Rassegna stampa 27 luglio

 

Giustizia: appello per legalità in carceri e dignità dei detenuti

 

Adnkronos, 27 luglio 2009

 

"Educhereste i vostri figli al rispetto della legalità facendoli crescere in un ambiente dove è impossibile rispettare la legge?". L’ambiente in questione è quello delle carceri, ormai invivibili e super affollate, le parole, quelle con cui inizia l’appello in difesa dell’articolo 27 della Costituzione, lanciato al mondo politico e istituzionale e ai cittadini, dall’associazione Ristretti Orizzonti, che vanta anche la redazione di un giornale on-line dalla Casa di reclusione di Padova, e dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg).

Una sorta di campagna di sensibilizzazione nei confronti di una norma spesso bistrattata e violentata che, premettendo come "la responsabilità penale è personale" e l’imputato "non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", trova il suo fulcro nella parte in cui recita che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" e "non è ammessa la pena di morte".

L’appello ha già raccolto centinaia e centinaia di adesioni tra associazioni, operatori penitenziari e privati, attraverso il tam tam di internet partito dal sito di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it). L’articolo 27, è scritto nel sito, "ci fornisce la più moderna soluzione ai problemi della sicurezza: una pena che abbia un senso e che dia speranza. Teniamocelo stretto!".

Nelle carceri italiane, si legge, ci sono 43.117 posti regolamentari e oltre 64mila detenuti, stipati uno sull’altro. Il personale sotto organico è costretto a lavorare in condizioni di pesante disagio e tensione. "In questa situazione - si rileva - viene meno anche la dignità e l’umanità delle persone detenute. Le persone che dovrebbero iniziare un percorso graduale di reinserimento nella società, sono invece sempre più spesso rinchiuse nelle celle a non far niente".

 

In cella solo se necessario, fare ricorso a misure alternative

 

I cittadini italiani chiedono sicurezza, prosegue l’appello, e "hanno diritto alla sicurezza. Ma in che modo parcheggiare in celle invivibili i detenuti in attesa di nulla contribuisce alla sicurezza? Non conviene a nessuno - si legge ancora - che una persona che ha commesso un reato esca di galera forse peggiore di come ci è entrata. Se i cittadini liberi ci riflettessero più spesso, forse smetterebbero di pensare che la soluzione a ogni problema sia prevedere sempre più galera per chi viola la legge".

Oggi, si è superata non solo la capienza regolamentare delle carceri, ma anche quella ritenuta dal Ministero della Giustizia "tollerabile". E le previsioni, si fa notare, "parlano di aumento esponenziale di tempo inutile", perché manca il personale, mancano attività lavorative, mancano spazi. Ci serve davvero più carcere, o ci serve un carcere diverso?".

Il carcere ci serve e ci rassicura - rilevano Ristretti Orizzonti e Cnvg - quando è previsto per chi costituisce realmente un pericolo per la società. Ma "non ci serve e non ci rassicura quando è previsto per chi sta male e avrebbe bisogno di essere curato, per chi ha problemi con la droga, per chi è giovane e potrebbe essere aiutato con pene diverse dalla detenzione, piuttosto che parcheggiato in un luogo intollerabile come le attuali galere; forse non serve più neppure per parecchi di quei 20mila detenuti che stanno dentro con meno di tre anni di pena ancora da scontare (di cui quasi 9mila ne hanno meno di uno) e ci farebbero sentire tutti più sicuri se invece potessero scontare l’ultima parte della loro pena in misura alternativa, lavorando per costruirsi un futuro decente".

 

Messina (Cnvg), inutili travagli delle riforme susseguitesi nel tempo

 

Tra le innumerevoli adesioni all’appello, anche quella di Claudio Messina, assistente volontario penitenziario che è stato alla guida del Cnvg e che evidenzia come se il valore intrinseco dell’art. 27 "fosse stato realmente compreso e l’impegno a difenderlo fosse stato generalmente condiviso sin dal suo nascere, avrebbe potuto ispirare un Ordinamento penitenziario ben diverso, senza gli inutili travagli delle varie riforme susseguitesi, ma arricchito dalle diverse leggi ad esso ispirate, come la Gozzini e la Simeone-Saraceni".

Messina invita a difendere la norma, perché "nella sua lapidaria formulazione è l’espressione di un alto grado di civiltà, rivendicato già nel 1947 dai nostri Costituenti. Non pesano per nulla i suoi sessantadue anni, pesano casomai le omissioni più o meno colpevoli, i disconoscimenti palesi, le infinite variazioni sul tema della pena inflitta, sulla sua umanità e sui contenuti rieducativi".

E invece, prosegue, "si è preferito sia da parte della politica che del comune sentire, insistere su un cieco giustizialismo, poco o nulla rispondente al pur reale bisogno di sicurezza, barattandolo per giustizia, usando una bilancia quanto mai starata per pesare reati e diritti. In tempi recenti, si è addirittura cercato di eliminare dall’Ordinamento penitenziario tutte le norme più qualificanti, quelle relative alle modalità di accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione, cioè il vero punto di forza della rieducazione e del reinserimento sociale, dimostrato nei fatti dai successi ottenutì. È proprio ora, spiega Messina, che quell’articolo ha "più che mai senso".

 

Sappe: 11 le regioni fuori legge, a Caltagirone 345% oltre la capienza

 

Del resto la questione sovraffollamento è ormai antica, ma il livello d’allarme si è alzato nell’ultimo periodo. Le ultime rilevazioni statistiche aggiornate agli ultimi giorni e rese note dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, fanno emergere "una situazione italiana da terzo Mondo". Il leader del sindacato Donato Capece ha evidenziato come "sono 11 le regioni fuori legge che ospitano un numero di persone superiore al limite tollerabile: Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Veneto".

A queste si aggiungono tutte le altre che superano comunque il limite regolamentare. In Emilia Romagna si è raggiunto il 202% della capienza regolamentare, in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta siamo intorno al 130% della capienza tollerabile. Il record del superamento della capienza regolamentare spetta alla Casa Circondariale di Caltagirone: su 75 presenze previste e 150 tollerabile, il 20 luglio erano presenti 259 persone (345% rispetto alla capienza prevista); quello della situazione intollerabile è della Casa Circondariale di San Severo, in Puglia, con il 213% della capienza tollerabile. Proprio per denunciare queste gravissime criticità, che rischiano di far implodere da un giorno all’altro il sistema penitenziario e che ricadono principalmente sugli agenti di Polizia penitenziaria, il Sappe ha manifestato lo scorso 22 luglio a Napoli, davanti al carcere di Poggioreale, insieme alle altre Sigle sindacali Osapp, Sinappe, Cisl Fns, Cgil FP ed Uspp per l’Ugl.

Giustizia: Prap Piemonte; stop a detenuti arrestati in flagranza

di Lorenza Pleuteri

 

La Repubblica, 27 luglio 2009

 

Fabozzi: dopo le ferie il carcere rifiuterà di accoglierli in attesa del processo. "Non è una prova di forza: applichiamo il Codice penale". Il nodo delle celle di sicurezza abolite.

Sold out. Cancelli sbarrati. Nessuna deroga. Ultimatum è parola che non piace al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi, il responsabile delle carceri piemontesi. "Non è una prova di forza, non è un ordine. È semplicemente il volere e il dovere applicare il codice di procedura penale".

Se entro settembre non si sbloccherà la questione degli arresti che gravano sulle Vallette - migliaia di persone ogni anno portate in via Pianezza anziché alle direttissime, oltre metà delle quali rimesse in libertà dopo due o tre giorni di detenzione cuscinetto - la Casa Circondariale rifiuterà di ricevere gran parte dei detenuti accompagnati da polizia e carabinieri, quelli ammanettati in flagranza di reato.

"Dopo le ferie - va giù duro e chiaro il provveditore - non verranno più accettati gli arrestati in flagranza di reato destinati alle direttissime, i soggetti che carabinieri, poliziotti, finanzieri e vigili urbani accompagnano in carcere e non a Palazzo di giustizia". Una provocazione? Un bluff? "Mai stato più serio e sereno", ripete Fabozzi. Perché sa e dice di avere dalla sua il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, il direttore Pietro Buffa, il personale, i collaboratori. "E, soprattutto, la legge".

Il prefetto Paolo Padoin, raccogliendo la proposta suggerita dagli stessi responsabili del sistema carcere, per settimane ha cercato di trovare una via d’uscita condivisa, concordata. Ha riunito più volte attorno ad un tavolo i vertici cittadini delle forze dell’ordine, i referenti degli uffici giudiziari, amministratori pubblici. Li ha chiamati a confrontarsi sul progetto ad hoc fatto proprio e rilanciato: trasformare una ex aula bunker alle spalle delle Vallette in un polo di celle di sicurezza, quaranta stanze in cui alloggiare gli ospiti da avviare a Palagiustizia in tempo quasi reale, 150 mila euro di investimenti, poche settimane di lavori per adeguare la struttura.

"Inizialmente c’è stata disponibilità, un buon livello di dialogo", racconta sempre il provveditore Fabozzi. Poi sono arrivati i distinguo, i nodi che ogni pezzo dell’apparato esterno dovrebbe sciogliere per garantire la propria parte, i limiti strutturali e di organici che pesano su questura e arma. L’argomento dello smantellamento delle camere di sicurezza, anni fa, in caserme e commissariati. "Noi ci siamo spinti oltre, con un passo in più, con ipotesi di soluzione costruttive. Non spetta alla amministrazione penitenziaria supplire alle carenze altrui, sopportarne il peso.

Il carcere in passato ha tamponato queste situazioni. Adesso, con i livelli di sovraffollamento che si registrano, non è più possibile. Ciascuno ha i propri problemi da affrontare e pensi a risolverli. Il faro - sottolinea di nuovo Fabozzi - è la legge. Prenderemo gli arrestati su ordinanza, le persone per cui dopo le convalide sono state disposte misure cautelari, i fermati, i condannati, i soggetti che rientrano nelle eccezioni previste.... Non chi deve andare alle direttissime davanti ai giudici monocratici, per i reati contemplati dalle norme. Non più, non da settembre in avanti. Come si regoleranno polizia e carabinieri? Non è un problema nostro".

Giustizia: Ucpi; con legge-sicurezza, la difesa legale è a rischio

di Oreste Dominioni (Presidente Unione Camere Penali Italiane)

 

Italia Oggi, 27 luglio 2009

 

Le nuove disposizioni in tema di sicurezza contengono norme che limitano o rendono difficile se non impossibile l’esercizio del diritto di difesa, come se, secondo una vecchia concezione illiberale, la riduzione delle garanzie e il degrado oggettivo dell’accertamento giurisdizionale fossero fattori capaci di produrre una reale maggiore sicurezza della collettività.

Nel dl n. 11/2009, convertito con legge n. 38/2009, hanno una simile ispirazione l’estensione del novero delle figure di reato per le quali la custodia cautelare è "obbligatoria" (si presume la ricorrenza delle esigenze cautelari e la difesa è caricata dell’onere di provarne l’insussistenza, prova pressoché impossibile da dare). Si inasprisce l’articolo 41-bis ("carcere duro") prevedendo che con i difensori potranno effettuarsi colloqui o telefonate fino a un massimo di tre volte alla settimana.

La norma è di estrema gravità: presuppone che l’attività difensiva rappresenti un pericolo per l’integrità degli accertamenti processuali, un fattore rischioso di inquinamenti probatori. Sarà necessaria, contro questa norma, una forte iniziativa a tutela della dignità dell’avvocatura. Non meno grave è la previsione di un nuovo reato: "Chiunque consente a un detenuto, sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41-bis, di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte è punito da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense si applica la pena della reclusione da due a cinque anni". Il riferimento all’avvocato ne paralizza le attività di indagini difensive.

Giustizia: Cassazione; valutare "attuale" pericolosità detenuto

 

Ansa, 27 luglio 2009

 

Il Tribunale di Sorveglianza di Palermo avrebbe dovuto valutare nuovamente, anche d’ufficio, la pericolosità sociale del condannato, che deve essere attuale: lo scrive la prima sezione penale della Cassazione, presidente Severo Chieffi, nelle motivazioni con cui, il 4 giugno scorso, ha annullato con rinvio la decisione dei giudici siciliani di rigettare la richiesta di scarcerazione di Bruno Contrada. Nelle motivazioni, depositate ieri, la Cassazione, accogliendo la richiesta dell’avvocato Giuseppe Lipera, spiega che "il provvedimento impugnato va pertanto annullato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Palermo, che valuterà, sulla base di elementi di fatto specifici, concreti e significativi, l’attualità della pericolosità sociale del condannato".

Secondo la Suprema Corte la decisione deve "ispirarsi, pur in assenza di parametri normativi, a specifiche ragioni fattuali, concrete e significative, da porre a fondamento del prudente bilanciamento fra le esigenze di salute del condannato e quelle di difesa sociale".

Bruno Contrada sta scontando una condanna a 10 anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa agli arresti domiciliari nella sua casa di Palermo. I suoi legali hanno più volte chiesto il differimento della pena per gravi motivi di salute e per la sua età: l’ex 007 ha 78 anni.

Rovereto (Tn): 50enne, arrestato per hascisc, s’impicca in cella

 

Il Trentino, 27 luglio 2009

 

Aveva 50 anni e faceva l’artigiano. Stefano Frapporti era un muratore provetto e stimato, malgrado la sorte disgraziata gli avesse riservato una menomazione ad una mano, massacrata anni fa da un terribile incidente sul lavoro. Con la legge non aveva mai avuto particolari problemi, fino a martedì scorso, quando una pattuglia di Carabinieri lo ha fermato mentre percorreva in bici viale Vittoria contestandogli una manovra errata.

Perquisito, i militari gli avevano trovato dell’hashish e per andare a fondo della questione lo avevano sottoposto a perquisizione domiciliare. Dai verbali dei carabinieri emerge che a Frapporti sarebbe stato sequestrato oltre un etto di stupefacente. Da qua, l’arresto. Ineccepibile, sotto il profilo del codice di procedura penale: la soglia per sostenere l’uso personale è superata di gran lunga, per la legge. L’artigiano viene dunque accompagnato in carcere.

Al mattino viene ritrovato morto dalle guardie, impiccato con le lenzuola in una delle tre celle del reparto Osservazione, dove vengono alloggiati i detenuti in arrivo per dare loro un impatto meno duro con la realtà del carcere. "Sono cose che non dovrebbero mai succedere - commenta Giampaolo Mastrogiuseppe, delegato della Cgil funzione pubblica -.

La sera in cui è arrivato in via Prati, il detenuto pareva tranquillo, ha anche scherzato con le guardie. Nulla lasciava presagire ciò che avrebbe fatto. È una storia molto triste, ma era difficile da evitare". È sempre complicato, per non dire impossibile, capire quali pensieri si agitano nella testa di un’altra persona, anche conoscendola bene. Richiede conoscenza profonda, e anche una dote naturale di empatia. Figurarsi quando si tratta di estranei.

Ma non è questo il compito della polizia penitenziaria. "Purtroppo, anche per le note carenze di personale, la vigilanza di notte è affidata a pochissime persone, e fare il giro delle celle significa controllarle ogni ora e mezza, facendo in fretta. Poi, per chi non ha mai vissuto l’esperienza del carcere, l’impatto è duro. La prima notte è molto triste, può essere terribile.

E la guardia carceraria non è uno psicologo, non le si può nemmeno chiedere una professionalità di questo genere. Per questo, prima di entrare in cella, ogni detenuto dovrebbe avere un incontro con lo psicologo. È previsto dalla legge, ma nell’arco delle 24-48 ore. Troppo tardi, perché lo choc è immediato per chi è stato appena arrestato. Chi soffre in modo intollerabile deve almeno poterlo dire a qualcuno che possa valutarne la capacità di sostenere questo momento difficile". I suicidi in carcere, purtroppo, fanno parte di una triste consuetudine per chi vive "dentro".

"Sono decine all’anno, per la realtà trentina, e centinaia i casi in Italia - spiega Massimiliano Rosa, segretario provinciale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria -. Ma sono molti anche i casi in cui i nostri colleghi salvano il detenuto da morte certa, strappandolo in extremis al tentativo di togliersi la vita in cella. Di questo non si dice mai nulla, forse fa poco notizia, ma le cose stanno così". Chi ha seri propositi suicidi si guarda bene dal manifestarli.

Tanto meno li confiderebbe alla guardia. Il caso di Frapporti fa riflettere, perché non si tratta di un "abituale", come vengono indicati in gergo i delinquenti veri, ma di un artigiano che ha sempre lavorato, conducendo un esistenza piuttosto semplice, fatta di lavoro e di serate al bar con gli amici di sempre. Amici e conoscenti lo tratteggiano come un’ottima persona, taciturno ma di cuore.

Chi lo ha conosciuto sul lavoro ne ha apprezzato l’abilità, la precisione e la serietà. La tenacia con cui aveva ripreso a lavorare dopo il grave infortunio gli aveva dato soddisfazione e si era costruito una solida professionalità, riconosciuta da tutto l’ambiente dell’edilizia. Nessuno lo crede un "pusher", uno che vende droga. Semmai, dicono, un semplice consumatore. Ma la Procura è di diverso avviso, alla luce del quantitativo di hashish sequestrato.

Forse non sarà stata la grave accusa di spaccio a fargli prendere una decisione così tremenda e definitiva, nella notte tra martedì e mercoledì. Forse altre inquietudini si addensavano nella sua mente, benché nessuno dei suoi amici se ne fosse accorto. Ma è un’evidenza che quell’atroce scelta sia maturata nell’ambito di una cella della casa circondariale di via Prati, senza che nessuno riuscisse ad accorgersene in tempo per salvargli la vita.

Lanusei: "no" casa di riposo; 82enne rifiuta uscire dal carcere

 

Agi, 27 luglio 2009

 

"Assurda e paradossale vicenda quella del più vecchio detenuto d’Italia. Antonio Dessì, 82 anni, ristretto nella casa circondariale di Lanusei, in Ogliastra, non intende lasciare il carcere nonostante la possibilità di usufruire di una sistemazione alternativa. L’uomo è soltanto disposto a tornare nella sua abitazione, benché sia fatiscente e pericolante". A rendere pubblica la storia dell’anziano detenuto è la presidente dell’Associazione "Socialismo Diritti e Riforme" Maria Grazia Caligaris, ex componente della Commissione "Diritti Civili" del Consiglio regionale.

Inutilmente il magistrato, gli operatori sociali del Provveditorato regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e un nipote hanno tentato di convincerlo ma l’uomo è irremovibile. L’incompatibilità con il carcere - sottolinea Caligaris - è evidente ed è riconosciuta, tuttavia la volontà dell’interessato è prevalente al punto da impedire qualsiasi provvedimento del magistrato di sorveglianza. La determinazione del detenuto appare incredibile anche perché la Casa Circondariale di Lanusei, dove sono ristretti i detenuti responsabili di reati sessuali, è sovraffollata.

I sopralluoghi effettuati dai tecnici nella catapecchia dove Dessì viveva prima dell’arresto hanno verificato che non vi si può abitare. "La struttura, priva di qualsiasi servizio, sta cadendo a pezzi e dovrebbe essere demolita. Quindi se non dovesse cambiare idea e accettare la sistemazione in una residenza per anziani, Dessì - conclude l’ex consigliera regionale socialista - resterà in una cella del Penitenziario, fino a marzo dell’anno prossimo quando finirà di scontare la pena. Un autentico paradosso nell’attuale realtà delle carceri italiane".

Torino: più di 1.600 detenuti, pigiati nel "purgatorio Vallette"

di Lorenza Pleuteri

 

La Repubblica, 27 luglio 2009

 

Più di 1.600 detenuti pigiati in "camere" concepite per ospitarne la metà: babele di lingue e nazionalità.

Sul muro del cortile per le ore d’aria - quattro al giorno di regola, di più non se ne riescono a fare nemmeno in queste giornate di caldo africano - è dipinta una porta da calcio. Due righe verticali, i pali. Una linea per la traversa. Manca una dimensione. E sembra una metafora di questo carcere, le Vallette. Come i cancelli e i muri dell’istituto, prossimo al tutto esaurito. Consumati. Logorati. Invecchiati in fretta, oltre i 31 anni dichiarati.

Millecinquecentosedici detenuti maschi presenti all’ultima conta, pigiati in "camere" - così le chiama il regolamento nazionale varato nel 2000, rimasto un sogno di carta - concepite per ospitarne poco più della metà e con la capienza raddoppiata con i letti singoli diventati a castello.

Centonove donne. Cinque bambini. Un terzo delle persone con condanne definitive da scontare, le altre in attesa di processo o di appello o di cassazione. Trecentonovantadue ospiti con pene residue sotto i tre anni, la soglia per richiedere misure alternative e averle, risultato impossibile per gli stranieri senza appoggi esterni e sempre più difficile per i recidivi.

Una babele di lingue e di nazionalità, 59 diverse. La voce araba del carcerato-muezzin che, all’ora di pranzo, lancia il richiamo che ricorda l’obbligo della preghiera a compagni di detenzione e di religione. Gli strilli dei bimbetti ospitati nel nido del blocco E, i figli delle carcerate che li possono tenere vicini fino all’età di tre anni. I cigolii delle sedie a rotelle di paraplegici e disabili raggruppati nel blocco A, quinta sezione, spediti qui da mezza Italia perché al centro clinico si pratica anche la fisiokinesiterapia. I monitor che inquadrano le celle del reparto psichiatrico, progetto Sestante, sempre blocco A. Bianco e nero, da film neoralista.

Cessi a vista. Pazienti scrutati a distanza, 24 ore su 24, per ragioni di sicurezza, anche nelle cose più intime. La foto sbiadita di Roberto Baggio del piccolo tempio buddista attrezzato in una stanza. Ci sarebbero cento modi, cento istantanee, per provare a raccontare questo mondo a parte. Un po' centro di accoglienza per stranieri. Un po’ manicomio. Un po’ comunità di recupero per i tossici e ospedale per i malati. Un po’ scuola e un po’ bottega. Un po’ purgatorio e un po’ inferno, per gli ultimissimi arrivati, soprattutto. Alla camere di accoglienza, approdo per i "nuovi giunti", può capitare di dormire per terra e anche per due notti filate. E il "palestrone" in fondo al carcere non è ripiego migliore, nei giorni di massimo afflusso. Doveva servire per lo sport, è una grande e spoglia camerata comune che tampona le emergenze.

Il direttore Pietro Buffa, l’uomo dello Stato chiamato a trovare quotidianamente un punto di equilibrio e a tenere tutto insieme, cita un vecchio articolo giornalistico, anno 1994. "L’impatto con il carcere delle Vallette - raccontava il cronista - ha l’odore forte di piscio che si respira nella sezione nuovi giunti, una specie di zoo umano...".

Chiede un solo favore, lui che allora non c’era, arrivato sulla tolda di comando nel 2000 e rientrato l’anno scorso dopo una parentesi romana. Smetterla con le descrizioni del carcere fatte assemblando il tanfo del cibo e dei corpi sudati, il clangore delle chiavi e dei blindati, i dettagli che colpiscono chi in una galera non è mai entrato e cui invece ospiti e lavoratori sembrano assuefatti. "La gente si muove, cammina, fa. Discute. Tenta. A volte riesce e a volte fallisce. Nella drammaticità, questo è un posto vivo e vitale".

Il paragone, sommando ai detenuti i 620 lodati poliziotti penitenziari e 200 operatori, è con un paese, un quartiere cittadino più complicato e difficile di un altro qualsiasi rione. "È un mondo di relazioni, in presa diretta". Ed è un luogo dove si sperimenta e si inventa, in mezzo alle difficoltà, con gli inquilini che crescono per numero e per bisogni e con i fondi ministeriali che diminuiscono. C’è la falegnameria, per citare un esempio, dove gli artigiani ristretti costruiscono anche voliere, gabbie per uccelli, come in una auto rappresentazione. Ci sono le Pausa caffè e pausa cacao, altre esempi, due delle cooperative sociali e solidali interne. C’è l’idea di avviare corsi di formazione per figure professionali - ramo edile, risorse energetiche alternative - richieste dal mercato esterno.

Moustapha K., uno dei 1.625 detenuti presunti all’ultima conta, ha mollato la scuola superiore del carcere, l’istituto turistico-alberghiero. Fa l’idraulico per la Mof, sigla che sta per "manutenzione ordinaria fabbricato", la squadra di chi aggiusta, ripara, rabbercia. Assiste il compagno di cella, invalido, senza percepire i compensi che una volta venivano dati ai carcerati "piantoni", sorta di infermieri-badanti. Guadagna 500 euro al mese, con trattenute e contributi.

Riesce ad aiutare la madre, una sorella vedova, il fratello con una figlia invalida, tutti a Torino. Nella gerarchia interna è come se viaggiasse in prima classe. Sta al penale, "sconsegnato", cioè con una relativa libertà di movimento. E lui, suo malgrado simbolo a rovescio delle Vallette targate anno 2009, da qui non può e non vuole andarsene. Perché non ha altro che carcere. "Mi hanno dato la detenzione domiciliare, l’ho rifiutata. Ho detto di no. Lo so che è roba da matti.

Ma non c’è altra scelta. Fuori sarei solo di peso per la mia famiglia, da qui riesco a mandare qualche soldo. Mangio, ho un tetto, le relazioni con il personale e con la direzione sono ottime". Clandestino, anche se ora un impiego regolare lo ha e pure un tetto fisso, seppure di una galera, non può iscriversi ai centri per l’impiego in vista della prossima liberazione e di un futuro decente. A fine pena, adesso che è rieducato e recuperato, lo aspetta l’espulsione.

Il prefetto Paolo Padoin riesce ancora ad essere ottimista, nonostante il naufragio del progetto in cui aveva fermamente creduto: la creazione di una polo di camere di sicurezza dove appoggiare gli arrestati in attesa di giudizio per direttissima, per evitare il passaggio dal carcere e il sovraccarico di un sistema allo stremo.

All’ultimatum dato dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - "da settembre alle Vallette non verranno più accettate le persone destinate a Palazzo di giustizia" - risponde con rassicurazioni e messaggi positivi. Non si farà più un polo unico, il progetto che è sfumato. Ma polizia e carabinieri appronteranno o riattiveranno locali destinati alla custodia provvisoria di chi deve essere in tempi brevi sottoposto a convalida delle manette e a giudizio.

Non sarà semplice, mettere in moto una macchina diversa da quella attuale. Le risorse, oltre che in carcere, scarseggiano negli altri apparati statali interessati. "Nei commissariati - raccontano in questura - questi spazi sono stati trasformati in magazzini e depositi, mentre in sede centrale sono utilizzati per gli stranieri trattenuti per l’identificazione.

Allestire o ristrutturare i locali per gli arrestati comporterà una riorganizzazione dei servizi e del personale, distolto da altri servizi, sia chiaro. Qualche cella si creerà nella caserma delle Volanti, altre nei distretti più nuovi". Discorsi simili anche negli uffici dell’Arma, dove è il comandante provinciale Antonio De Vita a fare da garante: "Ci stiamo adeguando".

Ci contano e lo pretendono i poliziotti penitenziari della organizzazione autonoma Osapp, per una volta sulla stessa lunghezza d’onda dei diretti superiori. Il segretario regionale Gerardo Romano ha chiesto un incontro urgente al direttore delle Vallette Pietro Buffa e al provveditore, Aldo Fabozzi. Lo scopo è comune, condiviso. Arrivare al punto: eliminare l’effetto "porta girevole", il surplus di oneri per il carcere e per il personale, e garantire migliori di condizioni di lavoro e di vivibilità.

Trento: quattro agenti, feriti in rissa detenuti extracomunitari

 

Il Trentino, 27 luglio 2009

 

Calci, pugni, spinte. Una vera e propria rissa quella che venerdì ha avuto come teatro il carcere di Trento. Protagonisti quattro detenuti extracomunitari e quattro agenti della polizia carceraria che, nella colluttazione, hanno tutti riportato ferite e contusioni. L’episodio è avvenuto verso le 14.30 e solo la professionalità e il sangue freddo del personale hanno impedito che potesse trasformarsi in una rivolta come quella dello scorso anno. Tutto ha avuto origine dall’insofferenza dei quattro detenuti, in attesa di essere giudicati dal consiglio disciplinare.

Si trattava di pochi minuti, ma sufficienti a far scattare la rabbia del quartetto, peraltro già con alle spalle precedenti disciplinari. Anche venerdì, la commissione - composta dal direttore, da sanitari e da altre figure professionali interne al carcere - avrebbero dovuto esprimersi e applicare eventuali sanzioni nei confronti di quegli uomini, protagonisti di alcuni episodi accaduti recentemente.

La tensione è andata via via salendo dall’area passaggi all’inizio della sezione per esplodere poi sulle scale che portano al secondo livello. Dagli insulti rivolti al personale si è passati ad un feroce corpo a corpo nel giro di pochi minuti.

La colluttazione è durata circa mezz’ora ed è stata molto violenta: alla fine, è intervenuto in forza anche altro personale in servizio e, tornata la calma, s’è potuto fare un primo bilancio. La peggio è toccata agli agenti - uno di loro è stata addirittura spinto giù dalle scale - e tutti, alla fine, hanno dovuto ricorrere alle cure dei sanitari del Santa Chiara. Uno ha subito un brutto colpo ad un occhio, un altro ha riportato la sospetta frattura di un braccio e anche gli altri due hanno rimediato contusioni ed ematomi guaribili in qualche decina di giorni.

Nella mattinata di ieri, i poliziotti si sono recati in Procura per sporgere denuncia. Meglio è andata ai detenuti che, subito visitati dai sanitari della casa circondariale, sono usciti praticamente illesi dal brutto episodio. Merito più che altro degli stessi agenti che, pur nella drammaticità della situazione, hanno applicato alla lettera il regolamento, preoccupandosi solo di riportare l’ordine senza cadere nella trappola di chi, magari, avrebbe voluto dare il via ad una vera guerriglia. Preoccupato per l’episodio Massimiliano Rosa, segretario provinciale del sindacato Sappe.

"In queste condizioni - spiega - è difficile pensare all’apertura del nuovo carcere, prevista per il marzo del 2010. Già ora il personale è evidentemente insufficiente e mi chiedo cosa accadrà quando, tra meno di un anno, dovremmo traslocare in una struttura molto più grande di quella attuale. Ora, sulla carta, gli agenti in servizio sono 99, ma in realtà gli effettivi sono al massimo 87 o 88. La mia esperienza quasi ventennale in questo settore - conclude Rosa - mi permette di fare due conti: per garantire tutti i servizi del nuovo grande carcere servirebbero almeno 150 agenti in più rispetto a quelli attuali. Eppure, a soli otto mesi dall’annunciata apertura, non abbiamo notizie se e come il Ministero ha intenzione di risolvere il problema dell’aumento del personale".

 

Un anno fa la rivolta in via Pilati

 

L’ultimo grave episodio, all’interno del carcere di Trento, risale a meno di un anno fa. A tutti gli effetti s’era trattato di una rivolta, scoppiata nella notte tra il 25 e il 26 agosto, dopo la scoperta del corpo senza vita di Rachid Basiz, detenuto algerino di 29 anni stroncato da un infarto. Nella notte, i detenuti avevano incendiato tutto quello che avevano a disposizione. Poi tutto sembrava essere rientrato, ma al mattino successivo, la protesta era ripresa e per oltre due ore i detenuti avevano occupato uno dei cortili. Una protesta per chiedere più assistenza sanitaria e condizioni di vita migliori. L’allora direttore Gaetano Sarrubbo, resosi conto che i detenuti "rivoltosi" erano una cinquantina, aveva chiesto il supporto di carabinieri e polizia, con tutto l’equipaggiamento antisommossa al seguito. Alla fine caschi, scudi e lacrimogeni non erano fortunatamente serviti, ma i detenuti erano stati tutti identificati e denunciati per danneggiamento. Anche in quell’occasione non erano mancate le polemiche sulla situazione di sovraffollamento della struttura che, a tutt’oggi, ospita 156 detenuti quando la capienza massima tollerabile è di 101 persone. Senza contare che una sezione è chiusa e i posti "veri" sono una sessantina.

 

Il trasloco a Spini già nella primavera del 2010

 

Del nuovo carcere a Spini di Gardolo se ne parla ormai da un lustro. I lavori, il cui costo complessivo si aggira attorno ai 120 milioni di euro, sono partiti nel 2006 e la struttura si avvia ormai ad ultimazione. Il termine ufficiale dei lavori è previsto per giugno del prossimo anno, in realtà le operazioni di trasloco verosimilmente partiranno già nella primavera: si comincerà dalle attività accessorie, come i magazzini, per concludere con il trasferimento dei detenuti.

L’area, che si estende per una superficie di 110 mila metri quadrati, si trova poco a sud rispetto alla foce del torrente Avisio e comprenderà al suo interno anche un’area ricreativa oltre alle residenze della polizia penitenziaria. Uffici, palestra, sala polivalente, laboratori e magazzini occuperanno volumi allungati mentre gli edifici destinati alla detenzione maschile e femminile si svilupperanno maggiormente in altezza, riuscendo a far fronte a 244 posti.

Alla fine, la superficie coperta sarà di 18 mila metri quadrati e il volume totale di 146.920 metri cubi. La struttura carceraria è affiancata da edifici residenziali per il personale del carcere e da strutture di servizio e campi sportivi. Solo pochi mesi fa, il presidente della Provincia Dellai aveva rassicurato gli agenti carcerari preoccupati di una chiusura anticipata del carcere di via Pilati. L’accordo raggiunto a Roma prevede che la chiusura del vecchio carcere sarà ritardata di un po’ e si anticiperà l’apertura di una parte del carcere nuovo per garantire così un trasferimento graduale dei detenuti. Per il sindacato Sappe, però, resta il problema degli agenti insufficienti.

Rimini: 211 detenuti in 90 posti, proteste per sovraffollamento

 

Ansa, 27 luglio 2009

 

La capienza massima è di 90 detenuti e sono in 211. In undici, in alcuni casi, si dividono una cella di 16 metri quadrati. Lamentano di essere stipati come bestie. Le zanzare proliferano e con il caldo il sovraffollamento è ancora più insopportabile anche perché, come al solito, d’estate, è più che probabile l’arrivo di nuovi detenuti a rendere ancora più angusti gli spazi. Aumenta così il rischio di malattie infettive come la Tbc. La struttura è inoltre interessata da lavori di ristrutturazione e gli spazi ricreativi sono ridottissimi. La palestra è chiusa da anni dopo una rocambolesca evasione a colpi di bilanciere.

I detenuti da giorni - come avviene in altre carceri - hanno avviato una protesta: prima con la classica "battuta delle inferriate", ora qualcuno rifiuta il pasto, altri fanno lo sciopero della fame. La direttrice dei Casetti Maria Benassi conferma che è in corso una manifestazione pacifica ma è opinione diffusa, non solo tra i detenuti, ma anche tra i loro familiari e gli agenti di polizia penitenziaria, che la situazione sia oramai insostenibile.

Macomer (Nu): ora sul carcere è calato nuovamente il silenzio

di Piero Marongiu

 

La Nuova Sardegna, 27 luglio 2009

 

Nulla è cambiato nella casa circondariale di Macomer dopo la visita di martedì scorso della commissione per i diritti civili regionale, con il presidente Silvestro Ladu. Al termine della visita, durata oltre due ore, Ladu aveva espresso in maniera chiara la contrarietà della Regione al trasferimento dei terroristi di Guantanamo a Macomer.

Intorno alla vicenda dei 27 detenuti per reati legati al terrorismo islamico - ospiti del secondo braccio di alta sicurezza - è nuovamente calato il silenzio. Il sindaco di Macomer, Riccardo Uda, non vuole entrare nel merito della visita effettuata dalla commissione, tuttavia, senza polemizzare, dice: "Nessuno mi aveva avvisato di quella visita: neppure una comunicazione da parte di chicchessia. Dispiace che nessuno abbia pensato di informare il sindaco di un fatto così importante".

Paradossalmente, il sindaco della città in cui ricade la presenza del carcere, a differenza degli onorevoli, non è tra le autorità autorizzate ad accedere. Sulla presenza dei detenuti islamici nel carcere di Macomer è intervenuto anche il presidente dell’Unione dei comuni del Marghine, Francesco Scanu. "In questo territorio non c’è bisogno di aggiungere altri problemi a quelli che ci sono già. Non vogliamo che i riflettori si accendano su terroristi che qualcuno vorrebbe portare a Macomer, ma sulla crisi occupazionale e sulla necessità di attivare politiche per il lavoro".

Sergio Obinu, consigliere regionale e membro della commissione, dice: "I detenuti per reati comuni si lamentano solo per la mancanza di spazi ricreativi". Per quelli di fede islamica, invece, le cose si complicano, con una lunga serie di richieste. In mezzo ci sono i problemi degli agenti di custodia.

Perugia: sit-in Polizia penitenziaria; condizioni di lavoro difficili

 

Asca, 27 luglio 2009

 

"Basta alla politica delle decisioni unilaterali, al mancato rispetto delle regole e dei diritti dei lavoratori". Questo lo spirito che ha animato la protesta, stamani a Perugia, organizzata dai sindacati del personale di Polizia Penitenziaria con un sit in davanti al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.

Intento della giornata, alla quale hanno partecipato delegazioni da Terni e Spoleto, a testimoniare che la situazione di emergenza accomuna le strutture penitenziarie di tutta l’Umbria, rimarcare che le condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria di Perugia sono sempre più difficili; il personale è insufficiente e le celle sono sovraffollate.

I manifestanti vogliono far comprendere al cittadino, è stato ripetuto dagli organizzatori, la gravità di scelte quali l’apertura totale del Carcere di Capanne avvenuta con l’integrazione, allo stato, di solo 26 unità a fronte delle ben 143 previste dal Dap stesso a suo tempo, con le conseguenti ripercussioni sulla sicurezza dell’operatore di Polizia penitenziaria e, in generale, della cittadinanza e del territorio. Un’emergenza condivisibile dagli operatori carcerari di Spoleto, dove si parla di imminente arrivo di 300 detenuti provenienti da altre regioni.

Pavia: una "patente europea" d’informatica, per sette detenuti

 

La Provincia Pavese, 27 luglio 2009

 

Ci vuole tempo, e passione per il lavoro. Per ottenere risultati che sembrano piccoli, ma si portano dietro anni di attese, documenti e burocrazia. È così che per la prima volta gli studenti che frequentano il corso geometri dell’istituto Volta nella Casa Circondariale di Torre del Gallo sono riusciti a sostenere l’esame per la patente europea del computer (Ecdl).

È la prima volta a Pavia, ed è la terza in tutta Italia, perché come ha spiegato l’Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico (Aica) che si occupa di gestire gli esami europeo, soltanto in un carcere della Toscana e in uno del sud Italia si era riusciti nell’impresa. Perché un’impresa? Perché questo esame si basa sull’utilizzo di Internet, che nelle carceri non si può usare per ragioni di sicurezza. Ecco perché serve spirito di iniziativa e un po’ di ingegno per trovare una soluzione alternativa.

"A Torre del Gallo abbiamo iniziato i corsi di formazione per l’Ecdl - spiega Camillo Ricci, che coordina le classi del Volta nella casa circondariale - ma volevamo riuscire a organizzare anche l’esame, perché per i detenuti avere un attestato europeo che certifica queste conoscenze può essere un’occasione in più quando usciranno".

Così mentre Elio Giroletti e Pietro Galinetto, docenti del dipartimento di Fisica dell’ateneo, tenevano i corsi, Antonio Montagnari e Camillo Ricci affiancavano alle lezioni la stesura del progetto per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie. E qui arriva l’ingegno. "Non potevamo usare Internet - spiega Ricci - ed è entrato in gioco un altro docente, Alberto Panzarasa, che ha creato una piccola rete tra i computer che abbiamo in carcere, con un server".

Così, i sette studenti hanno fatto l’esame in carcere, poi il server è stato staccato dalla rete e portato a scuola. E da lì sono stati inviati gli esami all’Aica. "Quest’anno hanno fatto e superato la parte sull’uso di Word - spiega Ricci - la speranza è di fargli fare tutti i sette moduli in tre anni". Il Volta, l’università, la casa circondariale hanno collaborato fin da subito per arrivare a questo risultato. "Nelle case circondariali è difficile organizzare attività - spiega Ricci - perché i detenuti restano per periodi transitori. Per noi sette studenti che superano questo esame sono un buon risultato".

A Torre del Gallo il Volta ha una seconda e una terza geometri. Gli studenti-detenuti hanno dai 22 ai 50 anni, ci sono culture ed esperienze diverse, c’è chi non ha nemmeno la terza media e chi invece ha già un diploma di altro tipo. "Hanno molto rispetto degli insegnanti - spiega Camillo Ricci - sono un contatto con il mondo esterno, noi abbiamo docenti che scelgono all’inizio dell’anno di insegnare ai detenuti".

E le difficoltà non mancano. I tempi si dilatano, anche per le cose che sembrano banali. Un esempio? Anche chiedere una penna in più rispetto a quelle in dotazione richiede tempo, almeno qualche giorno di anticipo, per effettuare tutti i controlli.

Massa Carrara: notte di violenze… tra ronde "nere" e "rosse"

di Gad Lerner

 

La Repubblica, 27 luglio 2009

 

Ingelosito forse dalla constatazione che il vessillo minaccioso delle "ronde" sia stato impugnato dalla destra di governo, un manipolo della residua galassia comunista ha deciso di impugnarne il copyright a Massa, promuovendo una "ronda proletaria e antifascista".

Da non confondersi con le "ronde fasciste" di antica memoria, ma ugualmente carica di significati minacciosi e soprattutto vogliosa di fare a botte con la concorrenza "autorizzata" nell’Italia 2009. Con l’ovvio risultato di costringere le forze di polizia a un impegno supplementare che sarebbe stato meglio risparmiare loro.

I disordini di Massa, botte fra militanti di opposta tendenza, feriti e successivo blocco della stazione ferroviaria, riecheggiano sinistramente gli scontri fisici che trent’anni fa degenerarono nel sangue, con perdite di numerose giovani vite umane. Già negli anni Settanta risultava anacronistica e insensata la ferocia con cui si pretendeva di rinnovare una guerra civile tra fascismo e antifascismo. La notizia di questo revival massese, però, scandalizza innanzitutto per la sua prevedibilità.

Quando è lo stesso ministro degli Interni a invocare le "ronde" come antidoto alla delinquenza. Quando un prefetto e un questore dello Stato presenziano (è accaduto a Treviso) a un incontro di partito per la formazione delle ronde. Quando il comune di Milano finanzia una ronda - i "Blue Berets"- guidata da iscritti della "Destra nazionale Msi" (il contratto è stato revocato solo dopo la rivelazione di "Repubblica"). Ebbene, sarebbe ingenuo sperare che altri non si mettano in competizione nella corsa al peggio.

A questo punto è augurabile che il governo corra ai ripari e recepisca le obiezioni al "pacchetto sicurezza" inviategli per lettera dal presidente Napolitano. Le ronde non sono oggi e non saranno domani d’aiuto al mantenimento dell’ordine pubblico. Nella migliore delle ipotesi rappresentano il simbolo ideologico di una volontà di controllo del territorio. Nella peggiore, realizzano una sinistra commistione fra l’autorità statale e il suo braccio politico articolato in forma di milizia. Ma in entrambi i casi, le ronde hanno già dimostrato di comportare un aggravio, e non un sollievo, al lavoro delle forze di polizia. Destinate a fronteggiare anche una nuova contrapposizione di piazza fra estremisti governativi e antigovernativi, ben lieti di mascherarsi dietro alla foglia di fico della ronda. L’episodio di Massa anticipa questo scenario.

Il ministro Maroni ha risposto a Napolitano che la degenerazione politica delle ronde potrà essere scongiurata dal suo regolamento attuativo, che si cautela imponendo requisiti nella selezione dei "volontari per la sicurezza". C’è un’evidente ipocrisia in questo tentativo di spoliticizzare a parole quello che fin dall’inizio è stato brandito come un minaccioso intento politico. Ma a smentire il ministro leghista ci sono soprattutto i fatti, che Maroni non può certo ignorare.

Se è vero, infatti, che il regolamento ammette nel registro dei volontari per la sicurezza solo le associazioni che "non siano riconducibili a partiti e movimenti politici", la verità è che sta accadendo esattamente l’opposto. In Lombardia un’apposita "Scuola di formazione" per aspiranti membri delle ronde è stata promossa, guarda caso, dai "Volontari verdi" il cui presidente onorario è Mario Borghezio. A sollecitare il reclutamento con pubbliche dichiarazioni è il leghista Max Bastoni, coordinatore delle "Ronde padane". Bisogna fermare questo delirio - rosso, nero o verde - prima che sia troppo tardi.

Bolzano: "Tracce di libertà"; esposizione opere detenuti ed ex

 

Ristretti Orizzonti, 27 luglio 2009

 

Inaugurazione: venerdì 31 luglio, ore 11.00. Dal 31 luglio al 4 agosto la fondazione Odar, in collaborazione con la Caritas diocesana ed il Progetto Odòs, organizza una mostra presso la Piccola Galleria di via Streiter 25: l’esposizione, intitolata "Tracce di libertà, nei frammenti l’intero", è il frutto del lavoro di alcuni detenuti ed ex detenuti ospiti del Progetto Odòs, svolto all’interno delle attività di laboratorio curate da due operatori del servizio.

L’inaugurazione della mostra è prevista per le ore 11 di venerdì 31 luglio: saranno presenti Mauro Randi ed Heiner Schweigkofler, direttori della Caritas diocesana; Alessandro Pedrotti, responsabile del Progetto Odòs; Hans Stockner, operatore del Progetto Odòs e curatore della mostra; Sabina Sedlak, educatrice del Progetto Odòs e responsabile del laboratorio.

La mostra resterà aperta dalle ore 9.30 di venerdì 31 luglio alle ore 12 di martedì 4 agosto, tutti i giorni con orario continuato dalle 9.30 alle 18.30. Il servizio Odòs - gestito dalla Fondazione Odar - è una casa d’accoglienza e un punto di consulenza per detenuti, ex detenuti, persone in attesa di giudizio ed i loro familiari. L’equipe educativa di Odòs accompagna gli ospiti in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo, accogliendoli in una struttura aperta 24 ore al giorno, tutti i giorni dell’anno. Parte dell’inserimento sociale passa anche attraverso una nuova acquisizione delle proprie capacità: è proprio in questa direzione che hanno preso forma alcuni atelier e laboratori creativi di cui questa esposizione è espressione.

Francia: 82 mila condannati liberi, perché le celle non bastano

di Luisa Pace

 

Secolo XIX, 27 luglio 2009

 

In Francia, dove la parola d’ordine più citata è "sicurezza". Dove il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, convocando i Prefetti per fare il punto, ha definito "deplorevoli" i risultati della lotta alla delinquenza. Dove con il rimpasto governativo del 23 giugno scorso, il ministero della Giustizia è andato all’inflessibile Michèle Alliot-Marie che conta nel suo curriculum anche il ministero dell’Interno e quello della Difesa. Dove anche e soprattutto il presidente Sarkozy ha abituato tutti al pugno di ferro, vige la più grande contraddizione: 82.000 condannati a pene detentive sono infatti in attesa che si liberi un posto in qualche cella.

Forse governo, magistrati e polizia, tutti troppo presi dall’aumentare degli arresti, si sono scordati di fare i calcoli. I penitenziari francesi contano, a oggi, 63.189 "inquilini" a dir poco stipati poiché potrebbero accoglierne al massimo 51.000. Non per nulla, due settimane fa la Corte europea dei Diritti Umani ha richiamato all’ordine lo Stato francese, condannandolo a versare un indennizzo di 12.000 euro a un detenuto che ha subito una serie di maltrattamenti nelle varie celle dove è stato arbitrariamente spostato. Lo stesso Tribunale amministrativo di Nantes, nel Nord della Francia ha condannato lo Stato a versare un altro indennizzo a tre detenuti per le condizioni degradanti subite nel carcere della città riempito al 140%.

In generale i detenuti vivono in cinque o sei per cella di 10 o 20 mq in carceri vetuste. A poco sono servite le denunce dopo le ondate di suicidi tra i condannati (ufficialmente 115 nel 2008 e 83 dall’inizio di quest’anno). A poco sono serviti anche gli avvertimenti della polizia penitenziaria che ha chiesto più mezzi e più penitenziari per lavorare in sicurezza e in condizioni umane. In alcune prigioni, le guardie hanno denunciato persino casi ricorrenti di tubercolosi legate alla promiscuità.

Anche fra i secondini i suicidi sono in aumento eppure, per mestiere, sono quelli che possono fare chiaramente il quadro della situazione. Gli avvertimenti sono sfociati in uno sciopero della polizia penitenziaria i primi del maggio scorso. Una polizia che, non potendo realmente scioperare, impediva i trasferimenti e le estrazioni dei detenuti anche solo per recarsi in Tribunale. Ma la polizia antisommossa ebbe la meglio sui colleghi delle prigioni.

Il 22 luglio è stato inaugurato il supercarcere ultramoderno di Bézier, nel Sud della Francia. Peccato che abbia già dovuto dichiarare il tutto esaurito perché con una ricettività di 800 posti la fila d’attesa arriva già a 1.300 "inquilini". I responsabili prevedono di raddoppiare i letti. Peccato che le guardie carcerarie restino soltanto le 240 iniziali.

Insomma, non serve un pallottoliere per rendersi conto che la situazione è esplosiva. Le nuove leggi sulla sicurezza non prevedono l’ampliamento delle zone carcerarie. E qui si torna agli 82.000 privi di cella. Alcuni magistrati, riuniti in sindacato, cercano una soluzione salomonica. Per esempio la revisione delle pene minime, imposte dal precedente ministro della Giustizia Rachida Dati. Pene che potrebbero, ad esempio, essere applicate con gli arresti domiciliari e il braccialetto elettronico.

Iran: carceri piene di prigionieri, sottoposti a sevizie e torture

di Davood Karimi

 

www.icn-news.com, 27 luglio 2009

 

Secondo le informazioni e le testimonianze giunte da Teheran e da altre città iraniane la rivolta va avanti e continuano gli scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza e i Basiji. Le carceri iraniane sono stracolme di prigionieri e di detenuti sottoposte alle più brutali sevizie e torture. il caso della ragazza di Teheran di nome Taraneh Moussavi e diventata emblematico.

Taraneh fu arrestata a Teheran durante una pacifica manifestazione di protesta e portata nel carcere di Evin dove sottoposta alla violenza sessuale di gruppo e successivamente e dopo alcuni giorni abbandonato il suo corpo lacerati e semi carbonizzato in periferia di Teheran. Lo stesso comportamento è riservato, secondo le informazioni che mi giungono dalle fonti attendibili della resistenza iraniana, anche nei confronti dei ragazzi che vengono violentati in gruppo. Oltre alle torture fisiche e pressioni psicologiche il regime dei mullah usa anche gli affetti dei detenuti

toccando pure i genitori e i figli e i parenti stretti. Secondo i miei dati, attualmente nelle carceri di Teheran si trovano almeno 10.000 ragazze e ragazzi sottoposti ai più disumani trattamenti.

Associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia lancia un doloroso appello a favore dei detenuti e si rivolge agli organismi internazionali competenti quale Onu e Amnesty International e in particolare al governo italiano nonché al Parlamento e al Senato della repubblica per prendere una forte posizione contro la politica repressiva del regime dei mullah mobilitando gli organismi competenti per inviare una commissione di indagine per verificare quanto succede nelle carceri iraniane. Bisogna ricordare che Teheran ha arrestato numerosi avvocati quali Shadi Sadr, Dadkhah che in qualche modo difendevano i detenuti politici e non.

Libia: Save the Children; 30 minori nei Centri di trattenimento

 

Ansa, 27 luglio 2009

 

L’organizzazione umanitaria torna a chiedere al governo di non "mettere in atto misure che violino i diritti umani". In merito a testimonianze riportate da organi di stampa, che parlano di circa 30 bambini rinchiusi in condizioni disumane nei centri di raccolta in Libia, Save the Children torna a chiedere il blocco dei respingimenti e che il governo riferisca in Parlamento.

Save the Children attraverso una nota esprime "la sua preoccupazione e dichiara di essere sconcertata dal silenzio assordante del governo alle varie richieste di chiarimenti". In particolare, la Ong si dice preoccupata sui respingimenti "verso un Paese che non garantisce le dovute tutele a chi si mette in fuga in cerca di protezione e che non tiene in debita considerazione neanche i gruppi più vulnerabili come i minori".

Il direttore dell’organizzazione, Valerio Neri, ribadisce che "l’Italia non può porre in essere misure di controllo delle frontiere nelle acque internazionali che non tengano conto dei diritti umani dei migranti, né può rinviare persone in Stati Terzi in cui tali diritti non sono ancora garantiti". Per questo chiede al governo "di interrompere, qualora fossero ancora in corso, e di non effettuare in futuro, operazioni di rinvio in Libia di migranti rintracciati in acque internazionali. Di promuovere, nell’ambito dell’accordo Italia-Libia, l’istituzione in Libia di un sistema di monitoraggio indipendente sulla conformità delle condizioni e delle procedure di accoglienza dei migranti e, in particolare, dei minori non accompagnati e dei nuclei familiari con minori a carico, agli standard previsti dalla normativa internazionale in materia".

Stati Uniti: ci vorranno anni, prima di chiudere Guantanamo

di Francesco Semprini

 

La Stampa, 27 luglio 2009

 

Un fascio di luci squarcia il buio della notte mentre con la camionetta militare attraversiamo la base di Guantanamo. "Quello è Camp Delta", dice uno dei militari della scorta che non ci lascerà un istante. Superato il check point della "militar police" arriviamo davanti all’entrata del compound che ospita i campi di detenzione. Ancora un controllo e siamo dentro, il rumore della cancellata alle nostre spalle ci rende ancor più netta l’idea della prigione. Intorno si avverte il calpestio degli anfibi sulla ghiaia e l’odore della polvere bagnata dall’ultimo temporale tropicale.

Siamo nel cuore dei Caraibi, Gitmo è un’enclave americana sull’isola di Cuba, considerata da Fidel Castro "la spina nel fianco per l’orgoglio dell’Avana". Base navale statunitense dal 1903, è stata in parte riconvertita in campo di detenzione per terroristi e talebani all’indomani dell’11 settembre 2001, ed è oggi popolata da settemila persone tra militari, civili e famiglie al seguito.

La visita inizia con una prospettiva sulla vita dei detenuti, tutti di religione musulmana: la prima preghiera, quella che precede di poco l’alba. Ci arrampichiamo sulla torretta di guardia protetti dai riflettori puntati sulle celle 24 ore su 24. L’imam recita i versetti del Corano e gli altri si dispongono in fila orizzontale su una guida verde allungata nel cortile. "È uno dei momenti più importanti per loro - dice il sergente di guardia - Non manca mai nessuno".

Siamo a Camp 4 la prigione di media sicurezza, quella dei detenuti meno pericolosi a cui è concesso di stare molto tempo all’aperto e dedicarsi ad attività ricreative. Accanto c’è la biblioteca, con alcune centinaia di testi in 18 lingue dall’arabo all’inglese, dal farsi al pashtun. I più richiesti oltre ai libri sacri del profeta Maometto portati a mano dai detenuti esclusivamente da impiegati di religione musulmana in osservanza ai precetti del Corano, sono le grammatiche inglesi. "Si esercitano in vista del processo", ci spiega la responsabile della Library.

Notiamo tra gli scaffali letture in lingua italiana come "Caos calmo". "In realtà nessuno le ha mai chieste - prosegue - tutti vogliono Harry Potter". Il super maghetto è anche tra i dvd più ambiti, secondo solo alle partite di calcio. "Le sfide dei mondiali 2006 sono le più viste nella sala tv di Camp 4", racconta una delle guardie. "Il pallone è il loro passatempo preferito, e non c’è giorno che non giochino. - prosegue - A volte litigano e non mancano gli infortuni". La conferma arriva dall’ufficiale responsabile del pronto soccorso: "Il maggior numero di lastre e radiografie che facciamo sono per contusioni e distorsioni". L’ospedale funziona come una qualsiasi struttura civile, anche se l’armadietto con tubi e flebo per l’alimentazione forzata ci ricorda ancora una volta che siamo in un carcere sui generis.

Diverso è il clima di Camp 5 dove sono rinchiusi gli elementi più pericolosi e la detenzione è assai dura. Uno dei prigionieri si accorge della nostra presenza e grida qualcosa in arabo, l’interprete spiegherà più tardi che ci ha dato dei criminali. La vera novità di Gitmo è Camp 6 il carcere più moderno realizzato secondo i nuovi criteri. "È una forma di miglioramento delle condizioni detentive frutto del lavoro comune svolto tra militari, Ong e avvocati", dice l’ammiraglio Tom Copeman, comandante della Joint Task Force che gestisce l’intera prigione.

I detenuti trascorrono 20 ore su 24 assieme, uno di loro chiede a una guardia un nuovo alfiere degli scacchi, l’altro si è rotto mentre giocava col vicino di cella. Il riscontro è positivo, le proteste sono diminuite così come gli scioperi della fame e i ricoveri coatti. L’alimentazione dei prigionieri è studiata nei minimi dettagli: le cucine sono separate da quelle dei militari e gestite da personale civile. Vigono ordine e pulizia e ogni giorno sono disponibili sei menù diversi, dal vegetariano a quello ricco di fibre. A Camp Delta della chiusura del carcere si parla poco e in generale il clima è di scetticismo. "Passeranno anni, altro che mesi", dice Sebastian, dipendente di un contractor della Difesa. È il grande business che ruota intorno a Guantanamo e i nomi delle società appaltatrici sono i soliti, prima fra tutte Kbr, la controllata di Halliburton una volta guidata da Dick Cheney.

Lo scetticismo emerge già sul piccolo bimotore che da Fort Lauderdale ci porta alla base. A bordo una decina di legali dei detenuti tra cui è un continuo parlare del labirinto legale nel quale Washington è intrappolata. È giunta da poco la notizia del ritardo sulle procedure di revisione volute da Obama: "Il governo Bush ha creato un vero caos giuridico", ci spiega John Sifton, del team legale di Abu Zubaydah, uno dei 14 operativi di al-Qaeda trasferito a Gitmo dalle prigioni della Cia. L’impasse a livello governativo comporta la paralisi degli organi militari, come l’Oardec, l’ufficio che valuta se trattenere, rilasciare o trasferire i detenuti.

A Camp Justice, dove si tengono i processi delle commissioni militari, le audizioni continuano: nell’aula due, di recente realizzazione, ci sediamo nel posto dove pochi giorni prima c’era Khalid Sheikh Mohammed, la mente degli attentati dell’11 settembre. Il suo è tra i procedimenti in corso ma sino a quando il governo non completerà la revisione sullo status dei detenuti ogni sentenza è sospesa.

L’ordine esecutivo di Obama ha creato però un certo fermento tra i prigionieri. "Erano increduli. Abbiamo dovuto distribuirne una copia a ognuno e il giorno dopo qualcuno aveva già radunato le sue cose perché convinto di uscire", racconta una giovane militare della marina di nome Erika. "Quando hanno capito che i tempi erano lunghi alcuni sono andati in escandescenza, uno di loro mi ha tirato un bicchiere d’urina mentre ero di guardia". In realtà alla gioia iniziale per la fine di Gitmo i detenuti si sono interrogati sul futuro, spiega Zak, traduttore e interprete culturale di Camp Delta: "Alcuni temono di tornare nel loro Paese, altri hanno paura che le prigioni federali siano peggiori e vogliono rimanere qui".

Anche tra gli alti ranghi militari si percepisce qualche perplessità: "Noi eseguiamo gli ordini e se dobbiamo chiudere le prigioni e trasferire i detenuti lo facciamo, ma ci devono dire dove e come - spiega l’ammiraglio Copeman - Ci sono importanti questioni legali e politiche che Washington deve risolvere". Nel frattempo a Gitmo tutto continua come sempre e per i mondiali di calcio del prossimo giugno la sala tv di Camp 4 ha già registrato il tutto esaurito.

Congo: secondo l’Onu a Goma c’è il peggior carcere dell’Africa

 

Ansa, 27 luglio 2009

 

Nell’inferno del nord Kivu c’è un girone particolarmente orribile: è la prigione di Goma, 850 detenuti ammassati in condizioni disumane. La denuncia viene da Dmitry Titov, vice segretario generale dell’Onu per il rispetto della legge. "Ho viaggiato per tutta l’Africa e ho visto molte zone di guerra, ma la prigione di Goma è la più terribile che abbia mai visto". Non c’è alcuna divisione tra militari detenuti e civili, ma anche tra uomini, donne e bambini.

Durante la visita ha potuto vedere in prima persona lo stato di detenzione: la capienza sarebbe di 150 persone, ma a loro se ne aggiungono altre 700. Per questa ragione i detenuti sono costretti a vivere in promiscuità totale e a dormire anche nei corridoi, in condizioni igieniche impossibili che aumentano pericolosamente la diffusione delle infezioni. Fra i detenuti, in pochi hanno avuto un vero e proprio processo.

Stati Uniti: la Pennsylvania ha vietato i film porno nelle carceri

 

Ansa, 27 luglio 2009

 

Sembra che la visione di film pornografici all’interno delle prigioni non faccia che aumentare il rischio di disordini all’interno della struttura. Sulla base di questa considerazione, in Pennsylvania, si è deciso che la proiezione di porno sarà assolutamente vietata. La decisione è stata presa lunedì scorso dall’alta Corte della Pennsylvania, e sarà estesa a tutte le prigioni di Stato. Naturalmente tutto ciò provoca il malcontento di alcuni detenuti. Tra questi si è espresso Shannon Britain (che a quanto pare è un fan di Harlow Cuadra) condannato per violenza sessuale, che ha sostenuto che - a suo parere - tale divieto non servirà assolutamente a nulla. I funzionari dello Stato della Pennsylvania sostengono tuttavia che tale divieto servirà per evitare "inopportune" attrazioni e pulsioni sessuali tra i detenuti, e per mantenere un clima di lavoro non ostile.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva