Rassegna stampa 24 marzo

 

Giustizia: i sindaci a confronto su politiche di sicurezza urbana

 

Ansa, 24 marzo 2009

 

Quanto sono efficaci le ordinanze emanate dai sindaci? Qual è il passo successivo da intraprendere per potenziare le politiche di sicurezza urbana dei Comuni? A sette mesi dal decreto Maroni, che concede ai primi cittadini la facoltà di emanare ordinanze in tema di sicurezza urbana, sono questi i principali quesiti sui quali si è confrontata la platea dei sindaci giunti a Novara per prendere parte al convegno "Oltre le ordinanze. I Sindaci e la questione della sicurezza urbana".

A moderare l’incontro, al quale ha partecipato anche il Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, il sindaco di Novara, Massimo Giordano, secondo cui "i sindaci sentivano da tempo l’esigenza di qualche strumento in più per garantire la sicurezza nei loro territori".

Aprendo i lavori, la presidente di Anci Piemonte, Amalia Neirotti, ha richiamato tutti i primi cittadini, "soprattutto quelli delle grandi città, a mantenere un senso di responsabilità e di cooperazione anche nei confronti dei Comuni più piccoli, che hanno le stesse esigenze delle metropoli in fatto di sicurezza".

Ma è stato il responsabile Anci per la sicurezza, Flavio Zanonato, ad entrare per primo nel merito della questione, affermando che "le ordinanze hanno lo stesso effetto dei farmaci sintomatici: non arrivano a rimuovere la radice del problema, e spesso non fanno altro che delocalizzarlo. Per questo bisognerebbe coniugare alla repressione anche attività di prevenzione e inclusione sociale".

Piercarlo Fabbio, sindaco di Alessandria, ha posto poi l’accento sulla questione delle risorse, "finora spese solo dai sindaci", e sulla necessita di una "ristrutturazione organizzativa delle polizie locali, in modo da rendere più efficace il loro compito nella battaglia per la sicurezza". Per Fiorenza Brioni, sindaco di Mantova, "è necessario eliminare dal Patto di stabilità le risorse spese dai Comuni per le politiche di sicurezza, in modo da avere maggiori risorse da liberare". Inoltre, per il primo cittadino di Mantova, "i sindaci dovrebbero essere maggiormente parte attiva nella gestione della sicurezza, non solo con la possibilità di emanare ordinanze".

Sulla stessa linea di Brioni gli interventi del sindaco di Modena, Giorgio Pighi, e dell’assessore alla sicurezza di Parma, Fabio Fecci. Più dura la linea del sindaco di Varese, Attilio Fontana, il quale riprende le affermazioni di Zanonato per sostenere che "sono necessarie politiche di repressione, perché la continua attenzione alle politiche di prevenzione ci ha portato alla situazione di oggi".

Allo stesso modo, per Fontana, "non si può intraprendere la strada della regolarizzazione di una parte degli immigrati irregolari, perché questo vorrebbe dire mandare un messaggio alle organizzazioni criminali, incoraggiandole a proseguire con i loro traffici".

Tornando al tema specifico delle ordinanze, Mauro Franzinelli, assessore alla sicurezza di Novara, ammette che "di certo non sono la soluzione di tutti i mali, ma ci hanno aiutato a far percepire meno insicurezza ai nostri cittadini, e questo per noi è già un buon risultato". Concorde con Franzinelli sull’efficacia delle ordinanze sulla sicurezza percepita anche Roberto Reggi, primo cittadino di Piacenza, che però sottolinea "le ordinanze hanno solo spostato i problemi. Per noi sindaci andare oltre vuol dire renderci conto che la funzione a noi assegnata è quella preventiva, e non quella repressiva.

Completamente opposto l’invito rivolto a Maroni dal sindaco di Verona, Flavio Tosi, che chiede invece "una norma più incisiva, che possa applicarsi non solo a livello di sanzioni amministrative". La più critica sull’efficacia delle ordinanze è infine Marta Vincenzi, sindaco di Genova "non è vero che i reati sono diminuiti-afferma- e per questo dobbiamo sottolineare l’inefficacia di chi grida alla tolleranza zero. È necessario piuttosto riscoprire il valore delle politiche integrate sulla sicurezza e delle iniziative di sicurezza partecipata, che sono già presenti sui nostri territori.

Giustizia: Maroni; spese su sicurezza escluse da patto stabilità

 

Ansa, 24 marzo 2009

 

Le proposte dell’Anci in termini di sicurezza incassano il parere favorevole del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Da Novara, dove ha concluso i lavori del convegno "Oltre le ordinanze. I sindaci e la sicurezza urbana", Maroni risponde a stretto giro alle richieste avanzate dai sindaci nei loro interventi, e riassunte dal vicepresidente vicario dell’Anci Sergio Chiamparino: eliminare dal Patto di stabilità le spese dei Comuni relative agli investimenti sulla sicurezza e creare un Servizio centrale per la sicurezza urbana gestito dall’Anci e dal ministero del’Interno.

Riguardo il primo punto, Maroni afferma: "Sono d’accordo ad eliminare dal Patto di stabilità non solo le risorse dei Comuni impegnate nella sicurezza, ma anche tutte quelle risorse pronte da spendere e derivate da una gestione virtuosa dei bilanci".

Inoltre, il ministro si dice "favorevole all’istituzione di un Servizio centrale per la sicurezza urbana, non solo per meglio gestire risorse, ma per avere un monitoraggio continuo delle azioni messe in campo dai Comuni". E annuncia: "In autunno, a un anno dall’istituzione dei poteri di ordinanza, potremmo intanto organizzare un nuovo incontro con i sindaci".

Il ministro, insomma, non solo è convinto del fatto che "le ordinanze funzionano e questa è la strada giusta sulla quale proseguire", ma afferma anche: "Credo nel ruolo dei sindaci, e sono disposto a investire ancora di più nella figura del sindaco come il titolare della sicurezza sul territorio".

Le aperture di Maroni arrivano anche sulla proposta lanciata dal coordinatore tecnico scientifico dell’Anci, Franco Pizzetti: "Dobbiamo capire perché i piccoli Comuni non abbiano utilizzato lo strumento delle ordinanze, e lavorare per metterlo loro a disposizione: l’idea di favorire l’intervento delle Unioni dei Comuni è una strada da esplorare". Infine la riforma delle polizie locali, altro tema caro ai sindaci: "Sono d’accordo - dice Maroni - perché integrare le polizie locali, sia tra di loro che con gli altri comparti delle forze di polizia, vuol di e migliorare lo scambio di informazioni e migliorare l’efficacia delle centrali operative".

Giustizia: Firenze; sondaggio Anci, un viaggio nell’insicurezza

di Maurizio Abbati

 

La Repubblica, 24 marzo 2009

 

Sempre meno sicuri e sempre meno "padroni" della propria città, che sentono ogni giorno più ostile. E il fatto che ci siano realtà dove si sta peggio non è una consolazione. Soprattutto di fronte a fenomeni come lo spaccio di droga o il rischio di molestie sessuali, che in diversi casi rappresentano motivi validi anche per rinunciare ad uscire di casa, soprattutto alla sera.

È questa l’identikit dei fiorentini che traspare da un’indagine sulla percezione della sicurezza nelle aree metropolitane italiane condotta da Cittalia e presentata dall’Anci, che ha analizzato in modo particolare quelle che sono le "paure quotidiane" dei residenti delle grandi città, con problemi più o meno grandi di vivibilità.

Il primo dato che salta agli occhi è l’effetto che la crisi economica in atto ha già avuto sui fiorentini, che dimostrano di temere le conseguenze legate ai problemi di carattere economico, come la precarietà e la perdita del posto di lavoro, non meno del rischio di trovarsi vittima di atti criminosi. Tant’è che se alla domanda "cosa le fa più paura" il 32% del campione intervistato cita la micro-criminalità, ben il 28% risponde "la precarietà lavorativa" e un altro 20% "non mantenere il tenore di vita".

Tra i fattori che alimentano il senso di insicurezza, spicca invece la scarsa efficacia della giustizia, accanto però alla mancanza o precarietà di lavoro, all’aumento delle diseguaglianze e all’aspetto dell’immigrazione. Mancanza di sicurezza che per il 48% dei fiorentini rende più diffidenti e diminuisce la solidarietà, mentre per il 16% fa uscire meno di casa.

A vantaggio di Firenze, va detto che il 55% del campione avverte la città come abbastanza sicura, anche se nel 48% dei casi il timore è che nei prossimi mesi la situazione sia destinata a peggiorare, a causa della stessa crisi, che non potrà che aumentare il tasso di povertà. A questo va aggiunto che il grado di sicurezza non è uniforme in tutta la città, ma varia a seconda dei quartieri in cui ci si trova, tanto che il 40% dichiara di essere a conoscenza del fatto che esistono zone considerate "off limits", come le Cascine, vero e proprio "buco nero" della sicurezza, a cui si aggiungono varie altre aree, sia periferiche che del centro storico, su cui gli autori della ricerca restano un po’ nel vago. Anche se si potrebbero azzardare alcune ipotesi, senza timore di cadere in facili errori, solo prendendo spunto dalle cronache quotidiane.

Ma quali sono le vere paure dei fiorentini, quelle che più di tormentano al momento di uscire di casa, e i rischi dai quali mettono in guardia i propri figli? Quello che largamente più sembra colpire è il fenomeno dello spaccio di droga, associato all’alcolismo, che precede degrado e vandalismo, furti e scippi, atti di teppismo e immigrazione clandestina. In crescita anche la paura delle molestie sessuali, soprattutto per quanto riguarda l’universo femminile, Ma come hanno reagito i fiorentini a questa diminuzione della qualità di vita? E c’è qualcosa a cui hanno rinunciato per paura?

Ebbene la risposta più diffusa, a differenza delle altre grandi aree metropolitane italiane, è quella relativa alle uscite serali. Insomma si sta più a casa, e quando si va fuori si preferisce farlo in compagnia. Ma in tanti dichiarano anche di aver rinunciato a portarsi dietro molti contanti; scelta facilitata però dalla diffusione delle carte di pagamento,

Una Firenze che dunque sembra presentare tutti gli elementi tipici di una moderna metropoli (seppur assai piccola per numero di abitanti), capace di regalare opportunità, svaghi e occasioni culturali maggiori, ma dove c’è anche da fare i conti soprattutto con caos e inquinamento e con la consapevolezza, estremamente diffusa (62% del campione) di essere meno sicuri rispetto a chi abita nei centri urbani più piccoli e negli altri capoluoghi della regione.

Giustizia: stupro Caffarella; caso chiuso, Racz è stato liberato

di Francesco Tamburro

 

Ansa, 24 marzo 2009

 

Forse è arrivata la parola fine sul caso dello stupro della ragazzina di 14 anni avvenuto il giorno di San Valentino nel parco della Caffarella a Roma. È arrivata con la confessione dei due romeni arrestati venerdì, Ionat Joan Alexandru e Oltean Gavrila, unita alla coincidenza del dna con i profili genetici estrapolati dai reperti raccolti nel parco della Caffarella e sulla vittima. Il caso ormai sembra chiuso.

Rimangono ancora dei particolari da definire, in particolare se, come ipotizzato dal pm Vincenzo Barba, i primi due romeni arrestati, e poi scagionati, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, abbiano avuto un ruolo marginale nella vicenda, forse come pali. Il passaggio conclusivo è arrivato oggi con le confessioni di Alexandru, 18 anni, e Gavrilia, 27, davanti al gip Guglielmo Muntoni.

Sono loro i violentatori della Caffarella, hanno detto al magistrato nel corso dell’interrogatorio di garanzia. Entrambi hanno aggiunto di non conoscere Izstoika Loyos e Racz e di aver appreso dai quotidiani che i due erano stati arrestati. Gavrilia, inoltre, rischia di essere accusato per un altro stupro avvenuto nel luglio scorso sempre in un parco periferico a Roma.

La certezza della sua colpevolezza anche per questa violenza arriverà però dal test del dna. Alexandru ed a Gavrilia, già detenuti per la rapina di telefoni cellulari ad una coppia di fidanzati nel parco di via Lemonia il 15 febbraio, il giorno successivo all’episodio della Caffarella, si erano visti notificare le ordinanze di custodia cautelare il 20 marzo scorso.

Ad incastrarli, oltre ad una serie di indizi, anche il test del dna: il loro codice genetico era sovrapponibile con il dna rinvenuto sui reperti. A loro gli investigatori erano arrivati seguendo la pista di una serie di rapine tutte avvenute nei parchi della zona sud di Roma, tutte ai danni di coppie, tutte tra il 13 e il 15 febbraio.

"Alexandru ha fornito dettagli importanti su quanto commesso la sera del 14 febbraio - ha detto il pm Barba - Gavrilia ha dato una motivazione che dovrà essere valutata, ma i particolari forniti dal più giovane sono importanti perché danno maggiore certezza oltre alla prova regina del Dna". Una confessione dunque che assieme al test del dna fa tirare un sospiro di sollievo ad investigatori ed inquirenti dopo un mese di indagini serrate, incidenti di percorso e poi la svolta di venerdì scorso. Soddisfatto anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno: "si chiude così una tragedia che ha colpito tutto il Paese".

Intanto, dopo oltre un mese di detenzione, è tornato in libertà Racz. Dopo essere risultato estraneo dalla vicenda Caffarella, nella quale era rimasto coinvolto in seguito alle dichiarazioni di Iszotoika Loyos, oggi il tribunale del Riesame lo ha scarcerato revocando la misura cautelare emessa per lo stupro di una donna di 41 anni avvenuto il 21 gennaio in via Andersen, a Primavalle.

"Era un atto dovuto quello dei giudici del riesame - ha dichiarato l’avvocato Lorenzo La Marca, difensore del romeno - sono soddisfatto per la decisione dei giudici, chiederemo il risarcimento dei danni". E domani lo stesso tribunale del Riesame dovrà esaminare l’istanza di revoca dell’arresto di Iszotoika Loyos per la calunnia nei confronti di Racz e della polizia romena. Loyos infatti fornì una falsa confessione e, disse, che gli fu estorta dalla polizia romena dopo essere stato picchiato.

 

Racz libero dopo 35 giorni di carcere

 

Alle 19,45 dopo 35 giorni di carcere, Karol Racz ha lasciato Regina Coeli. Con lo sguardo fisso, senza mai abbassare la testa, il romeno accusato ingiustamente degli stupri di Primavalle e Caffarella, ha affrontato flash e telecamere prima di salire a bordo di un’auto assieme al suo avvocato, Lorenzo La Marca.

"Siamo pronti a chiedere il risarcimento danni, ma adesso non è il momento di parlarne - ha assicurato l’avvocato mentre attendeva l’uscita del suo assistito - Oggi abbiamo vinto una battaglia legale importante ma credetemi di gente come Racz ce ne è tanta in galera". Giacca blu, camicia a righe bianche e celesti, jeans: Faccia da pugile ha lasciato la cella circa due ore dopo la decisione del Tribunale del riesame.

La prima notte da uomo libero la trascorrerà in un albergo della capitale: "Non so cosa farà Karol in futuro - ha proseguito La Marca - ma mi sento in dovere di lanciare un appello: lui è un bravo pasticciere e fornaio, chiunque voglia offrirgli un lavoro lo faccia". Racz era stato arrestato in un campo nomadi di Livorno il 16 febbraio scorso.

A tirarlo in ballo per lo stupro della Caffarella era stato il suo amico Alexandru Loyos: i due vivevano in una tenda all’interno di un insediamento abusivo a poche centinaia di metri da via Andersen, a Primavalle, luogo dove il 21 gennaio avvenne lo stupro di una donna di 40 anni (per gli inquirenti Faccia da pugile era coinvolto anche in questa violenza).

La vittima conferma anche se non si dice "completamente sicura" che Racz sia il suo aguzzino. Un dubbio spazzato via dal test del Dna che scagiona il romeno sia dalla violenza di Primavalle che da quella del giorno di San Valentino. Oggi, dopo 5 settimane di carcere e dopo essersi dichiarato dal primo momento innocente, Racz torna libero.

Giustizia: intercettazioni; il "grande orecchio" sepolto dai debiti

di Paolo Colonnello

 

La Stampa, 24 marzo 2009

 

Altro che leggi di riforma: al governo Berlusconi basterà aspettare ancora qualche mese e delle intercettazioni non sentiremo più parlare. Se il Ministero del Tesoro non darà infatti ordine alla Banca d’Italia di saldare i debiti contratti dalle Procure per centinaia di migliaia di intercettazioni eseguite negli ultimi anni, le società che si occupano di fornire il know-how tecnologico per registrare telefonicamente e ambientalmente gli indagati d’Italia potrebbero fallire.

I dati forniti dal Guardasigilli Angelino Alfano parlano chiaro: il debito per le intercettazioni ammonta attualmente a più di 400 milioni di euro. E se si pensa che solo tre aziende, tutte collocate tra Milano e Cantù, fatturano da sole oltre il 70 per cento dei costi in Italia, si capisce come lo scenario prospettato poc’anzi non sia affatto fantasioso.

La Sio di Cantù, la Rcs di Milano e la Area di Binago, tutte Spa, sono infatti creditrici nei confronti dello Stato di oltre 140 milioni di euro, cifra che cresce esponenzialmente con il passare dei mesi e che non può essere bloccata pena l’interruzione delle intercettazioni.

"Il ministero non ha avuto neanche la decenza di convocarci - dice furibondo Alberto Zappa, segretario provinciale della Fim Cisl di Como, che si sta occupando della crisi del settore - e ora rischia di mettere in seria difficoltà la prosecuzione e la stabilità delle aziende che rappresentiamo".

A rischio ci sono 300 posti di lavoro: tutto personale altamente qualificato con una specializzazione nel settore che pare non abbia eguali al mondo. Da mesi vivono ormai con l’angoscia di non ricevere più lo stipendio visto che le loro aziende sono già fuori bilancio di oltre due esercizi di credito.

"Nessuno considera oggi i riflessi sull’occupazione - continua Zappa - e nemmeno che la discussione tutta politica della vicenda, ad oggi ha impedito di fare una seria informazione di come funziona il sistema delle intercettazioni, di quanto si spende e dove sono i costi improduttivi". La crisi per le tre società in realtà è iniziata nel luglio 2006 con il "decreto Bersani" che ribaltava completamente la logica seguita fino a quella data sulle intercettazioni, considerate "risorse indispensabili e di valore economico non prevedibile" e dunque equiparate dal legislatore a "spese obbligatorie". Le Procure liquidavano gli importi per i servizi richiesti tramite anticipi delle Poste che poi il Tesoro restituiva. Una gestione comoda e sicura per le aziende erogatrici di servizi, ma fuori controllo per le casse dello Stato con sperequazioni tra Procura e Procura anche di oltre 100 euro a intercettazione.

Dal luglio 2006 in pratica si è invertito il sistema: a pagare adesso è direttamente la Banca d’Italia che lo fa quando può. Lo Stato insomma non riconosce più alle intercettazioni il privilegio di "spese obbligatorie". I 400 e rotti milioni di cui parla Alfano non sono perciò debiti contratti in un solo anno ma almeno a partire dal 2006. Di più: se in termini assoluti 400 milioni di euro sono una spesa di tutto rispetto, in termini relativi lo sono meno e non riguardano solo le intercettazioni.

Si collocano infatti nel cosiddetto "capitolo 1360" - che oltre alle intercettazioni comprende comunque varie spese di giustizia: dai viaggi alle trasferte, dalle consulenze di periti alle spese postali. Analizzando l’andamento dei costi dal 2006 al 2008 (fonte Ministero della Giustizia) si scopre così che la spesa è diminuita di quasi 200 milioni, ovvero è passata da 634 milioni a 484.

E si stima che per il solo noleggio degli strumenti d’intercettazione, il costo vero si aggiri tra i 180 e 200 milioni di euro. Eppure secondo il ministero, dal 2005 il numero degli italiani intercettati, sarebbe cresciuto dell’80 per cento. Un dato inspiegabile o forse squisitamente "politico", essendo diminuito il costo delle intercettazioni di almeno il 25 per cento. Quindi se nel 2006 erano sotto controllo 109 mila utenze o ambienti, attualmente non dovrebbero essere più di 80 mila. Che non corrispondono ad altrettante persone ma a utenze, comprese quelle di chi cambia scheda anche più di una volta al giorno.

Ma quanto costa un’intercettazione? Se da una parte ci sono le tariffe fatturate dai vari gestori di telefonia e fissate da un esorbitante listino prezzi del 2001 per deviare le linee nelle 162 sale ascolto sparse per l’Italia (1,6 euro al giorno per un’intercettazione normale che diventano 2,05 euro per un cellulare e 12,5 per un satellitare), dall’altra vi sono i costi per il noleggio degli apparecchi di registrazione, per le microspie, per le telecamere, per la loro collocazione, etc.

Piazzare una microspia sull’auto di un evasore fiscale di Bolzano non è la stessa cosa che metterla su quella di un boss mafioso di Gela: costi e rischi, come s’intuisce, si moltiplicano. Trattandosi comunque di una ricca torta da spartire (il rimanente 30 per cento del mercato viene suddiviso tra microscopiche aziendine quasi tutte siciliane, 200 solo a Palermo), e nella totale assenza di bandi di gara, stabilire un tariffario univoco delle intercettazioni è pressoché impossibile.

Secondo Elio Cattaneo, titolare della Sio di Cantù, società partecipata tra l’altro da Ubaldo Livolsi, uno dei più ascoltati tesorieri di Berlusconi, il prezzo varia da zona a zona e dal grado di difficoltà per realizzare gli ascolti, con un costo medio di circa 40 euro al giorno per intercettazione. Non sono i tecnici delle società di noleggio a captare le telefonate, anche se si pone un problema di idoneità delle ditte private e dell’affidabilità del personale che non deve sottostare a nessun nulla osta. Secondo uno studio del Ministero, a Campobasso un’intercettazione costa 3,85 euro al giorno, mentre a Lodi se ne possono spendere 27. Peggio per le microspie che a Roma possono costare 19,05 euro al giorno mentre a Catania 195 euro. Costi che fluttuano solo sulla carta perché soldi veri, non ce ne sono più.

Giustizia: Cassazione; illegittime le intercettazioni "a catena"

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2009

 

No alle intercettazioni "a catena" se non si dimostra che esiste un collegamento tra l’indagine in corso e le persone che, via via, si vogliono intercettare. A dirlo non è il Governo, ma la Corte di cassazione, che nel bocciare il metodo Woodcook seguito nella maxi-inchiesta sulle tangenti della Federconsorzi, ha posto un freno all’uso debordante delle intercettazioni, ricordando che le norme vigenti prevedono dei vincoli ben precisi, se correttamente interpretate, consentono di tutelare "la sfera di riservatezza della persona dalle molteplici aggressioni che gli sviluppi tecnologici consentono sempre più agevolmente".

La sentenza è stata depositata ieri e arriva nel bel mezzo dell’iter legislativo del disegno di legge Alfano che, proprio allo scopo di limitare le intercettazioni "a catena" o "a strascico", vuole modificare le norme vigenti, limitando di fatto il ricorso agli ascolti. Il testo, finito al centro di aspre polemiche, sarebbe dovuto andare all’esame dell’Aula della Camera questa settimana ma slitterà, probabilmente, dopo Pasqua perché ha dovuto cedere il passo al federalismo e al decreto sulle quote latte. La Corte, ovviamente, non dice una parola sulla riforma, ma tra le righe lascia intendere che è superflua, perché la disciplina vigente, se presa sul serio, è già una barriera contro gli abusi e una garanzia per la privacy dei cittadini.

La linea del rigore ribadita dalla Cassazione per evitare il proliferare delle intercettazioni prevede che il giudice, nell’autorizzare gli ascolti, si assuma anzitutto la responsabilità di individuare l’esistenza di "gravi indizi di reato" (non necessariamente a carico della persona da intercettare) e spieghi perché è "assolutamente indispensabile" mettere sotto controllo una determinata utenza per la prosecuzione delle indagini. In particolare, deve dimostrare che esiste un "collegamento" tra l’indagine in corso e le persone che, via via, intende intercettare. È "inaccettabile" pensare di cavarsela con "formule di stile" o con il richiamo ad altri provvedimenti: la motivazione può anche essere sintetica, purché sia esplicita.

Ma la Corte bacchetta anche un’altra cattiva e diffusa prassi, quella di contestare agli indagati, inizialmente, il reato di associazione a delinquere (articolo 416 Codice penale), una sorta di "contenitore" per giustificare il collegamento tra gli indagati e il proliferare di "intercettazioni a catena". Non è corretto, secondo la Cassazione, perché il giudice deve indicare sempre "le ragioni per le quali è indispensabile attivare intercettazioni su una determinata persona". E non può omettere di indicare "il collegamento" tra questa e l’indagine in corso".

A bocciare il metodo seguito dal Pm di Potenza Henry John Woodcock nell’inchiesta sulle,, presunte tangenti della Federconsom - costola del filone "holding del malaffare" in cui finirono 76 indagati eccellenti, come Franco Marini, Sergio D’Antoni, Flavio Briatore, Tony Renis, Emilio Colombo, Luciano Gaucci, l’ambasciatore Umberto Vattani - era già stato il Gup di Roma, dopo il trasferimento dell’inchiesta nella capitale.

Il giudice aveva dichiarato di non doversi procedere contro i cinque indagati di quel filone, poiché le intercettazioni alla base dell’accusa erano inutilizzabili: si trattava infatti di conversazioni private, "come tali tutelate da norme costituzionali", autorizzate senza alcuna vera motivazione in un contesto "caratterizzato da un coacervo di iniziative investigative coinvolgenti un gran numero di indagabili per fatti diversi e scollegati l’uno dall’altro". La Corte ha confermato, dichiarando inammissibile il ricorso del Pm.

Giustizia: gli Educatori; assumere vincitori del Concorso 2003

 

Apcom, 24 marzo 2009

 

Gli educatori penitenziari manifestano domani a Roma "visto l’assordante silenzio" che arriva dal ministero della Giustizia sulla vicenda del concorso indetto nel 2003, che vede quasi 400 educatori "ancora in attesa di essere assunti".

Roberto Greco, segretario nazionale del Collettivo educatori penitenziari (Col.Edu.Pen) ricorda che "l’ultima assicurazione del ministro Alfano è datata 27 novembre 2008. Il ministro, in Commissione, garantì l’assunzione di tutti i 397 educatori vincitori del concorso 2003. Da allora, è calato il silenzio". "Il ministro Alfano - dice Greco in una nota - non risponde alle nostre domande, non ci riceve, evita il problema".

Oggi gli educatori sono "appena 800, a fronte di una popolazione carceraria che ha oltrepassato le 60mila unità: è uno scandalo, ma il ministro forse non lo sa". Il Col.Edu.Pen farà proprie le richieste avanzate lo scorso 14 gennaio, in una lettera, dal Comitato nuovi educatori penitenziari, che partono dall’assunzione in blocco, entro il 2009, dei 397 educatori vincitori di concorso (o almeno dei due terzi di essi).

Giustizia: Sappe; assunzioni e politiche della casa per poliziotti

 

Il Velino, 24 marzo 2009

 

Inizio oggi una serie di visite nei penitenziari di due delle Regioni del Settentrione d’Italia, Lombardia e Veneto, in cui sovraffollamento di detenuti e carenze di poliziotti penitenziari sono particolarmente gravi. In Lombardia si registrano circa 8.300 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di circa 5.400 posti mentre in Veneto le presenze si attestano a 3.100 ristretti rispetto ai 1.900 posti regolamentari.

E la situazione per quanto concerne gli organici del Personale è altrettanto allarmante: nei penitenziari lombardi mancano 1.200 poliziotti e 500 unità amministrative mentre in quelli veneti non meno di 500 agenti e 200 impiegati. Per questo particolare aspetto sarebbe allora opportuno che il Governo ed il Ministero della Giustizia adottassero interventi concreti per sanare le carenze degli organici del Nord, ad esempio bandendo concorsi pubblici a livello regionale e soprattutto prevedendo con gli Enti locali alloggi di edilizia agevolata in favore del personale di Polizia penitenziaria.

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di categoria dei Baschi Azzurri del Corpo.

Capece incontrerà oggi il provveditore regionale della Lombardia Luigi Pagano e visiterà successivamente il personale in servizio nel carcere milanese di Bollate. Domani si recherà nei penitenziari di Pavia, Milano Opera e San Vittore e incontrerà i dirigenti sindacali Sappe della Lombardia. Giovedì sarà a Padova, dove incontrerà il provveditore regionale del Triveneto Felice Bocchino e i quadri sindacali del Veneto. Venerdì, infine, visita al carcere di Treviso e partecipazione al Convegno organizzato dalla locale Segreteria Sappe sul tema "Al servizio della società", che prevede - tra le Autorità presenti - anche quella del ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Capece rilancia l’allarme per le criticità della situazione penitenziaria nazionale, caratterizzata da circa 61mila detenuti presenti nei 206 penitenziari italiani: "Con una media costante di 1.000 ingressi al mese e in assenza di provvedimenti deflattivi, le carceri italiane arriveranno ad avere a breve oltre 65mila detenuti, a tutto danno delle condizioni lavorative delle donne e degli uomini del Corpo che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive.

La questione generale del sovraffollamento penitenziario non può però trovare esclusiva risposta nello sviluppo dell’edilizia, per i tempi lunghi di esecuzione dei lavori ma soprattutto per la carenza di risorse umane. Bisogna arrivare ad esempio ad una maggiore espansione dell’esecuzione penale esterna, ossia il sistema delle misure alternative, che può essere incentivata offrendo garanzie di sicurezza credibili sia dal giudice che le dispone, sia dalla stessa collettività, prevedendo l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe).

Giustizia: l’Osapp; a fine settimana i detenuti saranno 61 mila

 

Il Velino, 24 marzo 2009

 

"Il ministro della Giustizia ha convocato le organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria per l’8 aprile prossimo, una convocazione senza oggetto di discussione che ci costringerà a portare sul piatto i problemi veri del carcere". Lo dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp.

"È inammissibile che tutto sia stato rimandato a maggio quando il commissario straordinario, che a sua volta è anche capo del dipartimento, presenterà il piano per l’incremento dei posti letto negli istituti di pena". "Nel frattempo non si muove nulla e il numero dei detenuti cresce, ad oggi siamo arrivati a quota 60.836, e l’andamento dei flussi fa presagire un’impennata degli ingressi alle 61 mila unità già entro la fine di questa settimana.

Ma i numeri non rivelano nulla se non calati nella realtà locale. Dopo Poggioreale e San Vittore, - aggiunge - oggi prendiamo in considerazione la casa circondariale Lo Russo Cotugno, a Torino. 1.600 detenuti presenti effettivi, quando in realtà le strutture ne possono ospitare solo 923. Qui si pratica la ‘carcerazione ginnica’, che consiste nel tenere i reclusi in palestra, costretti con un materasso a dormire per terra".

"Questo è uno dei tanti casi - continua Benedici - dove le condizioni igieniche sono estreme, e i carichi di lavoro per tutto il personale delle sezioni detentive, della matricola, del casellario, della sala avvocati e così via si sono praticamente quadruplicati. Dire oramai, qui, ma come in tutto il territorio nazionale, che il personale è allo stremo delle forze, è cosa vana.

Il Guardasigilli probabilmente non capisce che la gravissima carenza di organico, determina, nella quotidianità, anche scorte sottodimensionate a fronte della massiccia presenza di ingressi di arrestati. Che dire: la solita solfa. Manca il vestiario, i mezzi sono obsoleti, le strutture fatiscenti. È evidente che una tale situazione merita la giusta attenzione dell’amministrazione quanto a tutela della Polizia penitenziaria. E il Ministro - conclude il segretario generale dell’Osapp - ci viene ancora a prospettare che il piano è la soluzione finale di tutto".

Lettere: a Favignana le celle dieci metri sotto il livello del mare

 

Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2009

 

La mia pena? Tre anni in una cella messa a dieci metri sotto il livello del mare. Così si sconta, ancora oggi, una condanna nel carcere dell’Isola di Favignana. Una vecchia nave mi ha portato da Trapani a Favignana. La Pietro Novelli della Siremar.

Dovevo capire dalla traversata, cosa sarebbe stata la mia detenzione. Ammanettato mi hanno chiuso sotto, ovvero dentro un piccolo magazzino messo in un lato della stiva, dove ci sono le automobili. Un incidente e avrei fatto la fine del topo.

Il viaggio: chiuso in quel magazzino e seduto su corde, bidoni ed altri attrezzi. Come una bestia. Arrivati a destinazione, c’è voluto poco a raggiungere il carcere. Ad andare di nuovo sotto. A Favignana, infatti, a pochi metri dalla piazzetta dove d’estate si prende l’aperitivo, c’è il carcere. Superato il portone del carcere: silenzio. Mi turbava quel silenzio. Sembrava di stare in un monastero. Si chiude il portone dietro di me. Davanti: solo una discesa che porta sotto. Il carcere di Favignana è tutto sotto terra. Gli uffici, l’infermeria, le celle.

Scendo all’ufficio matricola, scendo in infermeria e alla fine scendo in cella. Dieci metri sotto il livello del mare. Quando si dice toccare il fondo. Entrato in cella, capisco quel silenzio. Una vera e propria caverna. Sotto terra e senza finestre. Lì sotto, solo pareti intorno a noi. Lì sotto un muretto separava la cella dal cesso. Cesso con un piccolo fornello da campo per farci la pasta.

Lì sotto altri 3 detenuti pallidi e muti interrompevano un sonno sedato per darmi un’occhiata. Lì sotto c’era la muffa, l’umidità, gli intonaci che si staccavano. Vado al cesso, apro il rubinetto per bere. Qualcuno sulla branda ride, mentre mi sente sputare.

Lì sotto l’acqua non si può bere, perché è salata. È quella del mare. Così è iniziata la mia detenzione a Favignana. E così è continuata. Una vita da sepolti vivi. Una vita sempre uguale e degradata, a cui non riesci ad abituarti. Ti senti una merda e non ti abitui a stare chiuso in cella (senza finestre) per 22 ore al giorno. Ti senti una merda e non ti abitui ai topi che stanno in cella con te. Non c’è mai abitudine alla perdita di dignità. Ti senti solo sgretolare piano, piano. Ti abitui a capire se il mare è mosso, perché le onde sbattono sui muri delle celle. Ti abitui a capire quando arriva l’aliscafo, perché un altro tipo di onda sbatte sui muri della cella. Ma non ti abitui a fare l’ora d’aria in un cortile che sta a 10 metri sotto terra. Cielo a quadretti anche di giorno e la fine del muro di cinta al livello del mare. Ogni tanto qualcuno di noi provava a saltare per riuscire a vedere qualcosa che non fosse muro. Una mano sulla spalla di un compagno era il punto di appoggio per conquistare un po’ panorama.

"Hai visto qualcosa?" "No, niente è troppo alto il muro". In un angolo un vecchio detenuto si godeva la scena e scuoteva la testa. Non capiva l’inutile tentativo. L’orizzonte, lui, l’aveva dimenticato. Poi di nuovo in cella. In quella cella. Alcuni detenuti fortunati potevano andare ogni tanto nella "saletta artigianato". C’è un tavolo e qualche attrezzo. Per noi detenuti a Favignana quella pena non aveva domande o alternative, né misure alternative.

Se uno di noi chiedeva di parlare con l’educatore, rischiava di prendere rapporto. Io sono uscito con l’indulto, se no stavo ancora il quella topaia. In un carcere così tu detenuto sei un numero. E come numero non puoi chiedere più di tanto. Succede che qualche detenuto non ce la fa più e protesta. Allora loro lo mettono nella cella di isolamento. La colpa: essersi ricordato di esser un uomo. Lo lasciano nudo, in mutande, al freddo. Senza neanche il materasso, ma solo la rete di ferro per dormire. Io l’ho visto un ragazzo messo all’isolamento. Dovevo pulire lui e la cella.

C’era uno schifo che non ti dico… poveraccio. Un paio d’anni fa un ragazzo si è impiccato in quella cella. Non ce l’ha fatta a resistere. Il carcere di Favignana sembra fatto a posta per farti sentire una merda. Anche il solo mangiare è occasione per avvilirti. 19 euro a settimana, questo è quanto il carcere spende per far mangiare un detenuto. Mò, con 19 euro a settimana, che manco un cane, cosa potevamo mangiare? Sbobba. Sbobba condita. E sì perché il carrello col vitto ce lo portavano in cella passando dal cortile esterno del carcere. E qui sta il bello! Quando pioveva ci arrivava la pasta piena di pioggia, e quando c’era il sole i piccioni ci facevano i bisogni dentro. Nel carcere di Favignana non ti puoi lamentare col direttore perché non c’è.

Lì c’è solo, come lo chiamiamo noi, Barbabianca. Io da poco sono uscito, ma nel carcere di Favignana ho conosciuto l’ansia. Oggi sembro un reduce di guerra. Di notte ho gli incubi. Spesso sono depresso. Mi aiuta lavorare, vado avanti con 309 euro al mese. Ma la cosa più difficile per me non è andare avanti. È dimenticare. Dimenticare quella pena. Dimenticare il carcere dell’isola di Favignana, e gli occhi di chi sta ancora lì sotto.

 

Lettera firmata

Sardegna: le carceri al collasso, gli agenti in stato di agitazione

 

L’Unione Sarda, 24 marzo 2009

 

"Il sistema penitenziario sardo è al collasso, gravissima la situazione del personale." I sindacati degli agenti di polizia penitenziaria, per la prima volta uniti sotto la stessa bandiera, sono sul piede di guerra e minacciano clamorose forme di agitazione se non verrà aperto un tavolo al ministero Un sit-in di protesta degli agenti di polizia penitenziaria davanti al carcere di Buoncammino.

I numeri della crisi parlano chiaro: la pianta organica del ministero, che risale al 2001, quando cioè il carcere funzionava a regime ridotto, prevede 1.324 unità di cui 1.220 uomini e 104 donne. Attualmente, lamentano i rappresentanti del Sappe, Osapp, Uilpa, Cisl, Cisappe, Cgil, Uspp e Fsa, sono in organico 1.154, con un sottodimensionamento di quasi duecento unità.

Inoltre, dal 2001 a oggi sono aumentate le competenze, e come se non bastasse il personale andato in pensione non è stato sostituito. In Sardegna, denunciano i sindacati, servirebbero almeno 1.600 agenti mentre al 15 febbraio 2009 ne sono presenti 1.153 (1.091 uomini e 62 donne). Il risultato è la difficoltà di vivere normalmente una vita privata, data l’impossibilità di assentarsi per godere di ferie e congedi parentali.

La protesta. La mobilitazione del lavoratori del settore sfocerà in due iniziative di protesta. La prima, lunedì 30 marzo, in tutte le mense dei 12 penitenziari sardi con l’astensione degli agenti dalla pausa pranzo, la seconda lunedì 6 aprile con un sit-in in piazza del Carmine davanti alla sede della rappresentanza del Governo.

Un tavolo al ministero. Questa mattina le otto Organizzazioni sindacali hanno anche inviato una lettera al Ministero e alla Regione chiedendo l’attivazione di un tavolo politico nazionale e di uno tecnico regionale per affrontare le criticità del settore penitenziario nell’Isola.

Caligaris: ecco le priorità. La situazione sanitaria dei detenuti nelle carceri dell’isola, la necessità di rendere operativo il reparto dell’ospedale di Is Mirrionis di Cagliari dedicato a chi vive dietro le sbarre, anche per alleggerire il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, e la rapida apertura delle case per madri detenute con minori di tre anni sono le priorità segnalate con una lettera all’assessore regionale della Sanità Antonello Liori dalla ex consigliera socialista Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme".

"Vi è l’urgenza - scrive, tra l’altro, Caligaris - di aprire appositi reparti negli ospedali dei capoluoghi di provincia dove sono ubicate le case circondariali per il ricovero di detenuti affetti da particolari patologie non curabili nelle infermerie degli istituti di pena e nel centro clinico, l’unico presente in Sardegna, del carcere di Cagliari. Una carenza che colloca il capoluogo sardo, a 16 anni dall’approvazione del decreto legge 14 giugno 1993, n. 187, agli ultimi posti in Italia. Nell’ospedale di Is Mirrionis il reparto attende solo l’inaugurazione".

Campania: l'allarme degli agenti; carceri verso il tutto esaurito

di Giuseppe Crimaldi

 

Il Mattino, 24 marzo 2009

 

Poggioreale? Tra qualche giorno, nel carcere, resteranno solo pochi posti. E saranno solo posti in piedi. Più che di allarme, si tratta di una previsione destinata inevitabilmente a trasformarsi in drammatica realtà. Questione di giorni, forse di ore.

Le carceri di Napoli, come del resto quelle della Campania, stanno esplodendo. I dati ufficiali parlano chiaro e si riferiscono ad una situazione aggiornata al 17 marzo scorso: solo a Poggioreale la popolazione detenuta presente conta 1.387 presenze, a fronte di una capienza massima regolamentare di 1.308; meglio non va a Secondigliano, dove i detenuti sono 1.236 (e dove, al massimo, dovrebbero essercene non più di 1079). Un disastro, insomma.

Una situazione che si fa di giorno in giorno sempre più calda e insostenibile. Per tutti, perché naturalmente è di persone che qui si parla, sia quando ci si riporta ai detenuti sia quando ci si riferisce a chi li controlla, e cioè agli agenti della polizia penitenziaria, i cui organici sono peraltro fermi agli stessi di molti anni fa. E proprio dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria parte l’Sos. "Il pianeta carcerario, a Napoli e in Campania, attraversa un momento gravissimo - dice Emilio Fattorello, segretario regionale del Sappe - Per intenderci, Siamo tornati nelle stesse condizioni che si vivevano nei giorni del pre-indulto. Servono interventi urgenti per scongiurare questo congegno ad orologeria la cui miccia è ormai accesa".

I dati relativi al superaffollamento degli istituti carcerari mostrano cifre in rosso anche in altre strutture della nostra regione. A cominciare dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove gli argini sono stati ormai rotti da tempo. Se i livelli di "tollerabilità" segnano un massimo di 547 unità, al 17 marzo scorso i detenuti reclusi effettivi erano addirittura 878. Nemmeno Benevento fa eccezione: 394 le persone recluse, a fronte di una media prevista dalle tabelle del Provveditorato regionale del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che ne prevedono 247. Sia chiaro: l’amministrazione fa il possibile - e in molti casi anche l’impossibile - per tenere salvaguardare condizioni tanto emergenziali. Ma i numeri, alla fine, sono quelli che sono.

"Da tempo - prosegue il segretario regionale del Sappe Fattorello - il ministero della Giustizia ricorda a tutti gli operatori carcerari il principio della "umanità della pena", esortando ad applicare questo sacrosanto principio; eppure, in presenza di anomalie logistiche e strutturali, come si fa a non concludere che le carceri della Campania stanno drammaticamente diventando contenitori di carne umana". L’inferno carcerario è una realtà a due facce. A viverla ci sono i detenuti, ma subito dopo anche gli agenti della Penitenziaria.

I quali - tanto per fare un esempio - devono, tra i tanti compiti d’istituto assolvere anche all’organizzazione dei colloqui tra carcerati e familiari. Soltanto a Poggioreale, se ne svolgono 530 ogni giorno: e questo mobilita un vero e proprio esercito di agenti in divisa blu, oltre 2000, chiamati a "filtrare" il delicato momento degli incontri tra detenuti e familiari.

"Della situazione strutturale degli edifici che ormai esplodono per il sovraffollamento si è detto - conclude Fattorello - Purtroppo nulla si muove neanche sul fronte del rafforzamento dei nostri organici. E i nostri concorsi restano bloccati". Con queste premesse l’estate potrebbe rappresentare un nuovo, difficile banco di prova per l’amministrazione penitenziaria.

L’ultima tragedia si è consumata solo pochi giorni fa. Nel silenzio pressoché generale, un altro detenuto di Poggioreale si è tolto la vita. e il secondo che lo fa dall’inizio dell’anno. Se è vero che la pena deve passare - come ricorda anche il Dap e il ministero della Giustizia - attraverso princìpi di umanità e rispetto della persona, la realtà spesso dimostra che il carcere resta uno dei luoghi nei quali non solo non si rieduca, ma dal quale c’è chi non riesce ad uscirne vivo.

Tra le varie organizzazioni che si occupano dell’universo carcerario c’è sicuramente l’associazione Antigone, che cura l’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione e sull’esecuzione penale. Drammaticamente, però, quello dei suicidi è un discorso che investe anche chi veste una divisa e lavora all’interno delle strutture penitenziarie.

Anche su questo versante le cifre sono sconvolgenti: negli ultimi due anni si sono infatti registrati ben 25 suicidi in tutta Italia di agenti in servizio presso la polizia penitenziaria. Una cartina di tornasole che conferma quanto difficile sia vivere, giorno per giorno, un inferno chiamato carcere. Cresce a dismisura il numero dei detenuti tossicodipendenti (in Campania erano 1591 al 31 dicembre scorso) e di quelli stranieri (910).

Significativi sono pure gli ultimi dati che offrono uno spaccato anagrafico della popolazione detenuta a Napoli e in Campania: oltre 1620 i detenuti di età compresa tra i 21 e i 29 anni, 2.650 quelli dai 30 ai 39. Da un recente studio interno al Dap emerge un report interessante: rispetto alle misure alternative significativo appare il dato della recidiva, che resta basso. I detenuti che avevano scontato la loro pena in carcere fino all’ultimo giorno tornavano a commettere nuovi reati nel 68,45 per cento dei casi, mentre la recidiva è risultata inferiore 20 per cento per coloro che sono rientrati gradualmente nella società, attraverso una misura alternativa e quindi con un percorso di "accompagnamento controllato".

Tutto ciò - ovviamente - a vantaggio di chi si reinserisce e della società tutta, anche in termini di sicurezza sociale. Il guaio, sottolineano gli addetti ai lavori, è che all’indomani dell’approvazione del provvedimento di indulto - che era riuscito a decongestionare gli istituti penitenziari - non è accaduto nulla. Nulla capace di rendere più agevoli i percorsi di reinserimento sociale dei detenuti tornati in libertà, e nulla sul piano della programmazione in termini di ampliamento delle strutture destinate a ospitare la popolazione carceraria.

Il Dap fa quel che riesce a fare. Con grande sacrificio personale, il personale della polizia penitenziaria riesce - tra i tanti compiti che gli vengono assegnati - anche a garantire le scorte. Un numero per tutti, quanto mai eloquente: per i soli trasferimenti dei detenuti che hanno bisogno di cure in ospedale, in media sono 16mila i turni programmati da parte della Penitenziaria ogni anno.

Sicilia: condizioni preoccupanti dell’Ucciardone e di "Pagliarelli"

 

Adnkronos, 24 marzo 2009

 

La deputata Radicale Rita Bernardini, membro della Commissione Giustizia, ha depositato due interrogazioni parlamentari, dopo essersi recata in visita agli istituti di pena di Palermo "Ucciardone" e "Pagliarelli", accompagnata dall’avvocato Fabio Calderone, responsabile dell’osservatorio Carcere della Sicilia Occidentale dell’Unione delle Camere Penali, e da Donatella Corleo, riferimento locale di Radicali Italiani. Nelle due interrogazioni Bernardini si rivolge al ministro della Giustizia, per "chiedere conto delle difficili condizioni riscontrate in entrambi i carceri".

Nell’istituto "Ucciardone" la deputata, si legge in una nota dei Radicali, ha ravvisato "una grave situazione di sovraffollamento (690 i detenuti ospitati a fronte di una capienza regolamentare di 419), che unita al forte deficit di personale (solo 350 agenti penitenziari invece dei 530 previsti dalla pianta organica, risalente al 2001 e non più aggiornata), rende ancora meno sicura una struttura che già di per sé si presenta inidonea ad ospitare i cittadini detenuti".

"Infatti la fatiscenza dell’edificio, una fortezza borbonica, dove il tempo pare essersi fermato al 1832, oltre a presentare un forte rischio di crolli, rende scarsissime le condizioni igienico-sanitarie: il sovraffollamento - proseguono i Radicali - non consente di separare le persone affette da malattie trasmissibili dalle altre; i detenuti sono spesso costretti a fare docce gelate a causa del non funzionamento della caldaia e l’intero istituto non è dotato di impianto di riscaldamento. Il trattamento dei detenuti è molto carente anche sotto l’aspetto della socialità e della rieducazione, soprattutto a causa della drastica riduzione degli stanziamenti".

Al ministro Alfano, riferiscono ancora i Radicali, "il quale recentemente ha definito incostituzionali le carceri italiane", Rita Bernardini chiede di "sapere se sia a conoscenza delle gravi carenze del carcere palermitano dell’Ucciardone"; del fatto che, contrariamente quanto sancito dalla Costituzione, il trattamento riservato ai detenuti dell’Ucciardone sia contrario al senso di umanità e che in queste condizioni sia impossibile tendere alla rieducazione del condannato, e cosa intenda fare per ripristinare la legalità nell’istituto".

"Meno drammatiche dal punto di vista dell’igiene e della solidità strutturale, ma non per questo meno preoccupanti, le condizioni del carcere Pagliarelli, le cui risorse per la manutenzione sono ridotte - sottolineano i Radicali - quasi a zero. L’istituto ospita 1.206 detenuti, ma non potrebbe contenerne più di 999 e anche qui il personale risulta insufficiente (71 unità in meno del previsto).

"Il problema più serio riguarda la presenza di detenuti stranieri, che rappresentano il 50 per cento del totale, decine dei quali provengono da veri e propri sgomberi effettuati nelle carceri del nord Italia, che, oltre a rendere pressoché impossibili i rapporti con le famiglie, gravano pesantemente sulle risorse pubbliche - concludono i Radicali - le udienze processuali, infatti, si svolgono nei tribunali delle zone di provenienza. La deputata radicale si è dunque rivolta al ministro della Giustizia per sapere se sia a conoscenza della problematiche dell’istituto Pagliarelli e come intenda intervenire per risolverle".

Lombardia: sensibilizzazione a imprese; date lavoro ai detenuti

 

Adnkronos, 24 marzo 2009

 

Realizzare iniziative di sensibilizzazione rivolte alle imprese per diffondere una cultura che permetta l’inserimento lavorativo dei detenuti; valorizzare le realtà produttive che già operano con il sistema carcerario; promuovere azioni di comunicazione per sollecitare l’attenzione del mondo imprenditoriale sull’inserimento lavorativo dei detenuti.

Sono questi i tre obiettivi del progetto, promosso da Regione Lombardia e da Unioncamere Lombardia in collaborazione, tra gli altri, con Confindustria, Confcooperative e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, "Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e sicurezza". L’iniziativa è stata illustrata oggi in un convegno in Regione Lombardia, i cui lavori sono stati aperti dal sottosegretario ai Diritti dei cittadini e alle Pari opportunità, Antonella Maiolo. Per il progetto è previsto un finanziamento di 68.000 euro, 35.000 dei quali messi a disposizione da Regione Lombardia.

Roma: Lehner (Pdl); detenuti di Rebibbia in sciopero della fame

 

Adnkronos, 24 marzo 2009

 

"Detenuti del reparto G8, detto penalino, del carcere romano di Rebibbia Nuovo complesso sono entrati in sciopero della fame per chiedere la riapertura della sala colloqui, chiusa dalla scorsa estate". È quanto ha spiegato all’Adnkronos il deputato del Pdl Giancarlo Lehner che oggi si è recato in visita al carcere.

"I detenuti - sottolinea Lehner - hanno inviato una lettera al dirigente Carmelo Cantone sulla loro protesta pacifica. Chiedono la riapertura della sala addetta ai colloqui nel reparto: la sala era stata chiusa l’estate scorsa e la riapertura era stata fissata per il primo ottobre ma ad oggi è ancora chiusa. Questo - prosegue - comporta disagi abbastanza pesanti alle famiglie che sono costrette a fare colloqui nel reparto centrale, dove c’è un sovraffollamento. Prendo atto che possono sorgere delle difficoltà, dei problemi psicologici per i detenuti, che non possono essere colpiti negli affetti".

"Corre voce che domani i detenuti saranno convocati - aggiunge - e credo che possa essere offerta loro una risposta positiva". "Durante la mia visita ha trovato il carcere ben servito e ben curato", ha detto Lehner aggiungendo di aver ricevuto "da un detenuto che si sente vittima di un errore giudiziario, una lettera-istanza per il ministro della Giustizia Angelino Alfano, che consegnerò al ministro".

Messina: partita indagine della Procura su carcere di Mistretta 

 

www.livesicilia.it, 24 marzo 2009

 

Parte l’indagine della Procura sul carcere di Mistretta. Parte dopo una nostra intervista al dirigente dell’ufficio del garante regionale per i diritti dei detenuti che aveva definito quel carcere disumano. Lui, Lino Buscemi, dice che quell’ufficio è appena all’inizio della battaglia di civiltà per carceri più umane. ringrazia: "Quell’intervista con voi ha pesato molto".

Prego, verrebbe da dire. Non capita spesso che i giornali siano il motore inconsapevole di qualcosa di buono e siamo sicuri che la Procura agisce perché ha in mano tanta altra roba, non siamo così egocentrici. Ma quando c’è il benigno sospetto che un articolo abbia prodotto un buon effetto, bisogna stappare una metaforica bottiglia di champagne. La notizia dell’indagine è stata data per mezzo di comunicato.

Il senatore Salvo Fleres, Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, ha dichiarato: "Le denunce che da tempo formulo pubblicamente e con atti formali, sulla intollerabile situazione carceraria siciliana, con particolare riferimento alle pessime condizioni delle carceri: Piazza Lanza di Catania, Ucciardone di Palermo, Mistretta, Favignana, San Cataldo, Modica e Marsala, cominciano a produrre iniziative positive da parte delle autorità competenti.

Apprendo che la Procura della Repubblica di Mistretta, diretta dal Procuratore Capo Luigi Patronaggio, ha aperto un fascicolo esplorativo sulle condizioni della struttura carceraria di quel comune che ospita 50 detenuti rispetto ai 16 che potrebbe ospitarne. Mi auguro che la magistratura attivi ogni meccanismo di verifica e di conformità alla legge, al fine di individuare le eventuali responsabilità e per una efficace tutela della dignità della persona e dei diritti delle persone private della libertà personale". È un augurio che facciamo nostro. È una battaglia che combatteremo.

Parma: dieci detenuti al lavoro, nei parchi regionali del Taro

 

La Repubblica, 24 marzo 2009

 

Riscattarsi attraverso il lavoro, "pagando" il reato che si è commesso facendo qualcosa di utile per la comunità e allo stesso tempo trovare un modo per tornare nella società e ricominciare a vivere nella legalità.

Sono queste le opportunità fornite dal progetto promosso dalla Provincia insieme agli Istituti penitenziari di Parma e realizzato grazie al sostegno di Fondazione Cariparma, con il quale un gruppo di detenuti eseguirà lavori socialmente utili nei parchi regionali dei Boschi di Carrega e del Taro, e nei comuni di Collecchio e Traversetolo.

Avviato nel 2007 con il titolo "L’ambiente?Un’opportunità" e proseguito nel 2008, la terza edizione del progetto si chiama "Il lavoro: alternativa sociale al carcere" e offrirà a dieci detenuti degli Istituti Penitenziari di Parma altrettante opportunità di reinserimento socio-lavorativo.

Oggi in Provincia, in occasione dell’avvio dei percorsi di lavoro, si sono ritrovati tutti i protagonisti dell’iniziativa: i detenuti con il personale del carcere, gli operatori dei Parchi e delle cooperative sociali in cui sono stati attivati i tirocini attraverso l’ente di Formazione Forma Futuro, i rappresentanti delle istituzioni che hanno promosso e sostenuto il progetto.

"È un progetto dai buoni risultati nelle due annualità presedenti l’80% di chi ha partecipato è ora al lavoro o nelle cooperative sociali o presso un’azienda privata e questo è un importante indicatore di reinserimento sociale" - ha detto l’assessore provinciale alle Politiche sociali, Tiziana Mozzoni. "Il nostro obiettivo è quello di portare tutti questi giovani partecipanti al progetto a reinserirsi nella società" ha sottolineato Gabriella Meo.

"Dare opportunità di riscatto a chi si trova in questa particolare condizione è un dovere per la società ed è con questa consapevolezza che Fondazione Cariparma ha voluto elargire il proprio sostegno" ha affermato il consigliere di Fondazione Cariparma Enore Guerra.

"Questo percorso viene realizzato nell’ambito di azioni già avviate all’interno del carcere di cui questi ragazzi si sono resi meritevoli" ha spiegato la vicedirettrice degli Istituti penitenziari di Parma Lucia Monastero.

"Consideriamo importante che anche chi accompagna il loro lavoro, e penso ai dipendenti comunali, sia parte del progetto" ha detto Cristina Merusi, presidente del Parco regionale dei Boschi di Carrega. "Per noi che abbiamo seguito fin dall’inizio questa iniziativa è stata un’esperienza molto forte, davvero positiva sia dal punto di vista professionale che umano" ha ricordato Renato Carini responsabile della sorveglianza del Parco regionale del Taro.

"In questo ambito si riscopre che il valore del lavoro è il primo elemento per l’autonomia e la dignità umana" ha ricordato Paolo Bianchi assessore di Collecchio. "È doveroso per una comunità intraprendere cammini come questo che sono un’opportunità non solo per questi ragazzi ma per tutti" ha commentato Cecilia Greci responsabile dell’Agenzia per la famiglia del Comune di Parma.

"È un piacere accompagnarli in questo progetto - ha detto Giuseppe Silvestri di Forma Futuro - I risultati positivi sono anche una nostra soddisfazione" . "Per le nostre cooperative questa è una delle iniziative di maggiore valore, che ci permette di testimoniare che si garantisce la sicurezza dei cittadini anche attraverso questi percorsi alternativi" ha osservato Liliano Lamberti presidente del Consorzio di solidarietà sociale.

I 10 detenuti saranno impegnati fino al 15 giugno (50 giorni di tirocinio + 10 giorni di "volontariato") per 30 ore settimanali, compreso un percorso formativo in aula di 10 ore. Seguiti da tutor saranno chiamati a eseguire diverse opere di manutenzione ordinaria e straordinaria. Nei due Parchi si occuperanno ad esempio di sentieristica, sfalcio e allargamento dei sentieri, messa a dimora di alberi, verniciatura arredi in legno, messa in sicurezza delle passerelle, ponti e staccionate. Nei comuni di Collecchio e Traversetolo faranno i tinteggi di edifici pubblici, la pulitura di fossi, pulizia e cura del verde, manutenzione di panchine, giochi bimbi.

Caserta: sportello d'orientamento e informazione per i detenuti

 

Caserta News, 24 marzo 2009

 

Dopo il Protocollo d’intesa firmato lo scorso 19 febbraio per promuovere l’attività lavorativa e l’integrazione sociale di detenuti ed ex detenuti, parte il progetto del primo "Sportello di orientamento e informazione" della provincia di Caserta. Progetto che verrà presentato il prossimo 27 marzo, alle ore 9, presso il teatro "Giuseppe Garibaldi" di Santa Maria Capua Vetere nell’ambito del convegno dal titolo "Insieme oltre il carcere".

Un evento organizzato dal Settore dei Servizi sociali del Comune di Santa Maria Capua Vetere. Relatori dell’incontro saranno il sindaco, Giancarlo Giudicianni, la dirigente del Settore, Erminia Cecere, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania, Tommaso Contestabile, e Paola Tarsitano, presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Santa Maria Capua Vetere.

Lo sportello oltre agli ex detenuti, i loro familiari e le persone sottoposte a misura alternativa, sarà utile anche a coloro che per motivi di studio o lavoro necessitino di informazioni inerenti l’esecuzione penale esterna. L’Ufficio di esecuzione penale assicurerà la presenza di un assistente sociale una volta a settimana. Lo sportello informativo interprofessionale di "primo livello" sarà ubicato presso la sede dei Servizi sociali.

Ivrea: agenti penitenziari protestano contro il nuovo direttore

di Vincenzo Iorio

 

La Sentinella, 24 marzo 2009

 

Condizioni di lavoro inaccettabili, disposizioni che metterebbero a repentaglio la sicurezza dell’istituto e atteggiamenti che provocherebbero reazioni preoccupanti da parte dei detenuti. È duro, durissimo, il documento sindacale degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Ivrea che hanno già dichiarato lo stato di agitazione. Nel loro mirino finisce il nuovo direttore, Maria Isabella De Gennaro, in servizio da appena cinque mesi, accusata in primis di eludere le relazioni sindacali. Il documento, firmato da tutte le otto sigle sindacali, è stato inviato al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi, e al ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

"La direttrice - scrivono gli agenti - , in maniera del tutto unilaterale, ha variato l’organizzazione del lavoro, imponendo al servizio di pattuglia, utilizzato per la sicurezza esterna, compiti amministrativi, come il ritiro postale e la consegna della corrispondenza, mettendo, a nostro parere, a repentaglio la sicurezza dell’istituto eporediese". Ma c’è dell’altro, perché i sindacati accusano De Gennaro di aver imposto ad un agente di farle da autista "con conseguente aggravio a carico del personale di polizia penitenziaria".

"Non era mai accaduto che tutte le sigle sindacali, confederali e autonome, firmassero un documento unitario - spiega Luca Massaria, delegato regionale Osapp - Questo a dimostrazione della gravità della situazione. Il direttore si rifiuta di parlare con noi, ma evita anche di incontrare i detenuti delle sezioni ordinarie, provocando nella popolazione carceraria reazioni preoccupanti che si ripercuotono sulla loro custodia e ricadono su noi agenti che dobbiamo sopperire ai compiti demandati alla direzione".

Ma ancora più grave, secondo la denuncia del sindacato, è il modo in cui vengono gestiti i procedimenti disciplinari nei confronti della popolazione detenuta. "I provvedimenti non vengono portati a termine - si legge ancora nella nota - , facendoli decadere per decorrenza dei termini. Tale procedura, ovviamente, si ripercuote negativamente sulla governabilità delle sezioni e su tutto il personale che vi opera, specie se lo stesso che ha avviato le procedure disciplinari".

Gli agenti di Ivrea chiedono un’ispezione urgente per verificare la veridicità di quanto affermato da loro "e una volta accertata la veridicità severi provvedimenti nei confronti del dirigente, finanche l’avvicendamento con un altro direttore". "Più volte in questi mesi abbiamo chiesto al direttore di incontrarci, di dialogare, di aprire un confronto sui problemi del carcere - spiega Francesco Mura, delegato Cigl - , ma da parte sua non c’è stata mai risposta. Adesso, purtroppo, ci troviamo in una situazione insostenibile.

A questo atteggiamento da parte della direzione, si aggiungono i problemi storici della nostra struttura: personale numericamente carente e una popolazione carceraria di 230 persone, contro una capienza di 160. E da qui all’estate verrà riaperto un piano, chiuso ora per lavori, che ospiterà altri 100 carcerati". Cerca di gettare acqua sul fuoco Gerardo D’Errico, sostituto comandante degli agenti penitenziari di Ivrea. "I problemi ci sono, su questo non ci sono dubbi - spiega -.

Adesso, però, occorre sedersi tutti attorno ad un tavolo, riannodare i fili del dialogo e ripristinare condizioni di lavoro soddisfacenti". Raggiunta al telefono, Maria Isabella De Gennaro respinge con forza le accuse che le sono piovute addosso dai sindacati. "Sono arrivata ad Ivrea il 23 novembre scorso, per un periodo di tre mesi e solo da poco il mio incarico è stato confermato - spiega -.

Questa è una realtà nuova per me e ho utilizzato queste prime settimane di lavoro per capire l’ambiente e per conoscere a fondo i problemi. Non mi sono mai rifiutata di incontrare le organizzazioni sindacali e lo farò al più presto". Sulla pattuglia esterna utilizzata per il ritiro della posta, De Gennaro spiega che è stato un provvedimento necessario.

"L’ho fatto solo per snellire le procedure e per risolvere, in maniera provvisoria, un problema di natura organizzativa - aggiunge la direttrice -. Io mi rendo conto delle difficoltà in cui lavora il personale, so benissimo che una struttura come quella di Ivrea avrebbe bisogno di altri sessanta agenti. Fino ad oggi ho preso delle decisioni transitorie, ma avevo bisogno di un po’ di tempo per capire come funziona la macchina organizzativa. Tutte le soluzioni sono perfettibili e attraverso il dialogo sono certa che i problemi sollevati dagli agenti verranno risolti".

Lodi: i libri del carcere, nel sistema bibliotecario della provincia

 

Il Cittadino, 24 marzo 2009

 

Le sbarre non fermano la lettura e nemmeno il pensiero. I detenuti di via Cagnola da oggi possono avere a disposizione i libri conservati nelle altre biblioteche del territorio. Ma anche i cittadini che vivono fuori dal carcere possono leggere i volumi di via Cagnola.

La biblioteca carceraria, infatti, è entrata a far parte del sistema bibliotecario provinciale. Dopo l’ampliamento degli spazi e la riorganizzazione degli orari e del servizio, è arrivata anche quest’ultima rivoluzione. Grazie a un sistema di Internet, con l’accesso bloccato, i carcerati possono andare sul sito www.bibliotechelodi.it, cercare il libro che vogliono, scoprire in quale biblioteca si trova e ordinarlo con un click. Due volte alla settimana un furgoncino passa dal carcere e scarica i libri ordinati, oppure prende quelli conservati in carcere che sono richiesti da altri cittadini o sono ancora da catalogare.

"Quella Lodigiana è la prima esperienza lombarda del genere - commenta Michela Sfondrini, volontaria di "Los Carcere", l’associazione che ha promosso l’iniziativa -. Non è stato un lavoro semplice da realizzare, né da parte del sistema bibliotecario e della provincia, né da parte della direzione del carcere: si è dovuta installare una postazione Internet, bloccata al sistema dei libri, trovare 3 detenuti che aprissero la biblioteca 6 ore alla settimana e poi ricavare un bello spazio". La biblioteca di via Cagnola, spiega il coordinatore Lele Maffi, "funziona come tutte le altre biblioteche della rete. Dal carcere sono stati già richiesti 48 libri.

Si va dalla manualistica, alla narrativa, alla saggistica. Ma anche libri per ragazzi, Daniel Pennac, Susanna Tamaro e Ken Follett. Tra le richieste anche libri in lingua, romeno, slavo e albanese soprattutto. Sono usciti dal carcere per essere consultati altrove, invece,un paio di libri, come quello di Gianni Gavina "Una stagione da esordienti" e "La storia falsa" di Luciano Canfora.

Il progetto, per la direttrice del carcere Stefania Mussio, però, rientra in un disegno più vasto di attenzione a tutto ciò che è istruzione e cultura: "Quando sono arrivata a Lodi esisteva già il gruppo di lettura coordinato da Sfondrini, che organizzava anche l’incontro periodico con l’autore. Ho voluto tenere questo appuntamento. Parallelamente però è nata l’esigenza di avviare la biblioteca per stimolare culturalmente i detenuti.

Il primo approccio è stato rispetto al locale che era molto angusto: l’abbiamo ristrutturato e reso più accessibile. Questa cosa poi di entrare nel sistema bibliotecario mi è sembrata ottima. Tutto quello che potesse essere interessante per i detenuti l’abbiamo fatto". Laura Steffenoni e Maffi si sono resi molto disponibili, insieme a Elena Zeni, l’agente di rete. In biblioteca ci sono 3 detenuti e due volontari per la distribuzione dei libri. Stiamo valutando anche di far fare il bibliotecario a un detenuto straniero per stimolare lo scambio culturale".

Padova: gli "amici" del Meeting di Rimini fanno visita ai detenuti

di Benedetta Frigerio

 

www.tracce.it, 24 marzo 2009

 

Un gruppo di milanesi, padovani e napoletani fa visita ai detenuti del carcere di Padova. Tra canti popolari e momenti di festa, ecco come continua l’amicizia nata quella sera, al Meeting.

I detenuti padovani cantano le canzoni napoletane. È un sabato di primavera ma il cielo è quello grigio dell’autunno e dei muri della Casa di reclusione di Via Due Palazzi a Padova. Ci sta davanti massiccia e opprimente. Aspettiamo fuori dai cancelli insieme alle famiglie dei detenuti, mamme, papà e bambini che stringono a loro sacchetti stracolmi da portare oltre le sbarre. "Il sabato è giorno di visite", è la voce di Nicola Boscoletto che ci viene incontro e ci porta al di là della "soglia".

Siamo un’ottantina tra milanesi, padovani e napoletani, in visita dopo l’amicizia nata con i carcerati venuti al Meeting di Rimini 2008. Prima di entrare, però, dobbiamo consegnare i nostri effetti personali e in cambio riceviamo un tesserino da mettere al collo, su cui, al posto del nome, appare una cifra. Sono il visitatore 848. Convertiti in numeri, siamo davvero pronti per entrare. Ad accompagnarci sarà sempre Nicola. È lui che quindici anni fa, insieme ad alcuni amici, ha iniziato a lavorare per il carcere, fondando poi la Cooperativa Giotto di cui è presidente e che oggi si occupa dell’inserimento lavorativo di disabili e detenuti.

"E pensare che poteva finire tutto in pochi mesi", racconta. "Avevamo vinto una gara per la pulizia dell’area verde del carcere, potevamo fare il lavoretto e andar via, ma poi ci siamo detti: qui ci sono centinaia di persone che non fanno niente, ma perché non se lo fanno loro?". Dall’idea un’opera. Andiamo a vederla.

La prima tappa è una stanza in cui al posto delle finestre c’è la gigantografia di una foto dalle facce sorridenti. Sotto, gli stessi volti, che dal vivo appaiono più gravi, i più belli segnati dal dolore. Sono quelli di alcuni carcerati.

"Qui dentro - ci spiegano -, lavoriamo per il call center del servizio sanitario della città". In poche parole, ricevono le richieste per prenotare le visite nei diversi ospedali padovani da raccogliere e riordinare meticolosamente, "perché quella è gente che aspetta per mesi, che per venire si prende un giorno di ferie e magari gli costa pure un bel po’", chiosa Marino, "perciò non voglio sbagliare". "Non voglio sbagliare", detto qui dentro da uno condannato all’ergastolo suona pesantissimo.

Un giudizio che non lascia scampo alla leggerezza con cui spesso si lavora, e una coscienza lucidissima del contributo che si può dare facendo il massimo anche nell’occupazione più semplice. Una scelta non scontata: "È stato difficile accettare il lavoro - ci raccontano - devi credere di poter rincominciare, fidandoti di chi ti da un’altra possibilità". "Il lavoro - interviene Marino -, è duro, anche perché ti mette davanti al fatto che la gente fuori ha problemi come te". È il turno di Alberto che ci parla del suo ergastolo, ma che, grazie a chi ha deciso di aiutarlo, è tornato a sperare.

Proseguiamo, passando un corridoio grigio e un cancello rosso, un altro corridoio e un altro cancello, uguali ai primi, e così per un po’, finché arriviamo in un atrio sulle cui pareti ci sono altre gigantografie: sono le foto degli operai del carcere e noi siamo arrivati in "fabbrica". Il primo reparto è quello dei gioielli Morellato: "Tutti i pezzi difettosi, la ditta li rimanda a noi per sistemarli", racconta Nicola, interrotto dall’arrivo di un ragazzo di colore che corre incontro a don Eugenio Nembrini. Lo abbraccia come un amico di vecchia data, che si rincontra dopo tanto tempo. Non lo vede da sei mesi, da quando l’ha conosciuto al Meeting di Rimini.

E con il volto contento, gli occhi commossi e la mano di Eugenio sulla spalla ci porta nel suo "ufficio" e ci mostra le sue creazioni: bracciali, ciondoli e orecchini ordinati in fila su un tavolo coperto con le immagini ritagliate dai giornali, che ritraggono le modelle che li indossano. Sopra il tavolo dei quadri "surrealisti" firmati da lui. Dopo averceli mostrati ci congeda: "Ci vediamo dopo, devo tornare al lavoro". Nella stanza a fianco c’è chi costruisce valigie: tra loro si fa largo un volto solare che sembra impaziente di parlarci. Nicola si accorge e gli chiede di raccontare di sé e della sua storia. "Sì, perché io non sorridevo mai. Prima di incontrarvi ero triste e voi mi avete cambiato la vita", e aggiunge: "Finalmente vi conosco".

C’è da chiedersi come possa ringraziare gente che non ha mai visto. Ed è sempre Nicola a spiegare quel che appare impossibile. "Lui è rinato quando i suoi compagni sono tornati dal Meeting e, raccontando la bellezza incontrata, l’hanno testimoniata agli altri". Viene in mente la frase con cui Franco, carcerato conosciuto a Rimini, ci lasciò prima di ripartire per Padova: "Non vedo l’ora di tornare in carcere per raccontare a tutti quello che ho visto". E vengono i brividi a vedere con i propri occhi che il cambiamento di uno può essere davvero per tutti.

Sono già le 11 e 30 e siamo nelle cucine della prigione. "Questo è uno dei pochi carceri dove si mangia bene", mi dice un padovano prevenendo le mie domande. "Mentre quello è lo chef che gli amici del Caffé Pedrocchi hanno deciso di mandare qui a lavorare con i detenuti", mi racconta Caterina. Nel reparto pasticceria i ragazzi si presentano senza interrompere il lavoro. Quest’anno, infatti, non riescono a stare dietro agli ordini: le colombe e i panettoni che producono sono richiesti da tutta Italia.

Uscendo per andare in auditorium passiamo da un cortile: si vedono le finestre delle celle dei detenuti che ci guardano con le mani e il volto attaccati alle inferriate. "Loro là dentro ci stanno 24 ore al giorno", mi dice Franco. Si capisce di più che quanto visto finora è un’eccezione, che in un carcere ha del miracoloso. In auditorium siamo più di un centinaio, contando i carcerati che ci hanno raggiunto a scaglioni. Don Eugenio inizia la messa commuovendosi di "quanto Dio sia geniale", rivelerà durante la predica, "perché le letture sul perdono e il Vangelo sul fariseo e il pubblicano non li ho scelti io. Sono proprio quelli di oggi". "Amici - continua -, non c’è differenza tra me e voi, il frutto dei miei e vostri peccati è lo stesso: il desiderio di felicità riempito in modo sbagliato.

Ma c’è un’altra cosa che ci accomuna: la risposta a un certo punto ci è venuta incontro, attraverso questa compagnia che ci testimonia l’amore e la misericordia di Cristo, l’unico che può bastarci". Ed è proprio così: in fila per la comunione è evidente che siamo una cosa sola, bisognosi davanti alla stessa Persona. Finita la messa si va al pranzo preparato dai detenuti. Purtroppo il tempo corre, dobbiamo tornare in auditorium, dove inizia la festa.

Gli amici di Napoli hanno preparato un repertorio speciale. Dopo le prime canzoni ecco quella "scritta dagli amici carcerati", annuncia Salvatore che l’ha composta "dopo averli conosciuti". La prima fila è la più scalmanata. Ci sono Franco e alcuni detenuti napoletani che cantano e ballano senza mancare una strofa: Chi sarà che mi regala un sorriso… proprio a me che maledico il giorno in cui ho ucciso… fu così che iniziai a vivere…

Ma sul finale anche i detenuti restano senza fiato. Un secondino coinvolto nel canto, guardando la platea, scoppia in un pianto commosso. E mentre don Eugenio ci ricorda "che gli uomini sono tutti uguali, con lo stesso cuore che desidera felicità", il secondino urla: "È vero, è proprio così!".

"E anche chi di voi - chiude Nembrini - è ancora arrabbiato con sé e con la vita, non ha più scuse per lamentarsi. Davanti ai vostri occhi c’è chi vi testimonia che si può essere felici e liberi anche qui". È ora di andare. Si esce commossi di aver partecipato a qualcosa di straordinario, che non si può spiegare da sé: davvero Qualcuno ha voluto fare irruzione tra le sbarre.

Napoli: venerdì apre un Centro Prima Accoglienza per Minori

 

Comunicato Stampa, 24 marzo 2009

 

Si comunica agli Organi di Informazione, cui la presente è diretta, che venerdì 27 marzo 2009 con inizio alle ore 10.00, avrà luogo presso il Complesso di Viale Colli Aminei, 44 in Napoli la Cerimonia di intitolazione del Centro di Prima Accoglienza e della Comunità Pubblica per Minori alla figura di Don Peppe Diana, caduto sotto i colpi della criminalità organizzata 15 anni fa.

La cerimonia sarà aperta dal Signor Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile Dott. Bruno Brattoli, a seguire gli interventi del Signor Dirigente del Centro per la Giustizia Minorile della Campania Dott. Sandro Forlani, del Procuratore Distrettuale Antimafia Dott. Franco Roberti, del Presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli Dott. Gustavo Sergio, del Procuratore della Repubblica per i Minorenni Dott. Luciana Izzo, del Presidente della Provincia Dott. Dino Di Palma, del Sindaco di Casal di Principe Dott. Cipriano Cristiano, Don Tonino Palmese in rappresentanza dell’Arcivescovo di Napoli, del Dott. Valerio Taglione Presidente Comitato "Don Peppe Diana" e Responsabile Associazione Libera Caserta Nomi e Numeri contro le mafie. Alla cerimonia saranno presenti anche i genitori di Don Peppe Diana.

L’iniziativa dell’intitolazione nasce dalla necessità di costruire in rete percorsi di legalità attraverso esempi fulgidi e forti come la figura di Don Peppe Diana.

La presente vale come accredito, con preghiera di far pervenire cortese cenno di adesione per motivi organizzativi, entro le ore 12.00 del 26 marzo 2009 alla Segreteria Generale e del Personale del C.P.A.-Comunità "Don Peppino Diana" Educatori Teresa Arcucci e Giovanni Di Napoli tel. 081.7448241, 081.7448282, fax 081.7448253 e mail cpa.napoli.dgm@giustizia.it

 

Centro Giustizia Minorile per la Campania

Viale Colli Aminei, 44 - 80131 Napoli

Il Dirigente, Dott. Sandro Forlani

Napoli: i minori dell'Area Penale Esterna recitano in "Luna Nera"

 

Comunicato stampa, 24 marzo 2009

 

I Ragazzi dell’Area Penale Esterna sul palcoscenico del Teatro Totò di Napoli nello spettacolo "Luna Nera - romanzo di quartiere"

Presso la Sala Giunta del Comune di Napoli-Palazzo S. Giacomo, in una conferenza stampa, è stata presentata l’iniziativa dello spettacolo "Luna Nera - romanzo di quartiere", di Giuliano Miniati-Gaetano Liguori-Enzo Liguori, con la regia di Enzo Liguori, con gli interventi di Corrado Gabriele, Assessore Regionale Istruzione, Formazione e Lavoro, Valeria Valente, Assessore Comunale sul turismo e grandi eventi, Sandro Forlani, Dirigente Regionale del Centro per la Giustizia Minorile, Francesco Pinto, Direttore Sede Rai di Napoli, Gaetano Liguori, Direttore Artistico Teatro Totò, e Franco Ricciardi, cantautore, Gennaro Silvestro, attore protagonista de "la Squadra", ed il regista Enzo Liguori.

Lo spettacolo "Luna Nera - romanzo di quartiere", che sarà in scena al Teatro Totò dal 26 marzo al 5 aprile 2009, viene presentato alla stampa in quanto è, contemporaneamente, prosecuzione e parte integrante di un progetto nato per affrontare la piaga della dispersione scolastica, riconoscendo in essa una delle cause più importanti del disagio giovanile che, troppo spesso, da disagio si trasforma in vera e propria devianza.

Un gruppo di ragazzi provenienti dai quartieri più a rischio sono stati affidati dai Servizi della Giustizia Minorile al Teatro Totò dove hanno potuto studiare canto, recitazione, danza, trucco, scenografia, illuminotecnica, scrittura teatrale, dizione. Il tutto finalizzato alla formazione della figura professionale dell’operatore teatrale.

Il risultato è stata la messa in scena due anni orsono dell’opera "uno sei sette - dall’aula al palcoscenico" spettacolo che ha debuttato al Teatro Totò e che è stato poi portato al Teatro Comunale di Benevento, al Teatro Gesualdo di Avellino, al Teatro Comunale di Caserta, a Salerno, in altre importanti piazze della Campania e all’Auditorium della Rai di Napoli dove è stato registrato e, nei prossimi giorni, sarà trasmesso da Rai 2 nell’ambito della trasmissione "Palco e retropalco". Grazie al concreto sostegno dell’Assessorato Regionale all’Istruzione, Formazione e Lavoro, il Teatro Totò ha continuato a lavorare con i venti ragazzi del progetto ed a realizzare questo nuovo spettacolo, producendo in proprio l’allestimento e che ha voluto affiancare ai ragazzi Franco Ricciardi (autore delle musiche e già presente nello spettacolo precedente) e Gennaro Silvestro (giovane attore formatosi alla scuola di recitazione del Totò e oggi tra gli interpreti fissi della fiction televisiva "La Squadra", uno dei programmi più seguiti di Rai 3).

Questa opera in musica rappresenta una storia che è somma di tante storie e testimonianze di vita vissuta, una favola moderna che parte dalla cronaca del quotidiano che un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 20 anni vive nel proprio quartiere, avventure, scherzi, affetti, amicizie, paure e sogni, la vita insomma di ragazzi costretti a crescere in fretta, in un quartiere della periferia di Napoli dove le difficoltà da affrontare sono tante e le scelte che la vita ti impone ogni giorno durissime.

Droghe: per i ragazzi "diga educativa", contro le dipendenze

di Silvio Garattini

 

Il Messaggero, 24 marzo 2009

 

La società civile assiste in modo passivo a un fenomeno che non rappresenta più un’eccezione o una curiosità, ma una generalizzazione: il mondo della droga sta penetrando fra i giovani. Ormai i segnali di questa diffusione sono molteplici.

La polizia continua a sequestrare importanti quantità delle droghe più varie: dalla cannabis all’eroina. Evidentemente se le quantità sono dell’ordine delle tonnellate significa che il commercio è veramente elevato. Le indagini dell’Istituto Mario Negri indicano che a Milano ad un solo collettore delle fogne si ritrova ogni giorno l’equivalente di 30.000 dosi di cannabis. 10.000 dosi di cocaina per citare solo due droghe. Queste dosi aumentano significativamente durante il fine settimana arrivando ad esempio per la cocaina alle 15.000 dosi.

Quantità certamente impensabili in tempi relativamente recenti. Gli stessi ragazzi riportano senza reticenza che si può trovare tutto: sigarette, alcool, cannabis, anfetamine, cocaina, eroina, sono disponibili sul percorso per arrivare a scuola, nei locali di ritrovo, su Internet e. naturalmente, nelle discoteche. Per non parlare di altri preparati che si stanno introducendo in modo surrettizio.

Sono in circolazione bustine con i nomi più diversi che vengono vendute come se fossero utilizzate per profumare gii ambienti. In realtà sono estratti vegetali che vengono poi impiegati, in base alle informazioni diffuse da Internet, come sigarette da fumare. Sono difficili da bloccare perché non contengono cannabis, né i principi attivi presenti in questa droga: contengono invece altre sostanze chimiche che agiscono sugli stessi recettori celebrali su cui esercita il suo effetto la cannabis attraverso i tetraidrocannabinoidi.

Con queste nuove preparazioni fumare una sigaretta è come fumarne 4 o 5 a base di cannabis. Le draglie classiche sono ormai così tanto diffuse e disponibili da influire sull’età in cui se ne inizia l’utilizzo, età che sta diminuendo in modo impressionante. Si comincia con l’alcool molto presto, poi si passa alle sigarette e non è raro il caso dei ragazzini di 13 anni che sono già stati iniziati alla cocaina. In questo senso sono state cruciali le strategie della criminalità che hanno puntato alla maggiore diffusione diminuendo i prezzi. Così acquistare una dose è ormai alla portata di tutti perché una dose costa quanto una pizza.

Che cosa succederà in futuro non è difficile da immaginare,- dato che gli effetti tossici delle varie droghe saranno di intensità maggiore in un organismo in via di accrescimento e perciò particolarmente fragile e delicato. Purtroppo gli argomenti deterrenti che riguardano la salute non hanno grande presa sui "giovanissimi" e perciò hanno scarsa possibilità di essere efficaci.

Anche la repressione ha purtroppo i suoi limiti considerando che l’industria criminale si espande e diventa sempre più ricca e quindi più capace di corrompere. Bisogna quindi rivolgere tutta l’attenzione ad un lavoro educativo senza sosta che non avrà effetto immediato, ma se ben condotto, sarà probabilmente l’unico modo per migliorare la situazione. Le famiglie devono essere le prime "dighe" attraverso la consapevolezza che l’accostamento alla droga avviene già alle scuole elementari. Devono fare attenzione e cercare di intervenire al primo accenno di interesse per la droga. La scuola deve essere presente attraverso la preoccupazione dei suoi insegnanti.

Anche i sacerdoti hanno il loro ruolo, ma in particolare sono gli "idoli" dei ragazzi che si devono mobilitare: cantanti, campioni dello sport, personaggi virtuali del mondo dei giochi devono sentire la responsabilità della loro influenza attraverso l’esempio é i messaggi che possono inviare. Non bisogna trascurare la possibilità di agire su Internet che oggi rappresenta un’importante via di spaccio che in qualche modo deve essere controllato.

Infine è necessario un coordinamento generale che deve far capo al nuovo dipartimento per la lotta alla droga costituito presso la Presidenza del Consiglio. Le sue direttive devono estendersi ai livello regionale e provinciale formando una vasta rete di interventi che rappresenti una forte risposta della società civile a un criminoso attentato allo sviluppo delle nuove generazioni.

Pena di morte: nel 2009 eseguite almeno 103 sentenze capitali

 

Corriere della Sera, 24 marzo 2009

 

Il rapporto Amnesty 2008. E in Europa, la Bielorussia resta l’unico Paese dove resiste la pena di morte.

Nel 2008 sono state messe a morte nel mondo 2390 persone in 25 Paesi. E dall’inizio del 2009 sono già state eseguite almeno 103 sentenze capitali in tutto il mondo. Se in due terzi dei Paesi del Pianeta infatti la pena di morte è stata abolita, e solo 25 (su 59) di quelli che ancora la mantengono hanno eseguito condanne capitali nel 2008, va anche detto che il 93% di tutte le esecuzioni è avvenuto in soli cinque paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Stati Uniti.

Mette in luce comunque una tendenza positiva Amnesty International, nel rapporto sulla stato della pena di morte del 2008: alla Cina, che da sola ha messo a morte più persone che il resto del mondo nel suo complesso (1.718 su 2.390), fa da contrasto l’Europa. Amnesty sottolinea a riguardo che nel Vecchio Continente è rimasta solo la Bielorussia a ricorrere ancora alla pena di morte.

Bielorussia - Amnesty ribadisce la richiesta al presidente bielorusso, Aleksandr Lukashenko, di commutare senza ulteriori ritardi le condanne di tutti i detenuti presenti nel braccio della morte e di intraprendere passi immediati verso l’abolizione della pena capitale. Sull’unico Paese europeo dove è ancora in vigore la pena di morte non esistono dati o statistiche ufficiali, ma Amnesty stima che più di 400 persone siano state messe a morte dal 1991, anno in cui la Bielorussia è diventata indipendente.

L’intero procedimento che riguarda la pena di morte inoltre è avvolto dal segreto: i prigionieri e i loro familiari non sono informati sulla data dell’esecuzione e il corpo del condannato non viene restituito alla famiglia. L’applicazione della pena di morte - sottolinea ancora l’organizzazione che tutela i diritti umani - è aggravata da un sistema di giustizia penale viziato, dove tortura e maltrattamenti sono utilizzati per estorcere le confessioni e i condannati non hanno accesso alle legittime procedure d’appello.

Buone e cattive notizie - Più in generale "la buona notizia è che le esecuzioni hanno luogo in un piccolo numero di Paesi. Questo dimostra che stiamo facendo passi avanti verso un mondo libero dalla pena di morte. La brutta notizia, invece, è che centinaia di persone continuano a essere condannate a morte nei Paesi che ancora non hanno formalmente abolito la pena capitale", ha dichiarato Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International in occasione della diffusione del Rapporto. Dopo l’Asia, dove 11 Paesi continuano a ricorrere alla pena di morte (Afghanistan, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Giappone, Indonesia, Malaysia, Mongolia, Pakistan, Singapore e Vietnam) il secondo maggior numero di esecuzioni, 508, è stato registrato in Africa del Nord e Medio Oriente.

Iran e Arabia - In Iran sono state messe a morte almeno 346 persone, tra cui otto minorenni al momento del reato, con metodi che comprendono l’impiccagione e la lapidazione. In Arabia Saudita, le esecuzioni sono state almeno 102, solitamente tramite decapitazione pubblica seguita, in alcuni casi, dalla crocifissione. Nel continente americano solo gli Stati Uniti d’America hanno continuato a ricorrere con regolarità alla pena di morte, con 37 esecuzioni portate a termine lo scorso anno, la maggior parte delle quali in Texas.

Il rilascio di quattro uomini dai bracci della morte ha fatto salire a oltre 120 il numero dei condannati alla pena capitale tornati in libertà dal 1975 perché riconosciuti innocenti. L’unico altro stato in cui sono state eseguite condanne a morte è stato Saint Christopher e Nevis, il primo dell’area caraibica ad aver ripreso le esecuzioni dal 2003. Nell’Africa sub-sahariana, secondo dati ufficiali, sono state eseguite solo due esecuzioni, ma le condanne a morte sono state almeno 362.

Quest’area ha registrato un passo indietro, con la reintroduzione della pena di morte in Liberia per i reati di rapina, terrorismo e dirottamento. "La pena capitale non è solo un atto ma un processo, consentito dalla legge, di terrore fisico e psicologico che culmina con un omicidio commesso dallo stato. A tutto questo deve essere posta fine", ha sottolineato Khan.

Pena di morte: il primato cinese; nel 2008 uccise 1.718 persone

 

Asia News, 24 marzo 2009

 

Le esecuzioni in tutto il mondo sono state 2390. Nelle triste graduatoria dedicata alla pena capitale il primo Paese è la Cina, il primo continente l’Asia. Il 93% delle pene messo in atto da cinque Stati. Con la Cina ci sono l’Iran (346), l’Arabia Saudita (102), gli Usa (37) e il Pakistan (36).

La Cina conserva il triste primato del maggior numero di esecuzioni capitali eseguite nel 2008. Il rapporto sulla pena di morte realizzato da Amnesty International rileva che lo scorso anno il governo di Pechino ha ucciso 1718 persone, ben oltre la metà delle 2390 pene capitali eseguite in tutto il mondo. Il 93% delle esecuzioni interessa cinque Paesi. Oltre alla Cina nell’elenco figurano l’Iran (346), l’Arabia Saudita (102), gli Usa (37) e il Pakistan (36).

Il continente che ha fatto ricorso più di ogni altro alla pena capitale è l’Asia con 1.838 condanne comminate dagli 11 Paesi che ancora prevedono l’esecuzione nel loro sistema giudiziario: Pakistan (36), Vietnam (19), Afghanistan (17), Corea del Nord (15), Giappone (15), Indonesia (10) e Bangladesh (5). Tokyo ha registrato nel 2008 il numero più alto di esecuzioni dal 1975.

A questi numeri vanno poi aggiunte le sentenze di morte non ancora eseguite, che portano a 8864 il numero accertato delle persone colpite dalla pena capitale. Nella sola Cina tuttavia il numero dei detenuti in attesa di esecuzione è stimato in almeno 7mila persone, cifra che Pechino condivide con Islamabad.

Grecia: e le carceri sono una "zona d’ombra" per i diritti umani

di Doriana Goracci

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 24 marzo 2009

 

Una faccia una razza, quella del Mediterraneo, si dice… E vediamo cosa succede su questi bastimenti traghetti barche che solcano il Mare Nostrum.

Secondo quanto riportato da diversi media, la prigioniera Katerina Goulioni, prigioniera e attivista per i diritti dei prigionieri, è morta durante un trasferimento, sotto "custodia" della polizia. Gli ultimi aggiornamenti da Indymedia Atene rivelano che Katerina si trovava insieme a vari altri prigionieri sulla nave che li avrebbe dovuti trasferire al carcere di Creta.

Insieme a loro anche un detenuto fascista, Periandro, che fuori dalla nave aveva in precedenza attaccato il prigioniero anarchico Yannis Dimitrakis, attualmente in ospedale, per essere poi malmenato dagli altri prigionieri.

Katerina si trovava insieme a vari altri detenuti sul traghetto dal Pireo a Creta, per essere trasferita dalla prigione di Thiva dove era rinchiusa precedentemente. Le guardie l’avevano fatta sedere a 15 posti di distanza dagli altri reclusi, con le braccia bloccate dietro la schiena. Alle 6 della mattina Katerina veniva trovata morta; secondo le testimonianze degli altri prigionieri riportava segni di duri colpi sul volto.

Il patologo si rifiuta di fornire alcuna informazione prima del rapporto ufficiale, per il quale bisognerà attendere la prossima settimana. I prigionieri del carcere di Thiva hanno subito iniziato a rifiutare i pasti. Katerina era stata punita diverse volte con l’isolamento per la sua attività di difesa dei diritti dei prigionieri.

In un rapporto di Amnesty Italia del 2008 sulla Grecia leggo che: "La Grecia non ha concesso asilo alla maggior parte delle persone che lo avevano richiesto. I migranti sono stati sottoposti a maltrattamenti ed è proseguita la pratica di detenere arbitrariamente e per lungo tempo i richiedenti asilo, inclusi minorenni. Sono aumentate le denunce di maltrattamenti durante il fermo di polizia. Solitamente le vittime di tale trattamento appartenevano a gruppi emarginati. Sono stati riferiti casi di decesso durante la detenzione.

Le autorità non hanno riconosciuto la condizione di persona vittima della tratta a donne e ragazze che, pertanto, non hanno potuto esercitare i propri diritti alla protezione e all’assistenza. Obiettori di coscienza sono stati perseguiti e i soldati di leva non sono stati informati del proprio diritto a svolgere un servizio alternativo. Contro la comunità rom sono stati eseguiti sgomberi forzati. È entrata in vigore una nuova legge per contrastare la violenza domestica".

Scriveva Anna C. Orlandi per il caso dell’estradizione dall’Italia a Zanotti: "La situazione delle carceri rappresenta per la Grecia, come per l’Italia, una zona d’ombra, spesso oggetto di articoli sui giornali e soprattutto nel mirino delle raccomandazioni da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, delle pene e dei comportamenti inumani (Cpt), istituito nel 1988, grazie all’entrata in vigore della Convenzione Europea per la prevenzione della Tortura (1987)…La risposta del governo, alle osservazioni del Comitato, è stata puntuale, ma il sovraffollamento e la mancanza di nuovi istituti di detenzione non aiutano al miglioramento delle condizioni carcerarie e Amnesty International continua a riscontrare il mancato rispetto dei diritti umani dei detenuti. Attualmente la popolazione carceraria è di circa 10.113 detenuti, di cui il 5,7% donne e il 4,3% giovani, a fronte di 30 istituti di detenzione, con una capacità di accoglienza di soli 8.019 detenuti e quindi con un livello di sovraffollamento pari al 126% (Prison Brief for Greece - International Centre for Prisons Studies, dati relativi a fine settembre 2006). A contribuire all’aumento della popolazione carceraria in questi anni vi è stato l’abbondante flusso di immigrazione che ha investito la Grecia, quale paese di grande affluenza migratoria: oggi, infatti, gli stranieri presenti nelle carceri greche sono circa il 41% del totale della popolazione carceraria".

E da PeaceReporter-Fine pena mai: in Grecia i detenuti chiedono migliori condizioni di prigionia e una revisione del codice penale ellenico, in Italia lo scopo della protesta è la campagna Mai dire mai, per l’abolizione dell’ergastolo. Le mobilitazione in Grecia coinvolge 21 prigioni, anche dei bracci femminili e delle carceri minorili.

Lo sciopero è iniziato con la consegna da parte dei detenuti di una lettera alle autorità nella quale descrivono la situazione medievale dei penitenziari. Il problema di fondo è il sovraffollamento: in Grecia sono detenute tra le 12mila e le 14mila persone, in strutture che possono ospitarne massimo 7.500. Inoltre, all’interno dei penitenziari, il personale medico è quasi inesistente.

Secondo i dimostranti questo spiegherebbe la morte, solo nel 2007, di 57 detenuti. In Italia la situazione non è differente.... In Grecia la protesta ha raggiunto livelli molto gravi. Un detenuto è stato trovato morto in cella, ma le autorità elleniche nel rapporto ufficiale parlano di overdose di stupefacenti.

Un altro detenuto, Christo Tsibanis, 30 anni, ha tentato di impiccarsi in cella. Molti altri sono arrivati a cucirsi le labbra in segno di protesta... PeaceReporter ha intervistato Christian De Vito, dell’associazione Liberarsi, che affianca i detenuti nell’iniziativa. "Non vogliamo sostituirci ai detenuti, che sono i veri protagonisti dello sciopero", specifica De Vito, "ma ci battiamo per dare loro l’occasione di far uscire la loro voce dal carcere.

L’iniziativa arriva esattamente un anno dopo quella del 1 dicembre 2007, quando centinaia di ergastolani in tutta Italia hanno iniziato uno sciopero della fame, ma a parte qualche articolo non ne ha parlato nessuno, anche se è andato avanti per quattro mesi e alcuni di loro sono finiti in ospedale. Noi ci offriamo solo come ponte tra il carcere e l’esterno e tra i detenuti di tutte le carceri italiane, che però si sono mossi da soli".

Rimane l’interrogazione scritta al Parlamento Europeo il 27 novembre 2008 di Stavros Lambrinidis (Pse) alla Commissione Oggetto: Situazione nelle carceri greche: "Dal 3 novembre 2008 in tutte le carceri della Grecia i detenuti osservano uno sciopero della fame chiedendo che il ministro della Giustizia dia seguito alle sedici rivendicazioni presentategli. I detenuti chiedono l’accesso alle cure mediche e farmaceutiche, una soluzione al problema del sovraffollamento dei penitenziari, il trasferimento in ospedale di detenuti gravemente malati in ambulanza e non a bordo di jeep di servizio e con camicie di forza, e via dicendo.

Anche Amnesty International ha dato voce alle preoccupazioni suscitate dalla situazione che regna nelle prigioni greche, denunciando il mancato intervento sollecito da parte dello Stato ellenico per porre rimedio a tali problemi. È significativo il fatto che, in strutture concepite per ospitare 7.500 detenuti, a volte vengano ammassati fino a 14.000 reclusi, 3.000 altri detenuti sono rinchiusi in celle studiate per cinque occupanti dove ne sono presenti fino a 15-18, in condizioni igieniche deplorevoli, privi di cure mediche e farmaceutiche, in cui la droga è una realtà quotidiana e in cui i decessi - in circostanze ancora oggi non chiarite - sono numerosi, senza per altro suscitare, tutto sommato, alcuna reazione da parte del governo greco.

Gli Stati membri sono tenuti a rispettare i principi e le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e in particolare l’articolo 3. Conformemente alla giurisprudenza constante della Corte europea dei diritti dell’uomo, le condizioni di detenzione intollerabili possono costituire una violazione dell’articolo 3, anche nel caso in cui la volontà d’infliggere un trattamento umiliante ai prigionieri non sia comprovato.

Tenuto conto di queste premesse, potrebbe la Commissione rispondere alle seguenti domande: In quanto custode dei Trattati, veglia a che le libertà fondamentali siano rispettate, tra cui quelle sancite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, riguardo segnatamente alla situazione che regna nelle carceri degli Stati membri e, più in particolare, in Grecia?

Qual è lo stato di avanzamento dello studio analitico delle norme fondamentali che disciplinano le procedure di detenzione dei soggetti nel periodo precedente lo svolgimento del processo, nonché delle procedure di riesame periodico dei motivi di detenzione, secondo quanto indicato chiaramente dal programma dell’Aia?"

Forse vale la pena ricordare il significato etimologico e storico della prigione: Il termine indica, nell’uso corrente, sia una pena, che il luogo dove essa viene eseguita, sia una particolare tipologia edilizia destinata all’esecuzione della pena stessa. Il termine "prigione" deriva dal latino "prehensio", l’azione di catturare, mentre la parola "carcere", bandita dal nuovo ordinamento penitenziario, deriverebbe dal latino "carcer", che ha radice dal verbo "coercio" da cui il significato di luogo ove si restringe, si rinchiude ed anche si castiga e si punisce.

Il termine deriva dal latino carcer, il cui primo significato fu quello di ‘recintò e, più propriamente al plurale, delle sbarre del circo, dalle quali erompevano i carri partecipanti alle corse; solo in un secondo tempo, assunse quello di prigione, intesa come costrizione o comunque luogo in cui rinchiudere soggetti privati della libertà personale. V’è, però, qualche voce discorde che vuole l’espressione "carcere" derivante dall’ebraico "carcar" (tumulare, sotterrare).

Le prigioni nacquero, verosimilmente, col sorgere della civile convivenza umana e svolsero, inizialmente, la funzione di allontanare dalla vita attiva e separare dalla comunità quei soggetti che il potere dominante considerava minacciosi per sé e/o nocivi alla comunità stessa. Le esigenze di costrizione finirono con l’imporre, immediatamente, sistemi durissimi, peraltro inaspriti nei luoghi ove l’esercizio del potere divino era affidato ai responsabili della cosa pubblica, poiché si riteneva che l’offesa arrecata dal reo si estendesse alla divinità. Le testimonianze più lontane che ci sono pervenute ci descrivono prigioni orrende, cieche, ricavate nelle profondità della terra.

Le prigioni vere e proprie, quali strutture apposite per la custodia di persone indesiderabili, entrarono, però, in uso probabilmente dopo l’origine della "città". Per quanto delle prigioni si trovi già menzione nella Bibbia, le prime notizie abbastanza precise, relative ad esse, risalgono alla Grecia ed a Roma antiche. Presso quei due popoli le prigioni erano composte da ambienti in cui i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano la libertà di incontrare parenti ed amici. Il carcere, comunque, non veniva mai preso in considerazione come misura punitiva, in quanto esso serviva in linea di principio "ad continendos homines, non ad puniendos".

Alcuni studiosi ritengono che il principio finalistico del carcere, quale istituto di espiazione di pena, risalga alla Chiesa dei primi tempi della religione cristiana. Il principio secondo il quale la pena deve essere espiata nelle carceri andrebbe fatto risalire, inoltre, all’ordinamento di diritto canonico, che prevedeva il ricorso all’afflizione del corpo per i chierici e per i laici che avessero peccato e commesso reati sulla base del principio che la Chiesa non ammetteva le cosiddette pene di sangue.

 

 

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