Rassegna stampa 9 novembre

 

Giustizia: Alfano tra "galere galleggianti" e arresti domiciliari

di Pietro Ancona

 

www.imgpress.it, 9 novembre 2009

 

La destra italiana che ci governa è costituzionalmente incapace di affrontare un problema e risolverlo se questo riguarda la sfera dei diritti. Basti considerare come ha affrontato la questione del testamento biologico proponendo una legge che piuttosto che aiutare a morire con dignità vorrebbe imporre l’alimentazione forzata e l’obbligo alla sofferenza fino alla fine. Inoltre la destra al governo affronta un problema avendo occhio al business per i suoi adepti o clienti. Si eccita soltanto se ne ha un congruo ritorno.

Ora a fronte della esplosione della popolazione carceraria che si avvia ad essere di 70 mila detenuti non trova di meglio che proporre una soluzione lucrosa per chi deve realizzarla ma certamente di grande peggioramento della condizione dei detenuti. Si vorrebbero costruire delle carceri galleggianti che dovrebbero sostare davanti ai porti italiani.

L’esperienza delle carceri galleggianti è stata fatta USA, in Gran Bretagna ed in Olanda con esiti terribili per i detenuti che si ammalano per l’insalubrità e soffrono di claustrofobia dal momento che gli spazi si riducono al minimo. Veri e propri loculi per viventi che galleggiano davanti le coste italiane!

In Inghilterra una nave-carcere è stata chiusa per i gravissimi problemi psichici creati ai detenuti ed anche ai custodi e per le difficoltà di raccordo con il mondo esterno. La soluzione di costruire nuove carceri galleggianti non è saggia e civile. L’Italia non può programmare una espansione della popolazione carcerata oltre quella fisiologica che ha sempre avuto di circa quarantamila persone senza squinternarsi come Stato di Diritto. L’incremento abnorme dei ristretti è stato dovuto in grande parte alle leggi ideologiche securitarie della destra a cominciare dalla legge Fini sulla droga ed alla povertà della popolazione carceraria impossibilitata a fronteggiare processo penale che impone l’assistenza di agguerriti studi legali per difendersi adeguatamente. Quanto costano gli incartamenti, le carte bollate, le copie di sentenze, le perizie degli esperti, etc.?

Chi è in grado di affrontare processi che sono diventati vere e proprie battaglie all’ultimo sangue tra avvocati e pubblico ministero? Il Governo da un lato mostra la faccia feroce ai detenuti. Dall’altro appronta e si fa approvare leggi che esonerano dal rispetto della legge l’establishment. Tutto l’apparato governativo e politico è proteso alla ricerca di "soluzioni" che evitino a Berlusconi di comparire davanti ad un tribunale per esserne giudicato. Due orientamenti legislativi divaricanti.

Una per i potenti che comprende lo scudo fiscale ed i reati tipici dei "colletti bianchi"; l’altra per gli immigrati, per i poveri, per i contestatori, per i cittadini "comuni". La resistenza a pubblico ufficiale è punita con carcere fino a tre anni! Il gratuito patrocinio già malvisto dal governo è diventato ancora più insufficiente per la difesa. Bisognerebbe trovare strumenti adeguati di assistenza. Si potrebbero generalizzare uffici di patronato preposti alla assistenza dei carcerati e dei loro familiari negli stabilimenti penali.

Ma il problema più drammatico e urgente è quello di ridurre di un terzo la popolazione carceraria subito. Questo è possibile permutando in arresto domiciliare quanti sono detenuti per reati che potrebbero essere depenalizzati o che non superino determinati limiti di pena escludendo naturalmente quelli di grande allarme sociale come l’omicidio, la pedofilia, lo stupro riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione... Alla detenzione al domicilio moltissimi non potrebbero accedervi per mancanza di mezzi di sostentamento. Lo Stato che spende mediamente per ogni detenuto ventimila euro l’anno potrebbe intervenire con un modesto assegno alimentare.

Giustizia: cosa succede se sbaglia il duro braccio della legge?

di Ketty Bertuccelli

 

www.imgpress.it, 9 novembre 2009

 

Marcello Lonzi 30 anni, morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno per "arresto cardiaco", sul suo corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo anni di denunce la procura ha recentemente riaperto l’inchiesta.

Federico Aldovrandi 18 anni, pestato a morte il 25 settembre 2005 in piena strada dai poliziotti di una volante. Il personale del 118 al suo arrivo trova il paziente "riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena, incosciente", dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, il giovane muore per "arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale"

Aldo Bianzino 44 anni, deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia per cause ancora da chiarire. Sul suo corpo vengono riscontrate "lesioni al cervello e alle viscere", provocate prima dell’ingresso nel penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in corso contro ignoti.

Stefano Brunetti 43 anni, arrestato ad Anzio l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un decesso provocato da "emorragia interna dovuta ad un grave danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole".

Mohammed 26 anni, suicidatosi il 6 marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia, dopo una lunga permanenza in cella che assomiglia più a una segreta medievale che a una moderna camera di sicurezza, molto lontano dai requisiti di legge che stabiliscono dimensioni, caratteristiche architetturali, condizioni igieniche e arredo di una normale "camera di pernottamento". Sei poliziotti della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati per "abuso di autorità contro persone arrestate o detenute".

I nomi sopra elencati non sono opere di fantasia, parlano di allarmanti storie realmente accadute nel nostro paese, sono solo alcuni dei detenuti uccisi dallo "stato democratico". Fino a qualche giorno fa neanche la famiglia Cucchi non conosceva i loro nomi, non sapeva nemmeno quanto fosse lungo l’elenco dei morti nelle carceri italiane. Non li conosceva, cosi come la maggior parte degli italiani, gli inquietanti episodi che hanno come protagonisti componenti delle forze dell’ordine italiane; poi i carabinieri hanno bussato a casa loro per dire che semplicemente "Stefano era morto", in ospedale più precisamente nel reparto penitenziario del Pertini.

Stefano aveva 31 anni, faceva il geometra in uno studio comune con il padre e la sorella Ilaria. Secondo le ricostruzioni la notte tra il 15 e il 16 ottobre i carabinieri lo trovano con 20 grammi di sostanze nel vicino quartiere Appio Claudio. All’una e mezza di notte di notte, il citofono di casa Cucchi suona, arriva Stefano ma non è solo, con lui ci sono i militari che lo hanno arrestato. Perquisiscono solo la sua camera, senza trovare nulla.

Ilaria racconta che all’uscita da casa il fratello camminava sulle sue gambe e non aveva segni sul viso. Poi l’udienza per direttissima, dopo la notte nella camera di sicurezza di una caserma dell’Arma, durante la quale Stefano fu visitato dal medico del presidio del tribunale che non riscontrò nulla che potesse mettere in pericolo la sua vita. Il ragazzo fu quindi consegnato alla polizia penitenziaria e portato a Regina Coeli, poi il trasferimento all’ospedale Pertini e la morte il 22 ottobre. con il viso pestato e due vertebre rotte, una sacrale e una lombare.

La Procura di Roma ha deciso di procedere per il reato di "omicidio preterintenzionale", punibile dai dieci ai diciotto anni. Ma l’accusa, per il momento, è rivolta a carico di ignoti.

"Come contro ignoti?", si domanda il legale della famiglia, Fabio Anselmo(lo stesso legale che ha assistito la famiglia di Federico Aldrovandi). "Si procede a carico di ignoti ma credo che coloro che l’hanno avuto in custodia o in cura non sono ignoti. Mi aspetto indagati, mi aspetto che queste persone vengano a dare una spiegazione".

In Italia cosi come in ogni altro paese civile una persona imprigionata, incarcerata o comunque detenuta, è nelle mani di quelle che noi chiamiamo "forze dell’ordine"; non è ad esse che era consegnata la vita di Stefano? Non è ammissibile, qualsiasi cosa uno possa aver fatto, che un detenuto sia ridotto in quel modo.

Nessuno ha intenzione di lasciare impunita la morte di questo ragazzo di 31 anni avvenuta in circostanze non affatto chiare dopo otto giorni di carcere.

Il primo a parlare, durante una conferenza stampa, è Ignazio La Russa, il ministro della Difesa, al quale i familiari della vittima del massacro avevano chiesto chiarezza: "Non c’è dubbio che qualunque reato abbia commesso questo ragazzo ha diritto ad un trattamento assolutamente adeguato alla dignità umana. Quello che è successo non sono però in grado di dirlo perché si tratta di una competenza assolutamente estranea al ministero della Difesa, in quanto attiene da un lato ai carabinieri come forze di polizia, quindi al ministero dell’Interno, dall’altro al ministero della Giustizia. Quindi non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione".

A bacchettare il ministro ci pensa subito il dal segretario del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, Donato Capece: "Ha detto che non ha elementi per dire come andarono i fatti connessi all’arresto di Stefano Cucchi, però sostiene che l’intervento dei carabinieri è stato corretto. Su quale basi lo dice? Chi sarebbe stato scorretto, allora?". All’interno del vastissimo orizzonte della polemica che si è levata attorno all’assassinio di Stefano Cucchi, spunta anche un’ appello al Presidente della Repubblica da parte dei giovani della Fgci, l’organizzazione del Pdci, dai Gc del Prc e dall’Unione degli Studenti che chiede" verità e giustizia" per Stefano.

Per sollecitare ulteriormente l’opinione pubblica, la famiglia di Stefano ha mostrato le foto del corpo scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Sono fotografie che non si guardano con facilità. Non è semplice "curiosità". Si vede un corpo eccessivamente esile, con il volto deformato,un occhio pesto,l ‘altro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Le foto di quel corpo spento, tumefatto , torturato lasciano addosso un senso di nausea che puoi sopportare solo sapendo che è un tuo dovere vederle e farle girare che è nostro dovere capire il perché di quell’agonia e di quel tormento.

Si può morire così? In Italia si. Cosa succede quando a sbagliare è il duro braccio della giustizia? Cosa accade nelle nostre carceri? Il limite tra "buoni e cattivi" è terribilmente labile cosi se stai troppo vicino ai delinquenti, diventi cattivo anche tu? Però, a differenza loro, tu sei immune dall’essere giudicato?

Sia chiaro, la mia non vuole essere una generalizzazione, voglio solo porre l’attenzione alcuni, a mio avviso troppi, casi irrisolti o dimenticati per ricordare cosa accade quando un uomo in divisa decide di abusare del proprio potere.

In un momento storico come questo dove i margini di libertà individuali vengono ridotti ogni giorno di più il corpo martoriato di Stefano me ne ricorda tanti altri, sembra uscito da un campo di concentramento nazista, è come quello delle fotografie di Auschwitz l’unica differenza è che le foto non sono in bianco e nero ma, anche esse parlano di maltrattamenti e violenze dettate da un nauseabondo e inumano senso di intolleranza.

Qualcuno porta sulla sua coscienza la morte di questo giovane, non possiamo restare sordi e silenti di fronte a tutto questo, questa vicenda è una macchia sulla coscienza civile italiana, coinvolge una famiglia che chiede giustizia in un paese in cui ti vedi strappare tuo figlio dalle "forze dell’ordine" e queste te lo riconsegnano a pezzi.

Giustizia: carceri, caserme, questure… così si muore nelle celle

di Alfonso Contrera

 

L’Espresso, 9 novembre 2009

 

L’inchiesta sulla fine di Stefano Cucchi riapre i dubbi sulla situazione di Milano. Dove tre fermati sono stati lasciati morire in questura. Senza aiuto.

Se le foto di Stefano Cucchi, morto in stato di arresto dopo sei giorni di agonia, fossero state pubblicate senza didascalia, si sarebbe potuto pensare ad una vittima del braccio violento di qualche regime dittatoriale lontano secoli culturali dal nostro mondo. Invece Stefano Cucchi è morto nonostante il ricovero all’ospedale Pertini di Roma dove, risulta evidente anche senza aspettare gli esiti dell’inchiesta, non gli sono state prestate le cure necessarie per salvargli la vita. La tragedia del piccolo spacciatore trentunenne è stata quella di restare imprigionato per troppo tempo nel limbo che divide il cittadino libero dal detenuto, rimpallato tra troppe competenze, ognuna senza responsabilità.

La stessa zona grigia in cui a Milano, in soli 15 mesi, hanno perso la vita uno spacciatore marocchino, un pregiudicato italiano e un ladruncolo georgiano. Morti in quello che dovrebbe essere uno dei luoghi più sicuri d’Italia, le camere di sicurezza di una questura, a poche centinaia di metri da un grande ospedale. Tre decessi con tre spiegazioni ufficiali, su cui hanno indagato pubblici ministeri e medici legali, decidendo per tre decreti di archiviazione. Non tutte però sono state "morti naturali".

Georgi Bacrationi, georgiano clandestino di 25 anni, l’8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3 dalla Feltrinelli di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell’Unità operativa contro la criminalità diffusa (Uocd), la squadra celebrata dal film di Raoul Bova "Sbirri". Forse quegli "sbirri" non avevano perquisito bene Georgi, o peggio, qualcun altro non aveva bonificato la camera di sicurezza nel sottosuolo della questura di via Fatebenefratelli. Fatto sta che il clandestino georgiano muore per overdose da metadone, così come recita il referto dell’autopsia.

All’udienza del processo per direttissima che si stava svolgendo in quelle ore a carico dei suoi due complici il cancelliere si presenta dal presidente con un fax appena ricevuto: poche righe per informare che "Alle 10.15 il medico legale Claudia Locatelli ha constatato la morte, per probabili cause naturali, dell’imputato Georgi Bacatrioni". Ma il pubblico ministero di turno, incaricato dell’indagine, Giulio Benedetti, scrupoloso fino alla pignoleria, trovandosi di fronte al terzo caso di decesso in quelle stesse celle, volle vederci chiaro. E fece prelevare ogni tipo di campione da quella stanzetta disadorna con la porta blindata, la branda e un lavandino. Trovandoci "evidenti tracce di metadone".

Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l’omicidio colposo. Ma la mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte del georgiano, portarono all’archiviazione. Inevitabili le polemiche che divamparono per poi spegnersi in poche ore. Una morte per overdose, infatti, è relativamente lenta, ben riconoscibile e basta un’iniezione di Narcam effettuata da un paramedico per salvare la vita del tossicodipendente.

Il comunicato diramato dai vertici della questura era ricco fino all’assurdo dei dettagli su come Georgi e i sue due complici avevano rubato un lettore musicale; troppo pochi invece su come era morto. Nessuno, nella notte di quell’8 ottobre, si accorse di niente. Finché la mattina seguente, quando i poliziotti del turno successivo sono andati a prenderlo per portarlo alla direttissima, lo hanno trovato senza vita.

Stessa sorte toccata, il 4 settembre 2007, al pregiudicato sorvegliato speciale Antonio D’Apote, tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di agitazione, probabilmente dovuta all’assunzione di droga, D’Apote venne portato in questura non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di "resistenza e minacce a pubblico ufficiale", e di gravi atti di autolesionismo. Chi c’era quella sera racconta di un uomo scatenato, impossibile da trattenere con le buone, che sbatte più volte la testa contro il muro fino a procurarsi lividi e bernoccoli. Poi finalmente si calma. Per sempre.

Anche lui, la mattina dopo l’arresto, viene scoperto cadavere dagli uomini della questura che lo dovevano condurre al processo per direttissima. Alle 6.15 viene chiamato una prima volta per firmare dei verbali. Ma non risponde. Poi un secondo appello, finché al terzo silenzio l’agente di guardia si decide ad andare a vedere e lo trova steso per terra cianotico e rantolante. La chiamata al 118 è stata registrata alle 6.35. Ma all’arrivo dell’ambulanza D’Apote era già morto.

Il pubblico ministero Laura Pedio non volle che i poliziotti partecipassero all’autopsia. Il referto parla di "decesso per infarto del miocardio" e probabili cause naturali e il caso fu archiviato. D’Apote i poliziotti lo conoscevano bene. Piccolo criminale del Corvetto, quartiere problematico a sud di Milano, era già stato arrestato nel ‘92 perché, grazie alla complicità di alcuni secondini di San Vittore, riusciva a fare entrare grandi quantità di droga in carcere, dove i fratelli, già detenuti, provvedevano a spacciarla con grossi profitti. Gli stessi fratelli, malati, disoccupati e pregiudicati, che, 15 anni dopo, avevano ancora fin troppi motivi per non voler chiedere un’inchiesta vera e propria sulla morte di Antonio, pur sapendo che da un infarto, se si interviene in tempo, ci si può salvare.

Anche in questo caso, in consiglio comunale, ci fu chi propose di dotare la questura di un’infermeria o di piazzare delle telecamere a circuito chiuso nelle celle. Proposte fatte rispettivamente dal centrodestra e dal centrosinistra, e subito dimenticate. Entrambi i provvedimenti furono scartati, anche per il rispetto della privacy del fermato. D’altronde, si affrettò a spiegare il questore, quelle celle erano state ristrutturate da poco e ognuna aveva un campanello con cui chiamare il piantone di turno. Ma né Georgi Bacrationi né Antonio D’Apote seppero o vollero premere quel bottone.

Come non riuscì a fare Mohammed Darid, marocchino clandestino di 32 anni, fermato dagli agenti della Polizia Ferroviaria il 10 luglio 2007 mentre spacciava alla stazione centrale. Dopo un breve passaggio negli stessi uffici della polizia giudiziaria dove Giuseppe Turrisi, clochard di 58 anni, il 6 settembre 2008 sarà massacrato di botte e ucciso da due poliziotti ora agli arresti in attesa della sentenza. Darid viene portato in questura. Nei mille verbali che hanno accompagnato le sue ultime ore di vita (di arresto, di perquisizione, di sequestro di droga, di accompagnamento in questura, di presa in consegna dalla questura) non compare alcun cenno a eventuali ferite, lesioni o malesseri del marocchino. Che però viene trovato morto alle 6 del mattino, ancora una volta quando i poliziotti lo vanno a carcere per portarlo alle direttissime in tribunale.

Come per gli altri casi, l’autopsia stabilì che non c’erano segni di violenza sul corpo e che la morte era stata causata da un arresto cardiocircolatorio. I parenti, che vivono a Casablanca, sono stati informati molti giorni dopo il decesso e anche loro, tanto lontani da via Fatebenefratelli, non hanno presentato alcuna richiesta di indagine ulteriore. Le disposizioni della Procura di Milano prevedono da anni che i fermati, circa trenta al giorno, che presentino segni di malattia o che dichiarino di soffrire di patologie incompatibili con la detenzione in una cella di sicurezza, vengano dirottati, pur in attesa del processo per direttissima, all’infermeria del carcere di San Vittore. Se così fosse stato anche per Bacrationi, D’Apote e Darid, forse sarebbero ancora vivi.

Giustizia: la tortura non è reato in Italia, questo è il problema

di Lino Buscemi (Presidente Comitato scientifico Associazione difensori civici italiani)

 

Il Manifesto, 9 novembre 2009

 

Le tragiche vicende di Stefano Cucchi e Diana Blefari cui fa seguito l’audio shock dei comandante delle guardie del penitenziario di Teramo inducono a riprendere il tema dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del reato di tortura. Argomento assai delicato sul quale da tempo si è aperta una riflessione dottrinaria e culturale in conseguenza dell’acutizzarsi del fenomeno nella maggior parte degli stati del pianeta, Italia, compresa. Tuttavia, da oltre venti anni, malgrado gli sforzi compiuti, non si riesce a produrre (parlo del nostro paese) un atto legislativo a testimonianza dell’affermarsi di sensibilità nuove nel campo dei diritti e della intoccabilità della persona nel corpo e nella mente.

Il clima da caccia alle streghe non favorisce comportamenti virtuosi e pragmatici. Non è una minoranza quella che propugna, nel governo, "irrigidimenti" normativi lesivi dei diritti di libertà, delle garanzie costituzionali e degli accordi sottoscritti dall’Italia in sede europea ed internazionale.

Non saranno, comunque, i demagogici richiami all’uso del "pugno di ferro" da parte di un manipolo di nostalgici a fermane il corso degli eventi volti ad introdurre elementi di civiltà giuridica nell’organizzazione statuale. Eventi, a pensarci bene, che non sembrano subire troppo la "pressione autoritaria" visto che in parlamento, senza distinzione di schieramenti politici, c’è chi si è impegnato a presentare, nelle diverse legislature, organiche proposte per trasformare la tortura in reato, con tanto di sanzioni, a difesa della dignità della persona e dei diritti umani in generale.

Proposte che sono coerenti con la necessità di onorare impegni internazionali giacché l’Italia, fin dal novembre 1988, ha ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura (del 1984) e sottoscritta l’apposita Convenzione europea. Dichiarazioni solenni nelle quali si definisce il concetto (articolo 1) di tortura, senza mezzi termini e con lo scopo di sottolinearne l’incompatibilità con i valori civili, culturali e politici assai diffusi nelle grandi democrazie occidentali.

Cos’è la tortura nel mondo? A quale logica ubbidisce? Perché non è rinviabile un rigoroso contrasto? Il termine "tortura" designa "qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni. Di punirla, di intimidirla o infliggendo sofferenze per mano di un funzionario pubblico o di qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale". Nella storia del diritto la tortura è definita come un complesso dei mezzi

di coercizione personale, tanto fisica che morale, impiegati nel processo (e, al di fuori di esso, nell’attività di polizia che lo precede e accompagna) per accertare la responsabilità degli imputati, al fine di provocarne la confessione. In senso diverso, ma non meno rilevante nella storia del diritto criminale, si connette alla nozione di tortura anche "il complesso delle sevizie esercitate sui condannati durante la espiazione della pena, come mezzo continuativo di aggravamento del trattamento detentivo (ceppi, catene, custodia in ambienti insalubri tali da pregiudicare la sopravvivenza a qualsiasi essere umano) e come modalità di applicazione della pena capitale, nei casi più gravi eseguita con complicati e crudelissimi tormenti".

Naturalmente il tema dell’entità della pena da infliggere non può essere un tabù ed è, dunque, necessario che sul punto i legislatori trovino un accordo ampio affinché la punizione sia proporzionata alla gravità degli atti posti in essere. Soprattutto è necessario un aumento di pena se la condotta delittuosa è opera di pubblici ufficiali. Fatti recenti, non meno drammatici di quelli verificatisi in questi giorni, hanno messo a nudo taluni comportamenti di soggetti che, abusando della loro qualifica hanno agito con ferocia e spavalderia quasi dando per scontata l’impunità. Il reato di tortura non c’è ma la tortura è ampiamente praticata e ne sanno qualcosa quelli che l’hanno subita e la continuano a subire. Occorre una incisiva norma giuridica

non solo per consentire agli operatori del diritto di agire efficacemente, ma anche per evidenziare l’esistenza di una organica tutela in favore di tutti gli esseri umani, titolari di diritti e di doveri, soggetti alla giurisdizione italiana. Il reato e le conseguenti sanzioni costituirebbero validi elementi di dissuasione nei confronti di non pochi soggetti, che, nell’esercizio di un potere, non hanno alcuna remora di ledere la dignità dell’uomo per riaffermare una sorta di delirio di potenza molto spesso conseguenza di un deserto morale e culturale.

Ad onor del vero un primo tentativo di introdurre, sia pure attraverso un emendamento, il crimine di tortura nel nostro Codice penale c’è stato. Al Senato della Repubblica (seduta del 4 febbraio 2009), ad iniziativa dei senatori Poretti, Fleres, Bonino, Bianco, Carofiglio, Casson, Finocchiaro, Marino, Rutelli, Rita Levi Montalcini ed altri) si è cercato, appunto attraverso un emendamento al ddl 773, di passare dalle parole ai fatti. Sembrava esserci uri clima politico e parlamentare favorevole. Invece, per una manciata di voti (123 voti a favore e 129 contrari, astenuti 15, votanti 267) la proposta non è passata a causa dei tanti "casi di coscienza" registratisi sia nelle fila del centrodestra che in quelle del centrosinistra.

Ovviamente c’è bisogno di uno scossone, dell’impegno meno reticente del governo e dei maggiori leader di tutti gli schieramenti politici e parlamentari, sia per superare le residue resistenze che per rimettere all’ordine del giorno dei lavori del parlamento un punto di grande rilievo giuridico, politico, morale e civile. Malgrado tutto sussistono tutti i presupposti affinché in questa legislatura il reato di tortura possa diventare tale (con legge organica), se si mettono da parte ideologismi ed interpretazioni settarie.

I diritti umani è bene ricordarlo sono patrimonio di tutti gli uomini liberi. Oggi più che mai è possibile coniugare l’innegabile esigenza di sicurezza con la necessità di tutelare i diritti di chi è privato della libertà personale. Partendo dalla Costituzione per agire in maniera corretta con lo scopo di garantire una espansione dei diritti e degli imprescindibili doveri nel quadro del rispetto della persona e delle libertà civili, così come si sono affermati nelle società democratiche e liberali. Sapranno i nostri governanti, i deputati ed i senatori, una volta tanto, distogliere la loro attenzione dalla sterile polemica quotidiana per impegnarsi davvero e a fondo sul versante della positiva tutela dei diritti dell’uomo?

Giustizia: Ceraudo (Amapi); la galera, l'anticamera del suicidio

 

Il Tirreno, 9 novembre 2009

 

Carceri sovraffollate. Carceri dove la vita è sempre più dura. Dove è sempre più facile cadere nella depressione, fino all’"infarto dell’anima" come gli psichiatri definiscono il gesto estremo di togliersi la vita. E infatti il numero dei suicidi dietro le sbarre è impressionante e in aumento. 42 detenuti, nel 2008, si sono uccisi nelle carceri italiane, di cui 7 in Toscana.

Nei primi dieci mesi di quest’anno i morti sono già 61, di cui 9 nella nostra regione. Senza considerare che nelle carceri toscane, quest’anno, sono già stati sventati 70 tentativi di suicidio. Un’incidenza, tra la popolazione reclusa, del 13%, contro lo 0,7 di chi vive in libertà. A uccidersi sono più gli italiani che gli stranieri, forse per la minore capacità di adattamento alla vita dietro le sbarre. Il caso Blefari. In questi numeri non è compreso il caso di Diana Blefari Melazzi, la donna di 41 anni che il primo novembre si è impiccata a Rebibbia.

"Aveva manifestato più volte i segni di un grave disagio psichico", dice il professor Francesco Ceraudo, direttore del dipartimento per il diritto alla salute nelle carceri della Regione Toscana e che l’ha avuta in cura durante la detenzione a Sollicciano. "Ma è stata lasciata in isolamento, anche nel momento in cui le è arrivata la notizia che la Cassazione aveva confermato la sua condanna all’ergastolo. Era una psicotica a rischio, priva dello spessore anche psicologico di altri detenuti, ma il medico doveva capire che la sua personalità stava andando in frantumi e non la doveva lasciare sola in cella".

Le richieste respinte. Le richieste di scarcerazione per incompatibilità con il sistema detentivo ormai vengono quasi automaticamente respinte. Tanto più nel caso delle malattie psichiatriche, la cui dimostrazione non è facile perché, a differenza di altre patologie, la diagnosi non può essere supportata da prove radiografiche o strumentali. Però ci sono perizie psichiatriche di altissimo livello che possono riempire precise schede predittive. E i medici delle carceri devono saperle leggere. "Mezz’ora d’inferno".

L’altra mattina un giovane carcerato meridionale ha tentato di togliersi la vita in una cella del carcere di Pisa. Non aveva niente a disposizione, allora ha cominciato a sbattere la testa, forsennatamente, contro le pareti. Sono arrivati gli agenti di custodia, gli infermieri, il medico. E lui, con il volto sanguinante, che ripeteva di voler morire, che nessuno poteva impedirgli di decidere della sua vita. Poi è caduto in una crisi compulsiva che l’ha fatto stramazzare sul pavimento, quanto è bastato perché l’iniezione di un forte sedativo lo riportasse alla calma. "È stata una mezz’ora d’inferno - dice il prof. Ceraudo - ma qualcosa abbiamo fatto. Anzitutto gli abbiamo dato un nuovo compagno di cella.

Sapevamo della sua amicizia, nata nel carcere di Catanzaro, con un altro ragazzo attualmente ricoverato da noi. Glielo abbiamo messo accanto, perché per lui è una figura rassicurante". Clima pesante. Il "clima", dentro le mura delle carceri, è sempre più pesante. Il sovraffollamento - afferma Ceraudo - è il virus più pericoloso, altro che l’Aids o l’influenza A. Oltretutto il grande numero di reclusi determina l’insufficienza dei servizi di assistenza e vigilanza. Il personale non basta, è costretto a turni massacranti e a tener dietro a troppe persone. E questo si riflette anche nello stato d’animo di chi è davanti e dietro le sbarre. I casi di pestaggi.

Ceraudo non lo dice esplicitamente, ma i casi dei pestaggi negli istituti di pena se da una parte lo indignano, dall’altra non lo sorprendono più di tanto. "Nessuna relazione con la morte di Stefano Cucchi - dice il medico - perché le notizie che ho mi fanno escludere categoricamente che sia stato percosso a Regina Coeli. Ma spesso ci troviamo in condizioni di forte esasperazione, di un’aggressività alla quale non sempre tutti sono in grado di rispondere mantenendo i nervi calmi e la mente serena. Poi ci sono anche altre ragioni, a cominciare dall’affettività negata ai detenuti, sulla quale varrebbe la pena riprendere alcune riflessioni del passato.

In certe carceri il clima è meglio che in altre. A Pisa, ad esempio, abbiamo avuto la presenza per dieci anni di Adriano Sofri. È stata l’università della tolleranza, ha fatto bene a tutti". Verso proteste clamorose. Ceraudo da 35 anni dirige il centro clinico della casa circondariale pisana. Logico dunque che ne abbia viste di tutti i colori e dispiace oggi sentirgli dire che le carceri toscane sono al collasso e che è pronto a qualche gesto clamoroso di protesta. Il quaderno di Ceraudo. "In tutti questi anni - sottolinea Ceraudo - ho tenuto un quaderno per annotare quanti benefici di legge riuscivo a far avere ai reclusi a causa delle condizioni di salute. Ne ottenevo 50-60 ogni anno.

Da qualche anno non riesco ad averne neppure la metà. Adesso, a novembre, sono a quota 23. Non è che le condizioni di vita dei detenuti siano migliori, tutt’altro. È che i magistrati di sorveglianza non solo hanno stretto i freni, ma si pongono in un atteggiamento di chiusura ideologica, frutto del clima politico, che fa di ogni persona scarcerata un motivo di insicurezza nazionale".

I casi di incompatibilità negata. Una denuncia tecnica, non politica. Il medico del carcere cita a memoria, non senza tradire un moto di indignazione: "È stata negata l’incompatibilità al regime carcerario a una donna romana di 58 anni, che pesava 245 chili e aveva un carcinoma uterino, che viveva con la bombola dell’ossigeno nella cella, affetta da una cardiopatia ischemica, costretta a vivere in carrozzella.

Doveva scontare gli ultimi tre mesi e mezzo di detenzione, poi sarebbe stata comunque libera. I benefici sono stati negati ad un uomo di 81 anni, malato terminale, con la motivazione che occorreva un ulteriore certificazione. Non è stata concessa a una cinesina di 38 anni che abitava Pistoia con un tumore al seno e metastasi in tutto corpo. Quando si sedeva avevo paura che si spezzasse...". I giudici. L’elenco è impietoso.

"Un recluso di Napoli, 58 anni, era soggetto a infarti. Gli abbiamo fatto quattro certificati in sei mesi ed è stato lasciato morire in carcere. Poi, macabra ironia, un Pm ha inviato gli avvisi di garanzia per omicidio colposo a me e a tre chirurghi del centro clinico. E a un grossetano, ridotto a un’ombra di se stesso, malato di Alzheimer, gli abbiamo fatto 22 certificati di incompatibilità alla detenzione". "Dicono che i giudici sono troppo permissivi, troppo garantisti - conclude Ceraudo - ma la verità è che talvolta calpestano i più elementari diritti umani".

Giustizia: Andreoli; morti in carcere, ambiguità e inefficienze

di Andrea Galli

 

Avvenire, 9 novembre 2009

 

La morte dopo uno sciopero della fame nella casa circondariale di Pavia del tunisino Sami Mbarka Ben Garci. La fine ancora oscura di Stefano Cucchi a Regina Coeli. Il suicidio di Diana Blefari Melazzi a Rebibbia. "Ci ricordiamo del carcere con i casi che fanno notizia, ovviamente" chiosa lo psichiatra Vittorino Andreoli, che del problema è un esperto: "Se sommassi tutto il tempo che ho passato nelle carceri italiane, sarebbe quello di una condanna robusta".

 

Professore, dobbiamo abituarci alla morte in prigione?

"Il carcere non può essere un luogo fatale. Certamente è un luogo di pena e lo deve essere. Ma in Italia abbiamo avuto una personalità come Cesare Beccaria che ci ha ricordato che la pena deve essere al contempo riabilitativa. Punizione ed educazione".

 

Realisticamente: è possibile recuperare autori di violenze efferate?

"La mia risposta, decisa, è sì. In alcuni casi può essere molto difficile, ma mai si può dire che sia impossibile. Pensi a Gesù sulla croce. Il ladrone è un condannato alla pena di morte. Cristo gli dice oggi sarai con me in Paradiso senza chiedergli cosa ha fatto, se ha rubato o se ha ammazzato sua madre. Io in carcere non ho mai trovato un mostro, ho sempre trovato un uomo che ha bisogno di aiuto".

 

Punizione e aiuto: cosa manca perché ciò avvenga?

"Le carceri italiane non funzionano perché non sono né punitive, né rieducative. Vivono in una dimensione liquida, ambigua".

 

La punizione, visti anche i casi recenti, non sembra mancare.

"Mi spiego. Un carcerato ha il diritto di cucinarsi da solo. Se è vegetariano ha il diritto di nutrirsi alla vegetariana. C’è un regolamento che garantisce a ogni cella una tv a colori. C’è una sensibilità di questo tipo: per una pena che dev’essere compatibile con la dieta vegetariana. Poi magari manca un’adeguata assistenza psicologica. Generalmente per ogni carcere ci sono uno o più psicologi convenzionati, che non fanno parte della struttura, che vanno lì qualche ora. Quindi, da una parte la sensibilità per la dieta vegetariana a cui uno ha diritto, dall’altra parte una persona che non riesce a vivere, non viene aiutato, ma lo si lascia crepare. Tra l’altro, a proposito di assistenza psicologica, mi lasci esprimere un desiderio rivolto alle diocesi e alle parrocchie"

 

Dica…

"Oggi abbiamo un prete, come cappellano, per carcere. Ma con trecento detenuti può fare poco. In prigione c’è un enorme bisogno di incontri, relazioni; che bello se più preti potessero andarci, con un regolamento che lo permettesse, perché oggi per farlo devono rivolgersi al magistrato".

 

Qual è il tasso di violenza in carcere?

"Alto, se lo consideriamo nei suoi diversi aspetti. C’è un problema di sovraffollamento: i posti sono 40mila per quasi 60mila detenuti, una situazione ingestibile. Poi c’è la violenza vera e propria. Fino a 15 o 20 anni fa uno che entrava avendo fatto del male ad un bambino veniva giustiziato, per una sorta di codice interno. E questo spesso accadeva con la complicità degli agenti di polizia penitenziaria. Oggi avviene molto meno. Però ci sono ancora carcerati che vengono picchiati".

 

Quanto incide la droga nel degrado generale?

"Beh, com’è possibile chiamare carcere un luogo dove la droga gira più intensamente che in qualsiasi piazza d’Italia nota come luogo di spaccio? La droga è qualcosa che viene dato quasi per scontato. Gli interventi dei medici delle carceri per collassi o problemi legati agli stupefacenti sono frequentissimi".

 

La situazione carceraria italiana è peggiore che altrove oppure no?

"Diciamo che in una classifica dei Paesi cosiddetti civili siamo a un livello basso. Altrove la situazione è stata migliorata, pensi un po’, dando la gestione delle carceri ai privati. Ci sono esempi interessanti in Spagna e in Inghilterra".

 

Non è rischioso?

"Le faccio solo un esempio, perché il discorso è complesso. Sa cosa costa un carcerato al giorno, mediamente? Poco meno di 500 euro. Un anno di galera fa su per giù 180mila euro. Vuole che con 180mila euro non ci sia la possibilità di attivare qualcosa che sia efficace e utile umanamente per chi sta scontando una condanna?".

 

Qualcuno ha giustificato lo sciopero della fame di un detenuto, anche se arriva alla morte. Cosa ne pensa?

"È un diritto scioperare, ma non morire. Il digiuno può essere un mezzo per comunicare un bisogno, chiedere aiuto, ma non per suicidarsi. Non è possibile che una persona sia abbandonata, in questa sua richiesta, nella sua cella. Nessuno ha diritto di suicidarsi".

Giustizia: Pianosa, isola-carcere dei pestaggi contro i detenuti

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 8 novembre 2009

 

Anche se l’intenzione di riaprire il super carcere di Pianosa sembra per il momento rientrata, di fronte alla ferma opposizione della ministra dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, la proposta avanzata dal guardasigilli Angelino Alfano suona come un sinistro presagio. Il governo ha brutte intenzioni se è vero che con grande disinvoltura tenta di rimettere in funzione una delle più brutali carceri speciali che l’Italia abbia conosciuto. Roba da far impallidire persino Guantanamo e Abu Ghraib.

Da circa un decennio, l’isola è diventata un parco ambientale di alto valore naturalistico. Nel 1997 è stato trasferito l’ultimo detenuto rinchiuso nel reparto 41 bis, e dall’anno successivo a presidiare la vecchia struttura sono rimasti solo una sparuta pattuglia di agenti di polizia penitenziaria e alcuni detenuti semiliberi, provenienti dalla vicina casa di reclusione di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, che si occupano dei terreni agricoli.

Aperta nel 1858 dal Granducato di Toscana, fu solo nei primi anni del Regno unificato d’Italia che la colonia penale agricola della Pianosa assunse la struttura attuale. Nello stesso periodo vennero create delle succursali nelle isole limitrofe dell’arcipelago toscano, alla Gorgona e sull’isola di Montecristo. Quest’ultimo insediamento fu però abbandonato nel 1880. Negli anni successivi e fino al 1965, l’isola divenne un reclusorio per detenuti ammalati di tubercolosi. Ma la casa penale della Pianosa si è guadagnata anche la fama di carcere per detenuti politici. Nelle sue famigerate celle sono passati l’anarchico Giovanni Passannante, che nel 1878 tentò di accoltellare Umberto I, e durante il fascismo il socialista Sandro Pertini.

Ma fu nel maggio 1977 che, insieme alla sezione "Fornelli" dell’Asinara, la diramazione "Agrippa" della Pianosa conquistò un posto centrale nel circuito delle carceri di "massima sicurezza", ideato dal generale dei carabinieri Carlo Albero Dalla Chiesa. Nel giro di due giorni, grazie anche all’utilizzo di grandi elicotteri bimotori da trasporto truppe Chinook, i reparti dell’Arma trasferirono 600 prigionieri. Un decreto interministeriale, oltre ad attribuire poteri eccezionali a Dalla Chiesa, sospendeva le norme vigenti in materia di appalti e concessioni edilizie (qualcosa di simile è stato chiesto dall’attuale capo del Dap, Franco Ionta).

Furono edificate sezioni di massima sicurezza, oltre alle già citate sezioni Fornelli e Agrippa, anche sull’isola di Favignana e nelle carceri di Cuneo, Fossombrone, Trani, Novara, Termini Imerese, Nuoro, Palmi, Messina. Un enorme giro di miliardi da cui scaturirono anni dopo inchieste giudiziarie sulle famose "carceri d’oro". In un documento fatto pervenire all’esterno , i primi prigionieri politici rinchiusi a Pianosa descrivevano così il luogo: "si tratta di un’isola-carcere, nel senso che la totalità del suo territorio - circa 12 km quadrati - è adibito a istituto di pena. L’isola consta di 4 diramazioni indipendenti. 4 carceri nel carcere. La più grande di esse, chiamata "Agrippa", dopo aver subito una completa ristrutturazione è divenuta un vero monumento al sadismo repressivo dello Stato borghese". Pianta a forma di quadrilatero, doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e un numero sproporzionato di fari. All’interno, celle molto piccole con arredo cementato al pavimento e alle pareti, "mura dipinte con colori speciali che provocano menomazioni visive e disturbi psichici; aria ridotta a mezz’ora la mattina e mezz’ora il pomeriggio, in piccoli cortili. Non più di sei per volta".

All’arrivo - scrivono sempre i detenuti - si viene "sottoposti a un brutale pestaggio, dimostrazione del potere assoluto della direzione carceraria". Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo 1981, all’interno della sezione Agrippa avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti.

"Un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. La domenica è il giorno più sicuro per consumare la cena, all’apparenza si presenta senza scorie, diversamente dal pranzo dove si trova sia nella pasta che nel secondo un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi" (cf. Il Carcere speciale, sensibili alle foglie 2006). Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa

Giustizia: Mazzatorta (Lega); le carceri non siano a cinque stelle

 

Agi, 8 novembre 2009

 

"Esiste una emergenza carceri perché è una edilizia molto vecchia che depone a sfavore del carcerato ma anche della società. Non si deve dimenticare che il carcere è un luogo dove giustamente deve esserci l’espiazione della pena e quando il detenuto esce non può avere un vantaggio sociale sugli altri, come spesso succede, perché è un paradosso". Lo ha dichiarato il capogruppo della Lega in commissione Giustizia del Senato, Sandro Mazzatorta, il quale ha auspicato come "questo benedetto piano carceri è ora che venga presentato".

Mazzatorta ha ricordato come su 205 istituti "il 20% risale ad epoca successiva al 1900, il 60% invece ad epoche comprese tra il 1600 e il 1800: vuol dire che con strutture di queste epoche ovviamente bisogna metter mano all’ edilizia carceraria. Nello stesso tempo però dobbiamo ribadire - ha sottolineato - che l’edilizia carceraria rimane tale e ha una eludibile funzione di sicurezza e di espiazione della pena, non certo luoghi a 5 stelle dotati di comfort, ma carceri sicure in modo che il detenuto sia sotto controllo in ogni caso, non dimenticando che il carcere è il luogo dove deve essere espiata la pena e non un temporaneo svago o una temporanea sottrazione della libertà".

Sul carcere di Pianosa il senatore della Lega ha reso noto che la regione Toscana ha finanziato con 5 milioni di euro il ripristino edilizio della struttura carceraria dell’ isola per farci un centro di recupero per detenuti: "un paradosso, se si pensa che in tempi di crisi una regione impegni una tale cifra per recuperare i detenuti, mentre dovrebbero essere questi ultimi a risarcire la società del danno che hanno commesso. Ma è mai possibile - si è chiesto infine Mazzatorta - che mentre un nostro disoccupato, anche di 50 anni, faccia fatica a trovare uno straccio di lavoro e uno che ha ammazzato, dopo essersi fatto 6 anni va fuori, e tutti lì a sbattersi per trovargli un lavoro. Mi sembra una assurdità".

Giustizia: su Cucchi è ora di dire (e di fare dire) tutta la verità

di Stefano Anastasia

 

Liberazione, 8 novembre 2009

 

Le foto segnaletiche di Stefano Cucchi hanno colmato un vuoto che si era aperto alla immaginazione di noi tutti: come quel ragazzo sereno e sorridente che si affaccia dagli album di famiglia abbia potuto trasformarsi in quel corpo martoriato che gli stessi familiari hanno voluto rendere pubblico?

Dei molti scatti che avrebbero potuto raccontare quella metamorfosi (e che ciascuno in questi giorni ha provato a raffigurarsi, raccapricciando), quelle foto sono una piccola scelta, che aiuta però tanto la nostra immaginazione a fissarsi in un altro punto di realtà quanto l’attività investigativa a restare con i piedi per terra e a non farsi distogliere dalla ridda di ipotesi e di dichiarazioni che si affacciano come una cortina fumogena intorno alla tragica realtà della morte di Stefano Cucchi.

Servono, quelle foto, a fugare la posticcia condizione di incertezza che qualcuno ha voluto alimentare, a proposito della violenza subita da Cucchi dopo l’arresto, ma prima dell’ingresso nel carcere romano di Regina Coeli.

Qualche giorno fa avevamo addirittura letto del difensore d’ufficio che - in tribunale -non si era accorto di niente: appena finita l’udienza, in una stanza accanto, i medici di piazzale Clodio rilevano (quasi) tutto ciò che risulterà da numerosi accertamenti diagnostici successivi (in vita e in morte) sul corpo di Stefano Cucchi, ma il suo avvocato d’occasione non si era accorto di nulla.

Speriamo in una caduta deontologica: (non dovrebbe, ma) capita che un difensore d’ufficio non guardi neanche in faccia il suo assistito. Altri potrebbero sospettare un potere di condizionamento dell’Arma e del suo Ministro, che già aveva fatto sentire la sua voce, naturalmente assolutoria, per partito preso.

La memoria torna a Genova, otto anni fa: ragazzini presi a calci in faccia da maturi signori appartenenti alle forze dell’ordine sotto gli occhi e le telecamere di mezzo mondo e non una parola di biasimo, un distinguo, un’eccezione. Così oggi Ignazio La Russa: "Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto dei Carabinieri in questa occasione". Nessuno, in un caso del genere, ha interesse a mettere sul banco degli imputati "i Carabinieri", né l’intero sistema penitenziario o di polizia: servirebbe solo a far perdere nelle fumisterie di responsabilità istituzionali o collettive, quelle specifiche e personali di chi ha abusato del corpo di Stefano Cucchi e di chi - forse - non gli ha prestato le cure e l’assistenza necessarie.

Perché, allora, proprio dal Ministro la difesa d’ufficio (e quindi la - logicamente precedente - messa in stato d’accusa) dell’intero Corpo? Passione per le fumisterie? Per le notti in cui tutte le vacche sono bigie? Ma, in questo modo, non si aiuta la giustizia, e neanche l’Arma dei Carabinieri, costretta a sobbarcarsi il sospetto della responsabilità di alcuni suoi uomini in un fatto di morte e violenza. Meglio sarebbe, allora, caro Ministro, dire e far dire tutta la verità: meglio per Stefano e la sua memoria, meglio per la giustizia e i suoi apparati, meglio per l’Arma e chi ne veste la divisa.

Giustizia: caso Cucchi; la pista dei pm, fu pestato in tribunale

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 8 novembre 2009

 

Stefano Cucchi pestato nelle celle del tribunale di Roma, a Piazzale Clodio, prima della direttissima, e subito dopo la sentenza che ne ha disposto la carcerazione. È questa la pista seguita in queste ultime ore dalla procura di Roma. Nel frattempo la sua morte in carcere da vicenda di ordinaria malagiustizia s’è trasformata in caso di ordine pubblico.

Dopo i disordini dell’altro ieri a Roma al corteo dei centri sociali, le forze dell’ordine temono tensioni alla manifestazione del prossimo sabato 14 novembre dei gruppi di ultras delle squadre di calcio di tutta Italia contro la "tessera del tifoso".

I primi segnali che le "curve" si stanno mobilitando sulla morte dell’uomo arrestato per venti grammi di hashish ci sono già: alla partita del primo novembre Roma-Bologna è stato esposto uno striscione "Giustizia per Stefano Cucchi" seguito da cori di invettive contro carabinieri e polizia. Analoga scena il giorno prima per la partita di serie B Lecce-Empoli. La preoccupazione di polizia e carabinieri è che i dubbi ancora irrisolti sulle cause del decesso di Cucchi possano ingenerare, sabato prossimo, reazioni violente durante il corteo delle tifoserie.

A questo proposito, le indagini della procura di Roma sono alla stretta finale. Nei prossimi giorni partiranno i primi avvisi di garanzia. L’attenzione dei pm s’è concentrata sulla permanenza di Cucchi in Tribunale, alla direttissima. L’uomo vi arriva alle 9 del 16 ottobre. Fino alle 12 resta nelle celle sotto la sorveglianza della Polizia penitenziaria. Alcuni detenuti hanno già verbalizzato che in questo periodo ci sarebbe stato del "trambusto" seguito dall’intervento "sbrigativo" degli agenti. Quando Cucchi arriva in aula presenta arrossamenti sotto gli occhi (lo notano i familiari), ma si regge sulle gambe.

E dà un calcio a un tavolo quando il giudice decide di mandarlo in carcere. Inoltre, riferisce l’Arma, insulta i carabinieri. Ma al padre e all’avvocato d’ufficio non riferisce di botte. Alle 13,30 viene consegnato alla Polpen e portato nelle celle del tribunale in attesa del trasferimento a Regina Coeli. Ma qui succede qualcosa. Cade dalle scale? Viene pestato? Quel che è certo è che alle 14,05 la stessa polizia chiede l’intervento di un medico dell’Asl che referta "lesioni ecchimodiche in regione palpebrale di colore purpureo". E prende atto che Cucchi manifesta "dolore e lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori".

 

Primi indagati per "omicidio preterintenzionale"

 

Prime iscrizioni sul registro degli indagati della procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del geometra di 31 anni Stefano Cucchi, deceduto all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre dopo essere stato arrestato sei giorni prima per spaccio di sostanze stupefacente.

I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno deciso di iscrivere per il reato di omicidio preterintenzionale i nomi di chi ha avuto contatti con Cucchi dal momento dell’arresto fino al ricovero in ospedale, passando per il carcere di Regina Coeli. "Indaghiamo a 360 gradi" si è limitato a dichiarare ai giornalisti il procuratore Giovanni Ferrara, facendo intendere che gli accertamenti disposti per fare luce sul pestaggio stanno riguardando i carabinieri, gli agenti della polizia penitenziaria e i detenuti che hanno condiviso con Cucchi alcune ore di cella. I magistrati, però, stanno verificando anche se sussistano elementi per contestare l’ipotesi di omicidio colposo a carico dei medici che hanno avuto in cura il ragazzo e che potrebbero aver sottovalutato le sue critiche condizioni di salute.

 

Giovanardi: Cucchi drogato, è morto perché anoressico

 

"Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto è morto, e la verità verrà fuori come, soprattutto perché era 42 chili". Lo ha detto il sottosegretario Carlo Giovanardi, intervenuto a "24 Mattino" su Radio 24 per parlare di droga. Parlando di Cucchi, Giovanardi ha continuato: "La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente, poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato, certo bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così".

 

La famiglia del ragazzo: "Non merita repliche"

 

Immediata la replica della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, dai microfoni di Cnrmedia: "A Giovanardi che fa queste dichiarazioni a titolo gratuito, rispondo semplicemente che il fatto che Stefano avesse problemi di droga, noi non l’abbiamo mai negato, ma questo non giustifica il modo in cui è morto". E conclude: "Non voglio aggiungere altro, la cosa che ha detto si commenta da sola".

 

La cartella clinica completa è on-line

 

Intanto è on-line, sui siti di abuondiritto.it, italiarazzismo.it, innocentievasioni.net, la documentazione clinica di Cucchi. "Non c’è alcun mistero sulla morte di Stefano Cucchi. Può sembrare paradossale, ma tutto è documentato e leggibile negli atti", queste sono le parole del professor Luigi Manconi riferite dall’onorevole Giuseppe Giulietti dell’associazione Articolo21.

"E si tratta di un atto di accusa che non può essere ignorato, né dalle istituzioni, né dalla politica né, per quanto ci riguarda, dai media. Per queste ragioni - prosegue Giulietti - l’associazione Articolo21 non solo ha deciso di riprendere la documentazione ma anche di chiedere a tutti i blog e a tutti i siti di linkare i video e la documentazione pubblicata.

Ci auguriamo, infine, che tutte quelle trasmissioni che hanno trovato il tempo e lo spazio per dedicare ore ed ore di trasmissioni ai delitti di Cogne, di Perugia, di Garlasco vogliano finalmente dedicare analoghe attenzione alla vergognosa vicenda di Cucchi o a quella già dimenticata di Aldo Bianzino o alla restituzione della memoria e della verità alla famiglia Aldrovanti di Ferrara, la cui vicenda per molto tempo fu circondata da un silenzio complice ed omertoso. Comprendiamo che si tratti di "delitti più scomodi" e meno utilizzabili all’industria della paura ma non per questo si può fingere di non vedere, di non sentire e di non sapere".

Le parole di Giovanardi hanno però scatenato immediatamente la reazione dell’opposizione. "Il sottosegretario Giovanardi si dovrebbe vergognare delle sue affermazioni, palesemente false, sulla morte di Stefano Cucchi. Le sue parole sono sconcertanti e dimostrano che non ha rispetto per la verità dei fatti, per le istituzioni, per le forze dell’ordine e per il dolore della famiglia. Per questo si deve dimettere" ha sottolineato il capogruppo dell’Italia dei Valori alla Camera Massimo Donadi.

"Di fronte ad un caso come quello di Stefano Cucchi, su cui è indispensabile ed urgente fare chiarezza quanto prima, le parole del sottosegretario Giovanardi sono il peggio che certa politica possa esprimere al cospetto di una tragedia umana su cui gravano dubbi e sospetti di responsabilità esterne" ha sottolineato invece Roberto Giachetti del Pd.

Lettere: dove sono finiti i "fondi" della medicina penitenziaria?

 

Lettera alla Redazione, 8 novembre 2009

 

Dove sono finiti i fondi stanziati per la Riforma della medicina penitenziaria? Perché queste risorse non sono ancora transitate alle Regioni?

I medici e gli infermieri che lavorano nelle strutture penitenziarie continuano a portare avanti tra mille difficoltà e rischi un’opera particolarmente importante ed estremamente delicata a tutela della salute della popolazione detenuta. Nonostante tutto. Lo fanno in condizioni difficili, oserei dire proibitive.

Il contesto ambientale è terribile a causa del sovraffollamento: 65.255 chiusi come sardine in scatola o come polli nelle stie in 206 istituti penitenziari. Numeri preoccupanti che sconvolgono tutto. Numeri mai raggiunti nella storia del nostro Paese. Letti a castello, materassi per terra: condizioni igieniche disperate per cui la stessa gestione dell’influenza AH1N1 sta creando inevitabilmente seri problemi. 61 sono già i suicidi nel 2009, sintomatici di un mal di vivere in carcere.

Il 14 Giugno 2008 la Medicina Penitenziaria è transitata nel Servizio Sanitario Nazionale. Dopo i continui tagli e ritagli imposti dal Dap che hanno determinato la paralisi dei servizi sanitari penitenziari finalmente si sono delineate prospettive serie in aderenza ai principi ispiratori della Riforma. Le Aziende Usl competenti per territorio nel prendersi carico della Medicina Penitenziaria hanno ereditato solo macerie e sono state costrette a mettere fuori servizio molte attività in quanto non a norma.

Non bastasse tutto questo, siamo costretti a registrare con viva preoccupazione che il Ministero dell’Economia non ha ancora versato alle Regioni le quote di budget spettante per il 2008 (trimestre ottobre, novembre e dicembre) e tutto il 2009. Le Aziende Usl agendo in necessaria supplenza, ma con la dovuta sensibilità, stanno anticipando gli stipendi al Personale sanitario e stanno assicurando l’approvvigionamento dei farmaci, ma sono nella impossibilità di investire nel rinnovamento della tecnologia e nell’adeguamento degli organici del Personale.

Risulta tutto paralizzato. Assistiamo al paradosso vergognoso che una Riforma di civiltà voluta e realizzata dal Governo di centro sinistra, ora viene boicottata nella sua applicazione dal Governo di centro destra. La medicina penitenziaria è una cosa seria. La medicina penitenziaria deve essere messa nelle condizioni di sviluppare la tutela della salute in carcere in aderenza ai dettami della nostra carta costituzionale.

Una Riforma per essere seria e credibile implica necessariamente degli investimenti nei servizi, nella definizione delle strutture,nella sicurezza dei posti di lavoro, nel rinnovo della tecnologia, negli adeguamenti del personale e nella formazione. Occorrono investimenti.

Altrimenti non cambia nulla. Anzi peggiora inesorabilmente tutto. Si rischia una trasformazione di facciata e non di contenuti. Si rischia di allestire l’ennesimo baraccone, etichettato magari da sani principi, ma svuotato di concreti cambiamenti sul piano del miglioramento della risposta sanitaria.

In ciascuno di noi vi è la piena consapevolezza dell’importanza del concetto riformatore. È una rivoluzione copernicana. Ne intravediamo i benefici. Ecco perché le Aziende Usl devono essere messe nelle condizioni di mettere a disposizione la loro qualificata rete dei servizi.

Forti della nostra specifica esperienza e competenza, i medici e gli infermieri vogliono diventare protagonisti di un profondo cambiamento, dove la salute della popolazione detenuta deve costituire il centro di riferimento essenziale intorno a cui si sviluppa e si realizza la nostra opera professionale senza alcuna limitazione o compromissione.

 

Francesco Ceraudo, Presidente Amapi

Toscana: un "viaggio" nelle carceri che somiglia ad un incubo

 

Il Tirreno, 8 novembre 2009

 

Nelle poche carceri in cui non c’è il problema del sovraffollamento - in Toscana soltanto a Volterra, alla Gorgona e a Porto Azzurro - i casi di suicidio sono assai minori, quasi sconosciuti. A Volterra ci sono attualmente 165 reclusi e ve ne potrebbero stare 170. Alla Gorgona ce ne sono 75 mentre il carcere ne potrebbe ospitare fino a 136.

In tutti gli altri istituti è il contrario: a Pisa ce ne sono 421 mentre il limite massimo è di 220, a Livorno sono chiusi in 402 e ne potrebbero restare soltanto 252, a Lucca 165 contro i 90 posti. Ovunque dormono in letti a castello accavallati l’uno sull’altro, qualche volta i materassi sono stesi sul pavimento. A Pisa sono state requisite anche aule scolastiche. L’umidità e i cattivi odori, muffe e acari, sono in crescita esponenziale. I servizi igienici, già precari, sono del tutto insufficienti, le condizioni sanitarie sono disastrose.

Stipati come polli, in una babele di lingue, religioni e culture, spesso le proteste finiscono in scioperi della fame, gesti di autolesionismo, discussioni che sfociano in lite. Ed è una situazione generalizzata. Su 65mila detenuti in tutta Italia, ben 4.400 sono reclusi nei diciotto istituti di pena toscani che, complessivamente, ne potrebbero ospitare soltanto 3.000.

Di conseguenza anche il personale è poco: mancano gli agenti di polizia penitenziaria, sono insufficienti i medici e gli infermieri. Delle quindici sale operatorie dei centri clinici italiani, ben quattordici sono chiuse perché non a norma con le regole di igiene e sicurezza e dunque anche pericolose. L’unica aperta è quella della casa circondariale "Don Bosco" di Pisa.

Le strutture sono fatiscenti, in qualche caso cadono a pezzi. Un "viaggio" nelle carceri toscane somiglia a un incubo notturno. Sollicciano è stato costruito ai tempi del famoso scandalo delle "carceri d’oro", tanti soldi finiti in mazzette invece che in acciaio e cemento e meriterebbe di essere chiuso. La casa circondariale di Lucca è impresentabile, come quella di Livorno, dove esiste un buon sistema sanitario ma il regime è particolarmente duro, Montelupo non è un ospedale psichiatrico, ma la peggiore delle prigioni e sarà chiuso. Pontremoli e Empoli sono già chiusi.

Lazio: detenuto ricoverato per l’influenza A, carceri a rischio

 

Ansa, 8 novembre 2009

 

Un detenuto proveniente dal carcere di Rebibbia è stato ricoverato oggi al Policlinico Umberto I di Roma dopo essere risultato positivo al virus H1N1. "Il rischio, nelle carceri, è che non si stia facendo niente per le vaccinazioni, dove ci sono persone a rischio, tra i quali diversi sieropositivi. Questo ci preoccupa", ha detto il direttore generale del Policlinico Umberto I di Roma Ubaldo Montaguti. Montaguti ha riferito che, non essendo il Policlinico una struttura ospedaliera adibita per ricevere i carcerati, il detenuto ricoverato per l’influenza A verrà trasferito presto a Viterbo e non all’ospedale Pertini, che è già saturo per quanto riguarda i detenuti.

 

Rebibbia: vaccino ai medici poi anche ai detenuti

 

Nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso - dove oggi un detenuto con i sintomi sospetti dell’ influenza A è stato ricoverato in ospedale - le vaccinazioni contro il nuovo virus sono cominciate alla fine dello scorso ottobre ma per il momento riguardano, come negli altri istituti di pena italiani, solo il personale sanitario. Santi Consolo, vice capo del dipartimento del’ Amministrazione Penitenziaria, annunciando l’ avvio della campagna, ha auspicato che si possa avere al più presto la disponibilità del vaccino anche per i detenuti ma, a quanto risulta, la situazione a oggi non è cambiata. Tra l’ altro, la vaccinazione dovrebbe riguardare anche la polizia penitenziaria, come hanno sollecitato nei giorni scorsi i sindacati di categoria.

A Rebibbia è invece in corso da alcune settimane la vaccinazione contro l’ influenza stagionale. La direzione del carcere ha spiegato che si sta procedendo secondo i protocolli stabiliti nei mesi scorsi e che la somministrazione del vaccino per l’ influenza A rappresenta un passaggio successivo. Per la stagionale hanno richiesto la vaccinazione circa 350 operatori sanitari e altrettanti detenuti (su un totale di 1600). Se un detenuto, come nel caso di oggi, manifesta sintomi sospetti si segue la strada del ricovero in un ospedale che abbia un reparto di degenza riservato ai detenuti: è il caso del Pertini di Roma e dell’ ospedale Belcolle di Viterbo.

Il vice capo del Dap Consolo, titolare della delega sul passaggio (avvenuto nel 2008) della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, nei giorni scorsi ha assicurato che l’amministrazione penitenziaria, che ormai non ha una competenza diretta, si è attivata sin dai primi casi di influenza H1N1.

"Ho chiesto l’inserimento dei detenuti tra le categorie a rischio, i vaccini per tutti e di seguire pratiche virtuose", ha spiegato. Indicazioni rivolte a tutte le autorità competenti, che vanno dall’isolamento dei detenuti che si sospetta siano stati colpiti dal virus al ricovero immediato nei casi più gravi. Il tutto accompagnato da misure di prevenzione: come per esempio quella di evitare assembramenti, promuovere l’utilizzo di fazzoletti monouso, predisporre detergenti nelle celle.

Il Dap si è mosso per tempo vista la maggiore diffusione nelle carceri, rispetto a quanto avviene fuori, di gravi patologie. "Su 65mila detenuti l’incidenza delle patologie croniche è enormemente più elevata rispetto al resto della popolazione" ha spiegato Giulio Starnini, medico che al Dap si occupa dei servizi sanitari. Anche perché "nelle carceri transitano oltre 110mila persone (molti detenuti restano meno di tre-cinque giorni),senza contare il personale, i volontari, gli avvocati e visitatori".

E quanto sia più elevato il rischio di contagio nei penitenziari lo dicono i numeri: Il 7% dei detenuti soffre di patologie legate all’Hiv, il 30% di epatite cronica C e la diffusione della tubercolosi è 100 volte superiore a quella del resto della popolazione. Il 29 ottobre scorso all’ospedale Cotugno Napoli è morto il primo detenuto per complicazioni legate alla influenza A. Si chiamava Marcello Cali, siciliano di 50 anni, e scontava l’ ergastolo nel carcere di Reggio Calabria. Nel maggio scorso, proprio per le sue condizioni di salute, era stato trasferito nel centro clinico del carcere di Poggioreale.

Asti: i detenuti dell’Alta Sicurezza; in protesta da dieci giorni

 

Ansa, 8 novembre 2009

 

Nel carcere di Asti dal 29 di ottobre è in atto un’agitazione da parte di un centinaio di detenuti di alta sicurezza (un terzo della popolazione carceraria): in gran parte si tratta di camorristi napoletani e alcuni mafiosi siciliani. La protesta viene esternata rifiutando sia il cibo, sia l’acqua, sia l’ora di aria. Inoltre, organizzati a gruppi, a turno fanno rumori assordanti, battendo con le gavette contro le inferiate di porte e finestre.

Il motivo della protesta, ha spiegato Domenico Minervini, direttore della casa di pena, sta nel sovraffollamento. Il problema si era già presentato la scorsa estate, quando causa le ferie dei tribunali i detenuti trasferiti al sud per i processi erano tornati in massa ad Asti. Allora i reclusi erano tre per cella: troppi per viverci. Ora gli stessi detenuti temono per gli stessi motivi (vacanze di Natale) di essere nuovamente rinchiusi tre per ogni cella: è per evitare questo possibile nuovo superaffollamento che protestano.

Ieri il direttore ha ricevuto una delegazione di detenuti, assicurando il suo impegno per sollecitare provvedimenti adeguati presso i vertici delle istituzioni. Dopo l’incontro i detenuti hanno provvisoriamente sospeso l’agitazione in attesa di risposte tranquillizzanti.

In merito alla sospensione dell’agitazione Alessia Chiosso comandante delle guardie carcerarie è scettica perché è difficile sanare la situazione con delle misure provvisorie.

La vita nel carcere di Asti-Quarto da qualche tempo è costantemente in situazione di emergenza. Non solo per l’affollamento, ma anche la scarsità del personale di sorveglianza e le strutture inadeguate ed obsolete. Attualmente sono ospiti della casa di pena astigiana 15 detenuti appartenenti al terrorismo islamico e talebani provenienti dai carceri di Benevento e Macomer, nonché appartenenti alle cellule di Al Qaeda . Quest’ultimi restano ad Asti fino a Natale perché nei loro confronti è in atto un grosso processo a Milano.

Secondo i sindacati, i terroristi islamici alimentano un clima di tensione con atteggiamenti provocatori e soprusi. Appelli al governo regionale per un intervento ai vertici dell’amministrazione penitenziaria è stata rivolta in questi giorni da diverse espressioni politiche. Mariangela Cotto, vice presidente del Consiglio Regionale si è rivolta alla presidente della giunta Mercedes Bresso affermando che la situazione nel carcere astigiano è di grave pericolo anche per l’incolumità del personale. La Cotto in un comunicato stampa scrive: "Il carcere di Asti non è un istituto di massima sicurezza per cui i terroristi islamici non dovrebbero essere tradotti".

Livorno: oltre 400 detenuti la cella singola diventa per quattro

 

Il Tirreno, 8 novembre 2009

 

Il carcere, di per sé, è un luogo violento. "Accade sempre, in tutte le strutture "totali", dove le libertà individuali vengono compresse e sottratte. Oggi, negli istituti di pena la situazione è oggettivamente difficile, perché dove c’è sovraffollamento non ci sono dignità di accoglienza e dignità di vita per il detenuto". Marco Solimano, presidente dell’Arci di Livorno, è da anni operatore volontario nella casa circondariale delle Sughere: incontra i detenuti e ascolta i loro bisogni. Anche alle Sughere, istituto costruito a inizio anni 80, aperto in fretta e furia in una notte dell’aprile 1984 quando Livorno fu scossa dal terremoto (i vecchi Domenicani non davano garanzie di tenuta strutturale), il sovraffollamento è una costante. A fronte di una capienza regolamentare di circa 250 detenuti, nel tempo ne ha sempre ospitati più del consentito e oggi ce ne sono almeno 150 in più.

"Nelle celle - racconta Solimano - stanno anche in quattro invece che da soli o in due". Fra l’altro, nonostante la struttura livornese abbia meno di trent’anni, il degrado è notevole e la manutenzione carente perché i tagli hanno colpito pesantemente il settore penitenziario e non ci sono soldi per intervenire. "Dove non ci sono garanzie di una minima qualità di vita - prosegue l’operatore dell’Arci - si crea una pericolosa situazione di tensione".

Il sovraffollamento, poi, è cresciuto esponenzialmente negli ultimi mesi e nelle carceri, rispetto anche solo a dieci anni fa, è cambiata la composizione sociale. Gli stranieri sono il 70% della popolazione detenuta e il personale di custodia - dice Solimano - incontra difficoltà ad accogliere persone con tradizioni culturali diverse e quindi con bisogni differenti rispetto a quelli degli italiani "non avendo spesso a disposizione strumenti operativi e culturali per intervenire". Si creano tensioni e la tensione porta a discussioni che a loro volta possono generare violenza. "Gli spazi limitati di cui i detenuti usufruiscono, lo stare in tanti in una cella, fa sì che anche le forme più elementari di dignità vengano annientate. Non c’è più intimità" spiega Solimano.

"Il carcere in passato è stato anche luogo di punizione fisica nel silenzio e nell’indifferenza, ma è cambiato negli ultimi anni quando si è aperto alla società civile che costituisce una sorta di controllo democratico - prosegue il presidente Arci - E sono cambiati anche i detenuti". Prima in cella c’erano assassini, terroristi, truffatori, ladri, rapinatori.

Oggi circa il 60% dei detenuti, e questo accade quasi in toto per gli stranieri, sta dentro per spaccio: non ci sono, in una struttura come il circondariale, i grandi trafficanti, ma chi viene preso con cinque o dieci grammi in tasca. "In cella troviamo le fasce più povere della popolazione - spiega il volontario - ci sono persone che anche fuori vivono la marginalizzazione e l’espulsione sociale".

Ecco che si rende necessaria l’istituzione del garante dei detenuti: "Lo chiediamo da tempo e diciamo al Comune di Livorno, per le Sughere, che si attivi. In questa fase di disequilibrio della democrazia interna al carcere - spiega Solimano - la figura del garante è fondamentale, è un trait d’union fra chi è privato della libertà personale e il mondo esterno. Fra le cose da fare subito c’è poi la depenalizzazione di certi reati, adottando forme alternative di risarcimento sociale".

Teramo: Alfano sospende Comandante per presunto pestaggio

 

Apcom, 8 novembre 2009

 

Il ministro di Giustizia Angelino Alfano ha sospeso cautelativamente dal servizio Giuseppe Luzi, il comandante della guardie carcerarie dell’istituto di pena di Castrogno, a Teramo, coinvolto in un’inchiesta della procura di Teramo, dopo che un anonimo cd in cui si faceva riferimento a un pestaggio di un detenuto era stato fatto recapitare al quotidiano locale La città. A confermarlo è Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria.

Il provvedimento cautelativo "È giusto", sottolinea Capece, aggiungendo: "Noi chiediamo che sia fatta piena luce sui fatti e se è responsabile di quello che ha detto, ne deve pagare le conseguenze". Domani spiega Capece a Teramo assume servizio momentaneo il commissario Sabatino de Bellis, che proviene dalla scuola di Parma, ed è stato comandante di reparto alla Dozza.

È "un provvedimento giusto - aggiunge Capece - in attesa di fare chiarezza, c’è un’indagine penale ma anche amministrativa, un procedimento disciplinare, vedremo cosa succede. Come sindacato diciamo che precauzionalmente l’amministrazione ha fatto bene. È un uomo fuori dal tempo, le sue parole in libertà censurabilissime. Chiediamo che si faccia piena luce sui fatti, se è responsabile, ne deve pagare le conseguenze".

L’inchiesta parte da un cd, fatto arrivare da un anonimo al quotidiano locale La Città, dove il comandante riferirebbe di un pestaggio di un detenuto: "Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto..."... Questa sarebbe la registrazione della voce del comandante delle guardie carcerarie presa con un telefonino in uno degli uffici degli agenti della penitenziaria di Teramo. "Il cd è stato spedito sicuramente da un corvo - spiega Capece - Luzi non era ben visto dal personale per i suoi modi autoritari".

Il segretario del Sappe ripete la condanna dell’episodio ma racconta di conoscere il commissario Luzi, che già aveva avuto esperienze di comando, "questo fatto ci ha spiazzati, non so cosa gli sia scattato nella mente per dire quelle parole, da cui prendiamo le distanze, non le riconosciamo come le parole dette da un agente e soprattutto da un commissario della penitenziaria". Al riguardo il segretario sottolinea come la formazione soprattutto di chi riveste ruoli di comando nelle carceri sia molto attenta ed equilibrata improntata da un lato sulla sicurezza, dall’altro soprattutto sulla partecipazione all’equipe di trattamento riabilitativo dei detenuti".

Pisa: sovraffollamento fa soffrire anche gli agenti, sotto stress

 

Il Tirreno, 8 novembre 2009

 

Davanti al portone a tre metri da quello principale, una cancellata in ferro e vetro spesso parecchi centimetri, i parenti dei detenuti aspettano il loro turno. Le torrette di guardia delimitano gli angoli del muro perimetrale della casa circondariale Don Bosco di Pisa. Siamo in periferia vicino a Cisanello e Pisanova. Fuori c’è la libertà, dentro la detenzione.

Le regole del carcere, qui come altrove, sono ferree: un colloquio a settimana, una telefonata a settimana. Due se hai saltato il colloquio. Il Don Bosco, costruito nei primi anni 30, ospita circa 400 detenuti. Le donne sono 33 di cui 9 straniere. I maschi extracomunitari sono 236. Anche il carcere pisano è sovraffollato: a fronte di una capienza tollerata di 290 ci sono un centinaio di carcerati in più. Al massimo tre per cella. Il portone in ferro e vetro, mentre fuori piove, si apre verso l’interno per far entrare tre agenti della polizia penitenziaria che devono cominciare il servizio. Anche loro, per le sei o otto ore che durerà il turno, diventano dei reclusi.

Anche loro, mano a mano che avanzano nelle sezioni, odono lo sferragliare dei cancelli che si chiudono alle loro spalle. Fare l’agente non è certo un mestiere facile, sempre a contatto con i problemi di un’umanità dolente. "Il nostro compito è di garantire l’ordine restrittivo che viene inflitto al detenuto, la sicurezza e il trattamento. Ma a questo compito il personale non è preparato e il sovraffollamento impedisce nel concreto di poterlo fare. Loro, i detenuti, sono troppi, e noi agenti siamo pochi. Non è possibile - spiega l’ispettore Maria Coviello, sindacalista dal 2003 - riuscire a soddisfare le richieste dei detenuti anche se devo dire che a Pisa, nonostante i problemi, c’è parecchia umanità da parte del personale".

Coviello ha cominciato a 23 anni come vigilatrice trimestrale e oggi ne ha alle spalle 18 di servizio, di cui 16 al Don Bosco. Negli anni racconta di aver osservato un decadimento: organici sempre più carenti (a Pisa l’organico è 254, gli assegnati sono 204, ma gli operativi 189) e sempre meno fondi a disposizione. "Noi, per esempio, lavoriamo in un ambiente dove le malattie sono presenti - spiega - ma a volte a mensa non ci sono neppure il sapone e la carta per lavarsi e asciugarsi le mani. Anche ai detenuti spesso mancano cose elementari come la carta igienica, il sapone, lo straccio. Diventa un problema di diritti umani". È un momento di tensione nelle carceri italiane.

"Non credo che questo accada perché ci sono tanti stranieri, di nazionalità diverse e con problematiche diverse. Il vero nodo è il sovraffollamento. Quando c’è stato l’indulto per qualche mese le cose sono un po’ migliorate, ma poi si è ricominciato da capo. Da un paio d’anni a questa parte si sente di più anche la carenza di personale e spesso dobbiamo fare turni massacranti. È successo che per una persona in malattia, un collega abbia dovuto fare dalle 8 alle 18". I cellulari, dentro al carcere, non entrano. Anche per gli agenti, durante il lavoro, si interrompe qualsiasi possibilità di contatto con il mondo esterno.

"Quando varco il portone per tornare a casa lascio il Don Bosco alle spalle - racconta Coviello - E ogni giorno provo un grande senso di libertà. Non è facile fare tante ore in carcere. Il rischio è quello dello stress. Se ne accorge anche mia figlia quando ci sono momenti lavorativi più duri". Sovraffollamento e tensioni sfociano spesso in atti di autolesionismo che gli agenti dicono essere in certi casi un modo per attirare l’attenzione e ottenere qualcosa.

Ma c’è chi non regge la pressione di un ambiente dove i diritti sono compressi e arriva al gesto estremo di togliersi la vita. "Anche per noi agenti la tensione emotiva è sempre molto alta - dice la sindacalista - I colleghi che fanno i turni nelle sezioni se hanno soggetti a grande sorveglianza sentono di avere una forte responsabilità. Se ci sono casi a rischio, se riteniamo che fra i detenuti ci possano essere comportamenti dagli esiti non decifrabili, facciamo la segnalazione ai medici e agli operatori. Vogliamo sapere come comportarci e come poter intervenire".

Verona: detenuto assiste compagno malato e scopre altruismo

di Alessandra Turrisi

 

Avvenire, 8 novembre 2009

 

"Fare reati non conviene. Ricordati che i furbi stanno fuori, e più furbi sono quelli che i soldi li fanno in modo regolare. Fatti furbo, tirati fuori! Un abbraccio, tuo fratello".

Ion Mircea, il suo è uno pseudonimo, ha preso otto anni della sua vita e li ha buttati dietro le sbarre per traffico di droga e rapina. Rimpiange la sua vita fuori. È detenuto a Latina, ma non matura rancori, non si abbrutisce. L’unica cosa cui pensa è mettere in guardia il fratellino rimasto fuori. "Il coltello che porti in tasca è il tuo passaporto per il carcere", gli scrive.

È lui il terzo classificato del Premio Castelli, il concorso letterario per i detenuti bandito dalla Società San Vincenzo de Paoli e dalla Fondazione Ozanam e quest’anno intitolato "Fai agli altri. Quello che vorresti fosse fatto a te". Un argomento difficile quando gli errori del passato sono incubi quotidiani. Eppure sono in tanti a decidere di voltare pagina. È un cambiamento lento, intimo, mai urlato. Affidato a lettere, pensieri, riflessioni, racconti. Perché scrivere è catartico. Soprattutto quando, chiusi in cella, senza telefono, né sms, né Internet, ci si ritrova soli con la propria coscienza.

Non importa che l’autore sia un ergastolano, un omicida, un rapinatore, un trafficante di droga. C’è chi continua a dichiararsi innocente, pur con una condanna definitiva a vent’anni, e chi ritiene giusta la sua pena. Ma tutti vogliono mettere a frutto quell’"ozio obbligato, per guardare il futuro con rinnovata speranza, per costruire orizzonti di solidarietà e di cittadinanza attiva", come spiega Giovanna Badalamenti, coordinatrice della Società San Vincenzo, durante la cerimonia di premiazione del concorso nella casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Presenti la direttrice del carcere Laura Brancato, due giurati, Romolo Pietrobelli e Italo De Curtis, e lo scrittore Roberto Calia.

Poco importa se il tema "fai agli altri" diventa più spesso "fai a me". "In fondo - osserva Claudio Messina, delegato del settore Carcere e devianza è come guardarsi allo specchio e chiedere aiuto a quell’immagine riflessa che vuole essere anch’essa liberata". Sono arrivati 145 elaborati, 13 dei quali riuniti nel volume "Passi ritrovati ", distribuito ieri a tutti i detenuti presenti. E, curiosando tra gli scritti, si apre uno spaccato di vita reclusa, che lotta per non soccombere, capace di accostare i propri drammi ad altre realtà difficili.

Enzo Falorni, detenuto a Volterra, secondo premio, usa lo scambio epistolare per alleviare le sofferenze di Anna Maria, una donna invalida abbandonata da tutti, che pronuncia il suo nome in punto di morte nel pensionato in cui è ricoverata. Giovanni Sole, 26 anni, condannato per omicidio, a Pagliarelli, riceve una menzione speciale per il suo scritto ispirato a Leopardi durante i 50 giorni di isolamento e dedicato a Stefano Cucchi, morto in carcere una settimana dopo l’arresto. Altra menzione per Maurizio Buttitta, condannato a 7 anni e mezzo per abusi sulla figlia. Si dichiara da sempre innocente, parla di trappola ordita dalla ex moglie, e decide di scrivere la sintesi della sua vicenda, "un terremoto per la mia vita, ma ben poca cosa rispetto a chi nel terremoto d’Abruzzo ha perso tutto".

Perché è possibile vivere la solidarietà anche dietro le sbarre. Lo dimostra John Jail, altro pseudonimo dietro al quale si nasconde un ergastolano di Verona, capace di curare un compagno di sventura e offrirgli la sua amicizia. John racconta di Frank, un americano alto due metri affetto da problemi psichici, ridotto a vivere tra gli escrementi perché incapace di badare a se stesso. John se ne fa carico, fa in modo che venga trasferito nella sua cella, gli cambia sei pannoloni al giorno, gli lava abiti e lenzuola, lo aiuta a liberarsi dagli psicofarmaci, a tornare una persona normale.

"Certe volte - scrive - , lo guardavo di nascosto ed ero talmente felice del suo miglioramento che mi venivano le lacrime agli occhi". Ma Frank viene trasferito, la separazione è straziante. Poi la morte assurda, per soffocamento con una foglia di lattuga. "Ho continuato un rapporto epistolare con la mamma di Frank - aggiunge - , che continuava a ringraziarmi. Non ha mai capito che lui ha dato molto più a me di quanto io abbia potuto dare a lui. Mi ha insegnato cosa significa veramente amore per il prossimo". La storia di John Jail ha vinto il primo premio.

Mircea mette in guardia il fratellino: attento, il coltello che hai in tasca è il tuo passaporto per il carcere. Premiati vincitori del concorso letterario per detenuti della "San Vincenzo" Jail, condannato per omicidio, cura per anni Frank, detenuto con problemi psichici e ridotto a vivere nella sporcizia: gli cambia i pannoloni, gli lava abiti e lenzuola. E scopre l’altruismo.

Verona: tra detenuti e disabili "un’alleanza" attraverso i cani

 

L’Arena di Verona, 8 novembre 2009

 

"Il cane, miglior amico dell’uomo, può essere la porta, il ponte di comunicazione, di conoscenza e dialogo tra detenuti e persone diversamente abili e tra questi e la società". Lo ha detto a Verona, Stefano Valdegamberi, assessore regionale alle politiche sociali del Veneto, aprendo i lavori del convegno "H-Argo. Diversamente abili e detenuti: insieme per una cultura d’integrazione attraverso la cinofilia".

L’assessore ha parlato dell’esperimento a Verona, del "modo originale e innovativo di fare integrazione tra mondi diversi e isolati nella società, e sul versante del carcere, di costruire sicurezza facendo innanzitutto rieducazione del detenuto e mantenendone la dignità".

"Ho verificato", ha sottolineato, "la validità dell’iniziativa e mi congratulo con chi l’ha proposta e portata avanti, dalle associazioni di volontariato ai detenuti. L’incontro tra di loro, favorito dal rapporto con un animale come il cane, fa nascere la comunicazione, il dialogo e magari una svolta di vita e una relazione significativa".

Per Valdegamberi si tratta "non solo del superamento di una barriera, quella dell’esclusione sociale, ma del valore aggiunto dell’esperienza delle diverse declinazioni del vivere". Per Valdegamberi queste operazioni servono anche a creare un contesto solido per la sicurezza dei cittadini perché ridanno al carcere anche la sua valenza rieducativa. "Il progetto ha interessato una trentina di detenuti e una quindicina di cani. I detenuti hanno addestrato i cani che sono già accompagnati o si accompagneranno a persone disabili.

Imperia: detenuto 24enne tenta il suicidio, salvato in extremis

 

La Stampa, 8 novembre 2009

 

Il carcere di Imperia non è mai stata così pieno: i detenuti sono 130, in larga parte stranieri. In settimana una delegazione di agenti penitenziari andrà a protestare in Prefettura.

Nuovo tentativo di suicidio al carcere di Imperia. Un detenuto egiziano di 24 anni ha provato a impiccarsi con un lenzuolo, ma è stato soccorso in tempo dagli agenti penitenziari. Il giovane, arrivato da Milano a scontare una pena di 2 anni per spaccio di droga, è per fortuna fuori pericolo. L’incremento di tentativi di suicidio e di atti di autolesionismo sono effetto del sovraffollamento. Il carcere di Imperia non è mai stata così pieno: i detenuti sono 130, in larga parte stranieri. In settimana una delegazione di agenti penitenziari andrà a protestare in Prefettura.

Cremona: 17enne, incarcerato ingiustamente, fa causa a Stato

 

Ansa, 8 novembre 2009

 

Ha trascorso 73 giorni in cella nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, ma era innocente. È accaduto a un giovane cremonese che per tentare di lasciare la sezione accoglienza è arrivato anche a tagliarsi le vene.

Un’altra dozzina di giorni li ha passati agli arresti domiciliari. Tutto questo prima che l’autore della rapina per la quale era stato arrestato si presentasse davanti ai giudici e si assumesse la responsabilità del reato. Ora, il giovane chiede allo Stato i danni.

I giudici hanno quindi deciso di liberare l’innocente e condannare il rapinatore, rintracciato dai parenti del ragazzo finito ingiustamente in cella. Protagonista dell’accaduto è Daniele S., cremonese, al tempo dei fatti minorenne. Una vicenda che approderà di nuovo davanti ai giudici domattina: alle 9, dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia, sezione minori, si svolgerà la prima udienza del processo per ingiusta detenzione.

Il procedimento è stato intentato dal giovane, assistito dall’avvocato Mario Tacchinardi di Cremona, e vede sull’altro fronte l’avvocatura dello Stato. La riparazione richiesta ammonta a 37.000 euro. Poi si dovranno valutare i danni patiti da Daniele che si è ritrovato in carcere a 17 anni. Tutto inizia il 17 marzo 2007, a Mantova: due ragazzini, un bielorusso e un marocchino, fermano un passante e lo rapinano del portafoglio.

Delle indagini si occupano i carabinieri di Mantova. Le attenzioni dei militari si concentrano sul bielorusso, che nell’estate seguente torna in patria. Il complice marocchino riesce a far perdere le tracce. Al suo posto i carabinieri bloccano Daniele che in precedenza aveva avuto qualche piccolo problema con le forze dell’ordine. Decisiva si rivela la testimonianza del rapinato: pur con qualche incertezza, indica Daniele sia tra le foto di nove ragazzi sia nel riconoscimento di persona. L’11 giugno del 2007 il giovane cremonese viene arrestato. I congiunti del giovane arrestato chiedono aiuto al marocchino che si costituisce e Daniele torna libero.

Bari: domani seminario sui percorsi inclusione per ex-detenuti

 

Adnkronos, 8 novembre 2009

 

Si terrà domani, martedì 10 novembre, nella sala del consiglio provinciale di Bari, il seminario Percorsi di inclusione socio-lavorativa. Transizione pena-lavoro: dalla sperimentazione al modello operativo. L’incontro è promosso da Italia Lavoro e dalla provincia di Bari per presentare i risultati del progetto Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti, sperimentazione che ha promosso il reinserimento lavorativo di chi esce dal carcere.

All’incontro prenderanno parte le istituzioni, innanzitutto la provincia e il comune di Bari; in particolare, porteranno i loro saluti il presidente della provincia di Bari, Francesco Schittulli, e il sindaco, Michele Emiliano, e interverranno come relatori Mary Rina, assessore provinciale alle Politiche del lavoro, e Giuseppe Quarto, assessore provinciale alle Politiche sociali.

Interverranno, tra gli altri, Natale Forlani, presidente di Italia Lavoro; Gaspare Sparacia, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria; Francesca Perrini, direttore centro di giustizia minorile di Bari. Parteciperanno, inoltre, rappresentanti delle imprese e delle cooperative coinvolte nella sperimentazione. Le conclusioni sono affidate a Elena Gentile, assessore regionale alla Solidarietà sociale.

La sperimentazione, promossa dai ministeri del Lavoro e della Giustizia e attuata da Italia Lavoro, ha realizzato percorsi di tirocinio formativo - professionalizzante da svolgere in azienda, destinati a detenuti nella condizione di fine pena, misura alternativa, beneficiari dell’indulto liberati o in fine pena o in misura alternativa; minori in età adulta, in una logica di supporto al reinserimento nel tessuto sociale e di prevenzione della recidiva, e di risposta non emergenziale, ma sistematica e strutturata, al problema dell’inclusione socio-lavorativa degli ex-detenuti.

Le azioni svolte hanno toccato quasi tutto il territorio nazionale, sviluppandosi in 12 regioni e 46 province. Sono 330 i contratti di lavoro stipulati al termine di percorsi di tirocinio in azienda. Nel 65% dei casi di assunzione, dei quali il 28% a tempo determinato e il 37% a tempo indeterminato, le aziende hanno ricevuto un incentivo all’assunzione. In Puglia, sono 360 i tirocini avviati (il 51% nella provincia di Bari), dei quali 277 portati a termine, e 30 le assunzioni a fine tirocinio: 14 in provincia di Bari, 6 in provincia di Foggia, 8 in provincia di Lecce, 2 in provincia di Taranto.

Lucera: (Fg): giustizia ripartiva, una "scommessa" dal carcere

di Riccardo Zingaro

 

www.luceraweb.it, 8 novembre 2009

 

Nonostante continui da tempo la processione di politici nelle carceri italiane, evidenziando problemi arcinoti ma che in realtà proprio loro dovrebbero invece risolvere, c’è chi prova dal basso e soprattutto dal "di dentro" ad attuare soluzioni mirate ad alleviare le condizioni e costruire percorsi migliori per la vita dei detenuti, soprattutto per quelli "candidati" al recupero e nuovo inserimento della società civile.

Una delle iniziative ancora praticamente sconosciute dalle nostre parti, ma già piuttosto diffusa in diverse regioni del Nord, è la cosiddetta "giustizia riparativa", ossia un modo diverso di raggiungere una sorta di pace sociale tra il reo, la vittima e l’ambiente che li circonda, attraverso la figura dei "mediatori". In questa maniera si ricercano le possibili soluzioni agli effetti dell’illecito commesso e soprattutto l’impegno fattivo per la riparazione delle sue conseguenze sulla società e anche, in un tempo successivo, sulla singola vittima o i suoi familiari.

L’idea di attuarla anche a Lucera sta frullando da qualche tempo nella testa di Davide Di Florio, il direttore della casa circondariale, che per ora ha già incassato l’assenso dell’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), l’organo deputato appunto alla sorveglianza e direzione di tutte le iniziative che riguardano i detenuti e il mondo esterno.

Nello stesso tempo proprio Di Florio ha avviato una serie di colloqui informali anche con l’assessore alle Politiche sociali Antonio Fortunato, esponente delegato dal Comune di Lucera, istituzione locale per eccellenza che potrebbe essere direttamente coinvolta nel progetto, utilizzando pur pochissimi reclusi, e debitamente selezionati, in lavori sociali e rigorosamente a costo zero.

"Si tratta di una sorta di scommessa che cercheremo di attuare e vincere - ha spiegato Davide Di Florio a Luceraweb - ma non prima di aver attentamente valutato, ponderato e riflettuto su ogni singolo aspetto della questione che fa partecipe istituzioni, persone e relative professionalità. Tutti insieme, infatti, dalla direzione all’amministrazione, e senza mai prescindere dal contributo fondamentale che solo la polizia penitenziaria può e sa dare, ci dobbiamo concentrare nell’individuazione di quegli elementi sui quali questo esperimento può avere grosse percentuali di successo".

Davide Di Florio ha superato la soglia dei 30 anni di esperienza come dirigente nel Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, con gli ultimi 14 trascorsi a Lucera e gli altri distribuiti tra le più importanti carceri pugliesi, con passaggi in Basilicata, nella Locride e anche l’icona-spauracchio di Porto Azzurro in cui è stato vice direttore.

La casa circondariale di Lucera ospita attualmente 230 detenuti, a fronte di una capienza standard di 170, mentre sono circa 130 gli uomini della polizia penitenziaria che ruotano attorno a una struttura che quindi è una piccola città nella città.

"Ormai gli istituti di pena hanno il dovere e la necessità di offrire occasioni di riscatto nei confronti di chi vi entra - ha aggiunto Di Florio - anche se poi non tutti le accettano e le cercano. Noi, anche con questo tipo di esperimento, tenteremo di lavorare e coinvolgere quei detenuti che ci hanno dimostrato un atteggiamento di disponibilità al ritorno del rispetto della legge, alla responsabilità e al desiderio di convivenza pacifica".

E in effetti con il Comune di Lucera il discorso potrebbe sfociare nella firma di un vero e proprio protocollo di intesa in cui le parti si impegnano a dare il rispettivo contributo. In realtà Palazzo Mozzagrugno non è nuovo a iniziative del genere, visto che già dall’estate 2008 ha offerto opportunità simili attraverso lo strumento delle "borse lavoro" con cui anche 16 ex detenuti sono stati impiegati in una serie di lavori riguardanti la pulizia e l’igiene ambientale, la fruizione dei monumenti e la manutenzione e dipintura di arredi urbani.

Palermo: premiati i vincitori Premio letterario "Carlo Castelli"

di Adriana Falsone

 

La Repubblica, 8 novembre 2009

 

Scrivere per "evadere". "Quando sei costretto a stare cinquanta giorni in isolamento è l’unica cosa che puoi fare. Libri, carta e matita non ti saranno mai negati". Così, Giovanni Sole ha affidato a una lettera l’angoscia di quei momenti, trasformando la solitudine e la disperazione in un racconto. Attraverso le sbarre fissavo costantemente la montagna, proprio come Giacomo Leopardi ha fatto con la sua siepe, ne L’infinito.

Ho immaginato quello che c’è fuori, quel mondo che da sette anni sogno e che per tanto tempo ancora potrò vedere solo con la mente". Sole ha 26 anni ed è detenuto nel carcere Pagliarelli per omicidio. La sua lettera ha vinto una menzione speciale nel premio letterario Carlo Castelli, bandito dalla società di San Vincenzo De Paoli e riservato a tutti i detenuti degli istituti penitenziari d’Italia. Tre premi e tredici menzioni sul tema "Fai agli altri quello che vorresti fattoa te". Centoquarantacinque, in tutto, i brani presentati al concorso, ora raccolti nel volume "Passi ritrovati".

"Dedico questa vittoria a Stefano Cucchi, morto in carcere dopo le percosse, a quello che ha subito - dice Giovanni Sole - La nostra situazione non è facile. Siamo tanti, troppi: ci hanno detto che le lezioni per il diploma al momento non le possiamo neppure seguire: non c’è l’aula". Il Pagliarelli, diretto da Laura Brancato, soffre come gli altri istituti del sovraffollamento: su una capienza di 800 posti ci sono quasi 1.300 detenuti. Nelle stanze da 6 si dorme in 9. E in Sicilia su una disponibilità di poco meno di 5 mila posti, i detenuti sono più di 7.600.

A soffrire non sono solo i carcerati, ma anche gli operatori, a cui vengono richiesti straordinari e sforzi in più. Ieri mattina la cerimonia di consegna dei premi, con i volti sorridenti dei detenuti del Pagliarelli in prima fila a fare il tifo per i propri compagni, i tre siciliani che hanno ottenuto la menzione speciale: "Quante similitudini tra terremotati dell’Abruzzo e me - scrive Maurizio Buttitta nella sua lettera -.

L’ansia e il timore di perdere tutto è paragonabile a quanto ho sofferto nei lunghi anni del mio processo, quando i giorni che precedevano le varie udienze erano un misto di timori e paure che alteravano anche il mio stato fisico per la consapevolezza di perdere un bene superiore come la libertà". Buttitta, sessant’anni compiuti meno di un mese fa, ex dipendente di un negozio di ottica a Palermo, dovrà scontare ancora cinque anni di carcere.

"Le nostre condizioni sono drammatiche e quelle igieniche a volte lasciano a desiderare. Siamo in 2 in una cella che dovrebbe essere singola. E le giornate sono tutte uguali. Ho saputo dei corsi di diploma in operatore turistico, ma la beffa è che pur avendo esibito il libretto universitario - mi mancavano poche materie alla laurea - non trovando il diploma di licenza media, non mi hanno fatto fare l’esame. Non l’hanno accettato. Penso costantemente a quanti mi aspettano fuori e non vedo l’ora di riabbracciarli. La nostra vita qui non sembra umana". I giorni in prigione sono duri perché, in periodo di crisi, anche lì si taglia sull’assistenza. Che è già al minimo. Non ci sono soldi neppure per comprare un busto a un detenuto africano che soffre di problemi alla schiena.

Ha provveduto l’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia, presieduto da Lino Buscemi. In carcere si gioisce di piccole cose, come la possibilità di incontrare la propria moglie per la prima volta senza un vetro in mezzo: "Sono felice che Antonella sia qui con me per il premio - racconta Gaspare Cosenza, in carcere da 18 anni, con la prospettiva di affrontarne altri 12 dentro a una cella - È stata una bella sorpresa". Cosenza è autore di "Me cuntava mia nonna", volumetto fuori concorso che raccoglie detti e proverbi sulla Sicilia: "Così ho impegnato le mie giornate qui, sempre troppo lunghe e difficili".

Ad aggravare la situazione delle prigioni, la nuova legge che istituisce il reato di clandestinità. La metà dei detenuti immigrati non ha il permesso di soggiorno: molti non resistono alla vita carceraria e ormai, in media, tre alla settimana chiedono il rimpatrio. Chi non ha nulla da perdere, sceglie di rimanere qui. E magari studia. Ma senza permesso di soggiorno l’Università di Palermo non accetta iscritti. La nuova convenzione tra Ateneo e carcere non è ancora partita e si sta valutando se accettare o no la deroga.

Un immigrato dell’Est di 24 anni, pur di studiare Giurisprudenza, nella speranza di costruirsi un futuro una volta libero, ha accettato il trasferimento nel carcere di Torino dove è la convenzione, invece, è attiva. Una colletta gli assicurerà il testo di Diritto pubblico. Un altro libro da leggere dietro le sbarre.

Immigrazione: bilancio scarso per nuovo reato di clandestinità

di Giusi Marcante

 

Il Manifesto, 8 novembre 2009

 

Dopo il fallimento delle ronde, scarso anche il bilancio del nuovo reato di clandestinità: a Bologna nessuna espulsione, mentre gli stranieri neanche si presentano davanti al giudice. Urbinati: "Il governo fa sempre appello alla volontà popolare, ma questa volta il popolo lo ha bocciato senza appello" Nessun immigrato si presenta davanti al giudice di pace

Mercoledì è giorno di udienze per il nuovo reato di clandestinità al giudice di pace di Bologna. Ma di clandestini neanche l’ombra visto che quelle che vengono affrontate sono le denunce a piede libero. Fantasmi che diventano un lungo elenco di contumaci che non pagheranno mai le migliaia di euro cui verranno condannati. A tre mesi dall’approvazione delle nuove norme sulla sicurezza, dopo il flop delle ronde il bilancio del nuovo reato d clandestinità non brilla per risultati. L’aula dove la giudice Nicoletta Maccaferri sta presiedendo è invece affollata di poliziotti, carabinieri, polizia di frontiera e vigili urbani. Tutti abbastanza scuri in volto perché sanno che rischiano di attendere tutta la mattina per poi sentirsi dire che non c’è bisogno della testimonianza perché vale la relazione di servizio allegata al fascicolo. "Diciamocelo chiaramente, se questo articolo 10 bis ce lo tolgono di torno ci fanno anche un piacere" dice uno degli agenti che pazientemente attende il suo turno. Tutti gli uomini che sono in aula, va da sé, non sono in strada o al lavoro nei commissariati e nelle caserme. E l’impressione è quella che eviterebbero volentieri di passare il tempo nelle aule pur confortevoli del giudice di pace. A Bologna dal 16 settembre, sono stati affrontati circa 100 procedimenti di stranieri denunciati a piede libero, altre 30 sono state le udienze in carcere per clandestini arrestati per altri motivi ma denunciati anche ai sensi del 10 bis. Nessuno ovviamente è stato condannato alla pena alternativa dell’espulsione prevista dalla legge. Un orientamento che prevale tra i giudici di pace in Emilia Romagna e non solo come conferma l’avvocato Massimo Libri che è anche vice presidente dell’Associazione nazionale dei Gdp: "L’espulsione è applicata solo in via residuale e quando è già prevista dal punto di vista amministrativo". Il giudice Libri è uno di quelli che continua a celebrare le udienze mentre il collega Mario Luigi Cocco ha accolto l’eccezione di legittimità costituzionale della procura e ha inviato gli atti alla Consulta. Anche la giudice Maccaferri non ha accolto l’istanza della procura e così altri giudici bolognesi.

In quasi sei ore di udienza il giudice tratta 29 fascicoli: alle 15 il bilancio sarà di quattro condanne all’ammenda, quattro fascicoli rimandati alla procura per nuove indagini, un’assoluzione per tenuità del fatto, tre non luogo a procedere perché si trattava di persone che si stavano imbarcando sull’aereo per lasciare l’Italia (la nuova legge non permette di andarsene senza finire denunciato) e 17 rinvii a febbraio 2010. Così i clandestini rimangono clandestini ma la macchina giudiziaria viene inutilmente affaticata.

Libri non entra nel merito della norma ma sul rischio che diventi una valanga sulla fragile organizzazione degli uffici del giudice di pace è netto. "Noi l’avevamo già detto ma nessuno ci ha ascoltato, il prossimo aprile vanno via dieci colleghi. Come faremo?". Libri ricorre ad un’immagine: "Hanno organizzato un viaggio senza prevedere la benzina". E si fa più amaro quando, prendendo a prestito Giorgio Gaber, ricorda che "nessuno si interessa delle persone che prendono l’autobus". "Noi in campo penale facciamo processi importanti per i cittadini su vicende che riguardano la vita di tutti i giorni. Inevitabilmente subiranno dei ritardi".

I fantasmi di ieri hanno nomi e cognomi e tante storie. Come quella del bangaldese Islam Saiful cui la Questura a luglio non ha rinnovato il permesso di soggiorno perché guadagnava troppo poco (quanti italiani riescono ad arrivare a 8mila euro in un anno?). In poche settimane è stato fermato due volte e ha fatto la domanda per l’ultima sanatoria. Così il suo legale, l’avvocato Andrea Ronchi, ha ottenuto che l’udienza venga rinviata. Se ne parlerà il 24 febbraio 2010. Non luogo a procedere per l’ucraina Maria Boichiuk denunciata all’aeroporto mentre rientrava in patria; un caso per nulla isolato visto che l’agente della Polaria spiega: "Anche ieri abbiamo dovuto denunciare dodici persone". Mohamed Lawen è invece un kurdo di nazionalità siriana, la polizia l’ha fermato alla stazione con la moglie il 26 agosto.

Lei era finita al Cie, per lui non c’era posto ma la coppia voleva andare in Svizzera. È stato assolto per tenuità del fatto come ha sostenuto il loro legale, l’avvocato Alfonso Marra. Jakob Gusi è un ghanese trovato il 12 agosto dai carabinieri in un appartamento di un paese dell’hinterland bolognese. Era già stato arrestato per violazione dell’art. 14 della Bossi-Fini ed era finito al Cpt.

L’avvocato Letizia Mongiello ha provato a sostenere l’inapplicabilità della legge visto che lo straniero era in Italia da molto tempo e comunque prima dell’entrata in vigore del nuovo reato. Il giudice ha rigettato e ha condannato il ghanese a 3500 euro di ammenda. La giovane legale fa parte dello studio dell’avvocato Alessandro Gamberini che, dopo che saranno depositate le motivazioni, intende ricorrere in Cassazione su questo punto.

Cina: giustiziati nove detenuti uiguri, condannati per omicidio

 

Associated Press, 8 novembre 2009

 

La autorità cinesi hanno giustiziato nove membri della minoranza uigura, condannati a morte per i violenti disordini scoppiati nella provincia di Xinjiang, costati la vita ad oltre 200 persone: lo ha reso noto l’agenzia di Stato Xinhua. Le esecuzioni - la cui data non è stata specificata - hanno avuto luogo dopo che le sentenze di condanna sono state approvate dalla Corte Suprema, come richiesto dalla legge, ha precisato Xinhua.

I nove erano stati giudicati colpevoli di omicidio e altri reati; secondo quanto reso noto da Xinhua altre 20 persone sono state incriminate formalmente oggi per la morte di 18 persone, avvenuta durante i disordini.

 

 

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