evadono dieci africani

 

Ansa, 10 novembre 2009

 

L’enorme cancellata di ferro caduta per terra, buttata giù di forza da cinquanta uomini, tutti stranieri di origine nordafricana, che in massa hanno tentato la fuga. In dieci ce l’hanno fatta, quattro sono finiti in carcere. La quarantina che resta è ancora lì, nel Centro di identificazione ed espulsione di Restinco, da cui ha cercato di evadere. Coloro che sono rinchiusi nella struttura per stranieri alla periferia di Brindisi non hanno nulla a che vedere con i richiedenti asilo che attendono risposta nel "Cara", sempre a Restinco.

I rifugiati politici hanno il diritto di uscire, a muoversi per le vie della città. Quanti invece sono in attesa di essere espulsi sono di fatto reclusi. E non hanno nulla da perdere. Hanno sfondato il cancello e aggredito le forze dell’ordine che si sono mobilitate per fermare la sommossa. Hanno lanciato pietre, scrivanie, mobili e hanno perfino divelto e azionato gli idranti del sistema antincendio.

Tre finanzieri sono rimasti lievemente feriti, al termine delle schermaglie hanno fatto ricorso alle cure dei medici del Pronto soccorso dell’ospedale "Perrino" di Brindisi, sono stati dimessi con prognosi di pochi giorni ma il finale avrebbe potuto essere molto meno lieto. L’allarme è scattato in piena notte. Alla fine della scorsa settimana c’era stato un altro tentativo di fuga da parte degli uomini di nazionalità mista, ma quasi tutti arrivati in Italia dal "continente nero", nella gran parte dei casi approdati a Lampedusa, ma era stato evitato sul nascere.

Tra domenica e lunedì ci hanno riprovato. Compatti, tutti uniti all’infuori di quattro o cinque persone che si sono defilate. Alcuni di loro hanno precedenti penali. Sono lì non solo perché privi del permesso per vivere in Italia, ma anche perché ritenuti responsabili di piccoli o grandi misfatti e destinatari di provvedimenti di espulsione con divieto di fare rientro nel Belpaese.

Immigrazione: il Cie di Ponte Galeria è inadeguato per l’inverno

 

Agi, 10 novembre 2009

 

Con l’arrivo dei primi freddi e delle piogge torrenziali di questi giorni si fa sempre più precaria la situazione delle decine di immigrati ospiti del Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) di Ponte Galeria. La denuncia è del Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo cui "gli ospiti del CIE cominciano insistentemente a lamentare freddo, umidità dell’ambiente e vestiti non idonei alla stagione, ad esempio una sola coperta di carta a persona, oltre ai riscaldamenti malfunzionanti nei vari locali".

Attualmente a Ponte Galeria sono ospitate 254 persone (129 uomini e 125 donne), un numero in leggera diminuzione rispetto all’ultima settimana di ottobre, quando gli ospiti censiti erano 276. Fino ad oggi - sottolineano dall’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti - non sono stati effettuati interventi di ristrutturazione della struttura che invece servirebbero per rendere più accogliente il Cie.

"Tutto questo - ha detto il Garante - nonostante che, oltre un mese fa, le autorità avessero sottolineato la necessità di migliorare il Centro per renderlo più vivibile. Questo impegno nasceva dal fatto che le nuove norme sulla sicurezza hanno allungato la permanenza nei Cie fino ad un massimo di 180 giorni. Il trasferimento, dato per certo fino a poco tempo fa per spostare la sede di Ponte Galeria in una nuova struttura più idonea e più vivibile,, è finito nel dimenticatoio". L’80% degli uomini ospitati a Ponte Galeria arriva dal carcere. Si tratta per la maggior parte di maghrebini (sono 68 provenienti da Tunisia, Marocco, Algeria ed Egitto) o provenienti dall’Africa subsahariana (23 da Nigeria, Ghana, Senegal, Camerun, Liberia).

In 15 arrivano da Albania, ex Urss, ed ex Jugoslavia mentre cinque sono i romeni, espulsi per grave pericolosità sociale, inerente anche alla tipologia di reato. Infine, il Centro ospita anche 11 asiatici e 7 sudamericani. Per quanto riguarda le donne, circa il 15% arriva dal carcere. Provengono per la maggior parte dall’Africa subsahariana (69 da Nigera, Ghana e Senegal), 10 dal Magreb, 39 da Albania, ex Urss ed ex Jugoslavia. Fra i disservizi riferiti dal Garante, i ritardi nelle visite mediche al di fuori del Centro e nella trasmissione delle certificazioni sanitarie dal carcere al Cie, la scarsità di cibo, la difficoltà di stabilire relazioni con alcune rappresentanze diplomatiche e la situazione di precarietà nella gestione del Cie, visto che, dall’inizio dell’anno, sono già cambiati cinque direttori.

Droghe: due giovani morti per overdose in Centro di recupero

 

Asca, 5 novembre 2009

 

Due giovani tossicodipendenti in cura presso la Comunità di recupero gestito dalla cooperativa "Centofiori" di Rimini, sono morti probabilmente per overdose. I loro corpi sono stati trovati questa mattina nella sede della coop in via Portogallo. Sarà l’autopsia a stabilire con certezza le cause del loro decesso. Secondo gli operatori del centro, entrambi risultavano fuori dalla droga, avendo completato il percorso di recupero.

Uno di loro aveva anche trovato lavoro. I corpi dei due ragazzi sarebbero stato trovati nella camera da letto che condividevano. Si tratta di un torinese, Ivan C. di 35 anni e di un palermitano, Aurelio C.. Sembra che a fianco avessero due siringhe che sono state sequestrate dagli inquirenti che indagano su come i due possano essersi procurati l’eroina e l’abbiano portata all’interno del centro di recupero.

L’autopsia che con tutta probabilità sarà disposta, dovrà chiarire se la droga che li ha uccisi fosse tagliata male o al contrario troppo pura e quindi forte. La tragedia ha gettato nello sconforto gli altri ospiti e gli operatori del centro che consideravano i due ormai quasi fuori pericolo, poiché sembra non si drogassero da tempo.

Grecia: mille detenuti in sciopero fame, per condizioni migliori

 

Ansa, 5 novembre 2009

 

Un migliaio di detenuti delle carceri greche di Santo Stefano, a Patrasso, e di Korydallos, ad Atene, sono da ieri in sciopero della fame per chiedere il miglioramento delle condizioni di prigionia, secondo quanto indicano fonti ufficiali. A Patrasso, apprende l’Ansa da fonti del ministero della Giustizia, rifiutano il cibo oltre 600 prigionieri sui 700 ospitati nel carcere. A Karoydallos la protesta riguarda alcune centinaia di detenuti su circa 2000.

La protesta avviene 48 ore dopo la visita a Patrasso del sottosegretario alla giustizia Apostolo Katsifaras, che aveva sottolineato l’intenzione del nuovo governo di "cambiare le cose" nelle prigioni greche sovraffollate, vecchie e con personale insufficiente.

Usa: ergastolo a tredicenne stupratore, caso alla corte suprema

 

Ansa, 5 novembre 2009

 

Joe Harris Sullivan, un giovane trentaquattrenne di colore, all’età di 13 anni è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver stuprato una donna anziana. Del suo caso, che ha colpito molto gli Stati Uniti, si occuperà da oggi la Corte Suprema. In particolare il "club dei nove" dovrà stabilire se il carcere a vita comminato a questo tipo di condannati, minori che non si siano macchiati di fatti di sangue, si possa considerare una punizione "crudele e inusuale" e pertanto violi espressamente il dettato costituzionale.

La Corte, già nel 2005, dichiarò incostituzionale la pena di morte per quei minori che avevano compiuto un assassinio. Ora alcuni avvocati di ragazzi, condannati per reati meno gravi di questo, chiedono alla Corte che venga proibito il carcere a vita sostenendo che, in pratica, die in prison, morire in prigione, rappresenta una pena analoga a quella capitale.

I giudici della Corte analizzeranno due casi avvenuti in Florida, lo stato in cui sono stati pronunciate più condanne all’ ergastolo a minori rispetto al resto degli Stati Uniti. Si tratta di sentenze che escludono la concessione della cosiddetta Parole, ovvero la possibilità di liberare il detenuto, prima della fine della pena, a patto che osservi regole ben precise.

Oltre alla vicenda di Joe Sullivan, che tuttora si dice innocente, i giudici della Corte esamineranno il caso di Terrance Graham, condannato al carcere a vita quando aveva 17 anni, colpevole di furto in appartamento. All’epoca Terrance era in libertà vigilata per aver compiuto, l’anno prima, una rapina a mano armata.

Ma la Corte Suprema degli Stati Uniti non è chiamata a decidere se siano colpevoli o meno. Il suo compito è invece stabilire se negare con l’ergastolo ogni possibile riabilitazione a un giovane criminale che non si sia macchiato di fatti di sangue sia una punizione "crudele e inusuale". In tal caso, l’ottavo emendamento della Costituzione americana sancisce espressamente l’incostituzionalità di questo tipo di sanzioni.

Sulla base dello stesso emendamento, nelle settimane scorse, sono state sospese alcune esecuzioni capitali. In particolare, in Ohio, è tuttora subjudice la pratica dell’iniezione letale, dopo che il boia, recentemente, per più di due ore non riuscì a trovare le vene di un condannato a morte procurandogli dolori inenarrabili.

 

 

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