Rassegna stampa 11 novembre

 

Giustizia: violenze e sovraffollamento, il sistema non regge più

di Emilia Patruno

 

Famiglia Cristiana, 11 novembre 2009

 

Il Governo dovrebbe approvare quanto prima il Piano di edilizia carceraria, che prevede la costruzione di 24 nuovi penitenziari. Ma molti dicono che non basterà.

E anche quota 65 mila è stata sfondata. L’ultima rilevazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) fotografa una situazione che il suo stesso capo Franco Ionta, nel Piano carceri più volte annunciato come imminente dal guardasigilli Alfano, ha definito da "emergenza nazionale". I detenuti sono 65.225 - contro un limite di tollerabilità di 63.568 posti - e, di questi, 24.085 (circa il 37 per cento) sono stranieri, mentre 31.346 (quasi metà) in attesa di giudizio. Tensioni, carenza di agenti, suicidi (il più eclatante quello della neobrigatista Diana Blefari Melazzi) o morti sospette (il caso di Stefano Cucchi) hanno indotto Ionta a invitare il personale penitenziario a "mantenere i nervi saldi" e a "lavorare con lucidità". Tutto questo in vista del Piano carceri che il Governo dovrebbe portare quanto prima, forse nel giro di un mese, in Consiglio dei ministri.

"La preoccupazione per l’ordine e la sicurezza pubblici, le manifestazioni di protesta dell’estate, l’attenzione da parte dei media e di numerosi parlamentari", scrive Ionta, "sostanziano, all’evidenza, una situazione di emergenza e legittimano l’intervento eccezionale".

Non più con indulti o amnistie (la Lega non lo consentirebbe), ma con la costruzione di nuove carceri, per arrivare nel 2012 a 21.479 posti in più. Il piano prevede la realizzazione di 24 nuovi penitenziari, di cui nove "flessibili" (prima accoglienza o per detenuti con pene lievi) costruiti nelle grandi aree metropolitane (Milano, Napoli, Bologna, Torino, Firenze, Roma, Genova, Catania e Bari), a cui se ne aggiungono altri otto in aree strategiche (Pordenone, Pinerolo, Paliano, Bolzano, Varese, Latina, Brescia e Marsala), anch’essi flessibili e ciascuno da 450 posti, per una spesa totale di 408 milioni di euro, e da realizzare seguendo le procedure veloci utilizzate per le nuove case dell’Aquila.

E ancora: altre sette carceri tradizionali (Roma, Milano, Nola, Sciacca, Sala Consilina, Venezia e Savona, 4.429 posti), più 47 nuovi padiglioni in penitenziari già esistenti. L’intera operazione vale circa 1,4 miliardi di euro. Per fare ciò, Ionta punta a diventare commissario delegato. Nel piano c’è poi l’ipotesi di una modifica al Codice penale su cui, però, la Lega sembra debba ancora sciogliere la riserva: come ulteriore intervento di alleggerimento del sovraffollamento carcerario si pensa di concedere, con una procedura semplificata, gli arresti domiciliari ai detenuti che hanno un residuo di pena non superiore a un anno di carcere (a esclusione dei condannati per reati gravi e per cui è previsto l’arresto in flagranza). In caso di evasione, la punizione potrebbe arrivare fino a tre anni di carcere. In questo modo i penitenziari potrebbero essere alleggeriti di circa 2-3 mila detenuti.

"Intanto, ora siamo al suicidio del sistema carcerario", dice l’avvocato Desi Bruno, coordinatrice nazionale Garanti territoriali delle persone detenute. "I recenti tragici episodi hanno portato grande attenzione mediatica sul nostro sistema di esecuzione della pena. È desolante constatare che il pianeta carcere fa notizia solo quando accade lo scandalo. Chi si occupa di carcere aveva espresso in tempi non sospetti la seria preoccupazione per "i numeri" delle presenze negli istituti di detenzione, insostenibili".

 

In che senso, avvocato Bruno?

"Tutte le carceri del Paese sono al limite della resistenza per il sovraffollamento, con tutto il corollario che ne può derivare in termini di violenza, disperazione, violazione della dignità delle persone. Il disumano e sempre più colpevole sovraffollamento rende arduo il lavoro di chi in carcere ci lavora. E se la situazione ancora non esplode è soltanto grazie al grande senso di responsabilità dei detenuti e allo spirito di servizio e all’abnegazione degli operatori penitenziari".

 

Si costruiranno nuove carceri...

"Il Piano non pare idoneo a farci uscire dall’emergenza, non dicendo come fronteggiare la situazione attuale e non considerando che, anche se venissero rispettati i tempi previsti, con l’ingresso di circa mille detenuti al mese nel 2012 i posti approntati già non sarebbero più sufficienti a dare una risposta adeguata. Nulla viene detto, inoltre, in relazione al personale, la cui carenza attualmente è cronica, che dovrebbe insediarsi nelle nuove strutture".

 

Ci sarebbe un’altra soluzione?

"Sì, e passa attraverso una puntuale applicazione, per i condannati in via definitiva, della legge Gozzini del 1986; si potrebbe recuperare il senso delle misure alternative, che concorrono ad abbattere i numeri della recidiva. Una sfida culturale che il nostro Paese prima o poi dovrà affrontare. Si può provare insicurezza di fronte all’ipotesi di un condannato che sconta la pena in misura alternativa, ma la percentuale di abbattimento della recidiva in questi casi è straordinaria, perché si responsabilizza il soggetto. Un diverso uso della misura cautelare carceraria, coerente con la legge, impedirebbe a migliaia di persone di entrare in carcere per pochi giorni, con oneri immensi e inutile impatto con la carcerazione".

 

Si può fare altro nell’immediato?

"La riforma del Codice penale, la riscrittura delle leggi su droghe e immigrazione, la cessazione del legiferare in via di emergenza inasprendo le pene e aumentando le figure di reato, l’abrogazione della cosiddetta "ex Cirielli", per quanto riguarda la disciplina della recidiva inciderebbero in maniera sensibile sul numero delle carcerazioni. Solo interventi di riforma strutturali rispetto al tema della pena potranno garantire un approccio risolutivo; la carcerazione dovrebbe riguardare solo i casi in cui vengono lesi beni di primaria importanza, con una riforma del Codice penale che non veda il carcere come unica pena ma preveda altre tipologie di sanzioni, tra cui i lavori socialmente utili".

 

Che cosa pensa degli episodi più drammatici degli ultimi giorni?

"Le morti di detenuti rappresentano ormai la quotidianità e l’impotenza colpevole di un sistema alla rovina: i Garanti denunciano con forza la paralisi che sembra colpire quelli che hanno responsabilità di governo, incapaci di usare gli strumenti già esistenti per invertire la rotta. Sembrano preoccupati di non incrinare una concezione della sicurezza che alimenta la paura e produce solo sofferenza e disagio".

Giustizia: le carceri che scoppiano in attesa di un "piano" inutile

di Patrizio Gonnella

 

www.linkontro.info, 11 novembre 2009

 

Non si erano mai visti tanti detenuti nelle patrie galere dall’amnistia di Togliatti in poi. Oltre 65 mila persone rinchiuse in prigioni che ne possono contenere al massimo 43 mila. Quelli in eccedenza dormono in letti a castello a quattro piani che rasentano il soffitto, per terra su materassi, di giorno stanno a turno in piedi. Eppure, nonostante la condizione drammatica di vita negli istituti penitenziari italiani, nonostante i plurimi annunci del ministro Angelino Alfano, non c’è traccia del Piano carceri nelle ultime decisioni del Governo.

Il piano "giustizia" governativo è un’altra cosa e serve a ben altri scopi. Riguarda quegli oramai pochi processi che vanno a dibattimento, ossia i processi dove ci sono imputati che possono permettersi avvocati ben retribuiti. Una buona parte della popolazione detenuta va invece in galera dopo essere stata difesa da avvocati di ufficio. Si tratta di immigrati e tossicodipendenti che compongono oltre il 60% del totale dei reclusi.

È il momento che l’opposizione politica e sociale si stringa intorno a un piano ombra che contenga norme per ridurre il gap di giustizia tra poveri e ricchi, tra chi ha soldi per pagarsi la prescrizione e chi non avendone si fa più galera di quanta ne meriterebbe. Antigone ha elaborato una serie di proposte "a breve termine", "a medio termine" e "a lungo termine" per superare l’emergenza penitenziaria.

In primo luogo va modificata la legge Fini-Giovanardi, la normativa con di gran lunga il maggior impatto sul sistema penale e penitenziario, tanto per le condotte che punisce, quanto per il fenomeno che disciplina, ovvero quello delle droghe. Cifre alla mano, dei circa 92.800 detenuti entrati in carcere nel 2008, 30.528 erano tossicodipendenti (mai così tanti, il 33%, percentuale superiore del 6% rispetto all’anno precedente), e 28.795 (mai così tanti, il 31%) entravano per la violazione del Testo Unico sugli stupefacenti. I due gruppi sono ovviamente in parte sovrapposti (ci sono anche gli spacciatori tossicodipendenti, e non sono pochi) ma è chiaro come l’impatto della legge sulle droghe sul sistema penitenziario, e sul suo sovraffollamento, sia di assoluta rilevanza.

L’altro corno del sovraffollamento è determinato dalla legge sull’immigrazione. Se nel 1998 sono entrati nelle carceri italiane 58.403 detenuti italiani e 28.731 detenuti stranieri, nel 2008 si registrava l’ingresso di 49.801 detenuti italiani e di 43.099 detenuti stranieri. Un cambiamento radicale dunque, dovuto anche alla maggiore selettività penale e penitenziaria a carico degli stranieri. Quel che si auspica è un ripensamento strutturale delle politiche italiane in tema di migrazioni. In attesa di questo ripensamento, almeno andrebbe abrogato il reato di mancata ottemperanza all’ordine di espulsione. Nel frattempo vanno rilanciate con forza sanzioni e misure alternative alla pena che aiutino nell’immediato a decongestionare il sistema e a liberarlo da persone che hanno da scontare pochi giorni o pochi mesi di carcere.

In questa situazione di sovraffollamento, di morti (sessantuno suicidi dall’inizio dell’anno), di violenze e diritti negati pare che il governo sia vicino a dichiarare lo stato di emergenza carceraria. Una dichiarazione che assicurerebbe mano libera al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta nello scegliere le ditte alle quali assegnare gli appalti per costruire nuove prigioni. Una pericolosa e poco trasparente mano libera che visti i precedenti (le carceri d’oro degli anni ottanta) non è proprio una garanzia di affari puliti. Seppur dovessero essere costruite quattro o cinque nuove prigioni per complessivi 2-3 mila posti, visti i trend di crescita della popolazione detenuta (mille unità nuove al mese), il quadro resterebbe tragicamente immutato.

Giustizia: caro Pd, il caso Cucchi è politica e bisogna parlarne

di Luigi Manconi

 

Europa, 11 novembre 2009

 

Caro Segretario Bersani, cara presidente Bindi, come membro dell’Assemblea nazionale del Pd ho ascoltato con attenzione e piena condivisione le vostre relazioni e i vostri interventi di sabato scorso. Ho pensato, mentre parlavate, che avrei voluto sentir pronunciare, in quell’assemblea, un nome e un cognome che - se non sbaglio - non è stato detto da alcuno: quello di Stefano Cucchi, il giovane romano morto la mattina del 22 ottobre scorso nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini.

Da due settimane, a quella vicenda, dedico pressoché tutto il mio tempo e le mie energie: tutta la mia politica, per come la so e la posso fare. Perché di questo si tratta: seguire questa storia tragica, cercare di raggiungere la verità, farne occasione per una riflessione pubblica è, in primo luogo, un’urgenza politica. Strettamente politica. Per questa ragione mi è dispiaciuto il fatto che personalità del Pd, alcune assai eminenti, non abbiano voluto raccogliere il mio invito a occuparsi di questa vicenda, a farne materia di interrogazioni parlamentari e soprattutto di iniziativa pubblica.

Credo che, dietro tale atteggiamento (non attribuibile, certo, a indifferenza) vi sia un grave errore di valutazione. Interessarsi della morte di Stefano Cucchi non ha a che fare in alcun modo con i "buoni sentimenti" (quelli se ci sono, tanto meglio: ma non sono indispensabili) e nemmeno con virtù come la compassione e la solidarietà umana (preziose, ma anch’esse non irrinunciabili). Interessarsi delle cause e delle responsabilità della morte di Cucchi significa fare un discorso propriamente politico - istituzionale: perché lì, proprio lì, nell’agonia di una persona senza tutele e senza risorse, ridotto nelle parole di Carlo Giovanardi (e nei pensieri di troppi) a una "larva", si rivela tutta la povertà della nostra vita sociale, del sistema della giustizia e dell’organizzazione sanitaria. Altro che "storia di carcere", dunque altro che "una semplice questione di droga".

Nella vicenda di Cucchi si può scorgere nitidamente la fragilità di categorie che consideravamo intangibili, come l’habeas corpus e il diritto alla difesa legale sin dal primo momento di privazione della libertà; e la crisi delle politiche pubbliche e private per la cura delle dipendenze e le contraddizioni di un sistema sanitario, che oscilla insensatamente - e spesso senza alcuna capacità di pietas - tra accanimento terapeutico e, come nel caso di Cucchi, abbandono terapeutico.

Forse mi sbaglio, ma come è agevole vedere, nella vicenda di un giovane romano, incredibilmente magro e incondizionatamente inerme, si trovano riflesse la nostra organizzazione sociale e la nostra attività politica, con tutte le sue impotenze e tutte le sue miserie. Caro Bersani, cara Bindi, vorrei che il mio partito, il Pd, fosse capace di elaborare un programma economico sociale all’altezza dei tempi e della crisi attuale; e fosse capace, allo stesso tempo, di individuare la fitta trama di rapporti intercorrenti tra il "caso Cucchi" e il sistema politico-istituzionale, e di farne materia di conflitto pubblico.

Giustizia: idee di riforma per migliorare il sistema penitenziario

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 11 novembre 2009

 

Riformare la giustizia. È la frase che va più di moda. La più in voga. Frase abusata. Che non considera il sistema giustizia nel suo insieme. Si parla di riforma del processo penale, e si pensa solo ad interventi settoriali e non complessivi. La prescrizione. Si parla del sovraffollamento nelle galere e si discute solo dei contenitori e non dei contenuti. Le nuove carceri. Del tutto assente è un approccio riformatore che consideri la complessità del sistema giustizia. Un sistema composto da aspetti strettamente connessi. Processo e pena. Accertamento della responsabilità e sanzione.

Prima di parlare di nuove regole per la prescrizione, si dovrebbe discutere su un nuovo modello processuale che abbia due principali obiettivi. Una decisione in tempi rapidi. Una decisione giusta.

Così, prima di parlare della costruzione di nuove carceri, si dovrebbe discutere della chiusura di quelle vecchie. Visto che il 20% delle strutture è stato costruito tra il 1200 e il 1500, e il 60% tra il 1600 e il 1800. Alla faccia della modernità. E, visto che ci siamo, sarebbe anche più intelligente pensare di costruire non nuove carceri tutte uguali tra loro, ma carceri nuove e diverse. Strutture modellate sulla persona detenuta. Alberghi sicuri per chi è in attesa di giudizio e non è pericoloso. Carceri-fabbrica per chi è condannato. Carceri-comunità, per chi è tossicodipendente. Carceri diverse pensate per far uscire una persona detenuta migliore e non peggiore rispetto a quando è entrata.

Allo stesso tempo occorrerebbe riflettere sulle ricadute che il processo penale ha sul carcere. Un processo che oggi, oltre all’ammenda, prevede come principale sanzione la detenzione. Un’unica pena per sanzionare persone diverse tra loro, che hanno commesso diversi reati. Occorre invece pensare ad un nuovo sistema sanzionatorio.

Più che depenalizzare, sarebbe utile riflettere sulla necessità di fornire al giudice di primo grado sanzioni diverse dal carcere. Sanzioni, esecutive in primo grado, che vanno dalla pena pecuniaria, ai lavori socialmente utili, fino all’applicazione delle misure alternative. Sanzioni diverse dal carcere, da applicare caso per caso, in base alla loro idoneità a punire il singolo condannato. Pene tagliate su misura della persona condannata.

Esemplare quanto già oggi si sta attuando nel Tribunale di Milano. L’imprenditore patteggia una pena detentiva minore, versando un’ingente somma di denaro. Una pena pecuniaria severa, che servirà anche a risarcire eventuali vittime. Si tratta di milioni di euro. La pena peggiore per chi lavora col denaro.

Ma si sa, le riforme producono i loro effetti a medio o a lungo termine. E allora che fare nelle carceri dove nel frattempo ci sono sempre più detenuti? Occorre tenere fermo il livello di sovraffollamento, evitare che aumenti. Fissato un livello massimo di persone condannate, si dove fare una scelta operata caso per caso. Far uscire chi ha scontato gran parte della pena ed è meno pericoloso.

Scelta questa che andrebbe operata, non in base al reato commesso, ma in base alla concreta pericolosità della persona. Nessuna impunità. Ma un meccanismo virtuoso che consentirebbe di far entrare in carcere chi invece deve scontare una pena ed è pericoloso.

Giustizia: Nessuno Tocchi Caino; introdurre il reato di tortura

di Federico Tagliacozzo

 

www.clandestinoweb.com, 11 novembre 2009

 

Suicidi, assistenza sanitaria inefficace, morti per cause non chiare, overdose. Secondo un rapporto redatto da Ristretti orizzonti, centro documentale che raccoglie dati sulle carceri italiane, negli ultimi 10 anni sono morti più di 1.500 detenuti, di cui oltre un terzo per suicidio. Nel dato parziale del 2009 il numero dei morti è stato di 148, di cui 61 suicidi. Lo scorso anno i morti erano stati 142, l’anno prima 123.

Giuseppe Saladino, 32 anni, venerdì pomeriggio entra nel carcere di via Burla a Parma per aver violato gli arresti domiciliari. Quindici ore dopo ne esce morto senza che ci sia un apparente motivo. L’episodio inquietante segue quasi a ruota quello di Stefano Cucchi, riproponendo il tema dei maltrattamenti delle persone private della libertà.

Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte del mondo, in un’intervista rilasciata in esclusiva al Clandestino spiega quali sono le soluzioni per fare chiarezza su questi ultimi casi estremi e per migliorare la vita di chi è costretto a fare i conti con una pena detentiva.

 

Come reagisce quando le autorità carcerarie o di polizia parlano di cause di morte naturale in riferimento casi come quelli oggi?

"Non esiste una morte che si possa definire naturale. Ancora non sono emersi particolari sul caso di Giuseppe Saladino, ma il suo caso ha tutti gli ingredienti per essere l’ennesimo caso di malagiustizia. Una morte avvenuta in quelle condizioni non può essere considerata come una fatalità. Nel caso di Cucchi sembra proprio che si sia trattato di un atto di killeraggio".

 

Cosa fare per tutelare i diritti dei detenuti e per evitare il ripetersi di episodi estremi?

"È necessaria la creazione di un organismo di tutela, di un garante nazionale che possa svolgere le sue attività in tutti quei luoghi dove c’è la privazione della libertà: mi riferisco non solo alle carceri, ma anche ai commissariati e gli ospedali".

 

Il nostro paese negli organismi internazionali è sempre in prima linea nella difesa dei diritti dei detenuti a partire dalla moratoria sulla pena di morte: lei pensa dobbiamo guardare con maggiore attenzione dentro casa?

"Assolutamente sì. All’estero siamo molto spesso in prima fila, ma dentro il paese c’è la mancanza di basi normative assolutamente necessarie: voglio ricordare a tutti che in Italia non è mai stato introdotto il reato di tortura, e penso sia necessario farlo".

 

Tornando al caso Cucchi ha rimproveri da muovere alla classe politica?

"Io penso che tanti parlamentari di diversi schieramenti, coordinati da Luigi Manconi, stiano cercando con coraggio la verità. E non c’è giustizia senza verità. Occorre accendere un faro su una situazione di non diritto e di non democrazia nelle carceri italiane".

Giustizia: Sappe; la Polizia penitenziaria è una istituzione sana

 

Il Velino, 11 novembre 2009

 

La Polizia penitenziaria è una istituzione sana". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo Polizia penitenziaria (Sappe), nell’editoriale pubblicato dall’agenzia "Sappe Informa" in uscita oggi e inviato a tutte le articolazioni territoriali del sindacato e alle direzioni degli istituti e servizi penitenziari del Paese.

"Abbiamo tutti il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari del detenuto Stefano Cucchi, morto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma - continua Capece -, come lo abbiamo per tutti coloro che hanno perso un proprio caro detenuto. Ma non possiamo accettare una certa (tendenziosa e falsa) rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti che traspare da alcune (non tutte per fortuna) cronache giornalistiche apparse in questi giornali. Non accettiamo che le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che lavorano ogni giorno nelle strutture detentive del paese con professionalità, zelo e abnegazione vengano rappresentate da certe corrispondenze di stampa che, più o meno velatamente, associano al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo".

"Non è questo il momento delle opinioni o dei giudizi - continua Capece -. È il momento che la magistratura accerti, come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali, gli elementi di cui è in possesso. È il momento che la magistratura, serena e indipendente, accerti responsabilità e verità. La presunzione di innocenza è una tutela prevista dalla Costituzione e vale per tutti i cittadini. Ma è chiaro che il contenuto di certe dichiarazioni e di certi articoli di stampa non rispecchia affatto il vero operato del corpo.

Perché la Polizia penitenziaria è una istituzione sana, composta da uomini e donne che con alto senso del dovere, spirito di sacrificio e grande professionalità sono quotidianamente impegnati nella prima linea della difficile realtà penitenziaria, nelle sezioni detentive e nei servizi di traduzione e piantonamento dei detenuti in primis.

I poliziotti e le poliziotte penitenziarie nel solo 2008 sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita ai 683 detenuti che hanno tentato di suicidarsi e impedendo che i 4.928 atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare e avere ulteriori gravi conseguenze. Sono persone che nelle carceri italiane subiscono con drammatica sistematicità, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, della classe politica e istituzionale, continue aggressioni da una parte di popolazione detenuta aggressiva e violenta. Questo avviene nelle carceri. Altro che le "violenze sistematiche ai detenuti", come invece qualcuno vorrebbe far credere. Altro che "massacri".

Noi, questa rappresentazione falsa del carcere e di chi in esso lavora, non la accettiamo perché non rispecchia affatto la quotidiana e reale attività lavorativa dei poliziotti penitenziari. Attendiamo dunque che la magistratura valuti tutti gli elementi di cui è in possesso e accerti come sono andate davvero le cose. Ma respingiamo con fermezza ogni accusa gratuita e inaccettabile alla professionalità del corpo di Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti".

Giustizia: la malasanità nelle carceri e l’indifferenza del Senato

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

Intervento della senatrice Donatella Poretti, Radicali - Pd, segretaria commissione Igiene e Sanità. Incredibile. Proprio nel momento in cui la vicenda Cucchi mostra come un caso di malasanità in condizioni di detenzione possa portare alla morte nel giro di pochi giorni, il Senato ha dato una brutta prova di indifferenza istituzionale.

A pochi mesi dall’avvio della legislatura è stata istituita una indagine conoscitiva sullo stato della sanità in carcere congiunta delle commissioni igiene e sanità e giustizia, anche per monitorare lo stato di avanzamento e di passaggio della sanità penitenziaria dalla giustizia al Ssn e alle Asl. Questa indagine istituita e autorizzata il 18 novembre 2008, si è riunita il 4 dicembre 2008 dove si è stabilito di costituire un comitato ristretto che si è riunito solo una volta prima di oggi, quando non si è deciso niente.

Oggi la convocazione alle 14 è andata disertata, con l’unica lodevole eccezione del senatore Di Giacomo, il vicepresidente della commissione Gramazio non ha potuto far altro che prendere atto che la seduta si scioglieva per mancanza del numero legale. Sappiamo come il diritto alla salute è spesso incompatibile con lo stato di detenzione, ci sarebbe piaciuto che finalmente le commissioni sanità e giustizia si occupassero di quel diritto. Dopo un anno abbiamo perso quasi ogni speranza.

Giustizia: Cucchi; un'unica certezza, il processo durerà 10 anni

 

www.radiocarcere.com, 11 novembre 2009

 

Un’unica certezza. Il mistero sulla morte di Stefano Cucchi se si dipanerà non si dipanerà prima di una decade. La risposta alla domanda di giustizia ottimisticamente il processo penale non la fornirà prima di una decina di anni. Una previsione ottimistica.

Tanto necessita al processo penale per accertare un fatto di tale complessità. Più i responsabili. A quelli che hanno osservato Cucchi "cadere dalle scale", si assommano i sanitari che lo hanno osservato morire. Indagini complicate sia dal dovere rovistare dentro un carcere e dal dovere accertare la colpa professionale dei medici. Due anni il tempo stimato.

L’udienza preliminare il passaggio successivo. Udienza complessa: considerati i tempi morti non meno di un anno. A seguire il dibattimento la cui conclusione non si può attendere prima di tre anni. Poi appello e ricorso per cassazione: altri tre anni. Totale nove anni.

Un decennio dopo il fatto delittuoso giunge la risposta della giustizia. Inutile, inaccettabile. Inutile perché una risposta che giunge anni dopo che è stata formulata la domanda è una mancata risposta. Inaccettabile sia le per le vittime del reato sia per coloro che il reato sono accusati di averlo commesso il reato: quest’ultimi se innocenti diventano vittime della giustizia. I primi che l’interminabile procedere dell’accertamento giudiziale costringe a non seppellire il loro caro. I secondi, colpevoli o innocenti, costretti a vivere in un limbo attendendo una lontana decisione. Necessario è allora ridurre non i tempi della prescrizione ma i tempi della giustizia penale.

Giustizia: Cucchi; il racconto del testimone, che adesso ha paura

 

Il Velino, 11 novembre 2009

 

"Ha la pelle nera dell’Africa Occidentale l’uomo che ha visto Stefano Cucchi cominciare a morire in un sotterraneo del palazzo di Giustizia per mano di "due guardie", due agenti di polizia penitenziaria, di piantone alle "camere di sicurezza". Ha i suoi stessi anni, 31. Era stato arrestato dai carabinieri la stessa sera (il 15 ottobre), alla stessa ora, le 23.30, per lo stesso reato (stupefacenti). Ma in un quadrante diverso della città.

Tra il raccordo Anulare e Tivoli. La mattina del 16 ottobre - si legge sulla Repubblica - ha visto crollare Stefano sotto due manrovesci al viso. Tra le urla, ha sentito il tonfo sordo dei calci delle guardie accanirsi su quel corpo rannicchiato in terra e già fragile. Poi, quando i suoi polsi e quelli di Stefano sono stati chiusi allo stesso schiavettone che dal palazzo di Giustizia li doveva trascinare a Regina Coeli, ha raccolto le sue ultime parole: "Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto?". In questo incrocio di destini, l’uomo che "sa", si chiama S. Y.

(Repubblica, che ne conosce il nome, ha accettato la richiesta del suo avvocato di tutelarne, almeno per il momento, un parziale anonimato), è un clandestino ed è detenuto in una cella del braccio "comuni" del carcere di Regina Coeli. Il 3 novembre, ha consegnato il suo segreto al pubblico ministero Vincenzo Barba. Quattro giorni dopo, sabato 7, nella sala colloqui del carcere ha fissato negli occhi il suo giovane avvocato, Francesco Olivieri, e con una smorfia gli ha confidato la paura di chi ora teme il prezzo di quella verità: "Avvocato, ho raccontato al magistrato una cosa per cui ho paura che ora non mi faranno più uscire di qua".

Olivieri non è ancora riuscito a tirare fuori S. da Regina Coeli. Ieri, ha bussato una prima volta alle porte degli uffici giudiziari per chiedere di sottrarre quel testimone al rischio di una possibile vendetta, di un’intimidazione, perché i segreti, si sa, in carcere durano assai poco. Tornerà a farlo oggi. E ora - nel suo studio di via Tuscolana - promette che non mollerà. Intanto, sto facendo una colletta per raccogliere il denaro necessario a pagare l’ospitalità della "Casa dell’Amore fraterno". Dieci euro al giorno per poter indicare al giudice almeno un indirizzo in cui disporre gli arresti domiciliari. Poi, comincerà l’altra battaglia. Diciamocelo pure, quella più difficile. La parola di un ragazzo di colore accusato di spaccio contro quella di uomini in uniforme. (...) Stefano Cucchi è nella cella di fronte alla sua. Anche lui è solo.

Anche lui è stato consegnato dai carabinieri alla polizia penitenziaria sulla soglia della porta blu cobalto. Anche lui è lì per droga. Anche lui aspetta. Poi, accade qualcosa. S. non sa dire che ora fosse (tarda mattinata, dice l’avvocato Olivieri nel riferirne i ricordi). Verosimilmente, prima delle 12.35, quando Cucchi entrerà nell’aula del suo processo per direttissima. Ma S., ricorda perfettamente cosa sente. Cosa vede. Il silenzio del sotterraneo si anima all’improvviso di urla. Le urla di Stefano Cucchi. S. si precipita allo spioncino della porta blindata che chiude la sua cella. E - per quello che riferirà prima al pubblico ministero e quindi al suo avvocato - vede quel ragazzo dal fisico esile trascinato nel corridoio dalle guardie. E’ andato al bagnò e ora, a quanto pare, non vuole rientrare nella sua cella. I due agenti della polizia penitenziaria - prosegue S. - lo colpiscono al volto. Stefano Cucchi crolla in terra. I due finiscono di dargli una lezione a calci.

Quindi lo trascinano nella cella chiudendosi la porta alle spalle. S. ritrova Stefano a fine mattina. Dopo il suo processo per direttissima. Anche lui non è stato fortunato. Il giudice ha rinviato il dibattimento al 18 dicembre e disposto che venga "tradotto" a Regina Coeli. Quando rientra nei sotterranei, Cucchi e già lì. E questa volta i due vengono sistemati nella stessa cella. S. ora può vedere i lividi che gonfiano e macchiano il volto di Stefano. Gli agenti della polizia penitenziaria gli chiudono i polsi allo stesso schiavettone, il guinzaglio con cui devono essere caricati sul furgone diretto al carcere. Stefano gli sussurra una parola all’orecchio: "Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto"? S. ha visto. Forse non tutta la violenza di quel mattino. Forse solo l’inizio e non la coda, se dovesse trovare una qualche conferma l’ipotesi che di "lezioni" Cucchi ne riceva dai suoi custodi della Penitenziaria una prima e una dopo l’udienza del suo processo. Ma ha visto. E ha deciso di non dimenticare".

 

Morte Cucchi, nasce un Comitato bipartisan

 

Si è costituito oggi il "Comitato per la verità su Stefano Cucchi", il giovane romano arrestato la sera del 15 ottobre scorso e deceduto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini la mattina del 22 ottobre. Il comitato è coordinato dal professor Luigi Manconi, ed è bipartisan, essendo composto da parlamentari della maggioranza e dell’opposizione. Ne fanno infatti parte Rita Bernardini, Emma Bonino, Stefano Ceccanti, Anna Paola Concia, Marcello De Angelis, Silvia Della Monica, Renato Farina, Paola Frassinetti, Guido Galperti, Guido Melis, Flavia Perina, Melania Rizzoli, Walter Tocci, Jean-Leonard Touadi.

"Il comitato - si legge in una nota - che in nessun modo intende interferire con le indagini dell’autorità giudiziaria, né con le eventuali inchieste parlamentari o amministrative già in atto o che fossero promosse, si prefigge esclusivamente un fine di verità, volendo chiarire in modo certo le circostanze della tragica fine di Stefano Cucchi". Le prime attività del comitato saranno l’apertura di un blog (www.veritapercucchi.altervista.org), una visita al padiglione detenuti dell’ospedale Pertini, la proposta alle commissioni Giustizia di Camera e Senato di un’audizione dei familiari di Stefano Cucchi, la richiesta, infine, di effettuare "un’indagine conoscitiva sulle frequenti morti di detenuti nelle carceri italiane".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 11 novembre 2009

 

A Teramo siamo disperati. Caro Arena, la situazione qui nel carcere di Teramo è grave, soprattutto a causa del sovraffollamento. In piccole celle siano costretti a viverci in 5 o 6 detenuti, e restiamo chiusi qui dentro per 22 ore al giorno. Come se non bastasse il carcere di Teramo è anche molto freddo e i riscaldamenti sono insufficienti.

La conseguenza è che noi viviamo tutto il giorno imbottiti di vestiti per non prenderci un malanno. Anche perché se avessimo anche una semplice influenza qui non saprebbero come curarla, non essendoci medicine. Dal carcere di Teramo le diciamo che qualcosa va fatto ed anche con urgenza. Non solo per il sovraffollamento ma anche per la disperazione che c’è tra di noi. Tanti infatti non riescono a sopportate tutto questo e fanno gesti estremi.

Ieri qui ben due detenuti si sono tagliati le braccia con delle lamette, e il sangue gli usciva senza fermarsi. Invece, qualche giorno fa un nostro compagno detenuto si è ucciso. Si è soffocando in un sacchetto di plastica. E uno dei tanti, che non ha resistito a questa vita. La sensazione che noi abbiamo è che il tempo passa e nessuno fa nulla per cambiare le cose. Sia chiaro! chi sbaglia deve pagare, e su questo non si discute. Ma si deve pagare senza essere annullati con una pena o senza perdere la dignità per una pena.

 

Lorenzo, dal carcere di Teramo

 

Io, donna detenuta a s.m. Capua Vetere. Caro Riccardo, sono una donna detenuta di 49 anni, di cui ben 10 e mezzo passati in carcere. Prima ero detenuta a Rebibbia, dove ero rinchiusa in una cella con altre 5 donne. Poi, sempre a Rebibbia, mi hanno messo in una cella minuscola, c.d. cubicolo, dove ero rinchiusa con una altra donna. Era una cella talmente piccola che eravamo costrette a dormire con la testa vicinissima alla tazza del bagno.

Un giorno, all’improvviso, mi hanno trasferita e mi hanno portato qui nel carcere di S. M. Capua Vetere. Un vero e proprio inferno. Pensa che in cella siamo in 10 donne. 10 donne rinchiuse in una cella non più grande di 20 mq. La sezione femminile del carcere di S. M. Capua Vetere è molto sovraffollata. Potrebbe contenere circa 26 donne ma noi oggi siamo più di 60. Insomma siamo costrette a rimanere per 22 ore al giorno in una cella sovravvollata e buia. Inoltre, tra di noi c’è chi è malata, chi ha l’hiv, e chi invece è sana. Una promiscuità che mette a rischio sia la nostra salute. Insomma qui nella sezione femminile di S. M. Capua Vetere è un vero e proprio caos. Ti dico solo che sono 2 anni che aspetto una protesi dentale, che ancora non mi hanno messo. 2 anni! Devo scontare ancora 8 mesi e ho chiesto tante volte di poter finire la mia pena a Rebibbia. Ma è stato tutto inutile. Ti mando un grande saluto

 

Ivonne, dal carcere di S. M. Capua Vetere

Lazio: lettera minacce, delle Br, al Garante dei detenuti Marroni

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

Una lettera intimidatoria - firmata con la stella a cinque punte e la sigla "Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Nucleo Galesi" - è stata recapitata al garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni, vice coordinatore della conferenza nazionale dei Garanti. È quanto si legge in una nota dello stesso garante.

Secondo quanto reso noto, la lettera, spedita nei giorni scorsi, è arrivata in sede questa mattina. Dell’accaduto sono state informate le forze dell’ordine. È la seconda volta che il garante dei diritti dei detenuti del Lazio viene raggiunto da lettere di minacce da parte del gruppo denominato "Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Nucleo Galesi". La volta precedente fu nel febbraio del 2007.

"Evidentemente - ha detto il garante - le mie insistite denunce sulle pessime condizioni di vita in carcere, per altro confermate dalle tragiche vicende di Stefano Cucchi e Diana Belfari Melazzi, hanno colto nel segno e danno fastidio a qualcuno. Non saranno, tuttavia, le minacce a modificare la mia condotta. È il mio ruolo istituzionale che mi impone di lavorare per garantire il rispetto dei diritti fondamentali a dei detenuti".

Questo il testo integrale del documento: "Comunicato: con le mani sempre più sporche di sangue potresti dare le dimissioni! Potresti ritagliarti del tempo per scrivere un altro bel libro, magari stavolta sulla via Cassia! Le vie della lotta armata sono infinite e anche per te, tramaiolo mafioso di veccia data, ne troveremo una. Devi sapere che nulla resterà impunito! Onore a tutti i compagni morti. Onore a Mario Galesi. Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente - Nucleo Galesi".

Parma: 32enne muore in cella, si indaga per "omicidio colposo"

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

La Procura di Parma ha aperto un fascicolo, ipotizzando l’omicidio colposo, per la morte di Giuseppe Saladino, 32 anni, un giovane di Parma trovato senza vita nella cella dov’era rinchiuso da meno di un giorno. Il giovane è morto la notte di venerdì, la prima che passava in carcere dopo essere stato fermato nel pomeriggio dalle forze di polizia: nonostante la condanna a un anno e due mesi per furto con scasso (aveva razziato alcuni parchimetri) da scontare ai domiciliari, era stato sorpreso a passeggiare in strada.

Qui però nella notte si è sentito male ed è morto. È stata già compiuta l’autopsia disposta dalla pm Roberta Licci e i risultati sono attesi per i prossimi giorni. La madre del giovane ha nominato un proprio legale, l’avvocato Letizia Tonoletti, e un perito che ha assistito all’esame autoptico. "Voglio sapere tutto quello che è successo in carcere", ha dichiarato a Tv Parma la madre del giovane, Rosa Martorana: "In carcere è entrato un figlio sano e avrei voluto ricevere anche in uscita un figlio sano".

 

Legale famiglia: morte forse per abuso farmaci

 

Giuseppe Saladino potrebbe essere morto per un abuso di farmaci, forse assunti nelle dosi sbagliate. Questa una delle ipotesi per spiegare il decesso del trentaduenne di Parma, spirato in una cella del carcere emiliano poche ore dopo l’arresto. Lo afferma il legale della famiglia del giovane, avv. Letizia Tonoletti, che per il momento sembra escludere invece l’ipotesi dei maltrattamenti in carcere. "Inizialmente il medico legale non aveva riscontrato segni di percosse sul corpo", spiega l’avvocato, anche se la madre del trentaduenne, Rosa Martorano, parla di due ematomi sul cadavere del figlio, una sulla fronte e uno sulla tempia, grandi come una moneta di un euro.

Durante il riconoscimento la stessa madre ed il cognato avrebbero poi notato un rivolo di sangue uscire dalla bocca del giovane, probabilmente dovuto alla posizione del corpo al momento del decesso. Il personale carcerario, sempre secondo quanto ribadisce il legale della famiglia, si sarebbe accorto della morte di Giuseppe Saladino solo intorno alle 6 o alle 7 della mattina. Anche il compagno di cella non si sarebbe accorto di nulla e sosterrebbe di aver visto muovere il trentaduenne durante la notte.

L’indagine della Procura di Parma dovrà capire, grazie soprattutto all’autopsia eseguita dal medico legale Cristiano Bertoldi, alla presenza del perito della famiglia Roberto Marruzzo, se il giovane avesse assunto droga nelle ore precedenti alla morte, in particolare se lo abbia fatto nel pomeriggio quando ha incontrato la ragazza (anche lei tossicodipendente) fuori dalla propria abitazione dove era agli arresti domiciliari. "Si sarebbe anche potuto procurare l’ eroina prima di tornare in carcere, ma in caso di overdose sarebbe morto nel giro di pochi minuti", dice l’avv. Tonoletti.

 

Si attendono risultati autopsia

 

Si attendono i risultati dell’autopsia per Giuseppe Saladino, il detenuto 32enne morto venerdì scorso nel carcere di Parma. La Procura di Parma ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo, riferisce la deputata radicale Rita Bernardini, componente della Commissione Giustizia, che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Alfano sulla vicenda. Rita Bernardini si è rivolta al ministro per sapere quale sia la ricostruzione ufficiale dei fatti, se risulti agli atti il quadro clinico del detenuto, se non si possano riscontrare elementi e profili di illegittimità da parte di chi ha disposto il fermo e se non ritenga necessario e urgente prevedere un’ispezione ministeriale presso la struttura dove è avvenuto il fatto.

La deputata radicale, infine, è tornata a ribadire al ministro "l’urgente necessità di avviare un’indagine conoscitiva sui decessi che avvengono tra i detenuti delle carceri italiane, inclusi i suicidi, per verificarne le cause reali e scongiurarne di nuovi". Giuseppe Saladino, è morto tra venerdì e sabato scorsi dopo essere stato portato nel carcere di via Burla: "Il ragazzo, quando è entrato in carcere, era sano", dice ora la madre Rosa Martorano, che chiede di fare luce su una vicenda che richiama quella di Stefano Cucchi.

Il giovane doveva scontare agli arresti domiciliari una condanna a un anno e due mesi dopo essere stato pizzicato mentre faceva incetta di monetine in alcuni parchimetri del centro storico. Venerdì scorso però era uscito di casa, ma era stato riconosciuto e fermato da una pattuglia della polizia e portato a via Burla. Quindici ore dopo, alle 8 di sabato, il direttore del penitenziario ha telefonato a casa di Giuseppe per dare la notizia del decesso. "Il direttore mi ha detto che Giuseppe era morto, che era stata una cosa improvvisa, inspiegabile, mi pare abbia parlato di un malore", ha raccontato la madre intervistata da una tv locale. Due periti, uno nominato dalla famiglia, l’altro dal sostituto procuratore Roberta Licci, avranno il compito di risalire alle cause del decesso. L’autopsia, riferisce ancora il Corriere, è già stata eseguita, i risultati si conosceranno nei prossimi giorni.

 

Bernardini: interrogazione al ministro della Giustizia

 

La deputata radicale Rita Bernardini, componente della commissione Giustizia, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Alfano sulla morte, avvenuta venerdì scorso, del detenuto 32enne nel carcere di Parma, sulla quale la procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo. Lo rende noto un comunicato stampa dei Radicali. Rita Bernardini si è rivolta al ministro per sapere quale sia la ricostruzione ufficiale dei fatti; se risulti agli atti il quadro clinico del detenuto; se non si possano riscontrare elementi e profili di illegittimità da parte di chi ha disposto il fermo e se non ritenga necessario e urgente prevedere un’ispezione ministeriale presso la struttura dove è avvenuto il fatto. La deputata radicale, infine, è tornata a ribadire al ministro l’urgente necessità di avviare un’indagine conoscitiva sui decessi che avvengono tra i detenuti delle carceri italiane, inclusi i suicidi, per verificarne le cause reali e scongiurarne di nuovi.

Aosta: malato da mesi, detenuto portato all’ospedale in fin di vita

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

Quattro mesi di sofferenze nel carcere di Aosta e poi il trasferimento all’ospedale dove è ricoverato in gravissime condizioni. È accaduto ad un detenuto quarantenne, F.M., residente ad Aosta, che nel luglio scorso è finito in carcere per una pena passata in giudicato per spaccio di sostanze stupefacenti.

Ora è ricoverato all’ospedale Umberto Parini di Aosta in prognosi riservata; per i sanitari le sue condizioni sono molto gravi. Al suo ingresso in carcere il detenuto aveva manifestato problemi di salute (ha una broncopolmonite bilaterale in seguito ad una malattia cronica), tanto che più volte ha richiesto di essere portato in infermeria, oltre ad avere presentato cinque istanze di scarcerazione per motivi di salute. È stato visitato, in più occasioni, dai medici di guardia. Alla fine, una settimana fa, è stato disposto il ricovero, in via d’urgenza, all’ospedale di Aosta su richiesta proprio di un medico di guardia. "È l’ennesimo episodio della malfunzionamento dell’area sanitaria nella casa circondariale valdostana", commentano i responsabili dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria. Il fratello del detenuto ha annunciato che a breve presenterà una denuncia alla polizia.

Firenze: Corleone; fate "spesa del carcerato", 3 euro al giorno!

 

Redattore Sociale, 11 novembre 2009

 

Il garante dei detenuti di Firenze, in segno di protesta verso la "situazione disastrosa delle carceri italiane", invita i cittadini a spendere meno di 21 euro settimanali per mangiare, la stessa cifra riservata ai detenuti.

Secondo Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, sarebbe 21 euro la cifra media che i detenuti hanno a disposizione settimanalmente per il cibo. Proprio per sensibilizzare su questa "grave carenza alimentare", Corleone invita tutti i cittadini a fare, per una settimana, "la spesa del carcerato", ovvero spendere meno di 21 euro per il nutrimento di sette giorni. Ma questo, secondo il garante, è soltanto una delle problematiche che attanagliano il carcere di Sollicciano e gli istituti penitenziari italiani in genere. Il garante propone anche una "mobilitazione per superare rassegnazione e passività: un digiuno a staffetta dei cittadini e degli operatori del carcere fino al raggiungimento degli obiettivi definiti come priorità assoluta".

Corleone ha inoltre proposto l’urgente convocazione (entro dieci giorni) di un tavolo di confronto tra i responsabili dell’amministrazione penitenziaria, le associazioni di volontariato, la magistratura di sorveglianza, comune, provincia di Firenze e regione toscana. Il garante dei detenuti critica l’atteggiamento del governo e della direzione del carcere di Sollicciano perché "niente è stato fatto negli ultimi mesi al seguito delle mie richieste". Ecco perché Corleone insiste sulle stesse richieste: identificazione di una struttura in città per la semilibertà, rimpatrio veloce per i detenuti stranieri sotto i due anni di pena, allargamento dei passeggi per l’ora d’aria, progetto pilota per l’affidamento speciale dei detenuti tossicodipendenti, tessera telefonica per i detenuti e possibilità di chiamata verso i cellulari, investimenti per la salute garantendo visite e vaccini.

Padova: la volontaria; aiutiamo detenuto completamente cieco

di Luciana De Gobbi

 

Il Mattino di Padova, 10 novembre 2009

 

Egregio direttore, avrei piacere che lei pubblicasse questa lettera di Ben Larbi Bel Hassen detenuto, detenuto nella casa di reclusione di Padova. Glielo chiedo con grande umiltà: il detenuto è completamente cieco. Io sono la signora che tutte le settimane va a trovarlo, lo seguo e lo sostengo oramai da oltre due anni. Ben Larbi Bel Hassen è un ragazzo tunisino e qui non ha nessun familiare che lo possa accudire ed essergli d’aiuto.

Perciò io ho deciso di seguirlo e d’aiutarlo. Lo faccio con tutto il cuore, come fossi la sua seconda mamma, anche se io ho due figli, già sposati. Da venti mesi è rinchiuso nell’infermeria del carcere. Avrà perso almeno una ventina di chili oltre alla sua disgrazia di completa cecità dovuta ad una retinite pigmentosa, una malattia che sino ad oggi risulta incurabile e che rende una persona completamente cieca in breve tempo.

Riconosciuta sia dai medici del carcere e degli ospedali dove è stato visitato, ma purtroppo continua ad essere detenuto. È detenuto che nessuna struttura carceraria può tenere, in quanto non attrezzata per questo tipo di problematica, e lo stesso direttore sanitario del carcere di Padova ha fatto una relazione dettaglia al magistrato. Però non si riesce a capire perché continuino a tenerlo in un carcere.

Pensi che Ben Larbi Bel Hassen non può svolgere le normali azioni di vita quotidiana. Ha sempre bisogno che qualcuno lo aiuto anche nei più elementari movimenti, come farsi una doccia, o spostarsi nella stessa cella. Io penso che una persona possa impazzire in quelle condizioni. Ancora una volta ha espresso la volontà di voler finire la vita e veramente ho sentito che è intenzionato a farlo. Non vorrei più sentire che un detenuto arrivi al suicidio nelle nostre carceri. Quest’anno ce ne sono stati anche troppi suicidi. Ci si chiede perché ne succedano così tanti? Soprattutto ad una persona indifesa come il Ben Larbi.

Le carceri sono sovraffollate, non c’è più spazio o molto meno, per i detenuti, per cui aggressioni, baruffe, ecc. Sarebbe veramente scandaloso se anche questo ragazzo per lo più disabile arrivasse al suicidio. Chiudo questa mia, egregio direttore, in quanto non trovo più parole per descrivere la situazione del Ben Larbi rinchiuso, completamente cieco da venti mesi nel carcere di Padova, considerato, però, uno dei migliori d’Italia.

Cosa sono gli altri? Ecco qui di seguito la triste storia di questo giovane. Tunisino 32 anni, Ben Larbi Bel Hassen veniva sorpreso dalla polizia e arrestato il 23 maggio 2003 e condannato in carcere fino al 2013 per spaccio di droga. Ma durante la sua detenzione carceraria se ne è aggiunta un’altra ben più dura, la malattia di Stragart forma giovanile di generazione ereditaria della macula per cui non esistono al momento terapie efficaci. Gli occhi di Ben Larbi, lo stanno via via tradendo senza che sia possibile se non rendergli meno difficile la pena ancora da scontare.

Si ritiene che una migliore strategia terapeutica potrebbe essere eseguita, qualora il soggetto potesse essere messo ad un regime alternativo alla detenzione in vista che il paziente allo stato attuale trovasi nell’assoluta impossibilità di svolgere normalmente le azioni di vita quotidiana. Ben Larbi Bel Hassen, ha capito i propri errori del passato, ora che la malattia lo ha reso non vedente completamente, si trova senza programmi rieducativi verso il suo handicap e di sviluppi con la scuola di lettura Brail e vita quotidiana, ancora chiuso in carcere. Rivolgiamo un appello sia all’opinione pubblica e sia ad Amnesty International. Oltre alla cecità che è causata dalla malattia, il giovane tunisino soffre di stato di stress psicofisico senza nessuno che si occupa del suo handicap.

Padova: Cgil; nella Casa Circondariale 243 detenuti (45 italiani)

 

Redattore Sociale, 11 novembre 2009

 

Il sindacato ha presentato oggi il convegno "Quale futuro per le carceri?". Turnover altissimo nella casa circondariale, dove sono presenti 243 detenuti (45 italiani). In celle per massimo 5 persone si vive anche in 7-9. Mancano gli agenti.

Ancora detenuti ammassati nelle celle, ancora agenti della polizia penitenziaria sotto organico, ancora disagi: non cambia con il passare dei mesi il quadro della situazione carceraria padovana, all’interno sia della casa di reclusione sia della casa circondariale. I dati parlano di un sovraffollamento ingestibile, come sottolinea oggi la Cgil Padova nel presentare un convegno che si svolgerà venerdì dal titolo "Quale futuro per le carceri?" (sala anziani di Palazzo Moroni a partire dalle 9.30).

La Casa Circondariale, dove il turnover giornaliero è altissimo, sono presenti oggi 243 detenuti, di cui 45 italiani. "La capienza regolare sarebbe di molto inferiore, con 80 posti, mentre quella tollerabile arriverebbe a 160 - spiega Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil per la polizia penitenziaria -.

Questo porta a inserire nelle stanze letti a castello da tre o quattro piani". "Come la moderna edilizia - sottolinea sarcastico il segretario provinciale del sindacato Fulvio Dal Zio -, visto che ora si costruisce non più in lunghezza ma in altezza". In ogni caso, in celle per massimo cinque persone si vive anche in 7-9. Nel corso dell’anno tra uscite ed entrate il numero dei detenuti non è mai sceso sotto i 200.

Perlopiù si tratta di permanenze brevi, visto che poco meno di un quinto dei detenuti è rimasto in cella per un giorno soltanto. "In questa situazione difficile incide molto il giro di vite sulle misure alternative - continua Pegoraro - e non pensiamo che il Piano carceri sia la soluzione, poiché non fa altro che rimandare il momento in cui si dovrà davvero trovare una soluzione".

Un capitolo a parte è quello degli stranieri, che nel circondariale padovano rappresentano l’85% dei detenuti: "Si registrano problemi di convivenza perché non c’è un accoglimento culturale" commenta Alessandra Stivali, del Dipartimento immigrazione della Cgil Padova, che annuncia: "A giorni a Padova e Vicenza avvieremo un progetto di mediazione culturale per favorire la prima accoglienza e pensiamo anche di portare i servizi di assistenza e consulenza del patronato all’interno del carcere". Quanto a sovraffollamento non va meglio nella casa di reclusione padovana, dove attualmente si trovano 799 reclusi a fronte di una capienza massima di 350 posti.

Resta poi da affrontare la questione della mancanza di agenti di polizia penitenziaria: al circondariale ne mancherebbero addirittura 400 (attualmente ce ne sono 300) per far fronte a tutte le traduzioni per le udienze e le visite specialistiche. "Se si conta che per la traduzione di un detenuto servono tre agenti si fa presto a capire che non c’è abbastanza personale, così molte visite specialistiche saltano". Al circondariale mancherebbero all’appello altri 50 agenti (ce ne sono 122). Dei dati e delle possibili soluzioni alla realtà carceraria si discuterà venerdì nel corso del convegno che vede tra i relatori avvocati, assistenti sociali, direttori di carceri, sindacato, istituzioni e mondo dell’associazionismo.

Pisa: intesa Provincia-carcere; dalla cella al tirocinio in azienda

 

Il Tirreno, 11 novembre 2009

 

Si rinnova l’intesa tra Provincia (anche con il suo Centro Nord-Sud) e le carceri Don Bosco di Pisa e casa penale di Volterra, formalizzata in un protocollo, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Questo atto rappresenta una proroga di quello del 2008, che costituiva l’avvio di tale esperienza e "che ha portato a risultati concreti", spiegano il presidente della Provincia Andrea Pieroni, gli assessori al sociale Anna Romei e all’integrazione Silvia Pagnin (presidente del Nord-Sud), il direttore del Don Bosco, Vittorio Cerri, e quello del penitenziario di Volterra, Maria Grazia Giampiccolo.

Il nuovo protocollo prevede l’acquisto di libri e di materiali per le biblioteche; il sostegno alla scolarizzazione e l’assistenza per le problematiche sanitarie di base; borse lavoro o tirocini formativi; corsi di alfabetizzazione. Un ulteriore progetto, denominato "Colmare la distanze", è in via di svolgimento e sostenuto da un pool ancora più ampio: oltre alla Provincia di Pisa e alle due carceri, ne fanno parte Provincia e carcere di Lucca, Società della Salute di Area Pisana e Alta Valdicecina, casa d’accoglienza "Oltre il muro", Uepe di Lucca e Pisa. Il piano prevede l’attivazione di 17 tirocini (di cui 12 già in corso in aziende di Pisa, Pontedera, Volterra, Lucca e Viareggio) per altrettanti detenuti: 4 di Volterra, 3 del Don Bosco, 4 di Lucca, 3 ex detenuti e 3 che stanno scontando pene fuori in affidamento all’Uepe.

Grecia: continua sciopero fame detenuti, per migliori condizioni

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

Migliaia di detenuti greci sono in sciopero della fame da alcuni giorni in almeno otto carceri per protestare contro le condizioni in cui sono costretti a vivere, e la protesta si va estendendo. Lo sciopero, secondo fonti ufficiali, è in corso nelle prigioni di Santo Stefano a Patrasso, di Korydallos ad Atene e in quella di Ioannina. Ma secondo l’Ong ‘Iniziativa per i diritti dei detenutì ed altre fonti indipendenti, le proteste riguardano anche altri istituti di pena: Malandrino, 200 km a Nordovest di Atene, l’ala femminile del carcere di Tebe, Grevena, a Nord della capitale, Domokos, nella Grecia centrale, e il carcere giovanile di Volos.

La protesta è partita da Patrasso, dove oltre 600 detenuti su 700 protestano da alcuni giorni contro il grave e crescente sovraffollamento della prigione, le condizioni sanitarie e alimentari e il regime di contatti con l’esterno. La protesta coincide con il primo anniversario del grande sciopero della fame che nel novembre dello scorso anno coinvolse una ventina di prigioni e 6000 detenuti per due settimane, provocando anche la morte di uno di loro. Ed ha lo scopo, secondo "Iniziativa per i diritti dei prigionieri", di denunciare che nessuna delle promesse dell’allora governo di centrodestra è stata mantenuta, e anzi le condizioni sono peggiorate.

Stati Uniti: pena morte; in meno di 24 ore eseguite 2 condanne

 

Ansa, 11 novembre 2009

 

Un cubano è stato giustiziato questa notte nel carcere di Huntsville dopo essere stato condannato a morte dieci anni fa per aver rapinato e ucciso uno spacciatore di droga a Houston. Yosvanis "El Cubano" Valle, 34 anni, ha sempre respinto l’accusa di aver ucciso il ventottenne Josè Martin Junco a Houston nel giugno del 1999. Ieri sera (stanotte in Italia) è diventato il ventunesimo giustiziato di quest’anno nel Texas. Secondo i giudici, avrebbe commesso l’omicidio per dimostrare alla sua gang di avere il coraggio di uccidere Junco. La scorsa settimana è stata respinta l’ultima richiesta degli avvocati che chiedevano di commutare la pena capitale in ergastolo.

Il "cecchino del Maryland", John Allen Muhammad, è stato giustiziato nel carcere in Virginia. Il cecchino aveva ucciso dieci persone sparando a caso in tre Stati: Maryland, Virginia e Distretto di Columbia (Washington) con l’aiuto di un adolescente condannato poi all’ergastolo.

 

 

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