Rassegna stampa 25 maggio

 

Giustizia: con l’indulto diminuiscono i recidivi, ma nessuno lo dice

di Ranieri Salvadorini

 

La Repubblica, 25 maggio 2009

 

Uno studio accurato dimostra il netto calo di detenuti recidivi. In alcuni casi 9 su 10 dei beneficiari non sono rientrati in carcere.

L’indulto funziona, ma nessuno ci crede. Il tasso di recidiva, dei detenuti che sono ricaduti nei reati, è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca precedente: è il dato emerso al convegno di studi sulle politiche di prevenzione svoltosi al carcere "Due Palazzi" di Padova organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti, che ha visto coinvolte oltre 600 persone tra operatori, studiosi e volontari del mondo carcerario. Un convegno che in alcuni momenti ha avuto come sottofondo il rumore della "battitura" delle celle fatto dai detenuti per protestare contro il sovraffollamento e che arrivava fino alla palestra del carcere.

Lo scossone l’ha dato subito Giovanni Torrente - sociologo del diritto tra l’Università di Torino e quella della Val d’Aosta: "Tutti sono convinti che l’indulto sia stato un fallimento, ma lo studio dei tassi di recidiva dei liberati ci dice l’esatto contrario: è scesa al 27 per cento, di contro al 68 per cento di quella pre-indulto".

Il gruppo di studio di Torrente ha lavorato sui dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che costituiscono il maggior campionamento attualmente disponibile della sorte dei 44.944 detenuti che hanno beneficiato della misura voluta da Prodi.

Il calo della recidiva. Dei 45mila "indultati" lo studio ha differenziato due campionamenti diversi per status giuridico censendo, nel primo caso, tutti i "rientri" di quelli che venivano direttamente dal carcere: 27.607. Il tasso medio di recidiva è stato di circa il 27 per cento, di contro alla stima media pre-indulto, che secondo studi dello stesso Dap, in un monitoraggio condotto in 7 anni, è di circa il 68 per cento. Un calo, dunque, di oltre il 50 per cento.

Nel secondo gruppo analizzato "i beneficiari del provvedimento sono quelli che vengono dalle misure alternative, come la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali - spiega Torrente - e in questo caso la recidiva cala in misura ancora maggiore, crollando attorno al 18 per cento". Il dato si riferisce a un campione di 7.615 liberati, rispetto a una popolazione di riferimento di 17.387 unità.

La recidiva aumenta con la carcerazione. E il paradosso è ancora più visibile se si guarda agli estremi della ricerca, perché per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie, l’indulto ha fatto crollare il tasso di recidiva a nemmeno il 12 per cento. In pratica nove su dieci che non erano mai andati dentro, una volta indultati non sono rientrati. "Non hanno fatto in tempo a cancerizzarsi, incastrandosi in quelle dinamiche tipiche del carcere che in genere portano a introiettare comportamenti devianti e a perdere il contatto con le logiche del mondo libero". Per chi invece non riesce a "rompere il proprio percorso criminale", le probabilità di commettere di nuovo reato sono alte. "Tra quelli che avevano 11 e oltre esperienze carcerarie alle spalle, uno su due sono rientrati dentro".

Gli italiani, i peggiori. Rispetto alla media del 27 per cento gli stranieri hanno mostrato un tasso di recidiva minore, del 19,80 per cento. "È un dato da prendere con le pinze, spiega il sociologo, perché la rilevazione degli stranieri è più complicata, ma ci dice molto sulla nostra tendenza a identificare lo straniero con il delinquente".

Eppure nessuno ci crede. "Non deve sorprendere, spiega Torrente, perché c’è stata quella che in sociologia si chiama "costruzione del panico morale". Infatti, prima i media, poi i singoli politici e successivamente il mondo politico nel suo complesso "fino a includere molti degli stessi che l’avevano votato hanno continuamente gettato discredito sul provvedimento, fino al punto che è entrato nel senso comune l’idea che l’indulto sia stato un fallimento".

All’uscita dal carcere, altoparlanti e striscioni degli agenti della polizia penitenziaria in agitazione sindacale per la "terza branda" facevano eco alla protesta interna: "Lo sa che cosa vuol dire mettere tre persone in otto metri quadri? È una situazione disumana per loro e pericolosa per noi - si sfogano gli agenti di che presidiano il sit-in".

Infatti, le celle del carcere veneto sono state pensate per una persona sola e al momento sono occupate da tre, creando una situazione invivibile per i detenuti e ingestibile per gli agenti. "È una situazione pazzesca, in queste condizioni non possiamo garantire alcuna sicurezza né per loro né per noi, dovremmo essere 420 e siamo appena 300". Una situazione che è tornata pre-indulto, secondo le stime dei sindacati ancora 300 detenuti e la capienza massima di 43.000 unità arriverà a 63.000. Se non ci fosse stato l’indulto, oggi sarebbero stati più di 80.000. (Vedi la ricerca di Giovanni Torrente - in pdf)

Giustizia: carceri di nuovo sovraffollate, è un problema infinito

di Marco Doddis

 

www.nuovasocieta.it, 25 maggio 2009

 

Per l’ennesima volta nella storia della Repubblica Italiana, la questione del sovraffollamento dei penitenziari sta tornando prepotentemente alla ribalta, imponendosi all’attenzione dell’opinione pubblica come una delle più spinose che un esecutivo possa affrontare.

I numeri sono lapidari: il nostro paese deve fare i conti con un surplus di circa ventimila unità di individui all’interno della popolazione carceraria (a fronte di un limite di 43.201 posti, attualmente ne vengono occupati più di 62.000). Un dato impietoso, che il governo proverà a rendere più tollerabile con un Piano Carceri straordinario in attesa di approvazione.

Nel frattempo, ci si continua a interrogare sui caratteri di un fenomeno atavico, a cui verrebbe la tentazione di appiccicare l’etichetta dell’insolubilità. Viene da chiedersi come sia possibile assicurare una vita dignitosa a chi in prigione ci vive, e, soprattutto, perché non si riescano mai a mettere a punto dei provvedimenti di lunga durata che cicatrizzino questa piaga.

Per ottenere qualche risposta, abbiamo chiesto l’aiuto di Pietro Buffa, direttore dell’istituto torinese "Lorusso e Cotugno", un carcere recentemente balzato agli onori delle cronache per alcuni episodi di aggressione ai danni di agenti penitenziari. Con i suoi 1.600 detenuti, circa 700 in più del numero massimo previsto, il "Lorusso e Cotugno" è lo specchio fedele di quanto accade sull’intero territorio nazionale.

Pur non ammettendolo esplicitamente, Buffa conferma il sospetto che ci si trovi dinanzi a un fatto inevitabilmente ricorrente, almeno in una prospettiva di lungo periodo. Non ha senso, a suo parere, speculare sui provvedimenti di questo o di quel governo: dunque, anche le critiche rivolte da più pulpiti all’inutilità dell’indulto (quello deciso nel 2006 dal governo Prodi) risulterebbero piuttosto inconsistenti.

"Il problema dell’emergenza carceri lo ritrovo in tutti i giornali, da che ho memoria". Non è una dichiarazione buttata lì a caso: con una rapida ricerca nell’archivio di La Stampa, Buffa va a ripescare un articolo apparso sul quotidiano torinese nel maggio 1994 e firmato da Gianni Armand Pillon. Era un reportage sul sovraffollamento dello stesso penitenziario. "Io, quel giorno, c’ero. Se torno indietro alla metà degli anni 90, quando era ancora normale fare periodicamente delle amnistie, vedo una situazione anche peggiore di adesso.

Per non parlare di venti o trenta anni fa". In quest’ottica, anche gli allarmismi dei media paiono esasperati, ed è questo l’aspetto che più infastidisce il direttore: "Fatto salvo che un problema esiste e che qui non siamo in un paradiso, bisogna però stare attenti a non esagerare. I giornali - continua Buffa - si fermano al puro fatto cronachistico. Se si continua a scrivere, ad esempio, che questa è una bomba ad orologeria, ci saranno effetti di parziale distorsione informativa sulla gente e, cosa forse ancor più grave, sul personale stesso che qui lavora. Come mi devo sentire, io come gli agenti, se ogni giorno di più mi convinco che vado a lavorare in un arsenale?".

Allora, le soluzioni? La discutibile proposta del governo di allestire delle prigioni galleggianti in alcuni porti italiani? "Belli o brutti che siano, questi sono comunque dei tentativi di trovare dello spazio in più, che è poi la soluzione più logica. Tra l’altro, il sistema delle navi-prigione è già adottato in altri paesi europei".

E le prospettive per il futuro? "Nel nostro istituto, negli ultimi anni, abbiamo costruito un nuovo padiglione. Tuttavia, mi ritrovo coi detenuti ammassati nella palestra. Il punto è che, fin quando continuerà la tendenza, tipica di tutto il mondo occidentale, ad avere una normativa giuridica sempre più penalizzante (cioè una richiesta di maggior carcere a livello legislativo), i provvedimenti si caratterizzeranno sempre per la loro provvisorietà".

Giustizia: manca lavoro per i detenuti, nascono Agenzie "ad hoc"

di Andrea Rottini

 

Italia Oggi, 25 maggio 2009

 

Lo stato è chiamato a favorire il pieno recupero umano e civile dei detenuti, anche attraverso il lavoro. Nonostante questo principio sia sancito sin dalla Carta costituzionale (articolo 27), nelle carceri italiane i reclusi che lavorano sono ancora una minoranza: poco più di 13 mila su una popolazione di 58.127 persone, meno di uno su quattro (fonte: ministero della giustizia al 30 giugno 2008).

Oltre a restituire umanità all’interno del carcere, il lavoro si conferma come il miglior deterrente alla recidiva: la percentuale di chi torna a delinquere tra chi ha lavorato in carcere è inferiore al 5%, a fronte del 70% di chi non ha svolto alcun lavoro. Numeri che il nostro paese non si può permettere, perché oggi le nostre 207 sono carceri di nuovo sull’orlo del collasso, con 62.057 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43.201 posti e di una soglia di tollerabilità di 63.702 posti letto (dati aggiornati al 5 maggio), numeri che hanno completamente vanificato l’effetto dell’indulto di tre anni fa, grazie al quale la popolazione carceraria si era ridotta a 39 mila unità.

Anche per questo le istituzioni stanno cercando di spingere l’acceleratore sul pedale del lavoro. Il 2 maggio scorso a Rimini il ministro della giustizia, Angelino Alfano, ha siglato una convenzione-quadro con la Fondazione Di Vincenzo per realizzare la prima Agenzia nazionale di reinserimento e lavoro, con l’obiettivo di attivare sinergie tra le reti sociali e professionali già operanti sul territorio, affinché prendano in carico il detenuto per favorirne la collocazione nel mondo del lavoro. Il progetto, che coinvolgerà detenuti tra i 18 e i 50 anni, preferibilmente sposati e con figli e con una pena residua di tre anni, prevede da un lato la creazione di una banca dati con i profili degli ex detenuti, dall’altro l’inserimento dei detenuti e dei loro familiari in un contesto sociale accogliente e positivo, che aiuti il loro reinserimento nella società.

Il modello è la cittadella realizzata dalla Fondazione Di Vincenzo a Caltagirone (Catania): una struttura di ispirazione religiosa (è intitolata ai fratelli Sturzo), che si vuole replicare in Campania, Lazio, Veneto e Lombardia, con la collaborazione di Caritas Italiana. L’iniziativa, promossa dal Ministro della Giustizia, segue l’esempio di altre agenzie già attive a livello regionale, in Sicilia e Lombardia. Gli strumenti sono gli stessi: la creazione di una rete territoriale tra agenzie, associazioni e istituzioni e di un database con i curriculum dei detenuti, la cui professionalità, tranne pochi casi, è ancora tutta da costruire.

"Il lavoro in carcere è ancora oggi troppo dequalificato", si lamenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, un’associazione che lavora per affermare diritti e garanzie nel sistema penale. E i dati gli danno ragione: l’85% dei circa 13 mila detenuti lavoratori (quasi 5 mila dei quali sono stranieri) è alle dirette dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per svolgere mansioni dai nomi improbabili: scopini, scrivani, portavitto, spesini. Solo 1.767 tra i detenuti lavoratori (il 13,3%) prestano la loro opera per imprese esterne all’amministrazione penitenziaria. "In questo modo, come si può pensare che qualcuno assuma dopo la fine della pena?", si chiede Gonnella.

Eppure gli esempi da seguire non mancano: "Nel nostro istituto abbiamo corsi di agricoltura, legatoria, falegnameria e catering, tre laboratori artigiani dove si lavorano il cuoio, il vetro e il legno, cinque cooperative sociali con 150 detenuti alle dipendenze di ditte esterne e 80 in regime di lavoro esterno", snocciola orgogliosa Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, periferia nord di Milano.

Un fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria, inserito in un contesto, quello milanese, per sua natura più favorevole al lavoro: "Già diverse aziende sono presenti all’interno delle nostre carceri, ma sempre di più dobbiamo andare in questa direzione", dice Luigi Pagano, provveditore alle carceri per la Lombardia, che lo scorso febbraio ha presentato Articolo 27, l’agenzia regionale di promozione del lavoro penitenziario.

"Assieme all’Arrisa e al comune di Milano stiamo lavorando a un progetto per la raccolta differenziata di rifiuti tecnologici nelle carceri di Opera e Bollate", prosegue Pagano, "ma la nostra sfida più grande è approfittare al meglio dell’occasione dell’Expo". Un’occasione di lavoro che, forse, può dare spunto anche per una revisione legislativa.

Oggi il lavoro in carcere è regolamentato dalla legge Smuraglia (n. 193/2000), che concede crediti d’imposta e agevolazioni contributive alle cooperative e imprese che vogliono dare lavoro ai detenuti. Ma, aggiunge Patrizio Gonnella: "Le commesse da parte di imprenditori e di cooperative andrebbero incentivate attraverso provvedimenti di defiscalizzazione degli oneri sociali. Poi va eliminata la barbarie dell’etichettamento sociale".

Un lavoro non solo legislativo, quindi, ma anche culturale, per eliminare lo stigma che rischia di marchiare a vita gli ex detenuti, anche quando hanno tutte le carte in regola per reinserirsi a pieno titolo nella società. Una buona occasione per vedere di che cosa sono capaci i detenuti è stata "Fà la cosa giusta!", la fiera dei consumi critici organizzata a Milano da "Terre di mezzo" nel marzo scorso, che per la prima volta ha ospitato un’intera sezione dedicata all’economia carceraria: un comparto produttivo dai fatturati ancora modesti, ma capace di esprimersi in settori che spaziano dall’abbigliamento alla produzione alimentare, spesso con risultati di grande qualità.

Giustizia: "Oltre le Sbarre", progetto per gli ergastolani "ostativi"

 

Apcom, 25 maggio 2009

 

La Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi ha chiesto un incontro al ministro della Giustizia Angelino Alfano per valutare l’applicazione del progetto "Oltre le Sbarre" agli ergastolani ostativi ai benefici per il reinserimento sociale. La Comunità da anni opera all’interno del mondo carcerario sia in Italia sia all’estero con il progetto "Oltre le Sbarre".

Attualmente sono inseriti nelle strutture dell’Associazione detenuti tossicodipendenti in misure alternative che svolgono un programma terapeutico e detenuti comuni che similmente svolgono un programma preciso e personalizzato all’interno di case-famiglia o strutture più appropriate di accoglienza. Le oltre 200 case famiglia, le 60 sedi operative di cooperative sociali, le 15 comunità terapeutiche per tossicodipendenti, i 12 pronti soccorso sociali e le varie opere promosse e sostenute dalla Comunità Papa Giovanni XXIII cercano di offrire quell’insieme di risposte personalizzate che servono al detenuto per un riscatto vero e definitivo, che si rende concreto secondo il nostro progetto, elaborato e verificato con moltissimi detenuti di vari istituti di pena del territorio nazionale.

Tuttavia il progetto "Oltre le Sbarre", attualmente, non può essere applicato nelle sue fasi di reinserimento sociale per le persone condannate all’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio extra-murario (art. 4 bis O.P.) anche se hanno già scontato 20, 30 anni di reclusione e hanno ampiamente dimostrato il loro cambiamento interiore di vita all’interno degli istituti carcerari.

"Riteniamo necessario che in presenza di un pentimento interiore e delle condizioni per la risocializzazione - si legge in una nota della Comunità - anche gli ergastolani ostativi (art. 4 bis O.P.) possano poter avere la possibilità di dimostrare il loro cambiamento di vita attraverso il reinserimento sociale (permessi premiali, semi-libertà e liberazione condizionale) nelle modalità previste dal "Progetto Oltre le Sbarre" della nostra Comunità".

Giustizia: garantire diritto alla salute dei detenuti, sfida di civiltà

di Sabrina Zedda

 

La Nuova Sardegna, 25 maggio 2009

 

Come conciliare nelle carceri il diritto alla salute dei detenuti con quello di tutela della sicurezza? E poi ha davvero senso parlare di sanità negli istituti di pena, dove il cronico sovraffollamento rende a dir poco difficile agire in quest’ambito?

A dare una risposta ci ha provato l’altro ieri l’associazione Lavoro e Welfare in un incontro, "Salute e diritti in carcere", che è stato moderato dalla parlamentare del Pd, Amalia Schirru. L’incontro aveva un messaggio da lanciare: bisogna mettere al centro del dibattito la figura del carcerato, intesa come persona che ha sbagliato. Rispetto a quella del governo di centrodestra, che vorrebbe liquidare il tutto costruendo nuove prigioni, l’ottica della questione è quindi ribaltata, a favore anche di uno Stato capace di dare il buon esempio.

Che una delle difficoltà maggiori nel garantire un vero diritto alla salute dei detenuti sia l’eccessivo affollamento, l’hanno dimostrato i dati illustrati dal presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Francesco Sette. Dati, riferiti ai diversi istituti di pena, secondo cui oggi i detenuti sono 1.186 contro i 1.046 di appena un anno fa.

A colpire di più è il fatto che al 30 giugno 2006, un mese prima dell’entrata in vigore della legge sull’indulto, le persone rinchiuse nelle carceri della Sardegna fossero 1.086. Segno che, fa spallucce Francesco Sette, "nonostante quel provvedimento legislativo, tutto è rimasto come allora, ma con cento persone in più".

L’obiettivo voluto con la legge sull’indulto è stato fallito e, dati i fatti, sembrano andare nella stessa direzione anche le ultimissime leggi, come quelle che prevedono nuove limitazioni per i responsabili di reati in materia sessuale. Le carceri continuano a scoppiare (dato comune al resto d’Italia dove i detenuti sono circa 60 mila) e ben si comprende come questo si rifletta sulla possibilità di garantire il diritto alla salute al loro interno dove, ammette il presidente del Tribunale di sorveglianza, questo diritto è debole e poco tutelato sia "perché i detenuti sono persone emarginate, sia perché sono persone con problemi".

Problemi legati alla salute mentale e alla tossicodipendenza (e spesso entrambi) la fanno da padrone: "La Sardegna è la regione in cui nelle carceri si registra il più alto indice di tossicodipendenza", fa sapere Matteo Papoff, responsabile del servizio sanitario del penitenziario di Buoncammino. Eppure, "nonostante l’abnegazione del personale - dice Francesco Sette - il sistema non permette di gestire una popolazione ad elevata incidenza di patologie e bisognosa di cure particolari". Con il passaggio delle competenze in materia di sanità carceraria dal ministero della Giustizia alle Regioni ora si auspica un cambiamento.

Eppure c’è chi giura che la vera soluzione è un’altra. "La filosofia sono le misure alternative - dice convinta Rossana Carta, dirigente del ministero della Giustizia -. Significa che fuori dalle carceri bisogna fare prevenzione, creando i presupposti perché non si verifichi la recidiva".

Un pensiero che trova d’accordo anche Ettore Cannavera, direttore del carcere minorile di Quartucciu, che tuttavia ammonisce: "Il carcere deve avere una funzione rieducativa, ponendosi come problema la visione dell’uomo che sbaglia". In questo senso "la politica dovrebbe proporre il cambiamento", di fatto però "si occupa di rispondere solo al bisogno di giustizia dei cittadini, per attrarre consensi". Un paradosso che non fa che stringere ancor di più il nodo centrale: il carcere non è luogo di rieducazione, ma di inciviltà.

Giustizia: Capece (Sappe); 1.500 gli agenti candidati alle elezioni

 

La Stampa, 25 maggio 2009

 

Arrivano le elezioni e gli agenti di Polizia Penitenziaria si candidano in massa. Ma quanti sono nelle liste?

"Forse millecinquecento", risponde Donato Capece, segretario del Sappe, Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria.

 

Su quarantamila effettivi, non le sembra troppo?

"Sì, ma è una questione complessa. Intanto c’è chi vuole davvero fare politica ed è giusto dargli questo diritto. Poi, non sono io a negarlo, ci sono i furbi. Ma ci sono anche quelli che cercano in modo sbagliato di risolvere problemi che non cambiano mai. Mi spiego: in Italia mancano 5.500 agenti di polizia penitenziaria e le carceri sono sovraffollate".

 

Così c’è chi piglia la scorciatoia delle elezioni...

"Succede soprattutto nelle carceri più difficili. Prendiamo San Gimignano, dove ci sono stati 16 candidati. È un luogo di lavoro pesantissimo, dal quale è quasi impossibile farsi trasferire. C’è poi chi è originario del Sud e si trova a lavorare al Nord senza possibilità di tornare a casa. Allora tentano la strada della politica".

 

Quali sono i trucchi?

"C’è chi decide di candidarsi nel paese natale. Bastano pochi voti, quelli dei tuoi parenti, e se vinci l’amministrazione penitenziaria è costretta a trasferirti".

 

E poi?

"Ad alcuni basta potersi allontanare per un po’ di tempo da luoghi dove lavorare per pochi euro è quasi insostenibile. Si candidano apposta nel comune dove lavorano e in questo modo sono trasferiti d’ufficio per tre anni dalle sedi disagiate".

Giustizia: "Vela Solidale" per il "recupero" di devianza minorile

 

Ansa, 25 maggio 2009

 

Siglato un protocollo tra Dipartimento di Giustizia Minorile e l’Unione Italiana Vela Solidale. Venerdì, 22 Mmaggio presso la sala degli arazzi della sede Rai di Viale Mazzini, ospiti del Segretariato Sociale della Rai, è stato firmato dal Protocollo d’Intesa tra Dipartimento di Giustizia Minorile e l’Unione Italiana Vela Solidale, organismo che riunisce le associazioni italiane che operano nelle aree del disagio fisico, psichico e sociale attraverso la pratica della navigazione a vela. Alla cerimonia erano presenti rappresentanti di associazioni provenienti da tutta Italia.

Obiettivo dell’accordo tra il Dipartimento Giustizia Minorile e l’Unione Vela Solidale è di promuovere a livello nazionale, progetti di educazione alla legalità, qualificazione e riabilitazione in situazioni di disagio fisico, reinserimento sociale e lavorativo per giovani dell’area penale e di contrastare il fenomeno della recidiva mediante lo sport della vela ed i mestieri connessi a tale attività. Le associazioni dell’Unione Italiana Vela Solidale, che coprono quasi tutti gli ottomila chilometri di costa del nostro paese, si impegneranno nel coinvolgere minori affidati alla Giustizia Minorile e inserirli nel mondo della nautica, coinvolgendo cantieri, Autorità Portuali e l’Unione Nazionale dei Cantieri e delle Industrie Nautiche e Affini.

Verrà costituito un gruppo di coordinamento composto da rappresentanti dal Dipartimento di Giustizia Minorile - Direzione Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari e l’ Unione Italiana Vela Solidale con lo scopo di individuare i criteri per il monitoraggio, la verifica e la valutazione delle progettualità al fine di uniformare su tutto il territorio nazionale la presentazione della progettualità. Negli anni passati ad oggi, sono stati avviati progetti educativi con ragazzi affidati alla Giustizia a Napoli, La Spezia, Roma, Rimini e Genova. UVS Unione Italiana Vela Solidale, fondata nel febbraio 2003, riunisce le più importanti Associazioni Italiane che utilizzano la pratica della vela nell’area del disagio fisico, mentale e sociale rappresentando e promuovendo attraverso i propri associati, progetti di educazione, qualificazione e riabilitazione sociale realizzati mediante l’utilizzo della vela.

Giustizia: "rischio carcere", per il medico fiscale che non indaga

di Sylvia Kranz

 

Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2009

 

Nel filone della lotta all’assenteismo la bozza di attuazione della legge 15/2009 mette a sistema la prima stretta sulle visite fiscali disposta con la manovra dell’estate scorsa.

In virtù dello schema di decreto legislativo, infatti, rientra tra le ipotesi che portano al licenziamento anche "la giustificazione dell’assenza dal servizio mediante certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia". Le infrazioni con rilievo sia disciplinare sia penale, insomma, sono due: la prima si verifica quando il dipendente, senza coinvolgere altri, presenta al datore di lavoro un certificato che pur apparendo regolare non sia stato redatto e firmato da un medico di una struttura sanitaria o convenzionato con il Ssn. Nel secondo caso è indispensabile un accordo truffaldino tra il dipendente e il medico.

La distinzione è importante alla luce del fatto che l’articolo 67 del decreto prevede la pena fino a cinque anni di reclusione e la sanzione fino a 1.600 euro per "chiunque altro concorre nel delitto". Per il dipendente disonesto, poi, la condanna comporta l’obbligo del risarcimento del danno da mancata prestazione e d’immagine.

La falsa attestazione di malattia, ovviamente, è perseguibile già a legislazione vigente, configurando un’ipotesi di truffa. Per giungere a un provvedimento disciplinare, tuttavia, in casi simili l’ufficio per i procedimenti disciplinari, sospettando l’inesistenza dello stato morboso e il tentativo di sottrarsi all’obbligo della prestazione lavorativa e non potendo avvalersi di attività di polizia giudiziaria interne, aveva la possibilità (teorica) di percorrere un’unica strada, non priva di rischi e oneri finanziari. Infatti, provenendo il certificato da un pubblico ufficiale, il documento "fa stato fino a querela di falso", e nessuno può metterne in dubbio la veridicità se non denunciando il medico per falso in atto pubblico.

Anche in passato, poi, si è fatto ricorso più o meno puntualmente alla richiesta di accertamento da parte del medico fiscale. Tuttavia, nella prassi il medico fiscale si è rivelato essere un mero notaio: verificato che il dipendente fosse nel domicilio indicato nelle fasce orarie previste, chiedeva la copia del certificato con la diagnosi e la prognosi, e senza procedere a una vera visita compilava un certificato di conferma di diagnosi e prognosi, producendo così nei fatti due documenti inattaccabili processualmente.

L’estensione delle (pesanti) sanzioni a "chiunque altro concorre nel delitto" appare pensata proprio per far terminare questa prassi, perché anche la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo e della cancellazione della convenzione è applicabile al medico fiscale. Per l’esercizio dell’azione penale e di quella disciplinare correlata sarebbe però decisivo integrare la norma stabilendo che nell’accertamento fiscale il medico formuli una propria diagnosi e prognosi, senza aver preso visione della certificazione rilasciata dal collega al lavoratore.

Emilia-Romagna: nelle carceri, condizioni sempre più disumane

 

www.viaemilianet.it, 25 maggio 2009

 

Due parlamentari definiscono "drammatica" la situazione della Casa Circondariale Dozza a Bologna, vittima del sovraffollamento e della carenza di personale. E il sindaco di Ravenna denuncia: "I nostri detenuti senza servizi igienici".

È ancora allarme nelle carceri emiliano-romagnole. Nella giornata di oggi due nuove denunce mettono sotto accusa il sovraffollamento, le carenze dell’organico e le precarie condizioni igieniche in cui versano i penitenziari di Bologna e Ravenna. Una situazione simile a quella di altri istituti regionali, di cui anche il governatore Vasco Errani si era già fatto portavoce e che rende necessario un intervento del Governo.

Due parlamentari bolognesi del Partito Democratico, la deputata Donata Lenzi e la senatrice Rita Ghedini, nella mattinata di oggi hanno visitato la Casa circondariale Dozza a Bologna, accompagnate dalla nuova direttrice Ione Toccafondi. Al termine le due parlamentari hanno parlato di una "situazione drammatica" e hanno annunciato che presenteranno una nuova interrogazione al Governo.

"A cinque mesi dalla visita precedente, cui aveva fatto seguito un’interrogazione al Governo che non ha avuto alcuna risposta, la situazione permane drammatica - hanno affermato Lenzi e Ghedini in una dichiarazione congiunta - Le uniche note positive sono la nomina di una nuova direttrice, questa volta con incarico definitivo, e la sostituzione dei materassi, all’epoca in condizioni rivoltanti, effettuata peraltro con fondi già stanziati.

Sono in corso di completamento, infine, alcuni lavori finalizzati a rendere accessibili gli spazi di accoglienza del carcere ai disabili fisici. Per tutto il resto - sottolineano le parlamentari - la situazione è addirittura peggiorata: 1.134 detenuti su una capienza di 483. Solamente 113 di questi possono svolgere attività lavorative dentro il carcere, a causa dell’assoluta carenza di fondi destinati al pagamento della cosiddetta "mercede".

Però il mantenimento dell’impiego anche di un numero così modesto di detenuti porterà la struttura ad avere a fine anno, su questa sola voce, un deficit di 111.000 euro. La disponibilità di risorse per la manutenzione ordinaria di 97.000 mq di struttura ed aree pertinenziali è annualmente pari a 90.000 euro: meno di un euro al mq. È assolutamente evidente come l’impiego dei detenuti consentirebbe di migliorare le condizioni di tutti".

Le parlamentari denunciano anche le difficoltà del personale. "Si parla di 384 agenti di polizia penitenziaria - di cui 23 attualmente in aspettativa - contro un organico previsto di 567 unità. Sono donne e uomini che fanno un mestiere delicato e durissimo, assai poco riconosciuto istituzionalmente e socialmente. Circa il 50% del personale penitenziario vive all’interno del carcere. I loro alloggi sono composti di stanze piccole, arredi inadeguati e per lo più fatiscenti mentre gli spazi comuni sono caratterizzati da problemi di aerazione, scarico e generale fatiscenza delle attrezzature".

Anche il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci ha scritto al ministro della Giustizia Angelino Alfano denunciando una situazione del carcere cittadino "sempre più grave". Nel marzo di un anno fa - scrive - i detenuti erano 146 rispetto a una capienza regolamentare di 59 posti. "Nei giorni scorsi - continua il sindaco - abbiamo ricevuto una delegazione del personale di Polizia Penitenziaria e appreso che i detenuti sono saliti a 165. Gli agenti ci hanno testimoniato che la situazione dell’istituto ravennate è assolutamente più grave rispetto a quella delle altre strutture detentive regionali. Ci é stato riferito che le precarie condizioni igienico-sanitarie si sono aggravate ai limiti dell’umana sopportazione. Gli ultimi detenuti entrati, non essendoci più celle disponibili, sarebbero stati sistemati in locali comuni privi di servizi igienici".

"È evidente - sottolinea Matteucci - che in queste condizioni si crea un accumulo di disagio che si riflette anche sul profilo della sicurezza. Si moltiplicano infatti le manifestazioni di tensione e sono avvenute aggressioni di detenuti nei confronti del personale". Matteucci chiede ad Alfano "di assumere le iniziative necessarie per cessare questo scempio della dignità umana", ed esprime disponibilità "ad ogni collaborazione che fosse ritenuta utile".

Bergamo: detenuto suicida e proteste contro il sovraffollamento

 

L’Eco di Bergamo, 25 maggio 2009

 

Sale la tensione fra le mura della Casa Circondariale di via Gleno, che come la maggior parte delle carceri italiane è alle prese con condizioni di ormai cronico sovraffollamento. Già da venerdì 22 maggio alcuni detenuti hanno inscenato varie forme di protesta, battendo contro le sbarre delle celle, dando fuoco a pezzi di carta e facendo lo sciopero della fame. Il culmine sabato sera, quando la protesta si è fatta più vibrante e qualche agente della polizia penitenziaria, intervenuto per calmare gli animi, è rimasto contuso in maniera lieve.

I detenuti nella Casa circondariale di Bergamo sono oltre 500, contro una capienza sulla carta di neppure 250. Negli ultimi tempi sono state sistemate brande anche nelle sale adibite alla ricreazione. Settimana scorsa si sono verificati un suicidio e un tentato suicidio. Ma dopo sabato sera, domenica 24 maggio si sono registrati segnali positivi: "C’è stato qualche attimo di tensione - ha confermato il capo di gabinetto della Prefettura, Anna Famiglietti - ma la situazione è già tornata alla normalità".

 

La protesta dei detenuti

 

La protesta dei detenuti è iniziata a montare nella giornata di venerdì, con la "battitura", ovvero la percussione (con oggetti vari) delle sbarre delle celle, per fare rumore. Alcuni carcerati hanno fatto anche lo sciopero della fame, mentre altri hanno dato fuoco a pezzetti di carta, provocando piccoli incendi. Sabato sera la polizia penitenziaria è intervenuta per riportare la calma e qualche agente sarebbe rimasto contuso in modo lieve (circostanza non confermata dalla Prefettura, a cui non risulta nessun ferito). In merito alla protesta dei detenuti, domenica non è stato possibile mettersi in contatto con il direttore della Casa circondariale di via Gleno, Antonino Porcino, per una dichiarazione. Dal carcere, comunque, è stato confermato che il clima starebbe tornando alla calma e che vi sarebbero segnali positivi rispetto a un prossimo alleggerimento della struttura e a un conseguente alleviamento dei problemi di sovraffollamento.

 

La protesta degli agenti

 

Ma se da un lato protestano i detenuti, va ricordato che nei giorni scorsi hanno protestato anche alcuni degli appartenenti alla polizia penitenziaria. In una nota sindacale inviata al direttore del carcere, il segretario provinciale della Cisl Fns (Federazione nazionale della sicurezza) Francesco Trové, sottolineava che "la situazione è al collasso. La presenza di detenuti in numero doppio rispetto alla capienza tollerabile per questo istituto comporta la sempre maggior consistente ubicazione in modo duraturo di detenuti in salette ricreative. Tali stanze sono prive di ogni requisito igienico-sanitario, la cui gestione rappresenta una minaccia, oltre che per la salute collettiva, anche per la sicurezza e l’ordine dell’istituto".

I sindacati hanno perciò organizzato un presidio simbolico all’esterno del carcere e adottato la forma di protesta dell’astensione dal servizio mensa. Protesta, quest’ultima, che ieri è rientrata: "Alla luce dei segnali positivi per un miglioramento della situazione - ha spiegato il segretario regionale della Cisl Fns, Eupremio De Tomasi - abbiamo ritenuto di revocare l’astensione dalla mensa. Lunedì 25 maggio con una nota al Provveditorato regionale delle carceri chiederemo che per il momento non vengano assegnati dalla Lombardia ulteriori detenuti".

 

Brande nelle sale ricreative

 

Con il doppio dei detenuti - e un’ala nuova pronta da anni e tuttora chiusa perché non ci sono agenti sufficienti a garantire la sorveglianza - il carcere scoppia. Lo testimonia il fatto che diversi detenuti sono stati sistemati anche nelle sale normalmente adibite alla ricreazione. Ma nel contesto del sovraffollamento, una delle questioni più delicate è anche quella della sezione di isolamento. Che è piena. Difficile dunque far leva sulla misura dell’isolamento per cercare di calmare detenuti che eventualmente diano in escandescenze. E proprio nella sezione d’isolamento è avvenuto il fatto tragico della scorsa settimana: nella notte fra lunedì 18 e martedì 19 un detenuto marocchino si è tolto la vita impiccandosi in cella. Un episodio analogo s’è ripetuto a distanza di 48 ore, nella notte fra mercoledì e giovedì: in questo caso, però, il detenuto è stato salvato dall’intervento degli agenti.

Venezia: i detenuti in protesta; "battitura"... e materassi bruciati

 

La Nuova di Venezia, 25 maggio 2009

 

Oltre alla battitura delle pentole e delle gavette sulle grate e sui cancelli, i detenuti avrebbero anche appiccato il fuoco ad alcuni materassi e a indumenti personali. L’episodio, accaduto alcuni giorni fa al terzo piano del carcere circondariale maschile Santa Maria Maggiore, è stato segnalato da un sindacalista.

"A causare la grave forma di protesta - racconta il segretario veneto della Uil-Pa penitenziari Leo Angiulli - sono stati i detenuti del penitenziario" che da sabato 16 maggio fino a mercoledì scorso hanno organizzato una protesta pacifica per denunciare casi di infestazioni da scabbia e di infezioni virali; sovraffollamento con eccessiva riduzione degli spazi individuali; mancanza di accessori per l’igiene personale e nelle celle; riduzione del numero degli educatori, assistenti sociali e psicologi; mancanza di lavoro e di corsi professionali, scaglionamento per gruppi delle 4 ore d’aria con fruizione personale ridotta a 90 minuti.

E Angiulli continua: "Solo il tempestivo intervento dei poliziotti in servizio e l’ausilio degli estintori ha scongiurato il peggio". La direttrice dell’istituto penitenziario, Gabriella Straffi, smentisce la notizia della grave forma di protesta: "È falsa. In questi giorni i detenuti non hanno mai bruciato né materassi né magliette. Da sabato fino a mercoledì c’è stata una protesta pacifica. I reclusi si sono limitati alla battitura di pentole sulle grate e sui cancelli".

Antonio Guadalupi, segretario nazionale del Triveneto e della Lombardia della Sinappe (un sindacato di polizia penitenziaria), spiega: "Dentro ad ogni forma di protesta pacifica, organizzata dalla stessa popolazione detenuta, c’è sempre qualcuno che degenera. Per noi tali eventi rientrano nella normale routine; rimangono singoli, sparuti".

Il sindacalista evidenzia: "L’azione forte di protesta, appiccare il fuoco ad oggetti o ad indumenti personali all’interno della cella, non è un fatto eclatanti ma prassi consolidate. In queste circostanze vi possono essere soggetti autolesionisti. Si tagliano braccia o gambe, oppure bruciano magliette o materassi ignifughi. Producono solo fumo, non fiamme.

Gli episodi non possono diventare il caso della protesta dei detenuti". In questi giorni nel carcere i reclusi sono 310, il triplo della capienza sulla carta, la percentuale degli stranieri ormai supera il 70 per cento. E sempre la direttrice ricorda che "la situazione è disperata, visto che vivono ammassati come le bestie".

Trieste: 10 detenuti nelle celle per quattro, c’è il rischio di rivolte

di Gabriella Ziani

 

Il Piccolo, 25 maggio 2009

 

Dieci detenuti in una cella da quattro. Materassi per terra, a turno. Che cosa vede e sente chi è autorizzato a entrare al Coroneo? Don Mario Vatta (Comunità di San Martino al Campo): "Temo possano scoppiare rivolte. Arriva il caldo. La situazione è difficile". Mario Ravalico (Caritas): "I detenuti sono troppi e il personale, al contrario, sotto organico".

"In fondo chi è in carcere in queste condizioni di ammassamento si dimostra paziente e rassegnato - racconta Matteo Calucci, collaboratore di Ravalico -, nascono ogni tanto discussioni in cella, la coabitazione in quelle condizioni è difficile, ma non sono episodi gravi, ci accolgono con sollievo, uno mi ha detto "parlare con voi è come l’ora d’aria", hanno tanta semplicità, o vengono comunque da condizioni difficili, "ci dividiamo il materasso" dicono, all’interno si fa il possibile, ma quando ci sono 100 persone più del normale...".

"Che ci sia sovraffollamento in carcere è cosa dolorosamente acquisita, i carcerati sono contrariati, ma quello che a loro importa soprattutto è uscire al più presto, trovare un lavoro, se sono stranieri sul momento non si rendono nemmeno conto di dove sono capitati...". Da anni don Vatta coi suoi collaboratori ha il permesso del ministero per entrare al Coroneo, da due anni lo ha pure la Caritas: entra nel parlatorio il direttore Ravalico, e ogni settimana ci va Calucci. A Enrico Sbriglia che governa il Coroneo viene riconosciuto un ruolo "dalla parte dei deboli" (ancorché carcerati): esempio per tutti proprio quel registro dei materassi dove è segnata la turnazione per dormire senza il letto. Un segno di equità e giustizia là dove la giustizia non garantisce eque condizioni.

"Il carcere non può dire "siamo al completo" e mandare via nuovi arrestati - dice don Vatta -, tutte le prigioni d’Italia sono nella stessa situazione e quelle costruite nuove magari 20 anni fa restano chiuse, a Trieste invece dopo 10 anni di tentativi è stato rifiutato infine l’uso della ex caserma di via Cologna che avrebbe potuto rappresentare una seconda sede per i semiliberi, e anche abitazioni per il personale".

Per adesso i detenuti sembrano, nelle parole di chi li vede con assiduità, davvero pazienti: "A protestare per lo spazio rischiano magari di peggiorare la loro situazione". Ravalico aggiunge: "Di fronte a un numero eccessivo di detenuti, 250 persone dove ne sarebbero previste 150, è scarso il personale, di tre responsabili dell’area educativa ne è rimasta una sola, se un giorno manca la guardia che accompagni i reclusi nella sala laboratori dove cerchiamo di fare per le donne cucito, maglieria, pittura su stoffa, il lavoro salta, i detenuti soprattutto non sanno che cosa fare tutto il giorno". Le donne sono una ventina. Per i maschi c’è bricolage, pittura.

"Fanno delle cose pregevoli - testimonia don Vatta -, anche teatro, e fanno scuola, hanno appena preso i diplomi, nonostante gli spazi stretti c’è tanta buona volontà. Ma ai colloqui parlano di documenti, di avvocati d’ufficio, chiedono delle famiglie, hanno bisogno di abiti, di cose necessarie". "I lavori interni vanno a rotazione - prosegue Ravalico -, in cucina, a scopare per terra, ce n’è poco per tutti". Ma restauri sono in corso per attivare infine un laboratorio per cuocere pane e pasticcini. C’è la biblioteca, "pochi la frequentano".

Tanti giovani stranieri sono dentro per spaccio di droga. "Perché sei finito qui? "Io lavoravo, spacciavo" rispondono" riferisce ancora il direttore della Caritas. Alcuni, con questo aiuto, ottengono borse lavoro, uno si sta avviando (ormai libero) a una attività di contabile. Ma a chi ha chiesto di aspettare il giudizio ai domiciliari, per claustrofobia, è stato risposto che è impossibile: non si esce, bisogna arrangiarsi.

Trieste: 20% dei detenuti deve dormire per terra, a "rotazione" 

di Claudio Ernè

 

Il Piccolo, 25 maggio 2009

 

Distesi sui pavimenti, privati anche del riposo in branda. Molti detenuti del carcere del Coroneo sono costretti per il sovraffollamento delle celle a dormire per terra. Questa situazione è ormai endemica, visto che la Direzione del carcere ha istituito un apposito registro sul quale vengono annotati i nomi dei detenuti a cui l’Amministrazione penitenziaria non è in grado nemmeno di fornire un letto.

Il nuovo registro ha una funzione specifica, quella di dimostrare in caso di contestazioni o di proteste, che le notti sul pavimento non sono frutto di scelte disciplinari o di provvedimenti che sostanzialmente puniscono questo o quello. Al contrario il direttore Enrico Sbriglia ha deciso di applicare a rotazione questa misura estrema ma assolutamente necessaria vista l’assenza di ogni soluzione alternativa.

In sintesi tutti i detenuti non ricoverati in infermeria prima a poi sono costretti a dormire per terra, perché il Coroneo ospita oggi più di 250 persone quando la capienza ufficiale raggiunge a malapena i 150 posti. In talune celle del Coroneo, costruite per accogliere quattro uomini, oggi ne vengono stipati dieci perché tutto il sistema carcerario italiano è ridotto al collasso. Il 4 maggio scorso il numero dei detenuti raggiungeva quota 62.057 mentre i posti disponibili sono 38 mila.

Ma ritorniamo al Coroneo: otto dei dieci detenuti rinchiusi nelle celle progettate per ospitarne quattro, hanno una propria branda. Due al contrario devono dormire sui materassi stesi a terra. Il disagio è enorme specie nelle celle in cui sono stipate anche persone di religione islamica: chi dorme a terra deve alzarsi dal materasso alle 5 del mattino per consentire agli altri di pregare, rivolti in direzione della Mecca. Ma non basta. Un detenuto in attesa di giudizio e quindi formalmente ancora innocente, ha scritto al giudice delle indagini preliminari Massimo Tomassini chiedendo di essere rimesso in libertà o in subordine ai domiciliari: "Il sovraffollamento della cella in cui sono chiuso mi rende la vita impossibile".

Il magistrato ha esaminato il problema e giocoforza ha dovuto respingere per iscritto la domanda. La legge non prevede come causa di scarcerazione il sovraffollamento degli istituti penitenziari e il fatto di essere costretti in dieci in celle costruite per quattro. Allo stesso tempo il giudice Tomassini scrive e ribadisce con forza "che la potestà punitiva dello Stato si ferma, o dovrebbe fermarsi, alla privazione della libertà di un individuo, senza però aggiungere a questa privazione una serie di afflizioni che non solo sono in palese violazione dell’Ordinamento penitenziario e dunque di una legge dello Stato, ma ugualmente si segnalano come indegne di un Paese che vuole considerarsi civile.

Non è che facendo dormire le persone per terra in stanze sovraffollate che si rende Giustizia. Non era questo l’intento del legislatore e della Costituzione. Nessuno pretende carceri stile Grand Hotel, ma altrettanto nessuno dovrebbe tollerare scempi come quelli a cui assistiamo quotidianamente e dei quali un giorno, quali operatori della Giustizia, ben potremmo essere chiamati a rispondere, quantomeno di fronte alle nostre coscienza".

Padova: Casa Circondariale; 8 per cella, in condizioni disumane

 

Il Mattino di Padova, 25 maggio 2009

 

"Anche otto persone per cella. Temperature africane. Condizioni disumane". A parlare e la moglie di un detenuto nella Casa Circondariale Due Palazzi di Padova. Un uomo di circa 60 anni, in attesa di giudizio, in carcere per questioni relative allo spaccio di cocaina. Una faccenda che la donna preferisce tralasciare visto che il processo deve essere ancora celebrato. "Non dico che mio marito debba stare a casa - gioca d’anticipo la donna che abita nel Padovano - ma non è possibile che i detenuti vivano in una situazione del genere.

L’altro ieri sono andato a trovarlo. Si è perfino rasato in testa per non soffrire troppo il caldo. Sono in otto nella stessa cella. Ma le guardie non se la passano meglio, da quanto mi dicono. So purtroppo che il tema non è molto sentito dalle persone. Ma non per questo è giusto tacere". Tra l’altro, nei giorni scorsi gli agenti della polizia penitenziaria hanno manifestato davanti ai cancelli del Due Palazzi (al penale) per protestare contro il sovraffollamento del carcere e perché costretti a lavorare sotto organico e in condizioni sempre più difficili.

Vasto (CH): manca il 25% degli organici, e gli agenti protestano

 

Il Centro, 25 maggio 2009

 

Ancora disagi nel carcere di Torre Sinello. I detenuti sono sempre di più (225) e il numero di agenti (120), già insufficiente, è destinato a diminuire con i pensionamenti. I disagi provocano malumori e tensione. Il malcontento è acuito dalla difficoltà dei rappresentanti sindacali a gestire le relazioni con il dirigente dell’istituto, Carlo Brunetti. La polizia penitenziaria ha proclamato lo stato di agitazione.

Alla protesta aderiscono cinque sigle sindacali: Sappe, Osapp, Cgil Fp, Cisl Fsn e Uil Pa Pen. "I sindacati chiedono aiuto al ministro della Giustizia e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. La direzione di questo istituto prende decisioni e assume provvedimenti senza un preventivo confronto con il sindacato, giustificando il fatto con il carattere d’urgenza e l’emergenza", scrivono in una lettera inviata al ministero i rappresentanti sindacali degli agenti. Rimarcando il grave disagio vissuto nel carcere dagli operatori della polizia penitenziaria, sotto organico di almeno 40 unità e afflitti da altri problemi, i sindacati invocano il confronto e il dialogo con i responsabili dell’istituto e il ripristino delle corrette relazioni sindacali. "Fino a quando non avremo risposte risolutive porteremo avanti la nostra protesta", affermano gli agenti.

Cagliari: il reparto di "medicina protetta" è pronto, ma non apre

 

Agi, 25 maggio 2009

 

"Esiste un diritto, quello alla salute, che se rispettato permetterebbe di alleviare il numero dei detenuti a Buoncammino di Cagliari e alleggerire l’oneroso lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. C’è tuttavia da anni una domanda ancora senza risposta: perché nonostante siano stati spesi i soldi per realizzarlo non viene reso disponibile il reparto protetto di Is Mirrionis?".

L’ha sottolineato l’ex consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris, presidente di "Socialismo Diritti Riforme", intervenendo al convegno "Salute e diritti in carcere" organizzato dalla deputata Amalia Schirru e dall’associazione "Lavoro & Welfare".

"Da 16 anni - ha aggiunto Caligaris - si attende che a Cagliari venga attivato un reparto protetto per garantire il diritto alla salute dei cittadini in stato di detenzione senza dover ricorrere al massiccio impiego di Agenti di Polizia Penitenziaria per la scorta. L’attuazione della norma permetterebbe di risolvere tanti problemi anche perché il Centro Clinico di Buoncammino, che dispone di 30 posti letto, è costantemente in condizioni di soprannumero essendo ormai diventato un presidio sanitario territoriale".

Napoli: a Poggioreale detenuto romeno il tenta suicidio, salvato

 

www.metropolisweb.it, 25 maggio 2009

 

Adesso sta meglio, ma è sorvegliato, tenuto d’occhio 24 ore su 24 nel carcere di Poggioreale: Marius Acsniei ha tentato di togliersi la vita usando una lametta da barba. Un taglio al petto, un altro sul collo. L’ex giardiniere dei coniugi Ambrosio voleva farla finita così.

È rimasto tre giorni in infermeria ma adesso è tornato in cella, dove è rinchiuso dallo scorso 16 aprile, quando gli agenti della squadra mobile di Napoli lo arrestarono con l’accusa di duplice omicidio. La notte prima aveva massacrato nella tenuta della Gaiola i coniugi Ambrosio, il "re del grano" e sua moglie. Lui ed altri due complici, tutti romeni, traditi dalle impronte e da una telefonata che lo stesso Marius Acsniei fece a sua madre poco dopo l’orrore di Posillipo. Su di lui, e sugli altri due indagati, gli investigatori non hanno dubbi, ci sono prove schiaccianti e ci sono accuse pesantissime, ma i suoi legali non demordono. Il gesto estremo del giovane che lavorò alle dipendenze delle sue vittime preoccupa, ed è per questo che adesso Marius è sorvegliato continuamente.

Spoleto: detenuto vince concorso per logo di Fondazione Capitini

 

Asca, 25 maggio 2009

 

Un giovane di origine kosovara, Ismet Dedi’nka, attualmente detenuto nel carcere di alta sicurezza di Maiano di Spoleto, è il vincitore del concorso indetto dalla Regione Umbria e dall’Ufficio Scolastico Regionale per il nuovo logo della "Fondazione Aldo Capitini".

Dedi’nka è uno dei numerosi studenti, che frequentano i corsi organizzati per i detenuti di Maiano dall’Istituto Statale d’Arte "Leoncillo Leonardi" di Spoleto, e come tale ha partecipato al concorso per il bozzetto del nuovo logo della "Fondazione Capitini", promosso nel quadro delle iniziative del Quarantennale della morte del filosofo perugino.

Sono state 37 le opere pervenute, provenienti da 8 istituti scolatici, fra le quali è stata prescelta quella del kosovaro, la cui impostazione grafica, si legge in una nota, è "semplice e significativa". Il bozzetto presenta nei suoi confini geografici un’Umbria stilizzata, sulla quale impronte di scarpe tipo fumetto alludono ad un cammino che è insieme marcia della pace e marcia verso il nome "Aldo Capitini", dipinto nei colori della bandiera della pace, in cui la "A" e la "C" iniziali si uniscono in un grafo, che trova la sua conclusione in tre parole vergate a lato, come di pugno di Capitini, Compresenza, Nonviolenza, Potere di Tutti, sintesi del pensiero del grande intellettuale perugino.

"È un risultato di cui, mi azzardo a scommettere, Capitini sarebbe stato molto contento", ha detto il presidente del Comitato delle Celebrazioni per il Quarantennale Alessandro Vestrelli, partecipando al convegno "Progetti e prodotti di un’istruzione recuperata/ La scuola in carcere", promosso dall’Istituto Statale d’Arte "Leoncillo Leonardi". "Il fatto che a vincere il concorso sia stato uno straniero, e per di più un carcerato - ha spiegato Vestrelli - lancia un messaggio forte ed un segnale di speranza, una scommessa sulla società multietnica, soprattutto oggi che le politiche per l’immigrazione devono fare i conti con ostacoli sempre più grandi, come sempre più difficile sembra diventare la vita degli immigrati nel nostro paese".

Locri: (RC): nasce un Centro per inclusione sociale di ex detenuti

 

www.reggiotv.it, 25 maggio 2009

 

Porterà il nome di Vincenzo Grasso, l’imprenditore ucciso a Locri dalla mafia nel 1989, l’Agenzia d’inclusione sociale che si occuperà del reinserimento lavorativo e sociale dei soggetti provenienti da percorsi penali e che sarà inaugurata il prossimo 29 maggio.

"Il nuovo servizio - viene detto in una nota - è il frutto di una intesa tra Ministero della Giustizia, Prefettura, Provincia, Comune di Locri e Fondazione Zappia che hanno sottoscritto un Patto Penitenziario per la Locride con il quale s’impegnano a promuovere percorsi d’integrazione lavorativa e sociale dei detenuti e dei loro familiari".

La sede è stata individuata in dei locali messi a disposizione dalla Fondazione Zappia in via Marconi 1 di Locri. In particolare si prevede l’apertura di uno sportello che darà gestito dall’Uepe di Reggio Calabria in collaborazione con il Centro per l’impiego della Provincia e con le associazioni di volontariato del territorio.

L’Agenzia è rivolta non solo agli autori dei reati ma anche ai familiari delle vittime della criminalità organizzata. Gli stessi potranno fruire dei servizi di sostegno ed orientamento erogati dall’Agenzia e di uno sportello specifico di assistenza e consulenza che sarà gestito dall’associazione Libera e dal Centro Servizi al Volontariato Dei Due Mari.

La nuova struttura sarà inaugurata alle 16, alla presenza, fra gli altri, del prefetto della provincia di Reggio Calabria, Francesco Musolino. Seguirà, alle 16.30, un convegno a Palazzu Nieddu dal titolo "Uscire dalle mafie e dall’illegalità" a cura di Mario Nasone, Direttore Uepe Reggio Calabria. Interverranno Francesco Macrì Sindaco Comune di Locri, Attilio Tucci Assessore provinciale alle politiche sociali, Domenico Cersosimo, Vice-presidente Giunta Regionale e Paolo Quattrone, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria. Le conclusioni saranno affidate a Francesco Nitto Palma, Sottosegretario all’Interno.

Milano: la "banda dei designer" di San Vittore; libro li racconta

di Simone Mosca

 

La Repubblica, 25 maggio 2009

 

Oggetti di uso quotidiano reinventati dai detenuti di San Vittore per avere a disposizione quello che non sarebbe permesso tenere in cella ma che rende la vita un po’ meno complicata.

Un fornello a olio per il sugo della pasta, ma in una scatola di tonno. Invece con le scatole (vuote e ritagliate) della pasta una cassettiera. Idee fai da te - penitenziarie - firmate dalla banda di designer di San Vittore. Un atelier di autodidatti in cui ogni giorno si riflette su come avere in cella quel che nel mondo libero si compra all’Ikea.

Innocenti evasioni, pubblicato da No Reply, è una selezione della miglior oggettistica carceraria che i detenuti della casa circondariale milanese si sono inventati negli ultimi due anni. Illustrazioni (di Cristiano Rosati, detenuto) o foto, scheda di montaggio e breve storia o descrizione del prodotto a cura degli autori.

Praticamente è un catalogo, ci sta di tutto. Arredamento, cucina, bagno, svago, salute e benessere e via così. Il prezzo della merce non c’è perché si ragiona per riciclo, non si butta via niente. Giornali o riviste arrotolate con la colla per un ometto: "Già siamo spacciati di nostro, ma se si è anche casinisti il disastro è totale". Stendi biancheria (non ce né uno in dotazione): corde ricavate dalle lenzuola "dell’amministrazione", due manici recuperati da secchi d’acqua.

"Qui si tratta di danneggiamento dello stato!" scherza l’autore sulla reazione del capoposto "Ben due manici di bidone scardinati". Il ferro da stiro? Serbatoio della moka pieno d’acqua bollente da impugnare con lo straccio. Si va in crescendo, con due fornelli da campeggio, un piatto d’acciaio, della stagnola, una scatola di pelati e una padella che diventano un forno. O con il motore di un mangiacassette e una penna pilot da cui salta fuori la macchina dei tatuaggi (sequestrata per norme igieniche) semiprofessionale.

Certo non bastano le mezze battute a stemperare malinconie e malumori, che affiorano puntuali. Come nel caso del portacenere (scolpire la saponetta e avvolgere con la stagnola), a modo suo facile metafora di molte contraddizioni. "Ovunque si fuma" spiega Rosanna Tognon, da 15 anni volontaria dell’associazione Mario Cuminetti "ovunque c’è scritto che è vietato buttare le cicche spente per terra, ma un portacenere in dotazione alle celle l’amministrazione non lo concede".

Insieme a Paola Rauzi, con lei da cinque anni, dalla biblioteca del V Raggio, della cui gestione si occupa l’associazione, è stata l’anima del progetto. Una o due riunioni a settimana con i detenuti, e l’amministrazione che lentamente ha elargito ore e permessi. "Ma è stata dura" ammettono "anche perché qui i detenuti ruotano in continuazione". Spostamenti imprevisti, trasferimenti e, come ricorda Gianrico Carofiglio nell’intervento in apertura del libro, i casi difficili di chi sopporta i (lunghissimi) tempi d’attesa di giudizio, tra le causi principali del sovraffollamento carcerario.

Comunque il libro adesso c’è. Forse ne hanno già in mente un altro. Rosanna intanto è rimasta colpita dai fiori fatti con sapone, farina e acque "perché a San Vittore non c’è neppure un filo d’erba" . Paola invece dal marchingegno per infondere il tè verde in foglie "che è davvero il frutto di una passione dolce e raffinata che non ti aspetteresti da queste parti". Un paio di curiosità. Ale e Franz presenteranno il 26 maggio il libro alla Feltrinelli di pazza Piemonte, insieme a cinque detenuti nel frattempo tornati in libertà. Sin dall’inizio hanno seguito gli sviluppi del libro suggerendo editori e strategie, dopo una visita a San Vittore avvenuta giusto due anni fa. La seconda: chiude il libro l’intervento di Enrico Tamè.

Detenuto abituale, 63 anni (pizzicato l’ultima volta lo scorso anno ad Alassio in uno strano traffico d’auto) a San Vittore entrò la prima volta a 19 anni. È suo l’intervento di chiusura in cui, rievocando mirabolanti invenzioni dei tempi della ligera (in cui non c’era neppure il gabinetto in cella) si lascia scappare un "si stava meglio quando si stava peggio".

Bollate (MI): "stagione teatrale" nel carcere, è aperta al pubblico

 

Corriere della Sera, 25 maggio 2009

 

Esistono luoghi dove fare teatro vuol dire essere "Liberi di vivere". Il carcere di Milano-Bollate lo dichiara con il titolo della sua prima stagione, aperta al pubblico. Nove serate sulla dignità di esistere, declinata in tutte le sue forme, che sul palcoscenico del teatro In-stabile (tra le residenze del progetto Etre della Fondazione Cariplo), sono davvero un traguardo.

"Risultato di sette anni di sperimentazioni", sottolinea soddisfatta Lucia Castellano, direttrice del carcere. "Il segno della possibilità di trasformare un istituto di pena da luogo per la "raccolta differenziata", a spazio dove imparare un lavoro e crescere culturalmente". Esempio concreto lo dà la storica direttrice artistica della cooperativa Estia, Michelina Capato. "Tra i detenuti-attori e tecnici del nostro primo spettacolo in cartellone, Psycopathia Sinpathica sul tema delle legittimità delle differenze (in scena martedì) ci sono ragazzi che lavorano come fonici per concerti di artisti come i Depeche Mode e gli U2.

Hanno imparato il mestiere qui e con il teatro respirano una nuova vita". I risultati non mancano, come il sostegno tra operatori di diversi Paesi d’Europa. Rete che nella seconda giornata (martedì 27, ingr. libero) mostra i risultati con "Video lettere dalle carceri d’Europa", due anni di scambi tra gli istituti di pena di Marsiglia, Barcellona, Wuppertal e Bollate, cui ha collaborato la Westerdals School of Communication di Oslo.

Un’occasione per vedere lavori nati nelle carceri, tra cui un frammento di "9mq. X 2". Il teatro si reimpossessa della scena mercoledì con i Dionisi e "Patate-una parola senza denti sulla guerra", sabato 30 si parla di senso della vita con i Motoperpetuo e "A ciascun la sua fatica è sacra". Il 3 giugno "All’amore io ci credo" con l’Atir, la sera dopo il Teatro Popolare d’Arte (dal carcere di Arezzo) arriva con "Aspettando Godot". "Liberi di esistere" anche senza permesso di soggiorno con "Scirocco" di Scarlattine Teatro (il 5/6), si chiude con "Tox", Nudoecrudo Teatro.

Dal 26 maggio al 6 giugno, Casa circondariale Milano-Bollate, via Cristina Belgioioso 120, Milano. Ore 21, 3-14 euro. Prenotazioni: www.cooperativaestia.it. Tel. 393.99.14.668.

Enna: "Le mille bolle blu", il teatro per parlare di omosessualità

 

www.livesicilia.it, 25 maggio 2009

 

Per la prima volta il delicato tema dell’omosessualità verrà rappresentato davanti ad un pubblico di detenuti, ad ospitare lo spettacolo, mercoledì 27 maggio, il carcere di Enna.

"Le mille bolle blu", il monologo scritto dal giornalista Salvatore Rizzo, interpretato e diretto da Filippo Luna, racconta la vera storia di Nardino ed Emanuele, un amore profondo e struggente vissuto per trent’anni nella clandestinità.

Protagonisti de "Le mille bolle blu" sono Nardino ed Emanuele, barbiere il primo e avvocato il secondo, la scintilla tra i due scocca nella bottega di Nardino. I due giovani si innamorano proprio lì, in quella piccola sala da barba, situata in una borgata di Palermo e affollata di pennelli, schiuma da barba, rasoi, pettini e acqua di colonia.

La bottega diventa così il cuore pulsante di questo amore che infrange le regole di una società abituata a relazioni di tutt’altra natura, un sentimento segreto che costeggia - senza mai scalfire - la loro normale vita di mariti e padri di famiglia. Il patto d’amore tra i due protagonisti resterà segreto e inossidabile per tre decenni dal 1961, l’anno in cui Mina cantava "Le mille bolle blu", fino al 1991 quando per un cancro muore Emanuele.

"Le mille bolle blu" ha debuttato in prima nazionale il 25 novembre scorso, con replica il 26, al Teatro Nuovo Montevergini di Palermo. Per poi tornare a grande richiesta, sempre al Montevergini, dal 15 al 18 gennaio di quest’anno. Gli spettacoli hanno registrato per ogni serata il tutto esaurito. "Le Mille bolle blu" è tratto dall’omonimo racconto contenuto nel libro "Muore lentamente chi evita una passione. Diverse storie diverse", pubblicato da Sigma Edizioni (ora Pietro Vittorietti Edizioni), una raccolta di dieci storie, tutte autentiche, di omosessualità maschile in Sicilia, dai primi anni del Novecento fino ai nostri giorni, firmate da Angela Mannino, Salvatore Rizzo e Maria Elena Vittorietti.

Cinema: "Un Prophète" è un romanzo di formazione in carcere

di Boris Sollazzo

 

Liberazione, 25 maggio 2009

 

Panama sulla testa quasi calva, sorridente per l’accoglienza di pubblico e critica, Jacques Audiard parla volentieri di Un prophète (uno dei colpacci Bim, in sala forse ad autunno).

 

Come nasce l’idea di "Un prophète"?

È una sceneggiatura che mi è arrivata da un amico produttore, e ci ho lavorato molto su, quasi due anni, con Thomas Bidegain. Era un’ottima idea, ma sono del parere che un regista non possa mai disinteressarsi della scrittura. Ho snellito l’aspetto più etnico, legato alle varie corruzioni e in particolare quella della comunità araba, privilegiando una maggiore definizione dei personaggi. E un finale diverso. Volevo a tutti i costi un film che parlasse della prigione e del suo essere una metafora calzante della vita fuori. Volevo evitare gli stereotipi di film e serie tv americane, tutta quella iconografia che trovo francamente insopportabile. Credo di essere l’unico in tutto l’Occidente a non sopportare Prison Break, lo detesto. Allo stesso tempo dovevo evitare di fare una docufiction, anche perché facciamo cinema e dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, creare e raccontare, non fotografare. Mica devi essere stato in prigione per poterne parlare.

 

Avete scelto di chiudervi in un carcere per le riprese?

In verità la prigione è quasi del tutto ricostruita, un grande lavoro di scenografia. In Francia è impossibile girare in un carcere, sono andato a cercarmi le location fino in Belgio o Svizzera - lì sembrano città universitarie! - ma ho rinunciato subito. Abbiamo visitato molte carceri per documentarci e parlare - soprattutto gli attori - con detenuti e guardie che ci introducessero a questo mondo a parte, alle sue regole. Anche se poi l’approccio è stato diverso: Niels Arestrup, che nel film è il boss corso Luciani, sa tutto di quel luogo, e naturalmente ha letto molto a proposito della vita da detenuto e della struttura "sociale" e gerarchica della prigione, Tahar Rahim invece entra spaesato, 19enne senza alcuna esperienza, e quindi abbiamo cercato di tenerlo all’oscuro delle nostre scoperte, per mantenere quello stupore, quella paura inevitabile.

 

Ha scelto un ragazzo di grande potenza espressiva, una sorta di fratello minore del suo attore feticcio Romain Duris...

Di Romain e Tahar mi piace la mascolinità gentile, non testosteronica. Non sono ragazzi dal fisico possente, hanno uno sguardo molto espressivo, e sono luminosi, una caratteristica di chi mantiene nei tratti quel qualcosa di indefinibile che c’è solo sul viso di chi passa dalla post adolescenza all’età adulta, un’aria sfrontata e matura allo stesso tempo. E l’ideale per l’archetipo di un romanzo di formazione come questo. Lui entra giovanissimo in carcere, è anonimo per età e provenienza sociale, emarginato e senza un ruolo. E a metà anche etnicamente: francese, ma anche arabo, e durante la prigionia legherà con i corsi. Un uomo di mezzo, che trova un’identità proprio lì dove diventano più sfumate. Non volevo un film politico, ma è indubbio che questo messaggio mi piaccia. Trovo che sia interessante e molto legato alla nostra attualità.

 

Perché il titolo "Un prophète"?

Anche questa è un’ambiguità. Il titolo si lega alla profezia che il protagonista fa durante il film, la rivelazione di un nuovo uomo e poi ovviamente c’è anche la dimensione religiosa, quella del ruolo della profezia nell’Islam.

 

Molti hanno detto che questo gangster noir esistenziale apre una nouvelle vague del genere...

Mi piace, perché credo e spero che personaggi così segnino la nascita di un nuovo tipo di gangster al cinema. Malik è un bravo padre adottivo, che probabilmente educherà al meglio il figlio dell’amico, ma allo stesso tempo sarà un criminale duro, formatosi sulle proprie sofferenze. Credo siano finiti i tempi, seppur belli, di Scarface.

 

Preoccupato per le accuse di razzismo verso le comunità corse e arabe?

Nessun razzismo. In Francia ci sono le prigioni centrali, per i condannati a lunghe pene, e altri luoghi di detenzione per chi ha preso meno di quattro anni. Nelle prime, più strutturate, sono i detenuti a scegliere e a chiedere, di potersi raggruppare per affinità etniche, religiose e culturali. Poi, certo, ho usato dei cliché inevitabili e necessari alla storia: i mafiosi corsi, i "rivali" arabi, la violenza. Per rompere gli schemi, devi usarli, ma se si è minimamente intelligenti si capisce da che parte sta il film e il suo regista.

 

Ci vuole un bel coraggio, però, ad affrontare una sfida come questo film, e per 150 minuti...

Coraggio, incoscienza, fiducia in sé. E io ne ho tanta, lo confesso, sono molto egocentrico. Credo sia anche utile quando fai il regista anche se questa "presunzione" devi imparare a non tenerla per te, a condividerla con le persone con cui lavori.

 

Sulla mafia, sulle discriminazioni sociali lei comunque dice la sua. E inevitabilmente ci mostra il lato oscuro della nostra società.

Ripeto, non sapevo nulla della mafia, prima, e se anche ora sapessi qualcosa, secondo le loro leggi, non potrei dirti nulla, ovviamente (ride). Ci tengo però a sottolineare che questa è l’educazione ai sentimenti e alla vita di un giovane, sia pure in un contesto particolare e, quindi, drammaturgicamente interessante. Pongo domande, non do risposte, non commento la società e le sue storture, ma le utilizzo. Ci tengo a dire, però, che non ho nessuna ammirazione per le organizzazioni mafiose, nessuna fascinazione. Anzi trovo questi criminali squallidi e spesso decisamente idioti.

Immigrazione: Berlusconi; i "respingimenti" evitano tragedie mare

 

Ansa, 25 maggio 2009

 

I respingimenti evitano "le tragedie in mare": lo dice, in una intervista Radio Radio, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Il premier premette che in Italia "abbiamo il 10% di cittadini stranieri, in gran parte integrati, che rispettano la legge e che contribuiscono alla nostra economia col loro lavoro. Io non credo che vadano spalancate le frontiere a chiunque.

Chi arriva senza lavoro finisce per consegnarsi alla criminalità: la dice lunga la percentuale di immigrati nelle nostre carceri. Bisogna aprire le porte a chi arriva regolarmente, secondo le quote decise. Le porte debbono restare invece assolutamente chiuse all’immigrazione di massa che era invece il motivo ricorrente del precedente governo".

"I respingimenti - sottolinea Berlusconi - evitano le tragedie in mare. Se le barche arrivano nelle nostre acque territoriali, le accogliamo. Ma se vengono intercettate fuori dalle nostre acque, le assistiamo, prestiamo le cure eventualmente necessarie e le riportiamo in sicurezza alle coste libiche. In Libia c’è un’agenzia dell’Onu a cui si possono rivolgere, e che verifica l’eventuale richiesta di diritto d’asilo. Se ce ne sono le condizioni vengono da noi accolti".

Immigrazione: a Lampedusa il Cie è vuoto; le coop senza lavoro

di Alfio Sciacca

 

Corriere della Sera, 25 maggio 2009

 

I primi a subirne le conseguenze sono stati gli operatori che si occupano dell’accoglienza dei migranti: per 40 assunti a tempo determinato non c’è più lavoro. Niente rinnovo di contratto, sostanzialmente licenziati. A ruota soffrono le attività commerciali che per mesi hanno lavorato, grazie all’imponente presenza di forze dell’ordine. Potrà sembrare paradossale, ma da quando è cominciata la politica dei respingimenti Lampedusa deve fare i conti con le ricadute occupazionali dovute alla mancanza di immigrati. Da un mese il numero dì sbarchi è drasticamente calato: solo due piccole imbarcazione sono riuscite ad approdare sull’isola, mentre tre giorni fa 73 immigrati sono stati dirottati a Porto Empedocle. Risultato: nel centro di accoglienza sono rimasti 23 immigrati.

"Sono in gran parte quelli della Pinar - spiega il prefetto Giovanni Finazzo, delegato per l’immigrazione - e sono tutti richiedenti asilo. Ormai il centro è tutto per loro". Entrando si stenta a credere che sia la stessa struttura dove i materassi venivano sistemati all’esterno perché nelle camerate non c’era posto per tutti. Niente code per mangiare 0 lavarsi. I pochi ospiti giocano a pallone e gli operatori hanno poco da fare. Niente rispetto ai periodi in cui c’erano da assistere anche 2.000 persone.

E così la Cooperativa "Lampedusa Accoglienze" che gestisce dal trasferimento in pullman alla mensa alle pulizie è costretta ad adeguarsi. Per il momento sono stati tagliati del 50% i lavoratori a tempo determinato, quasi tutti lampedusani. "Non c’era altra scelta - spiega il presidente Cono Galipò - da un picco di 120 addetti siamo passati a circa 60 tra effettivi e stagionali". Ma si ferma anche l’indotto. "A febbraio - spiega il questore di Agrigento Girolamo Di Fazio - tra carabinieri e polizia avevamo 550 uomini mentre ora ne bastano 30. E se i militari alloggiano nelle caserme, questo è personale che va in albergo".

Finita anche la ressa nei ristoranti. "C’è stato un calo del 50% - ammette il titolare del Nautic, ristorante-albergo sempre affollatissimo - ma non è detto che sia un male: in certi momenti il locale sembrava una caserma. Meglio riempirlo di turisti che speriamo arrivino col rilancio dell’immagine dell’isola". Per il sindaco De Rubeis "molti giovani che lavoravano nel centro non saranno contenti, ma siamo convinti che la risorsa di quest’isola sia il turismo, non l’immigrazione".

E poi aggiunge: "Quella di Maroni è solo una mossa a fini elettorali. Dopo le europee vedrete che gli immigrati torneranno". In effetti, nonostante la piccola crisi economica dovuta all’assenza di immigrati a Lampedusa non si respira certo aria di smobilitazione. Lo dimostrano i lavori nell’ex base Loran ultimati rapidamente per creare il nuovo Cie, anche se all’interno non c’è un solo immigrato.

Mondo: Csm; contro pena di morte, serve nuova risoluzione Onu 

 

Adnkronos, 25 maggio 2009

 

"Per passare dalla moratoria all’effettiva abolizione della pena di morte, potrà essere necessaria una nuova risoluzione dell’Onu che rilanci solennemente il tema del rispetto della vita in tutte le circostanze". Lo ha affermato il vicepresidente del Csm Nicola Mancino intervenendo al Forum internazionale sulla pena capitale che si svolge oggi a Roma e che riunisce i ministri della Giustizia di diversi Stati esteri.

Mancino ha sottolineato come le statistiche dimostrano che "aumenta il numero degli Stati che hanno abolito il diritto o di fatto la pena capitale, ma oggi tuttavia la mano del boia non si ferma"; inoltre il numero due di Palazzo dei Marescialli ha aggiunto che l’Italia in prima linea e l’Europa si sono distinte per il ruolo avuto nella sospensione e nella definitiva abolizione della pena di morte dagli ordinamenti giuridici.

"Eppure - ha proseguito Mancino - non sono tutte buone le notizie che ci giungono dal mondo in tema di pena di morte; poche settimane fa - ha ricordato - siamo stati turbati dall’avvenuta impiccagione in Iran di una giovane donna condannata al termine di un processo su cui gravano pesanti sospetti di legalità". Mancino ricordando Cesare Beccaria ha concluso che la certezza della pena "ai fini dell’efficacia deterrente delle sanzioni penali, è di gran lunga lo strumento migliore del continuo incremento della gravità della stessa e l’umanità delle condizioni di detenzione offre le migliori garanzie per il recupero sociale del detenuto".

Afghanistan: due ladri condannati da Corte islamica e giustiziati

 

Adnkronos, 25 maggio 2009

 

Nuova esecuzione pubblica in Afghanistan. I talebani hanno impiccato in piazza due ladri, dopo che una corte islamica del distretto di Sabari, nella provincia sudorientale di Khost, li aveva condannati a morte al termine di un processo lampo. Secondo quanto riferito da un portavoce dei militanti, Zabiullah Mujahid, i due fratelli - Farid e Gul Nabi - hanno confessato i loro crimini subito dopo il loro arresto ieri pomeriggio. Oltre che di furto, i due erano accusati di aver ucciso "alcune persone innocenti", ha detto lo stesso portavoce, e di essersi spacciati come esponenti del movimento talebano.

Iran: condanna morte 20enne, uccise uomo quando aveva 15 anni

 

Ansa, 25 maggio 2009

 

Un giovane di 20 anni, condannato a morte per un crimine commesso quando ne aveva 15, sarà impiccato mercoledì prossimo. Lo annuncia il legale del detenuto, precisando che la pena verrà eseguita nel carcere di Adel Abad, nel sud del Paese. Secondo l’avvocato, Mohammad Mostafai, il giovane, che si chiama Mohammad Reza Hadadi, "è stato arrestato con l’accusa di aver ucciso un uomo nell’agosto del 2003, quando aveva 15 anni.

È stato condannato a morte nel gennaio 2004". Secondo Mostafai, il giovane ha fornito una falsa confessione, e si è dichiarato colpevole dopo aver ricevuto la promessa da parte dei complici che la sua famiglia avrebbe ricevuto del denaro. Hadadi, dopo aver saputo che nessun pagamento era stato effettuato, riferisce ancora il legale, ha ritrattato la sua confessione. L’esecuzione di minorenni viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, che l’Iran ha ratificato nel 1994.

Francia: dopo l'arresto per corruzione, sindaco si suicida in carcere

 

Ansa, 25 maggio 2009

 

Il sindaco di una città nel sud-ovest della Francia si è suicidato nella sua cella in prigione a Perpignan. Jacques Bouille, 62 anni, sindaco di Saint Cyprien, era stato incarcerato dopo esser stato dichiarato colpevole di corruzione lo scorso dicembre. Eletto nelle file dell"Ump,il partito di Sarkozy, era stato indagato insieme con una decina di persone nell’ambito di un’inchiesta sull’acquisto di opere d’arte da parte del suo Comune, alcune di queste scomparse.

Guantanamo: Berlusconi; aiuteremo gli Usa, ma in accordo con l’Ue

 

Agi, 25 maggio 2009

 

"L’Italia si comporterà come si comporteranno gli altri Paesi europei" rispetto alla richiesta degli Stati uniti di accogliere i detenuti di Guantanamo. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, intervistato da Cnn International, spiega che l’Italia darà una mano agli Usa nel rispetto degli accordi con la Ue. "Vedremo cosa fa la maggioranza degli altri Paesi europei. Noi se possiamo rendere una cortesia al popolo americano, al governo americano, lo faremo certamente. Vedremo in base alle leggi che abbiamo, in base al comportamento degli altri principali Stati Europei".

 

 

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