Rassegna stampa 9 giugno

 

Giustizia: un week-end elettorale, rincorrendo paura e protesta

di Luigi La Spina

 

La Stampa, 9 giugno 2009

 

Paura e protesta. Il risultato complessivo del week-end elettorale tra le europee e la parziale tornata amministrativa ha sostanzialmente fatto emergere questi due sentimenti tra gli italiani. Al di là del giudizio per le provinciali e comunali, che sarà possibile formulare compiutamente solo dopo i ballottaggi, il sistema con il quale si è votato ha agevolato l’espressione libera, senza i condizionamenti di un governo nazionale da eleggere, degli stati d’animo più profondi dei cittadini in questo momento.

Si è radicalizzata, così, la spinta centrifuga verso la Lega, da una parte, e verso Di Pietro, dall’altra, all’interno di una spaccatura così profonda nell’elettorato che non consente travasi di voti tra i due schieramenti. Inoltre, si è accentuato il distacco dell’elettorato dalla politica, con una percentuale di astensioni che non va trascurata con l’alibi di un confronto europeo che ancora ci privilegia. Un fenomeno che, presumibilmente, ha colpito soprattutto i due partiti maggiori, il Pdl e il Pd. Con l’effetto di aumentare la polarizzazione "alle estreme" dei due fronti.

Senza decretare con troppo anticipo il "de profundis" nei confronti della tendenza al bipartitismo nel nostro Paese, un orientamento che dovrà essere verificato con un confronto corretto, cioè con il sistema di voto che vige nelle elezioni politiche, è comunque responsabilità primaria dei due maggiori partiti raccogliere questi sentimenti e dar loro una risposta seria, concreta, urgente.

La tentazione più sbagliata, da parte di Pdl e Pd, sarebbe quella di rincorrere la paura e la protesta, ripetendo il clamoroso errore della loro campagna elettorale: aver scosso quell’albero i cui frutti sono caduti nelle mani dei rispettivi partiti concorrenti. Rispondere alla spinta verso la radicalizzazione degli umori negli schieramenti, con una parallela corsa all’esasperazione delle posizioni, nell’illusione di assorbirla, sarebbe uno sbaglio drammatico e controproducente.

Berlusconi deve prendere atto che atteggiarsi a vittima, gridare ai complotti, attaccare i magistrati, i giornali e, persino, accusare la Banca d’Italia di sbagliare i conti, non porta a quel trionfo plebiscitario che sperava. Soprattutto, non deve auto illudersi per poter illudere, dipingendo un quadro dell’Italia irrealistico: la crisi economica, nel nostro Paese, non è passata. Le conseguenze sui consumi e sull’occupazione sono e saranno pesanti. Occorre rispondere alle sollecitazioni delle forze sociali, dalla Confindustria come dalla gran parte dei sindacati, con un programma di riforme che sostenga i redditi delle famiglie e che modifichi un sistema di welfare ingiusto e insufficiente.

Si può anche mascherare una sconfitta, consolandosi per il mancato sfondamento elettorale del premier, ma Franceschini non può davvero pensare che con l’addizione delle attuali opposizioni si possa costruire un’alternativa di governo a Berlusconi. Per il Pd si aprono due grandi problemi: inventare un grande progetto di moderno cambiamento del centrosinistra italiano e accelerare, a tappe forzate, un ricambio di ceto dirigente assolutamente indispensabile. Un partito che viene votato solo da un italiano su quattro non può pensare di coagulare un’alleanza del 51 per cento né con una riedizione dell’alleanza prodiana con la sinistra radicale, né con una intesa con l’Udc di Casini.

L’unico conforto, per i dirigenti del Pd, può venire, invece, dal riconoscimento di aver intuito, prima degli altri partiti progressisti d’Europa, l’esaurimento dell’esperienza socialista, sia nella applicazione socialdemocratica sia in quella radicale. La crisi delle sue varie versioni continentali, da quella laburista a quella francese e tedesca e, da ultimo, anche a quella più nuova, l’iberica zapaterista, salva l’ipotesi ideologica sulla quale è stato immaginato quel partito. A patto che la nuova suggestione ideale sia applicata a una formazione politica che non rappresenti una somma di ex esponenti del passato comunista e democristiano, peraltro divisi e fiaccati da rivalità e odi personali che durano da decenni. Un ceto politico che il suo elettorato non sopporta più.

La lezione di un test elettorale "anomalo" come questo che si è svolto a un anno dal voto per le politiche può essere facilmente metabolizzata, con un po’ di propaganda, con qualche rimescolamento di potere nei due partiti maggiori che serva a trovare qualche capro espiatorio e possa alimentare la speranza di una rivincita. Ma Berlusconi ha un’occasione preziosa per cambiare il suo vecchio spartito. E Franceschini per trovarne uno.

Giustizia: su intercettazioni e lodo Alfano lo scontro si infiamma

di Mauro Romano

 

Italia Oggi, 9 giugno 2009

 

Si riparte, con un menù che fa letteralmente tremare i polsi. Non si è nemmeno fatto in tempo a metabolizzare i risultati della tornata elettorale che oggi, nell’aula di Montecitorio, maggioranza e opposizione torneranno a confrontarsi sullo spinosissimo tema della giustizia. All’ordine del giorno due argomenti incandescenti.

Da una parte è prevista la votazione della Camera sulla mozione presentata a suo tempo dal segretario del Pd, Dario Franceschini, che mira a spazzare via il lodo Alfano, ovvero lo scudo penale per le più alte cariche dello stato. Dall’altra il disegno di legge sulle intercettazioni, provvedimento che sta molto a cuore al premier, Silvio Berlusconi, che vede nella possibile uscita di brogliacci e simili una minaccia che va assolutamente eliminata.

Sul lodo firmato dal ministro della giustizia, Angelino Alfano, il dibattito dei mesi scorsi ha praticamente già fatto emergere tutte le posizioni in campo: la maggioranza di governo a difendere il provvedimento dell’esecutivo e l’opposizione, in primis il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, a martellare insistentemente per l’abrogazione di quello che dal centro-sinistra viene definito uno scandalo.

E non si può dimenticare che sul lodo Alfano pende anche la spada di Damocle del giudizio della Corte costituzionale, non fosse altro che per il diretto precedente che ha coinvolto in passato un provvedimento simile. Si trattava del lodo Schifani, che sempre di scudo penale parlava, ma che venne sonoramente stoppato dai giudici della Consulta. A seguire oggi tornerà alla ribalta la discussione sul disegno di legge intercettazioni.

Qui l’obiettivo di Berlusconi è quello di condurre in porto il risultato in tempi brevi. Per far questo il premier, che ha chiesto nei giorni scorsi ad Alfano di tenersi pronto alla battaglia, conta sull’appoggio della Lega. Il Carroccio di Umberto Bossi, del resto, come dimostrato ampiamente dal risultato elettorale, ha ottenuto in questo primo scorcio di legislatura alcuni risultati importanti, dall’immigrazione alla legge delega sul federalismo fiscale.

Insomma, l’aver portato in cascina questi provvedimenti bandiera dovrebbe mettere il Carroccio nella condizione di appoggiare fedelmente l’esecutivo nella votazione compatta del ddl sulle intercettazioni. È molto probabile, in ogni caso, che sul provvedimento il governo metterà la fiducia. Del resto il terreno si presenta sdrucciolevole e la maggioranza vuole rendere il cammino sicuro, al riparo da possibili scivoloni.

Da qui l’intenzione di blindare il testo che ieri, peraltro, ha già scatenato le veementi proteste dell’opposizione targata Pd e Idv. "Se il governo ricorresse alla fiducia sul ddl Alfano", ha commentato a tal proposito il capogruppo del Pd in commissione giustizia della camera, Donatella Ferranti, "avremmo la dimostrazione che i nuovi equilibri postelettorali non tranquillizzano il presidente del consiglio che vuole incassare rapidamente questo provvedimento che gli è tanto caro. Sarebbe una dimostrazione di debolezza".

Se questa ipotesi si dovesse avverare, ha concluso il ragionamento la deputata, "il Pd farà opposizione dura su un provvedimento che giudica schizofrenico e che fa male al potere investigativo, compromette la sicurezza dei cittadini e mina la libertà di stampa. Laddove ve ne siano i presupposti, e ve ne sono, chiederemo il voto segreto".

Giustizia: nuovi poteri delle Procure... Napolitano parla al Csm

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 9 giugno 2009

 

La nota ufficiale illustra, burocraticamente, un unico punto all’ordine del giorno: "Esperienze e problematiche collegate all’attuazione dei più recenti provvedimenti legislativi in materia di assetto degli uffici di Procura".

Argomento tecnico, e piuttosto spigoloso. C’è però un particolare che rende l’appuntamento rissato per oggi alle 17 molto più significativo di quanto fa intendere l’argomento in discussione: a presiedere il plenum del Consiglio superiore della magistratura, rinviato di un mese proprio per questo motivo, sarà il capo dello Stato in persona. E c’è da presumere che non si fermerà al problema dei rapporti interni alle Procure, ma affronterà più in generale i temi sempre caldi del "caso giustizia".

C’è grande attesa per l’intervento di Giorgio Napolitano. Anche perché l’annuncio del suo arrivo a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, ha avuto l’effetto di tenere in sospeso fino ad oggi confronti e conflitti che covano dentro e fuori l’organo di autogoverno dei giudici, legati alle tensioni accumulatesi in questi mesi; dalle indicazioni da dare ai procuratori sulla gestione dei loro uffici, per l’appunto, ai ripetuti attacchi del presidente del Consiglio contro i "grumi eversivi" che a suo dire si annidano nella magistratura. Confronti e conflitti che riprenderanno presumibilmente da domani, dopo che il presidente della Repubblica avrà fatto conoscere i propri orientamenti e le proprie valutazioni, alla luce delle nuove scadenze. A cominciare proprio dalla gestione delle Procure.

È uno dei punti chiave della contestata e controversa riforma dell’ordinamento giudiziario, disegnata dal centrodestra nella legislatura 2001 - 2006 e parzialmente riscritta dal centrosinistra nel biennio 2006 - 2008. Il ruolo di indirizzo sul lavoro delle Procure da parte del Csm è stato abolito, e dunque i capi degli uffici giudiziari che promuovono l’azione penale e chiedono l’arresto delle persone hanno aumentato il loro potere e la loro autonomia anche rispetto all’organo di autogoverno.

Il Consiglio sta lavorando da tempo a una circolare che serva a riequilibrare in senso "democratico" le prerogative dei procuratori, provocando le ire dei "laici" di centrodestra. "È un modo per mettere i procuratori sotto tutela", si sono lamentati, ma anche all’interno della magistratura (pure tra chi aderisce alle correnti più "progressiste") c’è chi non vede di buon occhio il tentativo del Csm di riprendersi uno spazio organizzativo e di indirizzo che la legge gli ha tolto.

Un assaggio di quello che potrà accadere nel dibattito che seguirà la riunione di oggi s’è già avuto un mese fa, a proposito di quanto è accaduto a Napoli. Il Consiglio è intervenuto per criticare il procuratore della città, Giandomenico Lepore, del cui comportamento s’erano lamentati i due sostituti Noviello e Sirleo, titolari dell’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti; dicevano che l’intervento del capo per stralciare alcune posizioni all’interno delle indagini era stato una "revoca implicita" del fascicolo, non motivata. Il Csm s’è spaccato su questa decisione (dieci voti a favore, sei contro e quattro astenuti), a dimostrazione che la materia è delicata e foriera di ulteriori discussioni e divisioni. Ma c’è pure altro all’orizzonte del dibattito sul "caso giustizia".

Il conflitto tra politica e magistratura vive di inchieste e sentenze puntualmente definite "a orologeria", che provocano attacchi talvolta virulenti contro i magistrati. Prima il Csm reagiva quasi in tempo reale con le cosiddette "pratiche a tutela" di giudici e pubblici ministeri messi sotto accusa dai politici, mentre da qualche tempo quegli atti sono stati bloccati.

Sul giudice milanese Nicoletta Gandus, Presidente del Tribunale del processo Mills, la prima commissione del Consiglio ha approvato da quasi un anno un documento che stigmatizza le "espressioni denigratorie" usate dal premier-imputato Silvio Berlusconi nei suoi confronti, ma il plenum non l’ha ancora discussa; e così i documenti a difesa dei magistrati napoletani, di quelli del "caso Englaro". Tutte pratiche "congelate" (con l’Associazione magistrati rimasta sola a difendere "l’onorabilità" dei colleghi sotto attacco) in attesa di una modifica del regolamento, auspicata dal Quirinale, già scritta e approvata ma non ancora entrata in vigore.

Sull’istituzione Csm pesa infine l’incognita della riforma continuamente annunciata dal governo e dal ministro della Giustizia. L’ultimo progetto del Guardasigilli Alfano per ridimensionare il peso delle correnti è quello che prevede l’estrazione a sorte di un certo numero di candidati per ogni distretto giudiziario, tra i quali i magistrati elettori potranno scegliere i loro rappresentanti. Un sistema che taglierebbe fuori le liste formate dalle correnti, che però qualcuno ha già bollato come incostituzionale.

Giustizia: l’indulto funziona e in California pensano di "copiarlo"

di Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Vertova

 

www.lavoce.info, 9 giugno 2009

 

Studiato per ridurre almeno temporaneamente il sovraffollamento delle carceri italiane, l’indulto del 2006 è stato tra i provvedimenti più criticati della scorsa legislatura. Perché favoriva i criminali e diminuiva il valore deterrente e la credibilità del sistema penale, sostenevano i contrari. Ma il provvedimento stabiliva che se fossero tornati in carcere per un nuovo reato, i beneficiari avrebbero dovuto scontare anche la pena residua in aggiunta alla nuova. Insomma, ha dato certezza alla pena. E questo ha determinato un calo delle recidive.

L’ultimo provvedimento di indulto approvato dal Parlamento italiano è quello del 2006, votato a maggioranza qualificata dei due terzi il 29 luglio di quell’anno. Con quel provvedimento si è commutata parte della pena per la maggior parte dei reati commessi prima del 2 maggio 2006. L’immediata conseguenza dell’indulto è stata la scarcerazione anticipata di circa 25mila soggetti, nel mese di agosto del 2006. Studiato per ridurre almeno temporaneamente l’inaccettabile sovraffollamento delle carceri italiane, l’indulto è stato tra i provvedimenti più criticati della scorsa legislatura. Le obiezioni fondamentali all’indulto sostenevano la sua natura criminogena e la diminuzione del valore deterrente e della credibilità del sistema penale.

 

Dalle pene effettive a quelle attese

 

Ma è proprio vero che l’indulto del 2006 ha avuto degli effetti così devastanti sul benessere degli Italiani? Le conclusioni di un nostro studio pubblicato sul numero di aprile del Journal of Political Economy suggeriscono una valutazione diversa. A partire dai dati sulle caratteristiche e sul comportamento recidivo di coloro che ne hanno beneficiato, la nostra analisi mette in luce che il provvedimento è stato un positivo esperimento di policy da cui si può imparare per il futuro.

La legge non soltanto è stata ben congegnata, ma ha anche ridotto il numero di reati commessi dai beneficiari rispetto a quanti ve ne sarebbero stati senza l’indulto(1).

Il provvedimento ha liberato individui con pene residue minori di tre anni, individui che, senza questo provvedimento, sarebbero stati liberati a scadenza naturale delle loro sentenze. La media della sentenza residua dei beneficiari nell’agosto 2006 era di circa quindici mesi. Un provvedimento accessorio cruciale, ma passato in secondo piano nel dibattito pubblico, stabiliva che in caso di rientro in carcere per un nuovo reato, i beneficiari dovessero scontare la pena residua in aggiunta alla nuova. L’indulto è stato una sistematica commutazione di pene effettive in pene attese. Ad esempio, indultati con una pena residua di cinque mesi hanno effettivamente scontato cinque mesi in meno della loro pena e alla loro uscita dal carcere si aspettavano una pena aggiuntiva di cinque mesi in caso di rientro in carcere. La liberazione di coloro che, secondo la sentenza originaria, dovevano ancora scontare una pena residua non superiore ai tre anni, ha consentito di osservare il comportamento di circa 25mila individui con pene residue che variavano da uno a trentasei mesi.

Confrontando il comportamento dei beneficiari dell’indulto con pene residue alte con quello dei beneficiari con pene residue basse, osserviamo che i primi hanno avuto una propensione a delinquere minore. Nel nostro studio documentiamo che gli individui con pene residue maggiori hanno avuto tassi di recidiva del 25 per cento minori. In altre parole, un mese in meno trascorso in carcere associato a un mese in più di carcere atteso riduce la recidiva. Senza il provvedimento accessorio che prevedeva di aggiungere la pena residua alla nuova in caso di rientro in carcere, i tassi di recidiva dei beneficiari dell’indulto sarebbero stati molto più alti. Se ne deduce che, a parità di altre condizioni, l’indulto ha ridotto il volume reale dei reati che, seppur diluiti nel tempo, questa frazione della popolazione avrebbe commesso uscendo dal carcere secondo la naturale scadenza della sentenza originaria. Si è quindi trattato di una misura efficace contro il crimine, almeno per quanto riguarda i circa 25mila che ne hanno beneficiari.

 

Alternative al carcere

 

Ma da cosa dipende questo risultato? Come ha fatto l’indulto a ridurre la propensione alla recidiva? Il nostro lavoro suggerisce che l’effetto positivo dipende dalla certezza della pena. Infatti, se gli individui hanno in media risposto positivamente, cioè commettendo meno reati, al provvedimento, vuole dire che l’incentivo della commutazione della pena effettiva in pena attesa è risultato credibile e perciò efficace. Quindi l’indulto non sembra aver minato il valore deterrente del sistema penale per i beneficiari del provvedimento.

Vale la pena discutere i nostri risultati alla luce di quelli ottenuti da Alessandro Barbarino e Giovanni Mastrobuoni. I due autori analizzano tutti gli indulti dal dopoguerra a oggi e con dati di tipo aggregato - i tassi di crimine a livello regionale - mostrano che dopo ogni indulto i tassi di criminalità aumentano(2). Per quello del 2006, mostrano che le rapine in banca aumentano in modo considerevole dopo il provvedimento. Èragionevole pensare che dopo l’indulto del 2006 molti reati siano aumentati nel breve periodo . Ciò che vogliamo evidenziare tuttavia è che con l’indulto del 2006, l’uscita dei soggetti dal carcere prima della scadenza naturale della pena anticipa il periodo in cui si commettono reati che sarebbero stati comunque perpetrati, perché i beneficiari dell’indulto sarebbero usciti a naturale scadenza della loro pena, ma ne riduce il numero grazie agli incentivi dovuti alla sospensione dei benefici in caso di rientro in carcere. In questo senso i nostri risultati sono coerenti con quelli del lavoro di Barbarino e Mastrobuoni.

L’indulto non è una politica che si può applicare ripetutamente. Però, una valutazione più attenta del provvedimento del 2006 suggerisce una serie di interventi per strutturare meccanismi penali alternativi alla carcerazione: ad esempio, l’estensione delle pene alternative e della libertà condizionale, liberando alcuni soggetti prima della scadenza naturale della loro sentenza come è stato fatto in modo generalizzato in occasione dell’indulto. Per evitare i tentativi di risolvere enormi problemi sociali e giuridici attraverso una politica repressiva e molto costosa fatta di costruzione di nuove carceri e privazione delle libertà personali.

 

(1) Alcuni esperti raccomandano di seguire il provvedimento italiano per risolvere problemi di sovraffollamento nelle prigioni della California. Si veda l’articolo di Steven Levitt "The Great California Prison Experiment".

(2) Occorre dire che non tutti i provvedimenti precedenti a quello del 2006 hanno previsto il meccanismo della pena residua da scontare in caso di rientro.

Giustizia: Fini; indulto non serve per diminuire numero detenuti

 

Ansa, 9 giugno 2009

 

In Italia c’è da registrare "un senso di malessere e di allarme nell’opinione pubblica a causa del diffondersi della percezione che la certezza della pena risulti affievolita nella quotidiana realtà giudiziaria". Lo ha detto il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, intervenuto a Montecitorio alla presentazione del libro "Diritti e i castighi".

 

Indulto non serve per diminuire numero detenuti

 

"La costruzione di nuovi penitenziari appare un’iniziativa non più differibile. L’obiettivo deve essere duplice: consentire condizioni di umanità nella detenzione e disporre della concreta possibilità di attivare i percorsi socio-terapeutici necessari per recuperare il detenuto". Lo ha sottolineato il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenendo alla presentazione del libro di Lucia Castellano e Donatella Stasio "Diritti e castighi".

"Il sovraffollamento delle carceri - ha detto ancora il presidente dell’Assemblea di Montecitorio - è un grave problema. La coabitazione forzata di numerose persone in ambienti degradati non può certo favorire un processo di recupero dei detenuti alla vita civile. In passato si è tentata la soluzione dell’indulto" rispetto alla quale "sono state avanzate legittime e fondate perplessità.

Innanzitutto per il principio di ordine generale che l’indulto è un provvedimento di clemenza che va adottato solo in casi eccezionali, non per sfoltire le carceri".

"In secondo luogo perché - ha ricordato Fini - l’effetto fu quello di mettere improvvisamente in circolazione persone condannate con pene definitive, e soprattutto senza misure di reinserimento nella società. Sono state improvvidamente aperte le porte del carcere a soggetti che, non trovando alternative, sono tornati sollecitamente a delinquere".

 

Rieducazione e sicurezza marcino insieme

 

"Quella carceraria - ha detto ancora Fini - è una realtà che le Istituzioni non possono e non debbono ignorare. Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalla sua capacità di recuperare alla vita sociale chi, commettendo un reato, ha violato le regole fondamentali della convivenza civile".

"Un moderno sistema penale, giudiziario e penitenziale raggiunge il suo scopo fondamentale di assicurare la giustizia e tutelare la sicurezza dei cittadini quando vengono contemporaneamente garantite la effettività della pena e l’efficace rieducazione del condannato". C’è poi un’altra piaga della giustizia italiana, l’eccessiva lentezza dei processi, che "spesso anticipa la pena con la custodia cautelare".

"Rieducazione e sicurezza sociale - ha concluso Fini - devono poter marciare insieme, come è regola negli Stati europei e occidentali. Gli obiettivi ideali e morali devono essere sempre verificati sul piano della prassi e dell’efficienza, superando ogni squilibrio che possa essere dettato da erronee impostazioni ispirate dalla paura, da un lato, e da visioni ideologiche, dall’altro".

Infine, un riferimento alla legge Gozzini, che con le trasformazioni determinate dal fenomeno migratorio, può avere problemi di applicazione, quando riferita non più a "detenuti che prima della condanna avevano una casa, una rete di relazioni sociali, un’occupazione", ma ai "tanti immigrati che finiscono in carcere. Questo richiama alla necessità di politiche volte a una moderna integrazione nella nostra società".

Giustizia: Cassazione; direttore può controllare posta di detenuti

 

Il Velino, 9 giugno 2009

 

Non serve un provvedimento del magistrato per controllare la posta dei detenuti e vietare la lettura dei quotidiani. Il ricorso alle speciali misure di vigilanza può essere chiesto anche soltanto dal direttore del carcere. Lo afferma la Cassazione che con una sentenza della prima sezione penale fa marcia indietro rispetto ad una precedente decisione della seconda sezione della stessa Corte.

In particolare i giudici della prima, con la sentenza 22074, hanno respinto il ricorso di un detenuto calabrese che aveva protestato contro il divieto di leggere i quotidiani e l’ordine di procedere al controllo della sua posta personale imposti dal direttore del carcere di Castrovillari. Il reclamo avanzato dal detenuto era già stato respinto una prima volta dal tribunale ma la difesa ha presentato ricorso richiamando una sentenza della Cassazione del 2006 (la sentenza 10494 della seconda sezione penale) secondo la quale "durante le indagini preliminari soltanto il Pm ha competenza a richiedere le restrizioni".

La Corte dunque avrebbe dovuto annullare la decisione del tribunale di Castrovillari perché la richiesta era arrivata non dal pubblico ministero o dal giudice competente sul provvedimento in corso nei confronti del detenuto, ma soltanto dal direttore del carcere. Con la nuova sentenza invece, la Cassazione ha detto chiaramente di "non condividere la decisione della seconda sezione penale" della Corte. In sostanza i magistrati ricordano che il nuovo ordinamento penitenziario prevede che "il visto sulla corrispondenza" e il divieto di lettura dei quotidiani possono essere proposti "sia dal Pm che dal direttore dell’Istituto".

La Cassazione indica anche la ragione di questa "doppia legittimazione": "mentre in relazione ai colloqui del detenuto - scrive la Corte - è solo il Pm che conoscendo lo stato dell’indagine può stabilire chi possa incontrare o parlare con il detenuto, per quanto riguarda il visto sulla corrispondenza o l’acquisto della stampa, vi è una competenza anche del direttore dell’Istituto che può conoscere esigenze di sicurezza interna". Insomma, se il detenuto scrive, il direttore può leggere.

Giustizia: le carceri possono essere "ecologicamente sostenibili"?

di Mario Salomone (direttore del mensile "Eco")

 

www.innocentievasioni.net, 9 giugno 2009

 

Delle carceri (ecologicamente) sostenibili? Sono un ossimoro, una contraddizione di termini, un’utopia generosa ma irrealizzabile, una provocazione, stante la complessità e la particolarità delle strutture carcerarie, il loro perenne sovraffollamento, l’organizzazione e la cultura che le contraddistingue, la cronica mancanza di risorse che le accomuna, ahimè, a tanti altri settori? Oppure può essere un percorso da intraprendere (e che qualcuno ha addirittura cominciato a intraprendere), "perfino" in Italia?

Alcuni esempi ci dicono che ci posso essere carceri "sostenibili" (e spiegherò in seguito cosa si intende per "sostenibile") e/o contribuire alla sostenibilità.

Partiamo da questo secondo punto, con un caso recentissimo. Il 27 maggio 2009 a Forlì nella sede della Provincia di Forlì-Cesena, a Forlì, è stato sottoscritto l’accordo per il progetto "Raee in carcere" per il reinserimento lavorativo dei detenuti della casa circondariale di Forlì.

L’iniziativa, lanciata dal ministero della Giustizia, dal ministero del Lavoro e dalla Provincia di Forlì-Cesena, vede la collaborazione del consorzio Ecolight, insieme al Centro Servizi Raee, alla cooperativa sociale Gulliver, al Gruppo Hera Spa e Techne Scpa, Cclg spa, Confederazione Nazionale Artigianato Forlì Cesena, oltre all’amministrazione penitenziaria della Casa circondariale di Forlì.

Il progetto prevede la realizzazione di un laboratorio dove, attraverso lo smontaggio dei rifiuti elettrici ed elettronici, si arriva alla separazione dei diversi materiali per il recupero di materie prime seconde. Alla cooperativa Gulliver saranno affidate le commesse e la gestione del laboratorio; al consorzio Ecolight invece, il conferimento e il ritiro dei raee, nonché il pagamento per la lavorazione dei rifiuti. Secondo l’accordo di cooperazione che è stato firmato, nel laboratorio è previsto l’impiego di due o tre persone, con impegno di 25 ore settimanali ciascuna, per smaltire circa 300 tonnellate all’anno, in grado di permettere un flusso di lavoro costante e, nel tempo, l’impiego di un numero crescente di lavoratori. L’obiettivo dichiarato è formare persone con "competenze professionali e trasversali adeguate per raggiungere un’occupazione stabile nelle imprese profit del territorio", spiega Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecolight, consorzio per il trattamento dei rifiuti elettrici e elettronici che raccoglie oltre mille aziende, è il terzo a livello nazionale per quantità di immesso e il primo per numero di consorziati.

Giustizia: ogni 3 giorni 1 donna uccisa, dal marito o ex partner

 

Redattore Sociale - Dire, 9 giugno 2009

 

L’Associazione Arcidonna gestisce da anni a Cagliari lo sportello "Luna Nera", che assiste in particolare le vittime di violenza domestica. Circa 40 i casi seguiti legalmente. In Sardegna il fenomeno riguarda l’11% delle donne.

L’altra faccia della violenza, quella dentro le mura di casa. Si chiama "Luna Nera" lo sportello cagliaritano dell’Arcidonna che assiste, anche legalmente, le donne vittime dei maltrattamenti e delle violenze. È nato in via Sonnino, nel centro storico del capoluogo sardo, grazie all’impegno di una giovane avvocatessa, Debora Amarugi, che oggi presiede anche l’omonima associazione, molto attiva nel contrasto degli abusi, soprattutto quelli domestici. "All’inizio eravamo un gruppo di amiche - racconta il legale - avvocati, psicologi, assistenti sociali. Ma nel corso degli anni abbiamo assistito in tribunale decine di vittime di maltrattamento". In pochi anni, sono una quarantina le donne che hanno ricevuto supporto legale in tribunale, ma lo sportello ha avuto anche la funzione di far prendere coraggio alle vittime. A far paura sono soprattutto le cifre che mostrano un fenomeno sommerso, ma con proporzioni incredibili: ogni tre giorni, indicano le stime ufficiali dell’Arcidonna, in Italia una donna è uccisa dal marito, dal fidanzato o dall’ex partner.

Nell’Isola le cose vanno un po’ meglio, pochi sono gli omicidi, ma negli ultimi mesi gli episodi di violenza sembrano essere pesantemente aumentati. E una recente indagine dell’Istat conferma l’inquietante fenomeno. Tra violenza fisica, sessuale e psicologica, si stima che il 27,1% delle donne sarde è stata vittima nel corso della vita. Il 20,3% delle donne sarde ha subìto violenze sessuali, il 15,3% violenze fisiche. In Sardegna le violenze domestiche, ovvero quelle ad opera del partner attuale o dell’ex partner, coinvolgono l’11,% delle donne, mentre quelle "fuori dalle mura domestiche" ad opera di un altro uomo (sconosciuto, parente, conoscente, amico, collega etc.) riguardano il 20,9% delle donne.

Giustizia: Abi; nel 2008 le rapine in banca sono diminuite del 27%

 

Ansa, 9 giugno 2009

 

Diminuiscono le rapine in banca e il bottino si fa sempre più magro. Nel 2008, infatti, sono stati compiuti 2.160 colpi allo sportello con un calo del 27,3% rispetto ai 2.972 registrati nel 2007. In netta diminuzione anche l’indice di rischio, cioè il numero di rapine ogni 100 sportelli, che è passato da 9,1 a 6,4, il valore più basso registrato dal 1998 ad oggi.

Sono questi i principali risultati dell’indagine condotta dall’Ossif, il Centro di ricerca Abi in materia di sicurezza, presentati a Roma al convegno "Banche e sicurezza" al quale hanno partecipato il direttore generale dell’Abi, Giuseppe Zadra, e il Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro. "La sicurezza di cittadini e dipendenti - ha aggiunto Zadra - è un valore fondamentale per il nostro settore che negli anni ha moltiplicato sforzi e investimenti per rendere sempre più protetti e sicuri gli sportelli bancari".

Il convegno banche e sicurezza è stato anche l’occasione per Zedra e il Prefetto di Roma di firmare il nuovo protocollo sulla sicurezza che rinnova quello già siglato lo scorso anno che contribuisce a rendere sempre più sorvegliati e sicuri gli oltre 30 mila sportelli dove ogni giorno si recano cittadini e dipendenti bancari. Con questo stesso obiettivo, ogni anno le banche investono oltre 700 mln, adottano misure di protezione sempre più moderne ed efficaci, formano i dipendenti bancari e forniscono ai clienti e al personale anche attraverso un’apposita guida antirapina tutte le informazioni necessarie per sapere cosa fare prima, durante e dopo un colpo in banca. (vedi l’indagine - in pdf)

Giustizia: il paesaggio "violentato", da criminalità e ignoranza

di Serena Di Natali

 

Terra, 9 giugno 2009

 

Scheletri abbandonati, edifici incompatibili con l’ambiente, colate di cemento. Non solo "abusi totali", ma anche lavori mai finiti sebbene formalmente in piena regola.

In Italia abusi e illegalità, purtroppo, non risparmiano niente e nessuno. Nel mirino degli speculatori ci sono sempre e soprattutto le coste. D’altra parte qui il mercato immobiliare (anche quello illegale) va a gonfie vele. Ma naturalmente non tutto l’abusivismo è uguale. Tra quelli che vengono ormai comunemente definiti "ecomostri", proprio per la loro bruttezza e totale incompatibilità con l’ambiente, ci sono le grandi colate di cemento in aree di alto pregio naturalistico, ma anche edifici mai finiti, abbandonati in piena città così come sul mare e sulle montagne. Costruzioni spesso in piena regola dal punto di vista formale e regolamentare, ma che fanno a pugni con la bellezza e il buon senso.

Scempi molte volte provocati dall’inerzia delle amministrazioni e dalle lentezze della burocrazia e spesso edifici fatiscenti che possono rappresentare un pericolo. Anche se dopo le sollecitazioni degli ambientalisti in alcune regioni qualche abbattimento c’è stato si tratta purtroppo di episodi ancora sporadici: certo significativi ma non ancora sufficienti a trasmettere quel messaggio di tolleranza zero contro un fenomeno che avrebbe bisogno di molta più determinazione per essere combattuto. Così, lungo tutta la penisola sono ancora moltissimi gli orrori da attaccare con le ruspe e di tutte le specie.

Dai grandi alberghi mai finiti come quello di Alimuri, vero schiaffo all’immagine e al paesaggio naturalistico della penisola sorrentina, che dal 1971 tiene in ostaggio una delle conche più belle del golfo di Napoli, agli abusi privati come le ville sul bagnasciuga, per esempio la "palafitta" a Falerna Scalo e le case degli ex assessori del Comune di Realmonte in riva al mare sulla spiaggia di Capo Rossello. Fino a vere e proprie città illegali come le 2.500 seconde case costruite negli anni Settanta a Torre Mileto, 500 delle quali totalmente insanabili perché interamente sul demanio marittimo.

Al Nord ma molto anche al Sud e nelle isole, il Belpaese pullula di storie di piccoli e grandi abusi, come quelli che pesano sull’isola di Ischia, la più abusiva delle isole italiane o quelli che affliggono la costiera amalfitana e quella sorrentina. Qui, due anni fa crollò la terrazza abusiva che provocò la morte di una persona e il ferimento di altre otto; qui l’abusivismo, secondo i dati delle forze dell’ordine, viaggia a una media di Un abuso al giorno in costiera amalfitana e due nella penisola sorrentina.

Esistono, però, anche storie a lieto fine, come quella dell’isola dei Ciurli a Fondi (Lt), il più grande ecomostro del Lazio che per anni ha campeggiato sulle pagine dei dossier di Legambiente e che è stato abbattuto, quella dell’ecomostro di Tarquinia (Vt), una palazzina di due piani nell’area archeologica di Gravisca, quelli di Fuenti e di Punta Perotti che per decine di anni hanno sfregiato tratti di costa bellissimi e che ora non ci sono più. Segnali importanti che stanno a indicare che vale la pena continuare a ribellarsi e a combattere contro lo sfregio e il saccheggio del territorio.

Giustizia: Ugl protesta contro "abbandono" del Giudice di Pace

 

Adnkronos, 9 giugno 2009

 

Una manifestazione per protestare contro l’abbandono in cui versa il Giudice di Pace a Roma. La manifestazione è stata organizzata dalla Ugl Ministeri e si terrà mercoledì 10 dalle 11 alle 13 in via Teulada a Roma. Mentre, scrive la nota dell’Ugl, fioccano iniziative inopportune come quella di Cremona dove i detenuti scannerizzano i fascicoli processuali. "I dati parlano chiaro - spiega il segretario nazionale Ugl Ministeri, Paola Saraceni - del 2008 ci sono ancora 30 mila sentenze da pubblicare e altre 70 mila sono in attesa di iscrizione a ruolo. A fronte di 130 mila nuove cause iscritte.

I problemi sorgono anche per il deposito che, oggi, può essere effettuato solo per 200 iscrizioni a ruolo giornaliere rispetto alle 700 previste. Per quanto riguarda il personale - continua la Saraceni - ogni sezione ha 25 giudici e 4 unità tra cancellieri e impiegati. Se al Giudice di Pace di Roma per multe e ricorsi bisogna fare file chilometriche la cosa non va meglio in altri Uffici del Giudice di Pace dove il sistema rischia il collasso".

"Bisogna agire sull’organizzazione degli Uffici e cioè: uomini, sedi e strumenti - aggiunge la sindacalista - e non su iniziative demagogiche e inopportune come quella del Tribunale di Cremona dove è stato affidato ai detenuti della locale casa circondariale, la scannerizzazione dei fascicoli. Finché esiste questa cultura dell’improvvisazione o delle riforme a costo zero - conclude - non ci potranno essere miglioramenti e il cittadino è condannato a pagarne le spese, oltre alle multe, che ci commina la Corte di Giustizia Europea".

Milano: gang scatenate; il vicesindaco chiede aiuto dell’esercito

di Claudia Guasco

 

Il Messaggero, 9 giugno 2009

 

Due omicidi in meno di ventiquattro ore. E le vittime, così come chi ha sferrato i colpi mortali, sono stranieri. Milano sta diventando "il ring privilegiato di accoltellamenti tra gang, di regolamento di conti a mezzo di coltelli, aggressioni e violenze", dice il vicesindaco e assessore alla sicurezza di palazzo Marino Riccardo De Corato.

All’alba di domenica nella feroce guerra tra bande latino americane è rimasto sull’asfalto David Stenio Betancourt Noboa detto "O rey", ventisei armi, irregolare, originario dell’Ecuador, appena uscito dal carcere per rissa. A colpirlo con un coltello alla schiena, al fianco e alla pancia un ecuadoregno della stessa età, fermato ieri mattina e accusato di concorso in omicidio.

Ma la battaglia a sassate e cocci di bottiglia è stato solo uno degli episodi che sabato notte hanno insanguinato la città: due gruppi di immigrati si sono affrontati e picchiati su un autobus, terrorizzando i passeggeri, un eritreo ha preso a sprangate un suo connazionale in un cascinale riducendolo in fin di vita. Mentre domenica sera il tunisino di 47 anni Ezzeddine Nefzaoui è morto accoltellato sul pianerottolo di casa e a San Vittore è finito il suo convivente Manuel Silva Calderon, transessuale quarantenne, che ha confessato: "È un omicidio passionale, d’impeto", ha spiegato il pm Grazia Pradella.

Due giorni folli di violenza che preoccupano il vicesindaco: "Se guardiamo i numeri di ciò che è successo, c’è da mettersi le mani nei capelli". Due morti, nove feriti e 70 stranieri coinvolti in rapine, aggressioni e risse tra loro. "In 32 casi i responsabili sono africani, in 15. sudamericani, in 12 rom romeni. O governiamo questo fenomeno, oppure rischiamo che soprattutto nelle periferie si scatenino comportamenti xenofobi".

Nel capoluogo lombardo i reati sono tutti in calo (9%), tranne le violenze sulle donne e i furti, "tipici atti predatori commessi dagli stranieri". Le banlieue, quartieri come Musocco, Baggio e Quarto Oggiaro, stanno diventando polveriere, qui la convivenza tra italiani e immigrati è difficile da gestire: dall’inizio dell’anno, sostiene De Corato, ci sono state 29 risse fra extracomunitari, "Milano continua a essere ostaggio di questa violenza, in città si crede ancora alle favole".

E accusa i buonisti, quelli che abitano "in via Montenapoleone e San Babila e che parlano di integrazione, senza avere la più pallida idea di quello che accade nelle periferie: qui ogni giorno è la guerra, non c’è alcun rispetto delle regole". Attacca i centri sociali milanesi e la sinistra radicale, accusandoli di aver sfilato nel corteo antirazzista dello scorso 23 maggio accanto agli striscioni dei "Latin king".

Una banda spietata, quella dei sudamericani, della quale fanno parte anche le fazioni dei "New York Latin" e dei "Chicago Latin" che alle prime luci di domenica si sono affrontate a pochi metri dal Thini un ristorante discoteca frequentato dai membri del gruppo con modalità molto simili alla rissa avvenuta la scorsa settimana a Sesto San Giovanni e sulla quale si sta indagando.

L’obiettivo era David Betancourt, "the King", da punire per gli incarichi importanti e il ruolo di potere recentemente assunto. "Su questa gang sarebbe opportuno che cominciasse a lavorare anche la Dia, la direzione investigativa antimafia", dice De Corato. Che chiede più uomini per Milano: "Il contrasto alla criminalità si fa con le divise, le forze dell’ordine non bastano. Abbiamo mandato 434 militari nelle periferie, presto saranno operative le ronde notturne dei Blue Berets in metropolitana. Speriamo che dei 1000 militari promessi dal ministero dèll’Interno, una parte arrivi anche da noi".

Milano: Don Rigoldi; la "tolleranza zero"... alimenta la violenza

 

Il Messaggero, 9 giugno 2009

 

Quando sente dire che l’integrazione è impossibile, don Gino Rigoldi si arrabbia. "Ho settant’anni e da quaranta vivo nelle periferie. Il vicesindaco De Corata frequentai salotti di Montenapoleone, io conosco bene i quartieri ai margini della città. E posso dire: bisogna guardare in faccia i ragazzi, se l’approccio continua a essere tolleranza zero, la risposta saranno sempre e solo schiaffoni". Cappellano del carcere minorile Beccaria, ha fondato la "Comunità nuova", casa per i giovani che dopo la detenzione non hanno una famiglia o un posto in cui andare, e li aiuta, a tornare a vivere.

 

Don Rigoldi, qual è la strada da seguire?

"Innanzitutto un dato: al Beccaria ci sono più italiani che stranieri, anche se a un extracomunitario basta rubare una mozzarella al supermercato per finire in galera. Ma nei giovani di oggi, stranieri o no, troviamo comunque un tratto comune: hanno un’immagine di sé molto bassa, sono convinti che non potranno mai fare nulla di buono nella vita, sono prigionieri della modestia delle prospettive dei quartieri in cui vivono. E siamo noi a educarli alla violenza, se andiamo avanti così la situazione peggiorerà".

 

Da dove bisogna ricominciare per cambiare?

"Capendo che la sicurezza è partecipazione, progetto comune, condivisione. Stiamo addestrando i nostri figli alla difesa, con la truffaldina convinzione del bisogno di sicurezza, le ronde, i militari, il guardarsi alle spalle che ci sono i nemici. Prima erano i drogati, poi gli albanesi, poi i romeni".

 

La convivenza oggi è un progetto possibile?

"Non lo sarà mai se continuiamo a comportarci come stiamo facendo adesso, fornendo ai ragazzi solo modelli di comportamento violenti. Il mondo giovanile è disponibilissimo all’integrazione, ma a chi sa solo spuntare in faccia non può certo rispondere con un sorriso".

Pisa: il carcere soffre per il sovraffollamento e la scarsità di fondi

 

Il Tirreno, 9 giugno 2009

 

Il sovraffollamento delle carceri, e quello del Don Bosco a Pisa, è tornato di attualità. Mai passato, si dirà e soprattutto dicono coloro che in carcere ci stanno o ci lavorano. Ma ora ne stanno parlando di nuovo giornali e tv anche perché politici o commentatori ripropongono l’insufficienza delle strutture rispetto ai detenuti prodotti dal nostro sistema giudiziario.

Ma c’è una differenza, rispetto a qualche anno fa, quando poi fu deciso l’indulto. E cioè che la crisi economica con i tagli alla spesa decisi da Tremonti per i vari ministeri (e anche per quello di Giustizia) aggrava ancora di più le condizioni di vita, perché il sovraffollamento richiederebbe maggior personale (e invece viene ridotto) e maggiori possibilità di spesa per le direzioni dei carceri.

Il fatto è di questi giorni e dopo alcune proteste, è stato denunciato dall’on. Ermete Realacci e dall’assessore al sociale di Pisa Maria Paola Ciccone al termine di una visita al carcere. Al Don Bosco nella sezione penale manca l’acqua. C’è un guasto importante che richiede 15mila euro per la riparazione, ma non ci sono soldi e la dispersione di acqua aumenta la spesa da affrontare. E poi con il sovraffollamento (un terzo di detenuti in più) e con il caldo, la richiesta di acqua ovviamente aumenta.

Napoli: ex detenuti chiedono un incontro con il Cardinale Sepe

 

Ansa, 9 giugno 2009

 

Ex detenuti del gruppo Don (Detenuti Organizzati di Napoli) si sono riuniti davanti al Duomo per chiedere un incontro con il card. Sepe. Dieci di loro si sono incatenati davanti alla cattedrale. Gli ex detenuti chiedono l’allargamento del programma di formazione "Esco dentro" che coinvolge circa 500 ex detenuti. Davanti al duomo sono presenti anche le forze dell’ordine ma per il momento la situazione sembra tranquilla.

Lucca: celle senza standard di vivibilità e sala-colloqui inagibile

 

Ansa, 9 giugno 2009

 

Alcune zecche sono state trovate ieri nella Caserma agenti della Polizia Penitenziaria del carcere di Lucca. A rivelarlo è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) che, "dopo le zecche, i piccioni, i pipistrelli, i ratti", denuncia anche la "grave situazione di emergenza" in cui si trova il carcere. "Le celle - spiega il Sappe - sono prive degli standard di vivibilità previste dalla legge e così aumentano i rischi sanitari: spesso capitano detenuti con malattie e sospetta Tbc".

La struttura, secondo il sindacato, sarebbe poco sicura, pericolante in alcuni punti e sovraffollata. Secondo il Sappe, nel carcere sono "presenti 170 detenuti, più della metà in esubero" e "ormai da giorni non vi sono più posti per ricevere nuovi venuti". La sala colloqui e alcuni uffici sono stati dichiarati inagibili e "una parte della caserma è puntellata, da anni per pericolo di crollo". L’edificio, spiega il Sappe, non è in grado di garantire la sicurezza degli agenti e degli stessi detenuti.

Immigrazione: la visita di Gheddafi... ed i "successi" di Maroni

di Fulvio Vassallo (Università di Palermo)

 

Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2009

 

La visita di Gheddafi ed i "successi storici" di Maroni - Violenze sui migranti e violazioni dello stato di diritto.

Il Corriere della Sera di venerdì 9 giugno espone il programma della prossima visita di Gheddafi in Italia, mentre il ministro Maroni annuncia di avere conseguito, grazie all’impegno della Libia, "successi storici nella lotta all’immigrazione clandestina".

In cambio della "collaborazione" libica, che si sta traducendo nell’arresto e nel blocco di centinaia di migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, compresi donne e minori in attesa di imbarcarsi per l’Italia, Gheddafi ha ottenuto una legittimazione internazionale straordinaria. Il leader libico sta imponendo alle autorità italiane una serie di iniziative pubbliche che dovrebbero sancire anche a Roma il suo ruolo di "difensore dei diritti umani", il giorno prima che l’Università di Sassari gli conferisca la laurea ad honorem in giurisprudenza. Una laurea con la quale si sono espressi invano centinaia di docenti universitari. Una laurea che costituisce uno sfregio per la dignità di tutti i migranti vittime della violenza e della corruzione della polizia libica.

Si profila dunque un incontro con gli studenti, alla Sapienza, nell’aula magna del rettorato, e poi una iniziativa con le donne italiane, nel corso della quale Gheddafi siederà accanto ad una esponente della Confindustria ed al sindaco di Milano Letizia Moratti. E poi incontri con gli ebrei e con una rappresentanza degli italiani espulsi nel 1970 dalla Libia, e infine una rimpatriata con gli amici di sempre, da Pisanu, ex ministro dell’interno, autore delle espulsioni collettive da Lampedusa nel 2004, denunciate anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, a D’Alema, ex ministro degli esteri e vero regista dei protocolli firmati a Tripoli nel dicembre del 2007, accordi che sono stati espressamente richiamati, nell’agosto del 2008, all’interno del Trattato di amicizia italo-libico.

Un perfetto esempio di continuità bipartisan. Una visita, il "viaggio in Italia" di Gheddafi, che sarà utilizzata dal governo italiano e dalle autorità libiche per dimostrare la legittimità dei respingimenti collettivi e della esternalizzazione delle frontiere, una occasione per rassicurare gli italiani, "assetati" di sicurezza, ed ormai assuefatti al dilagante razzismo istituzionale. Il messaggio sarà chiaro a tutti, i controlli alle frontiere adesso funzionano grazie alla collaborazione delle autorità di polizia nei paesi di transito e per i clandestini non c’è scampo. E non mancherà certo chi cercherà di usare i risultati elettorali delle elezioni europee per sancire una legittimazione formale per scelte, come i respingimenti collettivi verso la Libia, o la esternalizzazione delle procedure di asilo, che non trovano alcuna giustificazione nei trattati internazionali e nella nostra Costituzione.

In realtà queste scelte vengono da lontano, e sono sostenute dall’attuale governo italiano con tanta determinazione perché si collocano nell’alveo di una continuità sostanziale nella politica estera nei confronti della Libia. Una politica inaugurata da Prodi nel 2004, quando era ancora presidente della Commissione Europea, e proseguita poi fino ad oggi, malgrado il provvisorio cambio di governo nel 2006. L’Italia è stata la principale responsabile delle iniziative che hanno portato alla eliminazione dell’embargo deciso nei confronti della Libia per il sostegno dato negli anni 80 al terrorismo internazionale e mantenuto poi per il mancato rispetto dei diritti umani. Un impegno, quello dei governi italiani a favore della Libia, che è stato giustificato con gli importanti accordi economici su gas e petrolio conclusi con quel paese, malgrado le agenzie umanitarie e persino le relazioni dei servizi segreti confermassero, nel 2005, e poi negli anni successivi, le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni dei migranti in transito e degli oppositori politici.

Una politica bipartisan nei confronti della Libia che prosegue ancora oggi, come documentato dal voto del Parlamento italiano, a febbraio, sul Trattato italo libico sottoscritto lo scorso anno da Berlusconi e da Gheddafi. Quel voto, che ha visto il coinvolgimento di buona parte dell’attuale "opposizione", ha legittimato, ben al di là del contenuto formale degli accordi, le pratiche illegali di respingimento collettivo verso la Libia che persino le Nazioni Unite hanno severamente condannato. Adesso si sta cercando di spingere la Libia verso una adesione formale della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, senza curarsi di fornire garanzie effettive sul rispetto dei diritti umani in quel paese.

E la copertura dell’alleato libico continua e si esalta ancora in questi giorni, nei quali l’Italia si è fatta portavoce delle richieste di Gheddafi nei confronti dell’Unione Europea. E non sono mancati gli spot elettorali che hanno utilizzato la collaborazione con la Libia per dimostrare i successi della politica italiana di contrasto dell’immigrazione clandestina. Soltanto una ferrea censura bipartisan sulla sorte dei migranti bloccati o respinti in Libia, sta consentendo al governo italiano di incassare i risultati delle sue ennesime menzogne elettorali, sulla pelle dei migranti rinchiusi nelle carceri libiche, ma anche sulle spoglie di quello che rimane dello stato di diritto in Italia, e quindi a danno dei cittadini italiani, almeno di quelli che trovano ancora importante vivere in un paese democratico.

Si può essere certi che non appena saranno passate le elezioni, gli arrivi sulle coste italiane (e le partenze dalla Libia) riprenderanno come prima, magari le rotte saranno ancora più lunghe, le imbarcazioni sempre più piccole, e di tanti migranti non si saprà più nulla perché finiranno il loro viaggio inghiottiti dalle onde. Non sappiamo proprio fino a quando Lampedusa resterà quella "oasi "di tranquillità garantita dalla presenza di migliaia di militari in armi, mentre ai mezzi della marina è stato imposto di ridurre la loro attività nel Canale di Sicilia e di stringersi attorno all’isola per impedire la prosecuzione degli sbarchi.

Gli sbarchi riprenderanno anche perché l’Unione Europea ha già risposto negativamente alla richiesta di Gheddafi, sponsorizzata dal governo italiano, per ottenere altri fondi in cambio della sua ulteriore "collaborazione" nell’arresto dei migranti irregolari e nel blocco delle partenze dei barconi.

Le retate dei migranti in territorio libico faranno passare in secondo piano i respingimenti collettivi a mare, privi di una qualsiasi base legale, sui quali sta indagando la Procura di Roma. Sembra ben difficile, a questo punto, che si possano ripetere altre operazioni di respingimento collettivo verso i porti libici da parte delle unità della marina militare italiana. I libici non gradiscono troppo che forze militari di altri paesi entrino nel loro spazio territoriale. Attendiamo con ansia quanto promesso da Maroni, di conoscere l’elenco delle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina (meglio dire retate) condotte in questi giorni dalla polizia libica, veri e propri rastrellamenti ai danni di potenziali richiedenti asilo, donne e minori, con conseguenze sulle persone e sulla loro dignità che è facile immaginare. Anche l’ultimo rapporto della visita di Amnesty in Libia, di maggio scorso, non contiene elementi rassicuranti. Che fine fanno i migranti irregolari fermati dalla polizia libica?

Di certo, queste attività di contrasto dell’immigrazione clandestina in territorio libico non continueranno a lungo, quando i libici si accorgeranno che i soldi per i rimpatri sono finiti. L’Unione Europea non ha nessuna intenzione di sostenere politiche di rimpatrio sempre più onerose, dalla Libia verso i paesi di origine, vero nodo di fronte al quale si arrestano tutti gli inasprimenti dei controlli di frontiera. Forse quelle risorse, che non arriveranno da Bruxelles, saranno richieste ai contribuenti italiani, o alle imprese italiane che lavorano in Libia, come previsto dalla legge di ratifica del Trattato di amicizia italo-libico firmato a Tripoli lo scorso anno.

Gli apparenti "successi" conseguiti con la Libia, con il blocco degli arrivi a Lampedusa (dal 23 maggio, dopo un incremento impressionante nei primi quattro mesi dell’anno) non possono fare dimenticare i fallimenti ripetuti delle politiche italiane in materia di asilo ed immigrazione. Gli accordi con la Tunisia e con altri paesi di transito sono praticamente falliti, o funzionano a rilento, come nel caso dell’Egitto.

La ridotta "capacità espulsiva" dell’Italia, soprattutto dopo il prolungamento a sei mesi del trattenimento, farà esplodere i centri di detenzione amministrativa, i famigerati CIE, che fanno tanto schifo anche a Berlusconi, che li definisce simili a lager. Quasi tutte le regioni italiane si stanno opponendo all’apertura di nuovi CIE. La situazione nelle carceri è intollerabile e presto altre migliaia di migranti irregolari potranno esservi rinchiusi per il mancato rispetto dell’ordine di allontanamento.

Non sappiamo neppure se tutto quello che è previsto nel disegno di legge sulla sicurezza, un ulteriore inasprimento anche rispetto alla Bossi-Fini, verrà approvato, una volta che gli italiani avranno votato per gli "imprenditori della paura". Subito dopo le scadenze elettorali si profilano altri scontri, veri e propri regolamenti di conti, all’interno della maggioranza, proprio in materia di immigrazione ed asilo. Per questo sarebbe importante che un vasto fronte sociale costringa i rappresentanti della opposizione ad una politica meno collaborativa rispetto alle scelte internazionali del governo in carica.

La "sicurezza" degli italiani continuerà a peggiorare, con il venir meno delle residue possibilità di coesione sociale, come dimostrano anche i più recenti fatti di cronaca, e soprattutto come dimostreranno a fine anno le statistiche sulla criminalità straniera, e sull’aumento esponenziale della clandestinità. I dati attualmente disponibili, malgrado il blocco del Canale di Sicilia, sono sempre più preoccupanti. Evidentemente la chiusura della rotta di Lampedusa, se farà crollare il numero dei richiedenti asilo che riusciranno a raggiungere le coste italiane, su cinque milioni di immigrati presenti in Italia appena qualche decina di migliaia di persone che notoriamente non delinquono e che costituivano fino allo scorso anno l’ottanta per cento degli sbarchi, non intaccherà certo il numero di coloro che diventeranno clandestini, centinaia di migliaia di persone, o che faranno comunque ingresso irregolare dalle frontiere terrestri, l’ottanta per cento degli ingressi irregolari di cui nessuno parla.

La visita di Gheddafi in Italia, al di là delle celebrazioni ufficiali bipartisan, costituirà comunque per molti italiani una occasione per riflettere sul rispetto dei diritti umani che il governo italiano dovrebbe garantire, e pretendere dai propri partner. Di fronte alle tragedie umane che si consumano in Libia non si può continuare a fare finta di niente, n nome delle commesse commerciali e del flusso di finanziamenti libici che sta invadendo l’Italia, probabilmente anche nel campo della informazione giornalistica, a vedere la linea sulla visita di Gheddafi seguita da alcune testate storiche. Si trascura la verità dei fatti e la denuncia delle tante storie individuali, come quelle documentate dal film "Come un uomo sulla terra". Un film che sarà proiettato in decine di città italiane proprio nei giorni della visita di Gheddafi in Italia, nell’ambito della campagna nazionale "Io non respingo, perché nessuno possa dire in futuro: io non sapevo.

Chi sono questi fastidiosi "professionisti dell’antirazzismo", come dice Maroni con aria minacciosa, che predicano ancora il rispetto del principio di legalità, che osano parlare di diritto di asilo e di principi di solidarietà, che si indignano quando chi ha coperto le più gravi violazioni dei diritti umani, perpetrate da una polizia corrotta e violenta, spesso collusa proprio con i trafficanti di uomini, viene accolto in Italia con tutti gli onori, al punto da conferirgli una laurea honoris causa in giurisprudenza?

Dal Sudan al Niger, fino alla Somalia e all’Eritrea, l’elenco delle collusioni internazionali del regime libico con paesi che non garantiscono i diritti umani è assai lungo. E che nessuno ricordi a Gheddafi la questione del Darfur o l’esistenza della Corte Penale internazionale, sulla quale il leader libico si è espresso in termini che non danno adito ad equivoci.

Ma di cosa dovremmo stupirci ancora? L’Italia, non rimane il paese delle stragi di stato rimaste senza colpevoli, non è il paese delle impunità per i massacratori di Genova, durante il G8 del 2001, non è forse il paese che non è riuscito ad inserire nella sua legislazione il reato di tortura, non è forse il paese che espelle in Tunisia persone che vengono sistematicamente torturate, malgrado i divieti e le sospensive emessi dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo? Non è forse l’Italia il paese che respinge verso un altro inferno, quello di Patrasso, centinaia di giovanissimi migranti afghani e irakeni che le autorità greche consegneranno alla Turchia, che poi a sua volta li rimanderà nell’inferno dal quale sono partiti?

Insomma che cosa ci si può aspettare da questa Italia che ha deciso di diventare il paese leader nelle politiche comunitarie sulla sicurezza? Quale consorteria di egoismi è diventata l’Unione europea, con il suo braccio armato Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne, una "europa" davvero minuscola, dove le destre xenofobe e razziste avanzano ad ogni scadenza elettorale, senza trovare più argini politici e culturali, mentre appare evidente che la discriminazione e la esclusione costituiscono l’unico minimo comune denominatore tra i governanti europei di diverso segno politico.

Anche nei giorni della visita di Gheddafi in Italia si dovrebbe ricordare che la difesa dei diritti fondamentali dei migranti, la lotta contro tutti i generi di discriminazione, ed il rispetto dei trattati internazionali, del diritto comunitario e della Costituzione italiana, che riconoscono il diritto di asilo e la protezione internazionale dei rifugiati, sono strumenti essenziali per garantire la legalità costituzionale e la sicurezza di tutti. E forse anche per dare un futuro all’Unione Europea prima che gli egoismi nazionali finiscano per prevalere.

Le scelte liberticide e proibizioniste dei governi che chiudono ai migranti le vie di ingresso legale ed effettuano respingimenti collettivi, vietati a livello internazionale, verso i paesi che non rispettano i diritti dell’uomo, ed in particolare il diritto di asilo, costituiscono un regalo fatto alle mafie che speculano sulla domanda di mobilità delle persone, con frequenti collusioni tra le organizzazioni criminali e le autorità che nei paesi di transito sono preposte ai controlli di frontiera.

Con tutte le nostre forze ci schieriamo contro la legittimazione che si vorrebbe offrire, da diverse parti dello schieramento politico, a Gheddafi nel suo "viaggio in Italia", un viaggio che si annuncia come una carica violenta di chiusura nei confronti dei migranti, piuttosto che come il messaggio di pace che appare in superficie.

Una carica di violenza che frantuma la residue possibilità di accoglienza e di coesione sociale in Italia e salda le politiche discriminatorie e di esclusione a livello interno, con le pratiche di respingimento collettivo adottate alle frontiere marittime. Un attacco, questa visita, ai corpi ed alla dignità dei migranti, una minaccia che sentiamo rivolta direttamente anche nei nostri confronti. Non respingiamo i migranti verso l’inferno libico e non respingiamo gli immigrati già in Italia verso i ghetti dell’esclusione sociale come sta facendo in questi mesi il governo con la introduzione del reato di immigrazione clandestina.

Le politiche segregazioniste agevolano lo sfruttamento e il lavoro clandestino, fino a casi sempre più gravi di vera e propria schiavitù, una schiavitù che assomiglia sempre di più a quella imposta in Libia ai migranti in transito.

Per battere questi pericoli per la vita dei migranti, ma anche per le libertà democratiche di tutti, pericoli che saranno resi più evidenti durante il viaggio di Gheddafi in Italia, anche a fronte dei prevedibili risultati elettorali, occorre una mobilitazione straordinaria, la ricostruzione di legami sociali dal basso, una pratica quotidiana dell’incontro e della condivisione tra chi agisce nelle lotte sociali e le comunità migranti.

Immigrazione: Caritas; clandestini sono respinti verso la violenza

 

Il Messaggero, 9 giugno 2009

 

Il mondo cattolico scende di nuovo in campo per i diritti degli immigrati. "È una vittoria amara per tutti, sapere che i clandestini, rispediti al mittente, vengono raccolti nei furgoni come cani, bastonati e legati, è trasportati in campi profughi da sorveglianti muniti di maschere per gli odori nauseabondi". E ancora "è una vittoria amara, se la maggior parte delle donne e molti dei minori vengono ripetutamente violentati; se i container viaggiano nel deserto con il loro carico umano per due tre giorni, senza viveri né acqua; se ogni anno tre-quattro mila persone muoiono perché abbandonate nel deserto lungo la frontiera libica, e altrettante vengono vendute ai mercanti di schiavi".

Così la Caritas italiana interviene duramente contro la politica dei respingimenti dei barconi provenienti dal Nord Africa messa in atto dal governo italiano. A pronunciare le parole è infatti il direttore nazionale della Caritas italiana, don Vittorio Nozza, nell’editoriale del mensile dell’organizzazione ecclesiale "Italia Caritas".

"L’Italia - scrive don Vittorio Nozza - ha deciso di svolgere il ruolo di battistrada nella guerra all’immigrazione irregolare. È un compito scomodo, perché viene affidato a leggi che riflettono una visione del fenomeno migratorio agli antipodi rispetto al passato".

Immigrazione: la Toscana, si è data una legge di grande civiltà

di Manola Guazzini (Assessore all’immigrazione Provincia di Pisa)

 

Il Tirreno, 9 giugno 2009

 

La Toscana dimostra di essere una regione all’avanguardia per quanto riguarda l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati. Con la nuova legge, approvata dal consiglio regionale lo scorso primo giugno ("Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri in Toscana"), abbiamo raggiunto un grosso traguardo.

La legge arriva dopo un percorso lungo e faticoso, che è partito da una campagna di ascolto in tutta la regione finalizzata a raccogliere le esigenze e le buone prassi sperimentate nei territori. In un periodo in cui sta montando pericolosamente anche nei nostri territori l’onda della xenofobia e del razzismo, che tende a ridurre al minimo i diritti per gli immigrati, in Toscana si garantiranno anche agli stranieri "dimoranti" non in regola con il permesso di soggiorno, le cure mediche urgenti e indifferibili ma anche l’assistenza sociosanitaria, nei casi più disperati.

Si garantirà cioè il diritto alla salute, che è un diritto della persona indipendentemente dallo status di cittadino: un principio garantito dalla nostra costituzione e che caratterizza la nostra civiltà giuridica. In una società multietnica e multiculturale come la nostra, e che lo diventerà sempre di più, non è pensabile governare i fenomeni dell’immigrazione con la paura e la diffidenza. Con questa legge abbiamo strumenti per vincere la sfida dell’integrazione e della costruzione di una società plurale e coesa.

Una società fondata su diritti e doveri condivisi da tutti gli stranieri che hanno scelto la Toscana come teatro della propria vita e del proprio futuro. Vanno in questa direzione tutte le norme finalizzate a garantire l’accesso ai servizi, ma anche a promuovere le competenze degli stranieri (dai corsi di italiano al riconoscimento dei titoli professionali) e a favorire la loro partecipazione alla vita politica locale (con la valorizzazione delle Consulte e dei Consigli degli stranieri).

Sulla legge, nel corso del dibattito consiliare, sono state dette cose non fondate, sono state agitate paure che non trovano riscontro con la realtà e che riproducono il solito schema di una destra che, esasperando le paure nei confronti dei clandestini, di fatto indebolisce anche la fiducia nei regolari. La nuova legge regionale garantirà invece piena cittadinanza, di diritti e doveri, ai cittadini stranieri regolari; e aiuterà chi ha più bisogno (una particolare attenzione viene riservata alle misure per richiedenti asilo e rifugiati, minori e donne in gravidanza, vittime di tratta e sfruttamento, detenuti).

È un provvedimento che in modo trasparente darà strumenti a enti locali e istituzioni per gestire e governare in maniera efficace i processi dell’immigrazione, nella convinzione che essa sia un pezzo importante e una risorsa strategica non solo per il nostro sistema, ma anche per la coesione sociale delle nostre comunità.

Immigrazione: in Grecia inasprimento della "politica migratoria"

di Margherita Dean

 

Peace Reporter, 9 giugno 2009

 

L’inasprimento della politica migratoria del governo ellenico, se di politica migratoria si può parlare, sta conoscendo un crescendo ragguardevole, in parte dovuto all’ultimo rimpasto (ai primi di gennaio), che ha portato al vertice del Ministero della Pubblica Sicurezza (ora accorpato a quello degli Interni), Christos Markoghiannakis, noto per la sua durezza.

La coincidenza delle elezioni europee e la chiusura dei confini spagnoli e italiani ha fatto sì che un numero sempre maggiore di illegali rimangano intrappolati in Grecia. Oltre alla mancata valorizzazione delle possibilità economiche offerte dagli ingenti finanziamenti europei garantiti alla Grecia, al fine di affrontare il problema del controllo delle frontiere, il governo avrebbe potuto imporre all’Unione di investire parte degli aiuti nell’inserimento di una parte del circa milione e mezzo di migranti illegali che si accalcano nei mari ellenici.

Un esempio lo pone Marios Dionellis, giornalista: se una metà di quel milione e mezzo fosse regolarizzata, con i relativi introiti si salverebbero dal tracollo economico molti fondi pensionistici oggi sull’orlo della catastrofe. Eppure si sa, il lavoro nero sostiene gran parte dell’economia di questo paese e nessun governo, passato o presente, ha voluto affrontare complessivamente la questione, scegliendo la strada della cecità prima, della repressione poi, della connivenza nel complesso.

E la repressione sta divenendo, in queste ultime settimane e mesi, l’unica visibile risposta al disagio sociale creatosi nel centro storico di Atene, esempio principe di una Grecia mutata senza avere avuto il modo e il tempo di metabolizzare le sue scelte. Si sa, le malattie sono raramente improvvise: l’abbandono dei quartieri centrali della città da parte degli abitanti storici, l’arrivo di ondate di migranti sempre meno fortunati per il crescere del grado di saturazione del mercato del lavoro regolare o meno e per il risveglio di istinti reazionari in chi, greco, è rimasto a vivere e lavorare in quella parte di capitale, hanno creato l’ambiente idoneo alla proliferazione di fenomeni che offendono l’indole democratica e tollerante di un popolo, come quello greco, che ha conosciuto la migrazione, l’illibertà e l’isolamento in misura importante e in tempi non lontani. I cosiddetti centri di accoglienza, definizione di governativo sarcasmo, sparsi per le isole dell’Egeo prossime alla Turchia e sulle frontiere occidentali della terra ferma, in vicinanza dei maggiori porti di transito per l’Italia, sono la vivida testimonianza del fallimento politico e morale della Grecia presente.

La situazione del centro della capitale è ulteriormente segnata dalla presenza di un’unità dell’Okana, la struttura pubblica per la cura col metadone di circa seicento eroinomani, che assieme ai senza tetto, fanno quotidianamente la lunga fila dell’adiacente mensa comunale per i millecinquecento pasti giornalieri ivi offerti. È pertanto chiaro come la geografia urbana si intasi di disagi molti e profondi, cui il governo non vuole dare altra soluzione che quella, ancora una volta, della repressione e dell’allontanamento. Risale a marzo, infatti, la creazione di un’ennesima forza di polizia (denominata Squadra Delta) incaricata dell’ordine del solo centro storico. La creazione della delta è coincisa con l’annuncio dello smantellamento della struttura dell’Okana, al fine di trasferirla in un esiguo numero di ospedali distanti dal centro.

A quanto detto, si aggiunge la notizia, pubblicata dal quotidiano Ta Nea il 27 maggio scorso, che subito dopo le elezioni europee ed entro la fine di giugno, il centro storico verrà "liberato" anche dai migranti irregolari, i quali saranno trasferiti nella cittadina industriale di Aspropyrgos, distante una ventina di chilometri da Atene, nella ivi presente ex base Nato, predisposta, stando a fonti governative, all’ospitalità - detenzione, di cui il governo, gliene va reso atto, sta dimostrandosi profondo conoscitore. Una scelta, quella di Aspropyrgos e di una vecchia base militare, che crea non poche perplessità.

La cittadina, infatti, è vittima di un fortissimo degrado ambientale e sociale, dovuti alla presenza di molte industrie pesanti e all’imperfetto inserimento, nel tessuto sociale, di operai emigrati dalle ex repubbliche sovietiche. A questo, Thanasis Kourkoulas, del Movimento Respingete il Razzismo, aggiunge i dubbi suscitati dalla distanza della base Nato dall’abitato, che porterà all’ulteriore isolamento degli irregolari spostati dal centro di Atene, che saranno così lontani dagli sguardi indiscreti di tutti. Il giornale Ta Nea, infatti, annuncia la prigionia vera e propria degli ‘ospitì del nuovo centro, di cui Lampedusa sarà l’esempio: stando alle fonti governative del quotidiano, infatti, ci sono già stati incontri in tal senso con esponenti delle forze dell’ordine italiane.

Del resto, come ex base militare, la maggior parte degli edifici ivi presenti sono semplici magazzini d’armi, che non hanno certo bisogno di aria e di luce, essendo assai meno esigenti degli irregolari che in essi verranno nascosti. Neanche si può parlare di future finestre, come aprirle in un bunker? Non si può, pertanto, parlare neppure di carcere, dovendosi arrendere alla realtà: quelli di Aspropyrgos erano magazzini d’armi, ora saranno magazzini di indesiderati. Il destino degli irregolari del centro di Atene sembra pertanto segnato. La caccia si aprirà nei prossimi giorni, saranno notti difficili e dure, poi seguirà il vuoto. Il silenzio. Per poco.

Cambogia: bambini-detenuti uccisi, per evitare rischio vendette

 

Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2009

 

Ammissione choc davanti al tribunale speciale per i crimini commessi durante la dittatura comunista. I bambini imprigionati nel carcere di Tuol Sleng (S-21) dai Khmer rossi in Cambogia vennero atrocemente assassinati per evitare che si vendicassero una volta divenuti adulti: lo ha detto oggi il responsabile del carcere, Kang Khev Iev, alias "il compagno Duch"‘.

"Quando i bambini arrivavano al carcere avevo ordinato che fossero uccisi, perché eravamo preoccupati che potessero vendicarsi" se fossero sopravvissuti, ha detto Duch alla corte. "Dovevo adempiere alle direttive del partito comunista", si è difeso l’ex capo dell’S-21, un liceo scientifico di Phnom Penh trasformato in un luogo di tortura, dove interrogò e fece morire almeno 15 mila persone.

Duch ha poi confermato che alcuni dei bambini vennero uccisi atrocemente, sbattendoli contro gli alberi: "Non ho ordinato io questo crimine, ma sono convinto che i miei compagni lo abbiano fatto". L’ex dirigente dei Khmer, nel corso del processo del tribunale speciale, istituito dal governo della Cambogia e dall’Onu nel 2003 dopo quattro anni di laboriosi negoziati, ha già ammesso le sue responsabilità per i crimini commessi nella S-21. Rischia una condanna all’ergastolo.

Stati Uniti: un detenuto di Guantanamo trasferito per il processo

 

Asca, 9 giugno 2009

 

Il detenuto di Guantanamo Bay, Ahmed Khalfan Ghailani, è stato trasferito a New York dove verrà processato per terrorismo. A renderlo noto il Dipartimento di Giustizia. Si tratta del primo detenuto della prigione americana di Cuba ad esser trasferito sul suolo statunitense, e più precisamente al Metropolitan Correctional Center.

Qui, secondo il procuratore generale Eric Holder, affronterà un processo relativo al suo coinvolgimento negli attentati del 1998 contro due ambasciate americane in Africa costati la vita a 224 persone.

Stati Uniti: detenuti-viaggiatori, protestano Compagnie di autobus

 

Il Velino, 9 giugno 2009

 

"Da almeno sei anni negli Usa il Federal Bureau of Prisons quando deve trasferire un carcerato, ritenuto non pericoloso, da un istituto a un altro, gli compra un biglietto del bus e lo manda in viaggio da solo, senza scorta, decisione presa per risparmiare denaro.

Una prassi che ha provocato le vibrate proteste delle compagnie di trasporto che tra l’altro sono anche tenute all’oscuro sulla presenza di questi speciali passeggeri. Ma dal 2006, su quasi 90mila "viaggiatori particolari", ne sono scappati solo 180. Non è la prima volta che il mondo dei bus americani protesta, ma questa volta è scesa in campo anche l’Aba, l’American Bus Association: non vogliono più detenuti in incognito sui loro mezzi - scrive Roberto Zanni dalla redazione di Miami di Gente d’Italia quotidiano delle americhe diretto da Mimmo Porpiglia -. Ormai è una consuetudine, quando un condannato deve essere trasferito da un istituto di pena a un altro, a quelli meno pericolosi viene comprato un biglietto del bus e spediti a destinazione, ma questo non è ancora nulla, perché i tragitti i carcerati li fanno da soli, senza scorta".

"E non si parla di pochi casi, ma di un esercito di 25mila prigionieri che ogni anno va da una città all’altra, da uno stato all’altro, a volte percorrendo migliaia di chilometri, sempre da soli. Insomma prendi il bus per andare da Miami a New York e accanto, senza saperlo, può esserci uno spacciatore, oppure chi dietro le sbarre ci è andato per un altro crimine. Ovviamente i condannati-viaggiatori in questione non sono, secondo le autorità, pericolosi e quindi possono anche sedersi vicino agli ignari passeggeri che il bus lo prendono per un viaggio di piacere o di lavoro o per qualsiasi altro motivo.

Alla Aba - prosegue Porpiglia - però non ce la fanno più perché la storia va avanti da troppo tempo, almeno sei anni, una decisione presa per risparmiare denaro, ridurre i costi, così per i trasferimenti è stato deciso di mandare i detenuti senza scorta e senza avvertire nemmeno le compagnie di bus che effettuano i trasporti spesso con percorsi che attraversano diversi stati. L’Aba un paio di mesi fa ha inviato una lettera al direttore del Federal Bureau of Prisons (Bop) Mr Harley G. Lappin".

"Una dura missiva, l’Aba rappresenta 800 aziende di trasporti, che sono i due terzi di tutte le imprese del settore negli Usa, dove l’associazione si definisce oltraggiata dalla decisione di mandare in giro, senza nessun genere di scorta, migliaia di detenuti che, spesso, devono viaggiare attraverso più stati senza che le aziende in questione ne siano al corrente (e ovviamente nemmeno i passeggeri).

Una prassi oltretutto che è in contrasto con le misure di sicurezza adottate in numerosi settori dal Department of Homeland Security, specialmente poi nell’ambito dei trasporti. L’Aba, nella lettera, ha sottolineato come nessun autista od operatore sul bus ha la possibilità di controllare il detenuto, dal momento che questo viaggia in incognito, con il biglietto acquistato dal Bop, ma ha voluto anche avvertire il Bureau of Prisons che mai un dipendente di una azienda di trasporti si assumerà l’onere di controllare questi detenuti in libera uscita. Le richieste di far cessare questa consuetudine - si legge ancora - finora non sono state accolte".

La Greyhound, sicuramente il nome più conosciuto nell’ambito dei trasporti passeggeri su gomma negli Usa, ha cominciato le sue proteste nel 2005, quando è venuta a conoscenza della prassi usata, che però andava almeno dal 2003, sforzi che però finora non sono serviti: "Lo sentiamo come una mancanza di sicurezza per i nostri passeggeri e i nostri impiegati", ha sottolineato Abby Wambaugh, portavoce dell’azienda. Se una volta, si vedeva anche nei vecchi film, i condannati viaggiavano con un poliziotto accanto, spesso in manette, adesso invece continuano a farlo da soli, anche perché le statistiche sono dalla parte di chi ha deciso che le scorte potevano anche non servire".

"Negli ultimi tre anni sarebbero infatti solo 180 i detenuti che hanno approfittato dell’occasione per scappare senza presentarsi all’istituto di pena dove li stavano aspettando. Dal Bop poi hanno fatto anche sapere che il 94 per cento dei detenuti-viaggiatori hanno condanne lievi e in ogni caso sono sempre a contatto con la gente in quanto vengono ospitati in istituti dove cominciano il reintegro nella società (chiamati halfway houses) mentre il restante, il 6 per cento dei 25mila che si spostano ogni anno, si dirigono in luoghi di detenzione che a volte non hanno nemmeno recinzioni, questo per sottolineare come non vengano considerati pericolosi, in ogni caso ogni condannato che viene fatto salire sul bus, prima del viaggio è attentamente esaminato per essere sicuri che non rappresenti una minaccia per gli altri.

Ma l’Aba sottolinea che il risparmio di denaro non vale il rischio che si corre: dall’aprile del 2006 sono stati 89.794 i detenuti trasferiti con questo singolare sistema e anche se le fughe rappresentano una percentuale infinitesimale, ci sono casi significativi come quello di Dwayne Keith Fitzen, aveva scontato la metà di una condanna a 24 anni, faceva parte di una gang di motociclisti ed era uno spacciatore di cocaina. Un giorno da Waseca, nel Minnesota - conclude Porpiglia -, gli hanno dato un biglietto per il bus, destinazione California, ma quando è arrivato a Las Vegas è sceso e cinque anni dopo lo stanno ancora cercando".

 

 

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