Rassegna stampa 28 luglio

 

Giustizia: il rimpatrio dei detenuti stranieri è "l’ultima spiaggia"

di Marco Iasevoli

 

L’Avvenire, 28 luglio 2009

 

Vada pure per le nuove carceri, ma basterà? Le associazioni umanitarie e i sindacati continuano a battere sulla necessità di introdurre misure alternative alla detenzione. Il governo, invece, sembra avere un altro orientamento: secondo il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’ipotesi di lavoro che il Guardasigilli sta studiando con maggiore attenzione è quella degli accordi bilaterali per far scontare la pena agli stranieri nei loro Paesi d’origine. Il primo approccio, con la Romania, l’anno scorso insieme al ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Sui tempi e sulle possibilità concrete di portare a termine trattative del genere regna però la prudenza. In agenda, continua la senatrice, è anche la praticabilità di "strutture più leggere per la custodia cautelare", distinte dunque dalle prigioni vere e proprie.

Sta di fatto che i dati riportati domenica da Avvenire, riguardanti l’aumento dei suicidi in cella e il trabordare dei detenuti (64mila) rispetto alle capienze regolamentari (43mila), interpellano la politica e gli addetti ai lavori. La soluzione di medio periodo è nota: sul tavolo del ministro della Giustizia Angelino Alfano giace un piano firmato da Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e commissario straordinario per la gestione dell’emergenza.

Lo si conosce in termini generali: 1,5 miliardi di euro per circa 18mila nuovi posti letto, ottenuti con ristrutturazioni, nuovi padiglioni da aggregare ad edifici già esistenti, una ventina di istituti da costruire e altri (meno di dieci) da completare. Il tutto accompagnato da procedure d’urgenza per saltare qualche passaggio burocratico. Ma le domande sono tante.

Usciranno i soldi per le nuove strutture? Al momento ci sono nel piatto circa 400 milioni, e l’esecutivo aspetta una risposta forte dei privati. E poi, a nuovi posti-letto corrispondono nuove guardie, mentre dal 2001 - denuncia il Sappe, che rappresenta la polizia carceraria - il loro numero è calato di 5.500 unità: ci saranno i concorsi? "È un problema complesso ", ammette il sottosegretario.

Ma soprattutto, prevedendo che i cantieri - nonostante le corsie preferenziali - non apriranno a breve, gli addetti ai lavori si chiedono cosa si può fare subito. I racconti dalle prigioni sono impressionanti. In casi-limite ci sono dodici (e più) persone in dodici metri quadrati. Ovvero un metro quadro a testa. Si dorme a turni. I nuovi arrivati riposano a terra, su materassi senza brandine. Godere degli spazi esterni e delle ore d’aria è difficile.

Il turn-over tra chi entra e chi esce crea scompiglio. Così sale la tensione, si rischiano disordini ogni giorno. E capita che la disperazione prenda il sopravvento, come dimostrano i dati sui suicidi. Ecco allora tornare in auge le "pene alternative" e il proposito di aggiornare la legge Gozzini del 1986.

Tra gli istituti innovativi il segretario generale Sappe, Donato Capece, propone la messa in prova di chi commette reati che non destano allarme sociale, i lavori socialmente utili senza ritorno notturno in cella (ma con prelievo sul salario per ricompensare le vittime), la libertà su cauzione. E poi, un vecchio pomo della discordia: il braccialetto elettronico, esperimento fallito nel 2001. Chi lo sostiene afferma però che la tecnologia è diventata più affidabile. Per il momento, fa sapere la Casellati, non sono misure in valutazione. Ma non è detto che la chiusura sia definitiva. In ogni caso il fronte che sostiene interventi immediati non desisterà: domani presenteranno le loro proposte, in una conferenza stampa congiunta, penalisti, sindacati e associazioni.

Giustizia: la cella è troppo piccola? potete fare causa allo Stato

di Sandro Padula

 

L’Altro, 28 luglio 2009

 

Negli ultimi tempi è ripreso il dibattito sulla critica allo Stato penale anche nelle pagine di questo quotidiano. Tutti, ad esempio, hanno giustamente ribadito l’importanza di evitare che delle forme di irritazione sociale siano canalizzate verso richieste di maggiori pene e più dure politiche securitarie.

Qui, infatti, nessuno propone più galera, più carceri o più poliziotti armati. Qui, anche quando ci sono delle incomprensioni involontarie, si propone sempre - come minimo - più libertà da ogni forma di tortura e di oppressione. Diciamo che tutti sono in sostanza d’accordo su questo punto.

Bene, che fare allora in pratica? Vogliamo limitarci a stare sul terreno dei discorsi filosofici, campo specifico rispetto al quale chiedo di poter prendere la parola dopo aver letto l’intero ed ultimo articolo a puntate di Oreste Scalzone, senza dubbio una delle menti migliori e oneste della mia generazione e della mia "comunità reale", oppure pensiamo anche di proporre qualcosa di concreto che sia suscettibile di coinvolgere, far discutere e politicizzare dal basso almeno qualche migliaia di persone?

Adesso il problema più urgente da affrontare è quello costituito dall’autentica tortura connessa al sovraffollamento carcerario. Questo è il più evidente sintomo dell’ipertrofia dello Stato penale italiano. Leggi liberticide vecchie e nuove, come la ex Cirielli per i recidivi (quella che condanna un recidivo a 3 anni se ruba dei biscotti), la Fini-Giovanardi sulla droga (che penalizza perfino un basso consumo di droga leggera e tiene in carcere circa 20 mila persone), la Bossi-Fini sull’immigrazione e il recente "pacchetto sicurezza" (che ha trasformato la condizione della clandestinità in una sorta di azione criminale da punire), l’inasprimento del 41 bis (che toglie la possibilità di usufruire di misure alternative anche minime come il permesso-premio), il mantenimento del "fine pena mai" (che ha portato il numero delle persone ergastolane alla cifra record di 1.415 persone al 30 giugno 2008) e la generalizzata non applicazione dell’articolo 27 della Costituzione tendono a far scoppiare letteralmente il sistema carcerario del nostro paese.

Credo sia davvero imbarazzante per chi ha fatto dell’apologia dello Stato penale la bandiera della propria campagna elettorale dover ammettere che ha fallito su tutta la linea. I dati statistici parlano da soli. Di fronte ad una capienza regolamentare di 43 mila posti letto, così fissata in base ai criteri minimi elaborati dal Comitato europeo per la prevenzione della Tortura di Strasburgo, oggi le persone detenute sono oltre 64 mila. Di questo passo potrebbero diventare 100 mila nel giro di pochi anni.

Il Ministero della Giustizia dovrebbe aver capito che, rispetto al problema di eliminare il sovraffollamento, il suo piano di edilizia penitenziaria è inutile; da un lato ci vogliono diversi anni prima che sia concluso e dall’altro non ha neanche la copertura finanziaria per concretizzarlo, a meno che, tradendo il proprio elettorato e dimostrando così, per l’ennesima volta, di essere solo un ottimo venditore di tappeti volanti, il governo non decida di decretare d’urgenza nuove e dolorose tasse.

Nella presente e prossima configurazione del sistema carcerario italiota, solo forme di indulto (per tutti) e amnistia (per i reati minori), insieme a politiche di eliminazione totale delle suddette leggi liberticide, potrebbero ridurre la tortura del sovraffollamento, i suicidi e le azioni autolesioniste delle persone detenute.

This is the question, ma non c’è peggior sordo di chi finge di non sentire. Il governo, ma non lo dico per giustificarlo, non può permettersi il lusso dell’autocritica. Il governo, come si sa, è un organismo che in ogni paese del mondo deve apparire sempre perfetto, anche di fronte alle sconfitte. È senza dubbio un cervello non molto sano quello di chi non fa mai autocritica, ma questa è la realtà.

In teoria, da parte del Potere, l’unica soluzione indispensabile da intraprendere sarebbe quella di una rapida decrescita dello Stato penale, ma troppi affari economici, amministrativi, militari e politici girano attorno ad esso e il governo non può ridurli per non ridurre il proprio consenso sociale.

La situazione è quella che, nelle partite a scacchi, si chiama stallo. Visto che allora è impossibile giocare a scacchi con questo governo, bisogna cambiare tavolo di gioco e giocare tatticamente con altri e "superiori" poteri. Un’ottima idea in tale direzione, inventata da due detenuti stranieri e trasmessa sulle pagine de Il Manifesto del 18 luglio da Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone (difensorecivico@associazioneantigone.it), è quella di citare in giudizio lo Stato alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo proprio sulla questione del sovraffollamento carcerario.

I due detenuti inventori del ricorso, e questa è la cosa di maggior importanza, l’hanno anche vinto. Il primo, il signor Kalashnikov (si chiama proprio così e non è l’inventore del famoso fucile d’assalto!), ha fatto condannare la Russia. Il secondo, il signor Izet Sulejmanovic, è invece riuscito a far condannare l’Italia ed ha ricevuto un simbolico rimborso di mille euro in quanto, per alcuni mesi, era stato costretto a vivere nel carcere romano di Rebibbia in soli 2,7 metri quadri.

Sveglia ragazze e ragazzi, giovani e anziani delle sovraffollate carceri! Non buttatevi giù di morale! Un nuovo gioco, a supporto delle prossime lotte, si può condurre a partire da questa calda estate! Basta che la cella singola (il cubicolo) sia inferiore a 7 metri quadri e lo spazio personale di una cella multipla (il camerone) sia meno di 4 metri quadri... e vi si può partecipare! In Italia, ad averne il diritto, sono già - ad occhio e croce - dalle 40 alle 50 mila persone detenute!

E se l’ondata di ricorsi fosse fatta su scala dell’intero continente europeo? E se il metodo tattico dei ricorsi a Strasburgo fosse possibile e utile anche agli immigrati clandestini presenti in Italia per mettere i bastoni fra le ruote al presunto reato di clandestinità previsto dall’ultimo "pacchetto sicurezza" del governo italiano?

A quest’ultima domanda potrebbero fornire una risposta gli avvocati esperti in materia. All’altra potrebbero invece rispondere coi fatti le persone detenute e/o interessate che vivono in altri paesi europei. Intanto, nelle carceri italiane, prendiamo le misure di tutte le celle! Non suicidiamoci se stiamo in 8 in un camerone! Viviamo per lottare e lottiamo per vivere!

Giustizia: i Radicali invitano i Garanti al "Ferragosto in carcere"

 

www.centrofrancescanodiascolto.it, 28 luglio 2009

 

Per dimostrare attenzione nei confronti della popolazione detenuta venerdì 14, sabato 15 e domenica 16 agosto Deputati, Senatori e Consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici assieme ai Garanti per i diritti delle persone private della libertà si uniscono alla "comunità penitenziaria" per una ricognizione approfondita della difficilissima situazione delle carceri italiane; per conoscere meglio e direttamente come vivono la realtà quotidiana direttori, agenti, medici, psicologi, educatori e detenuti, per essere così capaci di interpretare i bisogni e di proporre le soluzioni legislative e organizzative adeguate, sia immediate che a medio e lungo termine.

L’iniziativa è dei Radicali Italiani affinché gli istituti penitenziari possano essere non solo luogo di espiazione della pena, ma possano realizzare a pieno i valori sanciti dall’articolo 27 della Costituzione Italiana secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato; mentre, per quel che riguarda tutti i lavoratori che prestano la loro attività ad ogni livello negli istituti carcerari, devono essere garantite condizioni di lavoro moralmente, socialmente ed economicamente adeguate ai profili professionali ricoperti, che diano il giusto riconoscimento ai compiti di esemplare responsabilità espletati e che consentano di dare completa attuazione ai risultati delle rivendicazioni e delle conquiste, purtroppo oggi ancora in larga parte disattese.

Non è un caso che lo stesso Ministro della Giustizia on. Angelino Alfano ha definito la situazione delle carceri italiane "fuori della Costituzione".

Giustizia: il Magistrato di Sorveglianza... e la scrittura in carcere

di Luciana Scarcia

 

www.innocentievasioni.net, 28 luglio 2009

 

Non è usuale che chi sta scontando una pena per aver violato la Legge discuta di teoria del Diritto e di Giustizia. Eppure, se si crea l’occasione per farlo e gli interlocutori sono persone attente e aperte, accade che si varchino delle frontiere tra mondi considerati "naturalmente" contrapposti e nemici.

Il Magistrato di Sorveglianza, il dott. Della Ratta Rinaldi, ha accettato l’invito di tenere una lezione nel Laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C. (che quest’anno tratta il tema Umano/Disumano) rispondendo al seguente quesito: rispetto della norma collettiva e coscienza etica non sempre nella Storia e nella società reale coincidono. La Giustizia è un sistema di regole o la ricerca del bene?

Per sintetizzare con una parola il significato di questo incontro mi viene in mente il termine addomesticamento, nel senso dato da Saint-Éxupéry ne Il piccolo principe, cioè portare dentro la domus ciò che è diverso, per scoprire che esistono ideali e forme di pensiero che trattano bisogni e aspirazioni comuni a tutti gli esseri umani.

In carcere, ma anche nel sentire comune, Diritto e Giustizia vengono identificati in un insieme di articoli e norme astratti perché generali, quindi lontani dalla realtà delle esperienze umane e dai concreti problemi delle singole persone, e per questo spesso anche "disumani". Invece sentir parlare un Magistrato del patrimonio di pensiero e riflessione che c’è dietro le attuali codificazioni della Legge è servito a scalfire luoghi comuni e diffidenze.

Tra i contenuti teorici e le riflessioni portati con grande sapienza ed efficacia comunicativa da Della Ratta Rinaldi mi soffermo sull’affermazione che "conforme al Diritto non significa Giusto", in quanto l’idea di Giustizia è una meta verso cui tendere, ma sarebbe pericoloso, come la storia ha dimostrato, pretendere che la norma sia la traduzione della Verità (quale verità?). Tale pretesa ha il carattere del sovrumano, mentre il Diritto, essendo scritto dagli uomini, è per ciò stesso limitato, ma nella sua ricerca di un equilibrio tra certezza della norma e complessità della realtà umana è anche perfettibile. Ed è in questa tensione, insieme alla consapevolezza del limite, che consiste "l’umanità" del Diritto.

Il concetto di pena attiene anche alla sfera dell’etica, presuppone un’idea di Bene, di Giusto, ma sarebbe sbagliato dire che il carcere, una delle forme in cui si concretizza la pena, è giusto, essendo esso, più semplicemente, necessario. Ma il necessario può diventare non più necessario, ed è a questa idea che si ispira la Riforma Penitenziaria, a sua volta coerente con il principio della rieducazione previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione.

Giustizia: Galan (Veneto); ronde, fermare i mostruosi fai-da-te

di Vladimiro Polchi

 

La Repubblica, 28 luglio 2009

 

Bisogna reprimere gli atti di violenza e vigilare con molta attenzione sulla corretta applicazione delle nuove norme sulla sicurezza.

"Reprimere gli atti di violenza e vigilare con molta attenzione sulla corretta applicazione delle nuove norme sulle sicurezza". Giancarlo Galan suona un campanello d’allarme nella maggioranza, affinché sulle ronde "si evitino rischi e abusi". Il presidente del Veneto, ex liberale, tra i fondatori di Forza Italia, non teme di parlare fuori dal coro e sulle ronde chiede paletti precisi contro "mostruosi fai da te". Ma sugli scontri di Massa avverte: "Sia ben chiaro, le violenze di quelle squadracce di estremisti con la nuova legge sulla sicurezza non hanno nulla a che fare".

 

Presidente, in attesa dell’arrivo delle ronde ufficiali non la preoccupano le recenti violenze a Massa?

"Premesso che del caso concreto non so bene tutti i dettagli, ma solo quanto riportato dalla stampa, mi sembra si sia trattato di scontri tra fazioni politiche avverse, di estrema sinistra e di estrema destra. Almeno una cosa è dunque certa: nessuno di quei signori è stato selezionato e adeguatamente addestrato in base alle nuove norme della legge sulla sicurezza, recentemente approvata".

 

Non si corre così il pericolo di sottovalutare quanto emerso dagli scontri tra "ronde" nemiche a Massa?

"I fatti di Massa non devono certo ripetersi, né essere sminuiti. Ma ripeto: quelle che si sono affrontate sono squadracce di estremisti, lontani mille miglia dalle cosiddette ronde che si vogliono ora disciplinare per legge. Se le ronde fossero come quelle che si sono viste in questi giorni a Massa, povera Italia davvero".

 

La legge istitutiva del "volontari per la sicurezza" non rischia però di prestarsi ad abusi?

"La nuova legge deve proprio servire a disinnescare situazione simili a quelle verificatesi a Massa. Come ha assicurato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, gli appartenenti alle ronde non dovranno avere alcun colore politico, dovranno essere volontari selezionati tra ex membri delle forze dell’ordine, non potranno girare mai armati, non dovranno avere alcun precedente penale e dovranno solo collaborare con la polizia. Nulla di più".

 

Insomma, tutto sta ora a vedere quali paletti verranno introdotti dal Viminale con il regolamento attuativo della legge sulla sicurezza?

"Certamente, il governo deve applicare questa legge veramente e in tutti i suoi aspetti, per evitare rischi e affinché non si lasci la sicurezza a questo mostruoso fai da te, che va invece fermato".

 

Concludendo, secondo lei si deve andare avanti con l’istituzione delle ronde, ma solo dopo aver adottato le necessarie cautele?

"L’esecutivo deve, da un lato, procedere alla repressione degli atti di violenza a partire da quelli di Massa; dall’altro, deve vigilare sulla corretta applicazione della nuova legge istitutiva dei volontari per la sicurezza, affinché contenga tutti i necessari antidoti contro possibili abusi e rischi di degenerazione".

Umbria: agenti sulle barricate; carceri sono bomba a orologeria

 

La Nazione, 28 luglio 2009

 

"L’Umbria è una bomba a orologeria pronta ad esplodere. È ora che ne prendano atto tutti: dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria alle istituzioni". Il grido si è levato unanime: i sindacati sono d’accordo e tutte le sigle (Sinappe, Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Sappe e Cnpp) hanno sostenuto con forza e senza esitazione la manifestazione di protesta degli agenti di polizia penitenziaria.

"L’Umbria è una bomba a orologeria pronta ad esplodere. È ora che ne prendano atto tutti: dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria alle istituzioni". Il grido si è levato unanime: i sindacati sono d’accordo e ieri tutte le sigle (Sinappe, Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Sappe e Cnpp) hanno sostenuto con forza e senza esitazione la manifestazione di protesta degli agenti di polizia penitenziaria.

Un sit-in sotto la sede del Provveditorato, in via Angeloni a Perugia. La goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo è stata la decisione di far arrivare in Umbria altri 500 detenuti, da sistemare nell’ala appena aperta del carcere di Capanne a Perugia (200 reclusi) e nel nuovo padiglione dell’istituto di pena di Spoleto (gli altri 300). A fronte di tanti arrivi era stato previsto l’incremento di 143 agenti. Bene, i detenuti sono stati trasferiti, dei poliziotti si è vista poco più che l’ombra. Ovvero: in tutto ne sono arrivati una trentina.

"Non sappiamo più come spiegarci per far capire che la situazione è grave - dicono Massimo Ceppi e Fabio Muscio, del Sinappe -: è stato deciso tutto in neanche dieci giorni e ora noi ci troviamo in questa situazione. Già prima lavoravamo otto ore a turno, due ore in più rispetto quanto previsto dal contratto. Ora saremo costretti a rinunciare anche ad alcuni servizi per garantire il minimo della sicurezza". Ovvero: il bar-spaccio (per i poliziotti) nel carcere di Capanne è stato chiuso e a stretto giro di posta potrebbe fare la stessa fine anche il servizio sopravitto che assicura ai detenuti la possibilità di acquistare generi alimentari e tabacchi.

"Ma a rischiare di essere compressi sono anche altri diritti dei carcerati - continua Ceppi e Muscio : se andremo avanti così e non verranno assicurati dei rinforzi, potrebbero non essere garantiti gli stessi colloqui". E questo è un aspetto del problema. Ce ne sono altri, ancora più preoccupanti. Primo su tutti, la sicurezza. "Nessuno ha pensato cosa può significare far arrivare in una regione piccola come l’Umbria 500 detenuti in più? Così significa - riflette Fabio Donati della Cisl - quasi raddoppiare l’attuale popolazione carceraria, senza garantire un intervento altrettanto forte in termini di presenza degli agenti di polizia penitenziaria. È un problema di sicurezza? Sì, sia dentro che fuori il carcere".

All’interno le sommosse sono sempre più dietro l’angolo e ci sono meno agenti pronti a governarle: "Al momento - dice ancora Donati - uno di noi deve controllare 50-60 carcerati: non è difficile capire che è una proporzione irragionevole". Aumenta, al pari, il rischio delle evasioni: "E il nostro lavoro, se possibile, si fa sempre più logorante".

I rappresentanti delle sette sigle sindacali che hanno organizzato il sit-in ieri mattina sono stati ricevuti dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria dell’Umbria, Ilse Rusteni, che ha sottolineato il proprio impegno per garantire la soluzione del problema. Che, comunque, sembra piuttosto lontana. "È uno scaricabarile - conclude Francesco Petrelli - dell’Ugl - di cui noi facciamo le spese quotidianamente. Continueremo a combattere, fin quando i problemi di organico che ci rendono il lavoro quasi impossibile non verranno risolti". E questa è una promessa.

Veneto: Garante regionale, incontro tra Ferrari e Valdegamberi

 

www.centrofrancescanodiascolto.it, 28 luglio 2009

 

Si è svolto lunedì 27 luglio a Verona un incontro tra il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo, Livio Ferrari, e l’Assessore alle Politiche Sociali della Regione del Veneto, Stefano Valdegamberi, per verificare le possibilità che ci sono per l’approvazione della legge per l’istituzione del Garante regionale dei detenuti.

L’assessore Valdegamberi si è detto "assai attento alle problematiche delle carceri, soprattutto in questo momento di assoluto sovraffollamento. Ma i tempi per l’istituzione del Garante regionale sono però assai risicati, in quanto ci stiamo avviando verso fine legislatura ed è sicuramente irto di difficoltà il percorso dell’approvazione di una legge attraverso il passaggio in Commissione e poi in Consiglio".

L’assessore ha apprezzato la proposta di Ferrari, che gli ha consegnato un progetto di legge già predisposto, anche sulla base di quelli già approvati nelle altre cinque regioni che sinora lo hanno istituito e ha affermato di voler tentare la strada più veloce, cioè quella della presentazione di una proposta attraverso la Giunta regionale.

Bari: detenuto tunisino di 19 anni, si impicca all’Ipm "Fornelli"

di Gabriella De Matteis

 

La Repubblica, 28 luglio 2009

 

Quando tre mesi fa è stato arrestato perché addosso nascondeva tre dosi di cocaina, aveva detto di avere 16 anni. E per questo da Perugia, dove era stato fermato, era stato portato al carcere minorile di Bari "Fornelli". Ed è lì che lui ha deciso di togliersi la vita. Lo ha fatto impiccandosi con un lenzuolo.

Il protagonista di questa brutta storia è un ragazzo di 19 anni di origini tunisine. È stato il fratello, giunto a Bari all’indomani della tragedia, a svelare la vera età. Un particolare non di poco conto: se al momento dell’arresto, il ragazzino avesse detto di avere 19 anni e non sedici, forse il periodo di detenzione sarebbe stato più breve e lui, incensurato e senza guai con la giustizia, avrebbe già lasciato il carcere. Sabato mattina, invece, il giovane tunisino era nella stanza che al "Fornelli" condivideva con un altro immigrato. L’idea di uccidersi, di porre fine così al periodo di detenzione, è maturata forse durante la notte. Il ragazzino ha appeso il lenzuolo al soffitto e si è impiccato.

È stato il giovane che era con lui, il primo ad accorgersi della tragedia. Quando ha visto il corpo del suo compagno ha cominciato a gridare e a piangere. Il diciannovenne era ancora vivo. Respirava e gli agenti della polizia penitenziaria hanno anche cercato di soccorrerlo. Inutilmente. È morto poco dopo. Una tragedia che ha lasciato sgomenti gli operatori dell’istituto penitenziario "Fornelli" dove mai, negli ultimi quindici anni, si erano verificati suicidi. E poi il giovane, compatibilmente alle restrizioni di una vita trascorsa in un carcere minorile, appariva tranquillo, sereno, non si era mai sfogato, non aveva dato segni di escandescenza. Anche con il ragazzo con il quale divideva la stanza non si era mai confidato. Il giorno prima della tragedia aveva parlato con la sua famiglia al telefono e neanche in questo caso aveva manifestato insofferenza per la sue condizioni.

Sul caso, ora, il sostituto procuratore Emanuele De Maria ha aperto un’inchiesta, affidando al medico legale Francesco Introna l’incarico di eseguire l’autopsia sul corpo della vittima. Un atto dovuto per chiarire la dinamica della tragedia. E infatti l’esame necroscopico ha confermato che quello del giovane tunisino è stato un suicidio.

Lecce: morto un detenuto di 42 anni (forse) disposta l’autopsia

 

Ansa, 28 luglio 2009

 

Un detenuto napoletano di 42 anni, Gerardo D’Argenzio, è morto nel carcere di Lecce. Era in infermeria perché si sentiva male, quando si accasciato ed è morto. La Procura potrebbe disporre accertamenti per chiarire le cause.

Rovigo: condizioni invivibili nelle celle; una protesta dei detenuti

di Franco Pavan

 

Il Gazzettino, 28 luglio 2009

 

Il carcere di Rovigo è al collasso. Dall’interno della Casa Circondariale di via Verdi arrivano notizie allarmanti: celle da due persone in cui si soggiorna in cinque, brande a castello a tre livelli, addirittura letti e materassi esauriti. Il caldo e l’afa di questi giorni contribuiscono ancor più ad acuire i problemi e la già precaria convivenza di tante persone è portata ai limiti della tollerabilità umana. Inevitabile l’affiorare di malumori e proteste che i detenuti della casa circondariale hanno condensato in una lettera aperta.

"Il carcere è diventato un deposito merci di persone - spiegano i reclusi di via Verdi - un posto dove archiviare quelle vite che non servono più perché diventate improduttive. Un luogo nel quale si entra principalmente per i guasti causati da un’organizzazione sociale in fase di sgretolamento che non riesce più a garantire il rispetto della dignità. Manca il lavoro e questo porta sempre più persone verso le povertà estreme e il doversi arrangiare".

Come la maggior parte dei penitenziari, sottolineano i detenuti, "anche Rovigo ha strutture vecchie costruite per contenere quantità prestabilite di posti con un limite di tolleranza, superato il quale, per evitare che la situazione esploda, occorre trovare soluzioni adeguate a garantire al detenuto condizioni minime di dignità".

Il nuovo carcere dovrebbe essere pronto entro il 2012, ma intanto al ritmo di mille entrate al mese a livello nazionale, come si potranno affrontare i problemi? Va considerato che le celle strapiene moltiplicano i disagi per i detenuti, ma amplificano i problemi di lavoro che sono costretti ad affrontare gli addetti alla sorveglianza. Sono gli stessi agenti di polizia penitenziaria a evidenziare la carenza di personale, i turni di lavoro appesantiti, tensioni e stress. Aumenta la difficoltà a garantire il rispetto dei detenuti anche negli aspetti di vita più semplici.

Si mette l’accento anche sul fatto che mentre si diffondono notizie di ristrutturazioni e realizzazione di nuovi penitenziari, si esclude totalmente la possibilità di nuovi indulti. Viene ribadito che un’attenta lettura delle statistiche dimostra che solo il 20 per cento dei beneficiari dell’indulto del 2006 sono rientrati in carcere. Gli altri hanno ripreso una vita normale. "A fronte di questi dati - continuano i reclusi - dall’inizio dell’anno le morti in carcere sono salite a 80, parte delle quali dovute a suicidio. Davanti a tutto questo è necessario coinvolgere le autorità perché prendano coscienza delle singole realtà del loro territorio, in modo che vengano attuate verifiche che non rimangano solo sulla carta, ma che diventino soluzioni utili per tutti. È fondamentale che i detenuti siano messi in grado di produrre qualcosa di utile per sé e per la società in vista di un effettivo recupero. Il ricorso a pene alternative deve diventare più assiduo previo un’effettiva valutazione dei singoli casi. Il rischio è che senza l’adozione di queste misure, una volta scarcerato, il soggetto non trovi possibilità di reinserimento e ritorni a delinquere.

Va anche adeguato il numero del personale adibito alla gestione delle carceri in proporzione all’aumento del numero di ingressi, comprendendovi la presenza giornaliera di educatori e staff di valutazioni comportamentali per far ottenere ai detenuti i benefici previsti per legge come i permessi e le misure alternative".

 

La lettera dei detenuti

 

Noi che ci viviamo 24 ore su 24 ci chiediamo: "Il carcere che cosa sta diventando?". Risposta: "Un deposito merci di persone".

Un magazzino dentro il quale archiviare tutte quelle "vite" che non servono più, che sono diventate improduttive, e nel quale ormai si entra principalmente peri guasti causati da una organizzazione sociale in fase di sgretolamento, che non riesce a garantire il rispetto della dignità umana. Non c’è più lavoro per nessuno e questo gradualmente porta alla estrema povertà, al doversi arrangiare, ecc.

Ma volendo ritornare nel pianeta "carcere-magazzino", possiamo tranquillamente affermare che la maggior parte dei penitenziari ha strutture vecchie, costruite per contenere quantità ben stabilite di posti a disposizione, ma anche per il massimo di tolleranza, superate le quali, per evitare lo scoppio è necessario trovare altre soluzioni adeguate e tali da preservare il "prodotto uomo detenuto" in condizioni con un minimo di dignità.

Le notizie parlano di nuove strutture ma che saranno pronte nel 2012; e, nel frattempo, come verranno affrontati i problemi dei continui ingressi (circa 1.000 ogni mese in Italia)? Le celle sono strapiene già ora, addirittura non si trovano più brande e materassi, le problematiche, di per sé già presenti, si moltiplicano a danno di tutti. Il "Tutti" è da intendersi detenuti ma anche personale addetto alla sorveglianza, all’amministrazione carceraria.

Gli agenti di Polizia Penitenziaria evidenziano carenza di personale e di conseguenza quello a disposizione è in affanno e non sempre può garantire il rispetto dei diritti dei detenuti anche nelle cose più semplici. Turni di lavoro appesantiti oltre misura e questo causa tensioni e stress. A lungo andare tutto fa prevedere l’aumentare di problematiche che non sono positive per nessuno. Già si leggono azioni di dimostrazione in diverse strutture, qua e là per l’Italia, ma soluzioni non se ne vedono. Si legge che verranno ristrutturati e costruiti nuovi penitenziari, che non si ricorrerà più all’indulto.

Anzi si dichiara che l’ultimo è stato inutile; se andiamo a leggere bene le statistiche non è poi tanto vero quanto viene pubblicato su alcuni giornali; non tutti i beneficiari sono rientrati in carcere, solo poco più del 20%, la maggior parte è rimasta nel mondo esterno con buona felicità loro e di tutti i relativi famigliari. Nel frattempo le morti in carcere, da inizio anno, sono arrivate oltre quota 80, parte delle quali con ricorso al suicidio.

È necessario coinvolgere le autorità affinché prendano coscienza delle singole realtà, che vengano attuate verifiche che non devono rimanere solo sulla carta ma che si tramutino nella ricerca di soluzioni utili per tutti. Non si chiede che il detenuto venga liberato, ma che sia in grado di produrre qualcosa di utile per se stesso e per la società, che ci sia un effettivo recupero, che non rimanga a marcire nelle celle, che vengano utilizzate le misure alternative in maniera assidua ove ci siano le effettive valutazioni. Il non ricorso a tali situazioni, a fine pena, il singolo carcerato che non troverà possibilità di reinserimento e quindi nessun’altra possibilità di sostentamento, sarà portato a delinquere nuovamente.

Adeguiamo anche il numero del personale adibito alla gestione delle carceri in proporzione all’aumento delle attuali detenzioni; la presenza giornaliera e continua dell’educatore e di tutto lo staff necessario alla valutazione comportamentale dei detenuti in modo tale che chi può ottenere i benefici previsti dalla legge (permessi, misure alternative, etc.), ne possano usufruire e consentire una minore "sosta" nel carcere.

Serve l’impegno di tutti. Da soli si fa poco. Se lavoriamo tutti assieme forse il mondo sarà anche migliore e le cronache sui giornali avranno notizie positive da raccontare. Abbiamo anche una Costituzione che ha celebrato il suo 60° da poco, vogliamo adeguarci a quelle semplici regole che tutti dovremmo rispettare?

 

I detenuti della Casa Circondariale di Rovigo

Venezia: sei agenti indagati; cella "segreta" per punire detenuti

 

Il Messaggero, 28 luglio 2009

 

Il locale sarebbe stato utilizzato per "calmare" i detenuti problematici. Tra questi un marocchino che si tolse la vita.

Nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia vi sarebbe stata una "cella delle punizioni": stretta, buia, dall’odore nauseabondo, nella quale sarebbero stati rinchiusi alcuni detenuti, tra cui il ventisettenne di nazionalità marocchina che, lo scorso 6 marzo, in quello spazio angusto si tolse la vita. La Procura della Repubblica di Venezia ha aperto un’inchiesta per accertare se siano stati commessi illeciti di natura penale nell’utilizzo di quella cella, non regolamentare, e ha iscritto sul registro degli indagati i nomi di sei appartenenti al corpo di polizia penitenziaria con l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati e detenuti; reato che l’articolo 608 del codice penale punisce con la reclusione fino a trenta mesi. L’indagine non riguarda Gabriella Straffi direttrice del carcere all’epoca dei fatti e che, da quanto emerso nel corso degli accertamenti, non era informata di quanto accadeva.

Nei giorni scorsi il sostituto procuratore Massimo Michelozzi ha chiesto al giudice per le indagini preliminari di Venezia di poter ascoltare con incidente probatorio, alla presenza dei legali degli indagati, sette detenuti che, nel corso delle indagini preliminari, hanno raccontato al magistrato numerosi particolari in relazione all’utilizzo di quella cella. In questo modo il pm vuole far acquisire il valore di prova alle loro dichiarazioni, evitando il rischio di non poterli ascoltare più avanti, nel corso di un eventuale processo in Tribunale: i detenuti sono tutti stranieri e, una volta usciti dal carcere, potrebbero non essere più rintracciabili.

Stando alle deposizioni rese finora, la cosiddetta "cella delle punizioni" sarebbe stata utilizzata in più di una modalità. Da un lato per ospitare momentaneamente nuovi detenuti in arrivo, in attesa di poterli sistemare: in questo caso la Procura ha ritenuto che non si possa configurare alcuna violazione, in quanto si trattava di sistemazione temporanea, giustificata dalla grave situazione logistica del carcere veneziano, sovraffollato e con pochi spazi disponibili. In altre occasioni, però, quella cella sarebbe servita per ospitare detenuti un po’ troppo esuberanti, con l’obiettivo di farli calmare. Vero o falso? Il pm Michelozzi si sta muovendo per acquisire tutti gli elementi utili ad una completa valutazione.

Il quella cella, lo scorso 6 marzo si è suicidato (impiccandosi dopo aver ridotto la coperta in sottili strisce) un ventisettenne di nazionalità marocchina che in precedenza già una volta aveva tentato di togliersi la vita, ed era stato salvato grazie all’intervento delle guardie penitenziarie. Per la morte di quel detenuto sono finiti sotto inchiesta il responsabile delle guardie, nonché l’ispettore in servizio nel settore in cui si trovava il detenuto, in relazione a possibili carenze e omissioni nella sua sorveglianza. Per quale motivo, si chiede il magistrato, il giovane è stato messo in quella cella buia, senza essere sorvegliato, considerato il suo delicato equilibrio psichico? Perché non è stato lasciato nella sua cella assieme ai compagni che avrebbero potuto prendersi cura di lui?

L’intera vicenda va inquadrata in una situazione che, all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore, è al limite del collasso (e della decenza), come denunciato anche recentemente da uno sciopero degli avvocati veneziani. I detenuti sono oltre 300 (di ben 22 etnie differenti), a fronte di una capienza di 160. Il tutto in spazi insufficienti e spesso non adeguati, tanto che alcuni detenuti vengono fatti dormire nelle aree che durante il giorno sono riservate alle attività ricreative. Ma non basta: l’organico della polizia penitenziaria è fortemente carente e mancano una sessantina di agenti nella sezione maschile e una ventina in quella femminile, con immaginabili problemi per l’organizzazione del lavoro e la gestione della sicurezza.

Trento: rissa nel carcere; direttrice convocata dal procuratore

 

Il Trentino, 28 luglio 2009

 

È stata chiamata dal procuratore capo Stefano Dragone a chiarire tutti gli aspetti della vicenda e lo dovrà fare oggi. Lei è Antonella Forgione, direttore del carcere di Trento. La ragione della sua convocazione è presto detta. La procura vuole capire cosa sia successo venerdì pomeriggio quando quattro agenti di polizia penitenziaria sono stati aggrediti da altrettanti detenuti. E vuole sapere anche come mai non sia stata data immediata notizia di questo successo.

Questi i fatti. Tutto ha avuto origine dall’insofferenza dei quattro detenuti, in attesa di essere giudicati dal consiglio disciplinare. Si trattava di pochi minuti, ma sufficienti a far scattare la rabbia del quartetto, peraltro già con alle spalle precedenti disciplinari. Anche venerdì, la commissione - composta dal direttore, da sanitari e da altre figure professionali interne al carcere - avrebbero dovuto esprimersi e applicare eventuali sanzioni nei confronti di quegli uomini, protagonisti di alcuni episodi accaduti recentemente, fra i quali anche l’aggressione ad un agente.

La tensione è andata via via salendo dall’area passaggi all’inizio della sezione per esplodere poi sulle scale che portano al secondo livello. Dagli insulti rivolti al personale si è passati ad un feroce corpo a corpo nel giro di pochi minuti. La colluttazione è durata circa mezz’ora ed è stata molto violenta: alla fine, è intervenuto in forza anche altro personale in servizio e, tornata la calma, s’è potuto fare un primo bilancio. La peggio è toccata agli agenti - uno di loro è stata addirittura spinto giù dalle scale - e tutti, alla fine, hanno dovuto ricorrere alle cure dei sanitari del Santa Chiara. Sabato mattina, i poliziotti si sono recati in Procura per sporgere denuncia. E oggi la direttrice è stata convocata da Dragone.

Foggia: in cella con le mascherine, ma non c’è un allarme Tbc

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2009

 

Misure precauzionali dopo il ricovero di un carcerato per tubercolosi. "Temiamo d’essere stati infettati e abbiamo paura anche per i nostri familiari, con cui siamo venuti a contatto nei colloqui"

"È vero, un detenuto è stato ricoverato in ospedale per tubercolosi ma non c’è alcun allarme né tantomeno pericolo per detenuti e personale del carcere. Al momento le analisi eseguite su altri reclusi della stessa sezione del paziente e il sopralluogo condotto nella nostra struttura da personale dell’Asl hanno dato esito negativo.

La situazione è monitorata costantemente anche perché il problema riguarda non soltanto i detenuti, ma anche la polizia penitenziaria: stiamo utilizzando mascherine. Dalla direzione del carcere di Foggia, interpellata dalla "Gazzetta", confermano quanto denunciato al nostro giornale in una lettera di alcuni detenuti, ma escludono - come sostenuto nella missiva - che il problema sia stato sottovalutato per mesi e che al momento ci siano altri casi di tubercolosi.

"Siamo un gruppo di detenuti ristretti nella casa circondariale di Foggia e ci rivolgiamo alla "Gazzetta" per denunciare un fatto grave", è scritto nella lettera di una pagina arrivata in redazione. La curiosità è che i detenuti chiedono la riservatezza e l’anonimato (com’è ovvio che sia) ma poi le firme apposte corrispondono ai nomi di una serie di pentiti foggiani che non sono detenuti certo a Foggia. Ma il problema lamentato nella missiva - come da riscontro della "Gazzetta" presso il carcere - esiste comunque.

"Vogliamo denunciare fatti gravi" si legge nella lettera "dopo che alcuni giorni fa un detenuto è stato ricoverato d’urgenza in ospedale per una tubercolosi. Nella fattispecie il detenuto si è lamentato per molti mesi, ha detto spesso di sentirsi male e talvolta di non riuscire a respirare, ma i medici del carcere non gli hanno creduto". Riguardo a questa ultima accusa, come già accennato, la direzione del carcere smentisce decisamente: "non è vero; del resto sarebbe assurdo perché i sanitari sarebbero i primi a lanciare l’allarme di fronte ad un’ipotesi di tubercolosi".

Il timore dei detenuti è di "essere stati infettati", lamentando che i presunti ritardi (smentiti dalla direzione del carcere) hanno aggravato la situazione. "Non vogliamo farci prendere dal panico o dalla psicosi" scrive il gruppo di reclusi "ma quello che ci preoccupa maggiormente è il rischio di coinvolgere i nostri parenti che sono venuti a contatto con noi durante i colloqui. Il carcere non deve diventare un contenitore di malattie e luogo di ulteriore sofferenza per i nostri familiari: non dobbiamo aver paura di abbracciare i nostri familiari, né loro devono avere il timore d’essere infettati da malattie dentro una struttura dello Stato. Chiediamo tramite la "Gazzetta" una commissione di ispettori che venga in carcere a verificare quanto da noi denunciato".

Dal carcere la risposta arriva immediata: un detenuto è stato ricoverato in ospedale per tubercolosi, ma nulla fa pensare che abbia contagiato altri reclusi. "Quotidianamente vengono scortati dal carcere agli ospedali riuniti 6 detenuti, che erano nella stessa sezione del malato, per essere sottoposto ad analisi e raggi: sino ad oggi, a fronte di decine di detenuti controllati, non ci sono altri casi. Come l’ispezione di personale dell’Asl condotta in carcere, nella cella del detenuto malate e in altre celle ha dato esito negativo".

Milano: detenute cuciono le toghe, ordinazioni da tutta l’Italia

di Matteo Speroni

 

Corriere della Sera, 28 luglio 2009

 

Ricucire i rapporti con il mondo esterno e con le istituzioni, lacerati dal reato, dalla colpa e dalla reclusione. Nello spazio di questa metafora si trova il senso, uno dei sensi, del lavoro di alcune detenute del carcere di San Vittore e di Bollate. Confezionare toghe per i magistrati. Proprio così: carcerati che creano le "divise" di coloro che li processano. L’iniziativa è della cooperativa "Alice", che si occupa di sartoria, attiva nelle carceri dal 1992. L’idea è di un magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. "Non è certo un contrappasso dantesco, una pena nella pena - chiarisce subito la dottoressa Di Rosa -, ma una ricostruzione simbolica del patto sociale interrotto dal reato".

Questa speciale manifattura fa parte dei progetti di lavoro nelle case di reclusione, utili al recupero dei detenuti e al reinserimento nella società. La confezione delle toghe ha preso il via la primavera scorsa, in vista del prossimo anno giudiziario, quando una trentina di magistrati di nuova nomina potranno così sfoggiare al giuramento di assunzione della funzione abiti professionali esclusivi. "Sono in particolare giovani neo-magistrati gli acquirenti delle toghe, che vengono confezionate da una dozzina di detenute, all’interno di San Vittore e Bollate, e da altre donne in affidamento ai servizi sociali o in semilibertà, nella sede esterna di Alice, in via Senofonte", spiega Luisa Della Morte, vicepresidente della cooperativa. Soprattutto neo magistrati, con un’eccezione: "Tra gli acquirenti - rivela la vicepresidente - figura anche il giudice Paolo Ielo".

Una toga completa, in fresco lana con rifiniture in raso nero, costa dai 350 ai 400 euro (che pagano i singoli magistrati, non lo Stato) e viene preparata su ordinazione. Come in un atelier, il futuro togato va in laboratorio, lascia le misure, spiega le sue esigenze, e da lì comincia il lavoro. "Dopo un regolare corso di formazione, che può durare anche due anni, le detenute vengono assunte con contratti di cooperativa sociale e guadagnano circa mille euro al mese ", precisa Luisa Della Morte. "L’idea - racconta invece il magistrato Di Rosa - mi è venuta nel corso di una visita a San Vittore e a Bollate di alcuni giovani magistrati in tirocinio. Sono rimasti subito entusiasti, la toga è la divisa di una vita e acquistarne una confezionata dalle detenute è un segnale importante, un profondo e non retorico passo verso il reinserimento".

Uscite dal carcere, le donne che sono state impegnate in un lavoro di sartoria così raffinato hanno acquisito gli strumenti di un mestiere, di fatto sono sarte. "Il lavoro - aggiunge Di Rosa - è una delle modalità primarie del recupero. Ovviamente, è fondamentale anche la ricomposizione della personalità, ma essere in grado di praticare un mestiere crea fiducia in se stessi, aiuta a spegnere la rabbia che può nascere dalla mancanza di prospettive".

Alle toghe di San Vittore e Bollate si stanno interessando anche magistrati di altri Tribunali. "Ci sono già ordinazioni da diverse parti d’Italia, da Napoli, per esempio - prosegue Di Rosa - e l’idea è estendere il progetto anche ad altre professioni, come l’Avvocatura". Al contrario della tela omerica tessuta da Penelope, simbolo epico di un lavoro che non avrà mai termine, la confezione delle toghe in carcere è segno concreto della costruzione di un futuro consapevole.

Immigrazione: sanatoria colf e badanti, corsa contro il tempo

di Antonio Ciccia

 

Italia Oggi, 28 luglio 2009

 

La legge sulla sicurezza (n. 94 del 15 luglio 2009) entrerà in vigore l’8 agosto 2009. Per evitare rischi legati al nuovo reato di clandestinità, entro quella data dovrà essere pubblicata la legge di conversione del di 78/2009, che ha introdotto la sanatoria per colf e badanti.

La conversione del decreto-legge 78/2009 salva badanti e datori di lavoro. Calendario alla mano la legge sulla sicurezza (n. 94 del 15.7.2009) pubblicata in G.U. il 24.7.2009, entrerà in vigore l’8.8.2009. Entro quella data dovrà essere pubblicata la legge di conversione del decreto legge 78/2009, che ha introdotto la sanatoria per colf e badanti clandestini. Con l’entrata in vigore della legge di conversione la posizione di colf e badanti rimane sospesa in attesa del perfezionamento della procedura di regolarizzazione. Un rischio penale ci sarà nel caso di mancata conversione del decreto legge; prevarrà la legge sopravvenuta più favorevole, invece, in caso di entrata in vigore della legge di conversione successiva all’8 agosto 2009.

La legge sulla sicurezza ha modificato il testo unico sulla immigrazione. In particolare è stato aggiunto l’articolo 10 bis al dlgs 286 del 1998. In base a questa disposizione viene punito lo straniero che illegalmente fa ingresso o si trattiene nel territorio dello stato. Come è reso evidente dalla rubrica dell’articolo 10 bis le fattispecie incriminate sono due: l’ingresso e il soggiorno illegale. Mentre l’ingresso è una condotta istantanea, il soggiorno illegale ha un suo sviluppo cronologico nel tempo. Proprio la condotta di soggiorno illegale crea problemi di imputazione a carico di chi, essendo entrate in Italia prima dell’entrata in vigore della legge n. 94/2009, continuerà a soggiornare in Italia anche dopo l’8 agosto 2009. In questo caso non si porrà uh problema di (vietata) applicazione retroattiva della sanzione penale, in quanto la condotta punita è quella attuale tenuta, méntre è vigente la disposizione incriminatrice. Certo possono porsi anche problemi di rango costituzionale, in quanto si punisce uno status e non un fatto. Di conseguenza, comunque, acquisiranno rilevanza penale anche le condotte agevolative, di favoreggiamento e di ausilio al soggiorno illegale.

Questo significa che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 10 bis si applicherà anche a chi soggiorna e continua a soggiornare illegalmente, anche se entrato in Italia precedentemente. Da qui la necessità di correre ai ripari per evitare la criminalizzazione di soggetti che godono di una stima sociale e svolgono un’attività di utilità diffusa.

Entra dunque in campo il decreto legge anti-crisi (n. 78/2009), che ha superato il primo passaggio parlamentare e che dispone di una disposizione ponte per la regolarizzazione di colf e badanti. Sono interessati, infatti, gli stranieri che svolgono attività di assistenza per se stesso o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza e quelli addetti al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

Il decreto 78 prevede che dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto stesso e fino alla conclusione del procedimento di regolarizzazione, sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore. E ci sarà tempo fino a tutto settembre 2009 (una sorta si sospensione feriale per là lotta alla clandestinità).

Sono, quindi, messi tra parentesi le disposizioni relative all’ingresso e al soggiorno e quelle relative all’impiego di lavoratori, anche se rivestano carattere finanziario, fiscale, previdenziale o assistenziale. Nel frattempo lo straniero non potrà essere espulso, tranne che nei casi più gravi. E, inoltre, la sottoscrizione del contratto di soggiorno, congiuntamente alla comunicazione obbligatoria di assunzione all’Inps, e il rilascio del permesso di soggiorno comportano, rispettivamente, per il datore di lavoro e il lavoratore l’estinzione dei reati e degli illeciti amministrativi.

Se, invece, il procedimento non ha esito positivo ritorna l’applicazione del reato di soggiorno illegale. La legge punisce anche le false dichiarazioni finalizzate a ottenere la regolarizzazione. L’entrata in vigore della legge di conversione è necessaria, altrimenti scatta l’applicazione dell’art. 10 bis citato. Se l’entrata in vigore della regolarizzazione sarà successiva, si dovrà fare applicazione retroattiva della norma penale più favorevole. Sempre l’8 agosto 2009 entrerà in vigore il decreto attuativo sulle "ronde" che il Viminale ha già messo a punto.

Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intende presentare prima il provvedimento all’attenzione della Conferenza Stato-Città e dei prefetti che dovranno applicare il regolamento. Il decreto, già pronto, stabilisce i requisiti di chi vuole partecipare alle ronde. Dovranno essere iscritti ad associazioni di volontari e potranno agire al massimo in tre persone, di età pari o superiore ai 25 anni, dovranno essere disarmati e andare in giro con una divisa gialla fluorescente.

Droghe: coca e oppio, cala la produzione e crescono i sequestri

 

Redattore Sociale - Dire, 28 luglio 2009

 

World drug report. Nel 2008 la coltivazione mondiale della foglia di coca si è ridotta del 18% mentre quella dell’oppio, principalmente in Afghanistan, è scesa del 19%. Talebani impegnati direttamente nella coltivazione.

"Circa 5 milioni di persone muoiono ogni anno per cause legate all’uso di tabacco al mondo, 2 milioni a causa dell’alcol e 200 mila a causa della droga, tra cui più di 500 italiani di overdose". È quanto ha affermato stamattina Antonio Maria Costa, direttore dell’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto Wolrd Drug Report 2009 presso la sala stampa di Palazzo Chigi. Secondo Costa, a differenza di alcol e del tabacco, solo il 5% della popolazione mondiale fa uso di droga, contro un terzo della popolazione che invece fuma tabacco e la metà che consuma bevande alcoliche. I dati positivi presenti nell’ultimo rapporto dell’Unodc, riguardano anche la produzione di droghe. Secondo Costa, infatti nel 2008 la coltivazione mondiale della foglia di coca si è ridotta del 18% mentre quella dell’oppio, principalmente in Afghanistan, è scesa del 19%.

Secondo l’Unodc, la situazione mondiale è variegata, ma per il futuro c’è il rischio che i paesi in via di sviluppo possano conoscere una crescita significativa nei consumi. "L’offerta è in forte calo sui due grandi scacchieri delle droghe botaniche - ha affermato Costa - e cioè su foglia di coca, con un forte calo in Colombia, e oppio, con forte calo in Afghanistan. Dal punto di vista della domanda, c’è una forte stabilizzazione di tutte le droghe in Europa e una diminuzione significativa in Usa per quel che riguarda soprattutto la cocaina. A livello di terzo mondo le informazioni non sono ancora complete, in certi casi addirittura mancano, ma temo che stiamo entrando in un periodo di crescita dei consumi per questi paesi".

A colpire il narcotraffico anche i sequestri di cocaina ed eroina, che al contrario della produzione sono in continua crescita. "Circa il 42% della cocaina prodotta viene confiscata dalle forze dell’ordine - ha spiegato Costa -. Il che comporta sul mercato un aumento dei prezzi della coca soprattutto negli Stati uniti. Il mercato è alla ricerca di una nuova dinamica, i prezzi aumentano e il grado di purezza diminuisce". Per quanto riguarda la produzione di oppio, Costa dà qualche anticipazione del prossimo rapporto. "Per quel che riguarda l’oppio nel 2009 ci sarà un nuovo calo - ha detto Costa -, riportato nelle statistiche che verranno presentate il 2 settembre". Sul fronte dell’oppio, però, come ammette lo stesso direttore dell’Unodc, le confische ad oggi sono deboli e si limitano ad un 20%, meno della metà di quelle di foglie di coca. Secondo Costa, oggi a gestire il traffico sarebbero gli insorti, quando si pensava che fossero coinvolti in modo indiretto. "Noi ritenevamo esercitassero un controllo indiretto sulle coltivazioni - ha affermato Costa -, negli ultimi mesi abbiamo invece riscontrato che i talebani sono impegnati in maniera diretta nella coltivazione, nella raffinazione e commercializzazione del prodotto. Sono state confiscate, infatti, enormi quantità di droga e semi agli insorti insieme a armi e altro".

Droghe: Costa (Unodc); uso della cannabis cresce solo in Italia

 

Redattore Sociale - Dire, 28 luglio 2009

 

World drug report. Costa: "L’Italia è l’unico Stato europeo che mostra dati in crescita". Giovanardi: "C’è qualche segnale positivo che riguarda i giovani e il calo della cocaina e dell’eroina, preoccupazione per la cannabis".

"L’Italia è un paese con chiaro scuri. C’è qualche segnale positivo che riguarda i giovani e il calo della cocaina e dell’eroina, ma allo stesso tempo c’è preoccupazione per quanto riguarda la cannabis". È quanto ha affermato questa mattina Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle tossicodipendenze durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto annuale sul traffico di droga mondiale dell’Unodc. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite, infatti, la situazione italiana ha buone notizie, ma la situazione resta preoccupante. "Non è simpatica la posizione italiana rispetto agli altri paesi europei per quanto riguarda l’uso di cannabis - ha affermato Antonio Costa, direttore dell’Unodc -. L’Italia è l’unico Stato che mostra dati in crescita".

La percentuale di italiani che fanno uso di cannabis è raddoppiata tra il 2002 ed il 2007 e la prevalenza annuale è la più alta in Europa ed una delle più elevate al mondo. Secondo gli studi dell’Unodc, in Italia ci sono 326 mila persone affette da problemi di droga , il secondo numero più alto in Europa dopo il Regno Unito. L’Italia, inoltre, conta circa 300 mila consumatori di eroina, di gran lunga il secondo totale più alto di Europa, ancora una volta dopo il Regno Unito, e gli italiani sono tra i principali consumatori anche di cocaina in Europa: il 2,2% della popolazione fa uso di cocaina almeno una volta l’anno, il terzo tasso più elevato del continente dopo Regno Unito e Spagna.

Dall’altra parte, però, come spiega lo stesso Giovanardi, le iniziative per contrastare il consumo di sostanze stupefacenti non mancano. "Da quasi un anno - ha affermato il sottosegretario -, il dipartimento ha messo in moto una serie di iniziative sul territorio perché il vero problema è far calare la domanda interna, e per farlo ci vuole una grande azione di informazione, educazione e prevenzione". Per Giovanardi, oggi in Italia c’è la consapevolezza del pericolo dell’uso delle droghe, anche per quel che riguarda gli incidenti stradali, ma ci sono altri fronti da tenere sottocchio, come quello del policonsumo che per il sottosegretario è particolarmente critico e da monitorare. Infine, un altro dato a favore della lotta al traffico di droga riguarda i sequestri, come spiega Costa, soprattutto di cocaina che nell’ultimo anno sono stati di 4 tonnellate.

Droghe: Libera; dall'Unodc una ridicola costruzione di numeri

 

Redattore Sociale - Dire, 28 luglio 2009

 

"È una ridicola costruzione di numeri che si è spinta molto al di là del grottesco: non mette più tanto in luce la non credibilità dei dati Unodc, che è scontata, quanto l’autocensura e la capacità della collettività internazionale di credere a queste baggianate". A più di due anni dalla prima denuncia, Sandro Donati, ricercatore per l’associazione Libera, non usa mezzi termini nei confronti del Rapporto mondiale sulle droghe dell’Ufficio delle Nazioni unite contro il traffico di droga. La situazione non è cambiata, però, nonostante le denunce. L’ultima lo scorso gennaio, quando in una conferenza stampa presso la Federazione nazionale stampa italiana presentò un ‘contro-rapporto’ dettagliato con una minuziosa critica degli errori di rilevazione presenti nei rapporti stilati dall’agenzia delle Nazioni unite. Ad oggi, alla presentazione del World Drug Report 2009 a Palazzo Chigi, la situazione non è cambiata. Per dimostrarlo, spiega Donati, è sufficiente fare delle osservazioni sui dati relativi al 2008. "Nel nuovo rapporto - spiega -, l’Unodc ha abbassato la stima della produzione mondiale di molto, arrivando addirittura ad abbattere quella della produzione colombiana. A fronte delle 600 tonnellate stimate nel 2007 per quanto riguarda la Colombia, l’Unodc ha portato la stima a 430 tonnellate. Già 265 tonnellate vengono sequestrate dai colombiani sottoforma di cloridrato di cocaina e di coca base - spiega Donati - e poi circa altre 15-20 tonnellate i colombiani le sequestrano sottoforma di prodotti intermedi. Così circa 285 tonnellate scomparirebbero già nel territorio colombiano. Rimarrebbero soltanto 150 tonnellate, ma se consideriamo che nei pesi confinanti si sequestrano quantità di cocaina nell’ordine delle 30 tonnellate all’anno e in alcuni paesi anche 40 (ed è quasi esclusivamente colombiana) ecco che la cocaina è già finita o nella stessa Colombia o qualche chilometro più lontano".

Il rapporto delle Nazioni unite, secondo Donati, non riesce a far chiarezza neanche sul traffico di eroina. Nonostante l’allarme lanciato dalla stessa Unodc riguardo al ruolo predominante dell’Afghanistan nella produzione mondiale di oppio, sui dati ci sarebbero ancora delle vaste zone d’ombra. "La produzione dell’oppio dall’arrivo delle truppe americane con i loro alleati ad oggi - spiega - ha avuto un’impennata al punto che se prima si produceva circa il 40% della produzione mondiale, oggi produce praticamente tutto. Sono diventati monopolisti di una produzione che si è triplicata, quasi quadruplicata nel frattempo. Anche in questo caso i dati dell’Unodc non gettano luce. Per i paesi sudamericani e per quel che riguarda la cocaina falsano l’idea della situazione, in questo caso la lasciano oscura". Nonostante le varie occasioni in cui lo stesso Donati, insieme a Libera, hanno portato le loro critiche ai dati dell’Unodc, queste sono rimaste inascoltate. "Trovo sconcertante che il nostro studio non abbia ricevuto nessuna obiezione nella sostanza. Qualcuno dell’Unodc, cominciando dal direttore, è intervenuto ma lo ha fatto solo in termini generali, mai entrando nella sostanza dei dati". La ricerca di Libera e di Sandro Donati, però, non si ferma. Insieme ad uno staff di economisti delle Università di Bologna e Trento, infatti, le critiche ai rapporti Onu stanno assumendo sempre più autorevolezza in ambito scientifico. L’analisi dei dati raccolti da Donati, oltre che a far emergere una situazione più drammatica di quanto lo stesso ricercatore abbia fino ad oggi denunciato, verrà pubblicato su riviste scientifiche internazionali.

 

Indifferenza verso gli errori

 

Rilevazioni fotografiche non accurate e dati in contraddizione per le diverse rilevazioni: il rapporto dell’Unodc si basa su metodi viziati da errori grossolani, e nonostante diversi studiosi lo facciano presente, sia le Nazioni unite che il mondo del giornalismo restano indifferenti. Ad affermarlo è Sandro Donati, ricercatore che per l’associazione Libera ha condotto diversi studi sulla produzione mondiale e il traffico di stupefacenti. Secondo Donati, le deficienze ‘estreme’ del metodo adottato nel World Drug Report 2009 sono state da tempo denunciate, ma il metodo di ricerca continua ad essere lo stesso.

La prima ‘disattenzione’ riguarda l’uso di fotografie satellitari. "Il metodo dell’Unodc si basa sulle osservazioni satellitari - spiega Donati - . Nei pochi giorni in cui l’Unodc affitta i satelliti potrebbero esserci nuvole su una percentuale anche elevata del territorio e sotto le nuvole le piantagioni non sono rilevabili". Ad alterare le rilevazioni anche l’impossibilità di riconoscere le piantagioni dopo l’avvenuta raccolta del fogliame dagli arbusti di coca, così come dopo una fumigazione aerea con prodotti chimici distruttivi o se si tratta di arbusti piantati tra la vegetazione. "Le possibilità di errore sono enormi - spiega Donati - ma probabilmente sta bene così".

Se il metodo di rilevazione delle Nazioni unite non convince, non è da meno quello adottato dai media che prendono per oro colato quello che l’Unodc propone nel proprio rapporto. Basterebbe, spiega Donati, soltanto confrontare i dati degli stessi rapporti dell’Onu. "Quello che mi sconcerta - afferma Donati - è la passività e l’autocensura con la quale i media accolgono questi dati. Pochi giorni fa il ministro della Giustizia colombiano ha fatto una conferenza stampa che nessuno ha notato: ha detto che nel giro di 9 anni la produzione è stata abbattuta in Colombia, e che mentre nel 2008, l’Unodc ha stimato solo 430 tonnellate nove anni prima erano oltre mille. Che fossero più di mille le tonnellate, però, lo scopriamo solo ora. Nei dati del 2000 c’era, dunque, una clamorosa menzogna: la produzione era molto superiore. Il ministro, poi, ha detto che la produzione corrispondeva a circa 400 mila ettari, mentre i dati Unodc che interessava circa 163 mila ettari. Nessuno confronta i dati. Tre anni fa, confrontando i report dell’Unodc tra di loro, mi accorsi che le modifiche dei dati attuate nei report del 2000 e del 2001 erano servite per rivalutare la produzione colombiana e così giustificare il varo del Plan Colombia (piano statunitense di contrasto al narcotraffico, ndr), e le modifiche degli anni successivi erano servite per far vedere che il piano funzionava. Per arrivare poi, con il report del 2005, al punto ridicolo nel quale i sequestri avevano quasi raggiunto i livelli della produzione stimata. Nessuno si è mai accorto di nulla: che altro dire?" Per Donati, il vero problema oggi è la mancanza di osservatori indipendenti alternativi, poiché le critiche al metodo e ai dati proposti dall’Unodc ad oggi restano del tutto inascoltate.

 

L’Unodc: le nostre statistiche sono valide

 

"Non critico dati di altri. Quel che posso fare è confermare la totale validità delle nostre statistiche". Risponde così Antonio Maria Costa, direttore dell’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine, alle critiche mosse dal ricercatore Sandro Donati ai dati e al metodo di rivelazione adottato nell'ultimo rapporto sulla produzione e il commercio di droghe mondiale (vedi lanci precedenti). "Quello che noi facciamo - ha spiegato Costa - è misurare le coltivazioni di foglie di coca e di oppio attraverso una ripresa satellitare con satelliti che riescono ad individuare oggetti in uno spazio di 4 per 4 metri e la solidità di queste rilevazioni è certa". Per quanto riguarda le rilevazioni relative al traffico di cocaina, però, Costa ammette che ci sono delle difficoltà nei calcoli, ma non riguardano le osservazioni satellitari, quanto invece il calcolo della cocaina prodotta dalle foglie di coca. "La parte difficile, e lo riconosco - ha affermato Costa - è passare dagli ettari e perciò dalle tonnellate di foglie alla droga, alla cocaina". A questo problema, però, spiega il direttore dell’Unodc, l’Ufficio delle Nazioni unite ha già da tempo trovato una soluzione.

"Nel 2004 abbiamo rivisto i nostri parametri alla luce di alcune questioni che sono emerse - ha spiegato Costa. Per prima cosa abbiamo valutato coltivazioni non più con alberi distanti l’uno dall’altro 8 metri, ma 2 metri. Poi la raccolta non più due volte all’anno, ma fino a 6-8 volte all’anno ed infine abbiamo valutato la possibilità dell’ingegneria biologica per trasformare le foglie di coca e renderle più ricche di alcaloidi e più performante". Per l’Unodc, però, aver rivisto i parametri non ha stravolto i dati iniziali. "Tutto questo ha cambiato le stime - ha spiegato Costa -, ma del 10-15%, non oltre, e abbiamo rivisto le statistiche che hanno preceduto quella rivalutazione di tipo tecnico per essere sicuri che non apparisse nell’ultimo anno un forte aumento di produzione rispetto alle statistiche precedenti. Se qualcuno ha dei dati migliori noi siamo assolutamente disponibili a discutere".

Giappone: eseguite oggi le condanne a morte di tre pluri-omicidi

 

Asca, 28 luglio 2009

 

I tre condannati sono Hiroshi Maeue di 40 anni, colpevole di aver ucciso tre persone nel 2005; il cinese Chen Detong di 41, che ha ucciso tre connazionali ferendo altre tre persone a Kawasaki nel 1999 e Yukio Yamaji di 25 anni che aveva ucciso due sorelle a Osaka nel 2005. Tutti e tre hanno commesso "gravi e crudeli" crimini "strappando delle vite preziose, con lo scopo di farsi giustizia da se"‘, lo ha dichiarato il ministro della Giustizia, Eisuke Mori dopo la pronuncia delle sentenze a Tokyo e nella cittadina di Osaka. Makoto Teranaka, responsabile di Amnesty International in Giappone, ha protestato contro "questo grave atto che non può essere permesso mentre nel mondo si moltiplicano gli appelli per abolire la pena di morte". Le ultime esecuzioni capitali in Giappone risalgono al mese di gennaio, quando furono impiccati 4 condannati.

Il Giappone resta con gli Stati Uniti l’unico dei grandi paesi industrializzati in cui vige ancora la pena di morte. La pena capitale è sostenuta dalla stragrande maggioranza del popolazione giapponese, che ha uno dei più bassi tassi di criminalità del mondo. Gli esponenti del Partito Democratico giapponese, principale forza dell’opposizione, qualora vincessero le prossime elezioni, si sono impegnati ad aprire un dibattito sulla pena di morte.

Stati Uniti: truffatore chiede una cella con l’aria condizionata

 

Ansa, 28 luglio 2009

 

Le temperature estive si fanno sentire anche nel carcere di Houston. Ne sa qualcosa il finanziere Allen Stanford, accusato di una truffa del valore di 7 miliardi di dollari (per questo soprannominato il nuovo Madoff), che adesso ha chiesto di essere trasferito in un altro carcere. Magari con aria condizionata.

La notizia arriva dal suo avvocato, Dick DeGuerrin, che chiede "di provvedere a trovare un’altra prigione per il mio cliente almeno nei giorni più caldi, quando le temperature a Houston raggiungono i 38 gradi e anche di più". Stanford è stato soprannominato il "nuovo Madoff", per aver utilizzato uno schema Ponzi molto simile a quello di Bernie Madoff per mettere in atto la sua truffa attraverso la Stanford International Bank di Antigua. Dal giorno del suo arresto, il 18 giugno scorso, l’uomo condivide la cella con altri 8 detenuti.

Un rappresentante del centro di detenzione federale, situato a circa 20 km a nord dal carcere texano, ha spiegato che la struttura è dotata di aria condizionata, senza però commentare le parole di DeGuerrin. La richiesta di Stanford suona bizzarra, soprattutto dopo la proposta nelle scorse settimane delle autorità di New York, di far pagare ai detenuti ricchi vitto e alloggio durante la permanenza in carcere, per non pesare sulle casse dello Stato. La cosiddetta tassa Madoff, qualora fosse accettata sarebbe applicabile ai detenuti nelle carceri di New York che hanno un reddito superiore a 200mila dollari. Secondo il mensile Forbes, nel 2008 il patrimonio di Stanford ammontava a 2,2 miliardi di dollari.

Stati Uniti: le immagini dei maniaci sessuali vanno sull’iPhone

di Bruno Ruffilli

 

La Stampa, 28 luglio 2009

 

Quanto costa la tranquillità? Per alcuni è impossibile da raggiungere, non importa quanto siano disposti a spendere, per altri bastano 99 centesimi di dollaro. Gli altri sono quelli che hanno un iPhone e Offender Locator. Qualche tocco e il software si installa sul telefonino Apple, trasformandolo in uno zelante ufficiale di polizia che risponde ad una precisa domanda: il mio vicino (o il coinquilino del mio amico, o la zia dell’amichetto di mio figlio) sono mai stati condannati per aver commesso crimini sessuali?

Offender Locator è una delle oltre 50 mila applicazioni disponibili per il supertelefonino Apple, che di volta in volta lo trasformano in tanti gadget diversi. I suoi ideatori, gli ingegneri della 2020 Vision, hanno saputo sfruttare talmente bene le risorse dell’iPhone e le paure della gente, che il prodotto è al sesto posto tra i più acquistati sull’App Store, rendendo migliaia di dollari al giorno. Per una legge del governo americano, da anni i nomi di chi si è macchiato di reati a sfondo sessuale sono pubblici e costantemente aggiornati, ma oggi Offender Locator ricerca negli elenchi e organizza i dati in maniera semplice da comprendere. Ad esempio, usando il Gps integrato nell’iPhone, determina la posizione da cui proviene la richiesta e segnala pedofili, stupratori, molestatori presenti nelle vicinanze. Oppure quelli che vivono nei pressi di un amico o conoscente il cui indirizzo sia registrato nella rubrica del telefonino. O ancora, inserendo il nome della strada o il codice di avviamento postale, compaiono tutti i "sex offenders" della zona. L’effetto è inquietante: innanzitutto la lista è lunga (spesso anche in centri molto piccoli), poi con un tocco sul nome compare la scheda col volto del colpevole, i reati che ha commesso, il domicilio, la data di nascita e le caratteristiche fisiche. La terza modalità è pura nevrosi: una mappa con tanti segnaposto, rossi o verdi a seconda della pericolosità dei vicini (o di quelli della fidanzata, o dei residenti in un certo condominio, o di chi vive vicino a una certa scuola).

Impossibile da realizzare in Italia per questioni di privacy, un’applicazione come questa desta però anche negli Usa perplessità. È infatti vietato il commercio di informazioni di provenienza governativa, e tra gli acquirenti c’è già chi ha scritto a Cupertino chiedendo di rimuovere Offender Locator dall’App Store.

 

Pro e contro

 

Tra gli oltre cento pareri che il software ha finora raccolto sul negozio virtuale non c’è unanimità: "Le mappe non sono aggiornate", dice uno; "a volte si blocca", commenta un altro; "ogni americano dovrebbe avere quest’applicazione", consiglia un terzo. Le sorprese che il programma riserva sono parecchie: "C’è mio zio - spiega uno - solo perché una ragazzina lo ha visto mentre faceva sesso con la fidanzata in casa sua". C’è anche uno che ha trovato il suo nome e se ne vanta, ma in generale il tono è preoccupato: il registro federale degli autori di reati a sfondo sessuale comprende oltre 500 mila persone, e non tutti hanno la faccia del mostro. Così, ad esempio, il governo si preoccupa di fare in modo che la notte di Halloween i "sex offenders" non siano avvicinati dai bambini e non vadano in giro mascherati: alle case devono appendere dei cartelli dove spiegano che non accettano scherzi e non danno dolcetti; in certi Stati addirittura sono obbligati a festeggiare tra loro, sotto l’occhio vigile dei poliziotti.

Tra quelli pubblicati sull’App Store, il commento più sensato è comunque quello del sergente J. B Lawis: "Cercare chi si è macchiato di crimini sessuali è il mio mestiere - spiega - e posso dire che quest’applicazione ne riporta solo il 23 per cento, ma se davvero volete proteggere i vostri figli cominciate a interessarvi della loro vita e non lasciate che siano gli altri a educarli al vostro posto".

India: caso Angelo Falcone; ministro Frattini apre uno spiraglio

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2009

 

Dopo il loro incontro alla Farnesina del 22 giugno scorso, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha scritto a Giovanni Falcone, padre di Angelo, il giovane detenuto in India con l’accusa, sempre contestata, di traffico di stupefacenti. "Le confermo che per quanto attiene alla possibilità di contatti telefonici con suo figlio - informa il ministro - ho compiuto un passo nei confronti delle autorità indiane a margine della riunione dei ministri degli Esteri del G8 svoltasi a Trieste dal 25 al 27 giugno. Un ulteriore intervento di uguale tenore è stato svolto dalla nostra ambasciata a New Delhi il 3 luglio. A proposito non posso che auspicare che questi interventi consentano a suo figlio quanto prima di poter comunicare telefonicamente con i familiari in Italia".

Il responsabile della nostra diplomazia, poi, ha aperto uno spiraglio anche sulla richiesta inoltratagli dall’on. Elisabetta Zamparutti sulla possibilità di un trasferimento nei rispettivi Paesi delle persone condannate: "Questo ministero non ha mancato di rappresentare al ministero della Giustizia l’opportunità di giungere ad una simile intesa sollecitando le determinazioni del medesimo dicastero alla ripresa dei negoziati - già a suo tempo avviati - con la controparte indiana. Si è in attesa di riscontro al riguardo".

Per la nota Giovanni Falcone ha espresso il suo grazie all’on. Frattini. Così, questo padre angosciato ha ringraziato anche il Consiglio regionale che nella sua ultima seduta ha approvato all’unanimità una iniziativa legislativa, primo firmatario Antonio Di Sanza, per estendere il gratuito patrocinio legale agli italiani che hanno problemi con la giustizia all’estero. Progetto di legge inviato al Parlamento perché lo recepisca a modifica della norma nazionale in vigore.

 

 

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