Rassegna stampa 8 giugno

 

Giustizia: se il grado di civiltà dell'Italia si misura dalle carceri!

 

www.nuovasocieta.it, 8 giugno 2009

 

Parlare oggi di carcere vuol dire parlare di una struttura che sta letteralmente scoppiando. Ce lo dicono sia i detenuti stessi che gli educatori ed i volontari. "La situazione sta precipitando anche in un carcere, fino a poco tempo fa considerato migliore di tanti altri, come la Casa di Reclusione di Padova - fanno sapere appunto i detenuti stessi dalla città veneta -. La terza branda che stanno aggiungendo in celle singole, già usate come doppie, rende lo spazio così invivibile, che il dirigente sanitario si è rifiutato di firmare l’abitabilità di quelle che, elegantemente, vengono chiamate "stanze di pernottamento". Purtroppo, mai come ora è stata attuale la vecchia idea di Voltaire che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri".

Di carcere ne abbiamo parlato con Christian G. De Vito, per lungo tempo volontario nelle carceri di Firenze e Prato, ed ora autore del libro "Camosci e girachiavi - Storia del carcere in Italia" (ed. Laterza, 13 euro).

 

De Vito cosa pensa delle strutture carcerarie che stanno scoppiando?

"Esse sono il prodotto delle scelte compiute degli ultimi venti anni a livello politico, in particolare con riferimento all’immigrazione e alle tossicodipendenze. Se non si torna indietro su quelle scelte, non si potranno avere carceri meno piene. Si penserà invece di costruire più carceri, come sembra voler fare il governo con il "piano carceri" di cui si parla in questi giorni; ben sapendo che, anche ammesso che saranno costruiti, i diciassettemila nuovi posti letto si riempiranno prestissimo e serviranno solo a stimolare un ulteriore incremento della repressione e delle retoriche della sicurezza.

Quella delle carceri che scoppiano del resto è una vicenda non solo italiana, ma mondiale, che rimanda all’affermarsi a livello globale di politiche neoliberiste: basti pensare agli Stati Uniti, passati in trenta anni da 300.000 a oltre 2.000.000 di detenuti. Una tendenza che riguarda anche paesi tradizionalmente riformatori in ambito penitenziario, come quelli scandinavi o i Paesi Bassi.

Del resto, il problema delle carceri che scoppiano non è solo una questione di numeri. Il sovraffollamento, che ne è la principale traduzione concreta, vuol dire vivere per ore e ore in pochi metri quadrati con tre, quattro e talvolta anche otto o nove persone. È una situazione inumana e del tutto illegale, che pone con urgenza la questione di fare qualcosa, di una strategia alternativa a quella repressiva che domina"

 

Eppure c’è chi dice che in carcere si sta bene, che "stanno come in albergo". È veramente così?

"Assolutamente no. I cittadini e le cittadine, e anche tantissimi uomini e donne politici, dovrebbero vedere le carceri prima di fare affermazioni del genere. Dovrebbero vedere le celle con i letti a castello a quattro piani, dove si mangia seduti sui letti perché perfino gli sgabelli di legno sono spesso insufficienti rispetto al numero dei detenuti presenti. Dovrebbe vedere anche questi famosi televisori nelle celle, che così spesso vengono dipinti come il simbolo stesso del "carcere albergo" e che invece nella realtà del carcere sono una trappola infernale, perché avere come unica attività per ore e ore e per molti mesi quella di stare davanti a un televisore è un supplemento di condanna, non certo un lusso.

No, le carceri non sono degli alberghi. Sono istituzioni dove mancano le cose anche più semplici, dove ogni detenuto vede negati anche diritti fondamentali come quello alla salute. Sono anche luoghi di violenze, sia nella forma dei continui arbitri e ricatti, sia in quella delle vere e proprie violenze fisiche, molto meno rare di quanto si pensi"

 

Nella situazione che lei descrive il carcere, si può ancora parlare di struttura rieducativa per chi ha commesso reati?

"La logica della rieducazione è vecchia come il carcere stesso. L’idea della punizione si è sempre accompagnata con quella di riempire il tempo trascorso in carcere di attività che modificassero la personalità e lo stile di vita dei detenuti. È da questo che derivano già nell’Ottocento i principi dell’individualizzazione del trattamento e della specializzazione delle carceri; questo è il senso anche della pena "rieducativa" definita nell’art.27 comma 3 della Costituzione italiana.

Tali principi a seconda dei casi sono stati tradotti in termini strettamente clinici (dalla scuola della "difesa sociale" negli anni Cinquanta e Sessanta) o in termini morali-religiosi (come "redenzione" del condannato). Dalla metà degli anni Settanta, la riforma del 1975 e poi la legge Gozzini del 1986 hanno dato un’interpretazione più legata all’idea del reinserimento sociale, ma ciò si è anche coniugato con meccanismi premiali all’interno del carcere: in sostanza, la massa dei detenuti è stata divisa in tanti settori o "circuiti" (massima sicurezza, media sicurezza, custodie attenuate, sezioni per tossicodipendenti, reparti di osservazione psichiatrica), mentre ogni detenuto è stato spinto a mantenere comportamenti conformi alle regole penitenziarie, per evitare di perdere la possibilità di ottenere vari "benefici", come il lavoro interno e poi esterno, la semilibertà, l’affidamento in prova al servizio sociale. Ciò che era stato concepito come uno strumento di decongestionamento del carcere è tuttavia diventato sempre più uno strumento di controllo di una popolazione carceraria in costante aumento; parallelamente, le misure alternative hanno perso ogni loro "alter natività" rispetto alla detenzione, divenendo complementari all’aumento della popolazione carceraria.

Nel frattempo, è mutata radicalmente la composizione della popolazione detenuta. Le riforme degli anni Settanta e Ottanta erano rivolte a un detenuto-tipo di nazionalità italiana, con la possibilità di reinserirsi a livello abitativo e lavorativo in un tessuto sociale preesistente. Fino a un certo punto questa configurazione si è potuta adattare alla realtà dei detenuti tossicodipendenti, per i quali tuttavia vi erano delle esigenze anche sanitarie alle quali lo sviluppo delle comunità, dei Ser.T. e delle sezioni a custodia attenuata ha risposto in maniera sempre solo parziale. Oggi la realtà è ulteriormente mutata: se si pensa che nelle maggiori carceri ormai gli immigrati sono oltre il 50% dei detenuti, si può capire quanto questo modello di intervento sia superato, o quantomeno marginale, rispetto a un carcere che svolge una funzione puramente contenitiva e repressiva.

Analizzando le cose in questi termini secondo me si può capire la crisi permanente nella quale si dibattono sempre più tutte le attività trattamentali e i progetti ad esse ispirate: sono strutturalmente condannati ad una marginalità sia numerica che simbolica, ad inseguire inutilmente una vera e propria alluvione di detenuti e di disuguaglianza sociale. Sono processi che provengono dall’esterno del carcere e che hanno molto a che fare con le trasformazioni del mercato del lavoro e con il progressivo smantellamento anche di quel poco di welfare che era stato edificato a partire dagli anni Settanta. A questo va aggiunto un altro elemento: alla prospettiva del "reinserimento" dei detenuti, in Italia, le autorità politiche non hanno mai veramente creduto. Lo dimostra il fatto che le risorse per queste attività sono da sempre incomparabilmente inferiori rispetto a quelle riferite alla funzione custodiale del carcere. Si può trovare prova di questo in ogni carcere, basta comparare il numero degli agenti di polizia penitenziaria a quello degli educatori: nel carcere di Firenze, per esempio, dove ci sono in questo momento 940 detenuti a fronte di una capienza di 470 posti, ci sono 420 agenti e 5 educatori"

 

Cosa si può pensare in alternativa al carcere in Italia oggi?

"La mia ricerca storica sul sistema penitenziario dal 1943 ad oggi credo metta in luce, tra le altre cose, il fallimento del riformismo penitenziario. La crisi della ideologia della "rieducazione" è infatti solo un aspetto di una marginalizzazione complessiva della prospettiva di trasformazione dell’istituzione penitenziaria. Di fatto, attraverso i decenni, il carcere ha continuato sempre a funzionare come una discarica sociale nella quale sono stati sistematicamente riversati i rifiuti dei processi socio-economici che avvenivano al di fuori delle mura di cinta. Per altro verso, tutta l’idea che il periodo trascorso in carcere potesse favorire un successivo reinserimento dei detenuti si è scontrata, oltre che con i limiti già detti dell’area "trattamentale", con un sistema di assistenza sociale del tutto insufficiente e con il permanere di radicati pregiudizi nella popolazione. Basta vedere cosa è successo quando c’è stato l’indulto del 2006: gli indultati uscivano dalle carceri con sulle spalle i sacchi neri dell’immondizia dove avevano i loro vestiti e fuori trovavano qualche volontario, nel disinteresse pressoché totale delle istituzioni. Anche il tanto sbandierato rientro in carcere degli indultati - rimasto in verità su tassi straordinariamente bassi - è derivato da questo processo di abbandono sociale piuttosto che da una presunta "tendenza criminale" di quelle persone.

Bisogna quindi ripensare le strategie di trasformazione del carcere, tenendo presente il collegamento tra il carcere e la società. Occorre dunque innanzitutto smantellare l’apparato securitario messo in campo negli ultimi due decenni: dalla legislazione speciale su tossicodipendenti (legge Fini-Giovanardi) e immigrati (legge Bossi-Fini), alle tante ordinanze comunali dal chiaro impasto razzista; dalle norme che hanno rafforzato i sindaci e le prefetture a quelle che hanno equiparato di fatto le polizie locali alle forze dell’ordine. Su questa base mutata, occorre finalmente procedere all’approvazione di un nuovo codice penale che depenalizzi una serie di reati minori, favorisca sistematicamente la concessione di misure alternative sin dalla fase del giudizio e proceda all’abolizione di quella autentica tortura che è l’ergastolo. L’ulteriore potenziamento di misure alternative in fase di esecuzione penale dovrà poi andare di pari passo con la strutturazione di politiche sociali non più frammentate per settori assistenziali, ma integrate a livello di enti locali e di aree metropolitane. È da questo nuovo protagonismo della politica, che per troppo tempo e tuttora delega ai tecnici gli assetti dell’universo carcerario, che possono scaturire le condizioni per processi di abolizione di alcune parti del sistema penitenziario. Ne indico come esempio alcune per le quali l’abolizione appare tanto urgente quanto rapidamente praticabile: gli ospedali psichiatrici giudiziari e le sezioni psichiatriche, attraverso la presa in carico di quanti sono internati da parte dei servizi di salute mentale territoriali; le carceri minorili, estendendo le strutture di accoglienza in modo da poter estendere i benefici previsti dalle leggi attuali anche ai minori immigrati, che sono di fatto gli unici "ospiti" di tali strutture; le sezioni "nido" delle carceri femminili, dove bambini al di sotto dei tre anni sono incarcerati insieme alle loro mamme detenute.

 

È realistica questa strategia?

Io credo di sì, a patto che non solo ci sia una attenzione maggiore della politica e dell’opinione pubblica attorno alla "questione carcere", ma che anche i detenuti facciano sentire la loro voce, prendendo coscienza del loro ruolo fondamentale nel cambiare il carcere. La mobilitazione dei detenuti è un fattore determinante. Non dimentichiamoci infatti che l’unico momento di effettiva rottura e di cambiamento nella storia del carcere nell’Italia repubblicana si è avuto a seguito delle grandi rivolte e proteste dei detenuti, in particolare tra il 1969 e il 1973. Senza quei movimenti, che sono costati anche vittime tra i detenuti, non ci sarebbero state probabilmente neppure le limitate riforme del carcere del 1975 e del 1986"

 

Ha condiviso l’indulto di qualche estate fa? Si è risolto qualcosa per ciò che è l’affollamento delle strutture carcerarie con questa a dir poco bizzarra decisione?

"Ho condiviso l’indulto e, anzi, ho attivamente partecipato alla mobilitazione per l’indulto sin dal 2000, organizzando insieme ad altre persone, dibattiti, banchetti informativi e presidi di solidarietà sotto alcune carceri dove i detenuti si mobilitavano in questo senso. Chiedevamo - i detenuti e noi di tante associazioni e gruppi - un indulto generalizzato accompagnato dall’amnistia, dal rovesciamento delle politiche su immigrazione e tossicodipendenza e da un intervento finanziario specifico che destinasse risorse alle carceri e alle strutture per le misure alternative. L’indulto/amnistia lo concepivamo come una sorta di risarcimento per le condizioni vergognose in cui i detenuti erano stati tenuti in carcere, ma anche come un punto di svolta possibile sulle politiche del carcere.

Lo voglio ripetere: secondo me l’indulto era giusto e necessario. Le modalità con cui è stato fatto rivelano invece contraddizioni che sono tutte interne al mondo politico istituzionale, il suo sostanziale disinteresse rispetto alle condizioni concrete di migliaia di detenuti e l’autoreferenzialità di scelte fatte in nome degli equilibrismi partitici. Non a caso, dal momento successivo all’approvazione dell’indulto, quasi tutti i politici hanno fatto a gara per lavarsene le mani e per invocare nuovi provvedimenti per la "sicurezza". In ogni caso, se attualmente siamo ritornati ai numeri pre-indulto e, anzi, li abbiamo ormai anche superati, ritengo che ciò sia da imputare non all’indulto, ma alla mancata volontà politica di fare dell’indulto un momento di riflessione e di svolta più ampio rispetto alla "questione carcere".

Giustizia: il "forcaiolismo" avanza, è confusionario e populista

di Mauro Mellini

 

www.giustiziagiusta.info, 8 giugno 2009

 

"Il giudice, spalanca la cella al boss" - è depresso". Con questo titolo "Il Giornale" dà ai suoi lettori ed al mondo la notizia sconvolgente della concessione a Giacomo Nuccio Ienni che, come spiega nel sottotitolo, era in regime di "carcere duro", degli arresti domiciliari. Ma il sottotitolo dice semplicemente "il Tribunale di Sorveglianza" (?) lo "manda a casa per curarsi il grave disturbo". (vedi l’articolo - in pdf)

Che sia stato proprio il Tribunale di Sorveglianza a "mandarlo a casa", come eufemisticamente scrive "Il Giornale", non direi sia proprio certo. Non tanto perché l’articolista, tale Natale Bruno, spiega (si fa per dire) che è stato "il Presidente del Tribunale Etneo", Filippo Milazzo, "coadiuvato" (sic) nel suo lavoro dai suoi colleghi Riccardo Pivetti e Cinzia Sgrò (quando si grida alla giustizia di manica larga ci vuole sempre una persona colpevole, anche se si fa riferimento ad una decisione collegiale; gli altri componenti sono solo una specie di "concorrenti esterni". Caso Carnevale docet).

Ma a far dubitare della attribuzione proprio al Tribunale di Sorveglianza della terribile "malefatta" è piuttosto il resto dell’articolo dal quale sembra doversi evincere che Nuccio Ienni è ancora sotto processo, in attesa di giudizio. Il che, oltre al particolare non proprio trascurabile che per lui dovrebbe valere la presunzione di non colpevolezza, esclude la competenza del Tribunale di Sorveglianza. Del resto, poi, lo stesso articolista parla di III Sezione del Tribunale.

Ma lasciamo perdere queste quisquilie (tali per chi ritiene che un boss mafioso non è mai solo imputato di essere tale, non è mai malato, innocente, etc.: è boss e basta). Il pezzo (ma si tratta di un’intera pagina addirittura) è una miniera di queste "gemme" giustizialiste:

"Nuccio, in carcere aveva fatto appena tre anni".

Dato pure, e non concesso, che non si tratti di tre anni "in attesa di giudizio" (almeno dall’articolo non si ricava che Ienni sia stato condannato, ma che è imputato di riciclaggio, ma in quel casino c’è poco da ricavare per certo) è molto istruttivo apprendere che, per aver diritto di ammalarsi, occorre una maggiore "anzianità di servizio" da detenuto.

Ma il pezzo forte della "dimostrazione" dell’enormità del provvedimento è d’ordine clinico-giuridico-statistico: "L’iniziativa (?) del giudice Milazzo contrasta fortemente con uno studio che il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha redatto nel 2006, secondo cui il 10 per cento della popolazione carceraria accusa disturbi legati alla depressione".

Dunque? Dunque: "mal comune, mezzo gaudio" diceva un vecchio proverbio. Se il dieci per cento dei detenuti sono depressi, i depressi sono pressoché normali, quindi stanno benone. Se i malati di tumore dall’1% (o, speriamo dal 0,1%) diventassero facendo scongiuri, il 10 per cento, starebbero benone anche loro. È la teoria della relatività, ma non proprio quella di Einstein.

A colpire la sensibilità forcaiol-giustizialista del giornalista è, in particolare, il fatto che l’estensore dell’ultima perizia di parte, che definisce lo stato di salute mentale del detenuto, sia stata redatta dal Dott. Marco Lipera, figlio (udite, udite) dell’avvocato dello Ienni, Giuseppe Lipera (che, se non sbagliamo, fu o forse è, difensore di Bruno Contrada, ma che, allora, almeno, non fece gridare allo scandalo "Il Giornale").

Ma pare, anche da quel che ci dice "Il Giornale", che prima di lui una serie impressionante di relazioni cliniche carcerarie abbia constatato la malattia, e la sua gravità, e che lo Ienni, fu sballottato per tale motivo tra varie infermerie, centri clinici carcerari etc. Avrebbe perso 20 chili. Il peso, questo almeno, non sarà stato attestato da una bilancia di casa Lipera. Ma più significative d’ogni altro particolare della vicenda sono le dichiarazioni rese da vari esponenti politici.

Saremmo pronti a scommettere che non uno di essi, al pari del giornalista, ha letto il provvedimento del Tribunale e, tanto meno, uno solo dei documenti sanitari e conosce lo "stato giuridico" del detenuto. Maurizio Gasparri: "Una vergogna, la decisione ci indigna e crea un precedente pericolosissimo". Carlo Vizzini: "Una decisione scandalosa, lesiva per la credibilità dello Stato". Claudio Fava: "Ormai per i mafiosi di Catania il 41 bis è diventato una specie di campeggio".

Già, perché al campeggio chi sta male ed è depresso se ne torna a casa. Invece il "41 bis" è fatto per far star male, al punto che, non potendone più, chi vi è sottoposto "si penta" e collabori. Uno è depresso? Ottimo, forse sta lì-lì per diventare collaboratore di giustizia. Mandarlo agli arresti domiciliari è un’ingiustizia, una crudeltà, lo si priva dell’impunità e dello stipendio che avrebbe potuto "guadagnarsi".

Giustizia: scontenta tutti… la "riformicchia" del processo civile

di Marino Longoni

 

Italia Oggi, 8 giugno 2009

 

Nel 2008 il risarcimento dei danni causati dall’eccessiva durata dei processi è costato all’Italia 32 milioni di euro. La lunghezza del contenzioso civile è stata di 960 giorni in primo grado, 1.500 giorni in appello (per un totale di quasi sette anni).

Con l’obiettivo esplicito di tagliare questi tempi, il parlamento ha approvato pochi giorni fa una legge (è attesa a brevissimo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di semplificazione del rito civile. L’impresa era disperata. Gli interventi messi in campo prevedono una serie di adempimenti a carico degli avvocati, volti a scoraggiare i comportamenti dilatori, a tagliare alcuni tempi per la produzione degli atti processuali, a velocizzare la raccolta delle testimonianze. Si prevede anche una semplificazione nell’attività di redazione delle sentenze, che dovranno essere più concise e potranno limitarsi a richiamare precedenti conformi. Si introduce un filtro in Cassazione (ammissibilità dei soli ricorsi che hanno ad oggetto questioni di diritto

nuove o sulle quali sussistono incertezza interpretative). Infine, si è previsto, per le cause più semplici, un processo sommario di cognizione (facoltativo) e si dà delega al governo per ridurre l’attuale pletora di riti civili (una trentina) a un massimo di tre, abolendo da subito il rito societario e quello per il risarcimento dei danni da incidente stradale.

Non si tratta certo di una rivoluzione. Ma di una serie di lifting, più o meno utili, che ora dovranno però essere metabolizzati da un apparato piuttosto anchilosato. A un malato grave si è voluto dare una cura palliativa, per evitare la sala operatoria: ben più incisivi sarebbero stati interventi come quello contenuto in un emendamento proposto dall’opposizione (e approvato in un primo momento, ma poi accantonato) che prevedeva l’inammissibilità del ricorso in Cassazione in caso di doppia conforme per difetto di motivazione della sentenza di merito (si sarebbero spazzati via oltre la metà dei ricorsi). Oppure la previsione di un rito unico che cancellasse via la babele dei riti, serializzando la macchina della giustizia. Cosi come non si è voluto toccare il processo di esecuzione, un vero e proprio cadavere ambulante, affidato a ufficiali giudiziari che non hanno alcun interesse a farlo funzionare.

Insomma, una riforma più di facciata che di sostanza, come spesso succede per quelle approvate prima delle elezioni. La giustizia civile ha perso un’occasione. Ora il suo futuro è appeso ad un’esile speranza: il processo telematico.

 

Il nuovo rito obbliga gli avvocati a lavorare di più

 

Il nuovo processo civile obbligherà gli avvocati a lavorare di più. La semplificazione di cui parla il titolo della legge di riforma del rito civile (atto senato 1082-B, in attesa di pubblicazio-ne sulla Gazzetta Ufficiale) non riguarda infatti gli avvocati i quali dovranno ancor più darsi da fare prima, durante e dopo il processo.

Prima perché devono studiare meglio le strategie difensive, scegliere il rito soppesando le diverse possibilità; durante, perché non potranno (almeno sulla carta) contare su rinvii, utili anche a studiarsi le carte; dopo il processo, perché sono stati ridotti i tempi per compiere scelte cruciali come appellare o meno una sentenza di primo grado. Non solo. L’avvocato è chiamato a soppesare in maniera attenta la possibile convenienza di un accordo bonario.

Le modifiche della legge di riforma del processo civile sono settoriali e non costituiscono un intervento sistematico. Tuttavia il legislatore scommette sulla possibilità che già possano essere fonte significativa di un miglioramento della giustizia civile. In realtà molti istituti rischiano di rimanere solo sulla carta.

Due esempi: la testimonianza scritta e il processo sommario di cognizione. La testimonianza scritta sembra una grande novità: annullata dall’esigenza che tutte le parti devono essere d’accordo; quindi ciascuna parte ha diritto di veto. In sostanza chi non si fida del tal testimone difficilmente darà il consenso per la testimonianza scritta, perché ha interesse che commetta qualche scivolone e magari si contraddica in sede di escussione orale. Tra l’altro la testimonianza scritta è un rischio di per sé stessa: mentre una dichiarazione orale contraria può essere compensata con una richiesta di precisazioni, un testo scritto rimane così come è, senza possibilità di integrazioni o correzioni. Facile pronosticare che la testimonianza scritta verrà usata in rarissimi casi, come confermare il contenuto o la provenienza di un documento. Altrettanto facile prevedere che la parte sfavorita dalla dichiarazione scritta insisterà per la convocazione del teste in udienza da parte del giudice: con il risultato che quella che dovrebbe essere una semplificazione potrà diventare una complicazione a causa della duplicazione della testimonianza (prima scritta e poi orale).

Anche il nuovo processo sommario di cognizione è una bella novità. Ma il vero deterrente alla scelta di questo rito è la sommarietà dell’istruttoria. Una sommarietà che può tradursi in superficialità con la conseguente alea processuale: perché correre il rischio di soccombenza a istruttoria sommaria? Meglio perdere la causa giocandosi tutte le carte probatorie di cui si è in possesso. D’altra parte questo rito è solo una facoltà e se nessuno lo attivasse si rivelerebbe un ramo secco dell’ordinamento processuale civile.

Comunque la novella obbligherà gli avvocati a lavorare di più e a un ritmo più serrato, perché il giudice dovrà fissare il calendario del processo; perché vengono contratti i tempi della consulenza tecnica; perché è necessario studiarsi analiticamente gli atti avversari e contestarli parola per parola: se non si contesta la ricostruzione dei fatti avversari il giudice potrà considerare gli stessi come pacificamente ammessi. Di qui anche la necessità di un lavoro certosino per la ricostruzione probatoria contraria a quella del proprio avversario.

L’avvocato deve lavorare di più perché deve sviluppare capacità prognostiche rispetto all’esito del processo e consigliare la parte se sottoscrivere la transazione, considerando che una decisione negativa potrà comportare di essere condannati a pagare le spese (dell’avvocato avversario e del proprio). Deve studiare meglio la giurisprudenza della cassazione per evitare di proporre ricorsi che non passano il filtro di ammissibilità di nuova introduzione: se la sentenza di merito segue la giurisprudenza della cassazione il ricorso alla Suprema corte non è ammesso. Deve valutare se attivare o meno il rito sommario di cognizione, che si conclude, all’esito di una causa in cui è il giudice che decide come fare l’istruttoria, con una ordinanza che è esecutiva.

Certo l’obiettivo della riforma non è la semplificazione del lavoro degli avvocati, ma del processo. Tuttavia alcuni istituti non si muovono in questa direzione, in quanto si limitano a contingentare i tempi dei legali e, in definitiva, a ridurre i tempi per le parti rappresentate (privati o imprese).

Lettere: a Poggioreale, 15 detenuti in una cella di 4 metri per 4

 

Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2009

 

Sono un detenuto che sta scontando la restante pena agli arresti domiciliari. Sono appena uscito dal carcere di Poggioreale, che secondo me è il peggior carcere d’Italia… e ne ho girati diversi, in questo ultimo periodo, a causa dei frequenti trasferimenti.

Mia mamma è una signora anziana e per venire a farmi visita doveva stare in piedi, in attesa, anche 7-8 ore, perché le poche panchine non sono mai libere a causa della troppa gente che c’è, alcune persone per sedersi capovolgono i secchi dell’immondizia. Per i parenti in visita ci sono solo due bagni, nel degrado totale, dove rischiano anche di prendere qualche malattia.

Quando stavo a Poggioreale dissi a mia mamma di non venire più a trovarmi, fino a quando non sarei uscito e di mandarmi solo dei soldi tramite vaglia postale… che poi è ancora più problematico perché il vaglia arriva dopo sette giorni e solo dopo altri sette giorni caricano i soldi sul libretto… solo così si può fare la spesa, cioè se non hai nulla da mangiare devi aspettare 14 giorni, anche perché vitto dell’amministrazione è immangiabile e non si possono ricevere pacchi postati contenenti prodotti alimentari.

Eravamo in 15 in una cella di 4 metri x 4 e spesso il dovevo rinunciare all’ora d’aria perché aprivano alle 9 del mattino e stavo ancora aspettando il mio turno per andare in bagno.

Nella sala del colloquio quando veniva a farmi visita uno dei miei parenti non potevo portare nemmeno una bottiglia d’acqua… e tante altre cose che adesso non scrivo per non ricordarle.

Adesso finalmente non sto più in quell’inferno, ma ci sono ancora tante altre persone che soffrono il sovraffollamento, la mancanza d’aria e altre disumanità. Io spero con tutto il cuore che verrà preso qualche serio provvedimento: lo so che è un carcere è un posto nel quale si soffre, però dovrebbe esserci anche un programma di rieducazione e reinserimento nelle società.

 

Luigi, da Napoli

 

Nel carcere di Poggioreale ci sono 920 posti-branda per 2.550 detenuti. Per mangiare si organizzano i turni. Dei 750 agenti presenti, solo 400 sono adibiti al controllo dei reparti. Nel Padiglione Napoli, in particolare, 4 agenti devono controllare 450 detenuti. La farmacia è sprovvista di molti medicinali anche di uso comune, come la novalgina. Da diversi giorni i detenuti rifiutano il cibo dell’amministrazione in segno di protesta. Le condizioni in cui versa il carcere di Poggioreale sono state denunciate dal Vice Presidente del Consiglio regionale, Salvatore Ronghi, reduce da un sopralluogo all’interno della Casa Circondariale nel giorno della festa della Repubblica.

 

Mile, da Napoli

Lettere: a Vicenza, siamo 350 detenuti... e viviamo nel degrado

 

Il Mattino di Padova, 8 giugno 2009

 

Egregio direttore, siamo un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Vicenza (San Pio X) e ci rivolgiamo a lei per denunciare la situazione di degrado del carcere in quanto le nostre parole non sono state accolte a Vicenza. La mancanza di personale della Polizia Penitenziaria rende invano la buona volontà degli agenti nell’assistere i detenuti. Le condizioni, le strutture del carcere sono inadeguate al numero attuale di detenuti (350).

La mancanza di acqua calda, soprattutto nelle ore serali, non permette una corretta pulizia personale, della cella, del vestiario, in particolare quello intimo, ed espongono i detenuti ad un alto rischio di malattie infettive. C’è poi la questione del sovraffollamento (3 detenuti/cella 9 mq) e della promiscuità incondizionata (nazionalità, cultura, reati) che rendono le condizioni di vita nel carcere al di fuori dei limiti di una dignitosa convivenza umana.

La mancanza di attività e di un’adeguata forma di socializzazione alimenta dissapori che spesso sfociano in scontri talvolta violenti fra detenuti: di fatto è negata la libertà di culto non permettendo la partecipazione alla Messa ai detenuti, limitando la presenza a pochissime persone. La non corretta cottura degli alimenti, rende immangiabile il vitto che peraltro è fornito seguendo i principi di una corretta dieta alimentare.

Inoltre, i singoli prodotti che vengono venduti all’interno del carcere sono gravati di un sovrapprezzo rispetto al valore di mercato, del tutto ingiustificato e i vaglia postali vengono accreditati con giorni di ritardo. Ancora: il mancato accredito del vaglia postale non permette al detenuto l’acquisto delle cose di primissima necessità. Non vengono concessi gli spazi di svago, quali palestra, campo sportivo, sale socialità motivando il diniego ad una carenza di personale non imputabile ai detenuti che semplicemente ne subiscono le conseguenze.

L’ora d’aria non viene rispettata in termini di orari e tempo. Infine, le visite mediche specialistiche, si dice, vengono autorizzate dal dirigente sanitario, ma di fatto non vengono effettuate: detenuti con malattie infettive convivono con detenuti sani con comprensibile rischio di contagio, rivendichiamo una idonea sicurezza sanitaria. Ci sono difficoltà nel reperire farmaci. L’accesso alla biblioteca è difficoltoso è di fatto negato il diritto alla cultura. Per tutto quanto esposto, per i nostri diritti di esseri trattati da esseri umani, per il diritto di una detenzione giusta.

 

Lettera firmata

Calabria: la Regione avvia consultazioni su legalità e sicurezza

 

Asca, 8 giugno 2009

 

"La Regione Calabria intende sostenere la crescita del capitale sociale della comunità calabrese, soprattutto attraverso la valorizzazione del tessuto dell’associazionismo e del volontariato, al fine di contrastare e ridurre i livelli di illegalità e insicurezza".

Lo ha detto il dirigente generale del Dipartimento Presidenza, Giuseppe Fragomeni, che questa mattina, a Catanzaro, in due diversi incontri con i responsabili degli organismi più rappresentativi dell’associazionismo calabrese e con l’amministrazione penitenziaria e di giustizia minorile, con le comunità terapeutiche per tossicodipendenti e con i consorzi di cooperative sociali, ha, di fatto, avviato le consultazione sui temi della legalità e sicurezza, posti dal presidente della Giunta regionale Agazio Loiero come obiettivi strategici primari da realizzare con la nuova programmazione.

Nella prima riunione sono intervenuti i responsabili di Acli, Agesci, Arci, Caritas, Comunità Libere, Coordinamento regionale dei Csv, Libera, Movi. Ai partecipanti è stato chiesto di avanzare idee e proposte per la realizzazione di una iniziativa regionale legata alla promozione della cultura della legalità, capace di attivare cento gruppi locali e giungere alla istituzione di "Case della legalità" diffuse sul territorio regionale. Al secondo incontro hanno preso parte i rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, della giustizia minorile, delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti e dei consorzi di cooperative sociali.

In questo caso sono state esaminate alcune proposte per la realizzazione di percorsi di inclusione lavorativa di soggetti a rischio, al fine di ridurre il ricorso alla scelta criminale. In entrambi i casi i tavoli partenariali hanno espresso disponibilità a collaborare con la Regione Calabria e hanno manifestato apprezzamento per la modalità con cui si è inteso valorizzare il ruolo degli attori territoriali. In sostanza, con questa iniziativa la Regione ha concretamente intrapreso il processo di concertazione socio-istituzionale per la realizzazione di progetti di sistema, da realizzare mediante il ricorso alle risorse comunitarie. Un primo passo per la realizzazione degli organismi partenariali e tecnici previsti dalla normativa.

Rieti: il nuovo carcere resta chiuso, mancano soldi per personale

 

Il Messaggero, 8 giugno 2009

 

La denuncia arriva ormai a scadenze regolari: il nuovo carcere di Vazia è terminato da un anno ma resta chiuso perché il ministero non ha i soldi per gestirlo e per assumere il personale. Un allarme che Vladimiro Rinaldi capogruppo della Lista Storace alla Regione, rilancia ancora una volta criticando gli annunci del ministro Guardasigilli, Angelino Alfano, che vuole ridurre il sovraffollamento della popolazione carceraria attraverso la costruzione e l’apertura di nuovi penitenziari. Invece il tempo passa e per Vazia l’inaugurazione si allontana.

La ditta ha concluso i suoi lavori rispettando i termini contrattuali, il ministero ha bandito l’interpello nazionale per reclutare gli agenti di polizia penitenziaria (molti i reatini che prestano servizio in altre città italiane, già in lista d’attesa), ma per vedere il nuovo carcere in funzione occorrerà attendere, con ogni probabilità, il 2010. È anche sfumata la possibilità di trasferire i detenuti attualmente ospiti di Santa Scolastica nella nuova e moderna struttura di Vazia.

A ritardare però l’apertura è la crisi finanziaria in cui versa il mondo della giustizia in generale e, più in particolare, quello dell’edilizia penitenziaria dove non ci sono fondi per costruire nuovi carceri e neppure per l’assumere agenti di custodia. "Voglio ricordare - sottolinea Rinaldi - le dichiarazioni del garante per i detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, secondo il quale, per garantirne l’entrata in funzione, occorrerebbe una dotazione di circa 300 agenti di polizia penitenziaria oltre ad educatori e psicologi, tutte figure professionali che attualmente non ci sono".

Padova: il carcere circondariale è il più sovraffollato del nordest

 

Il Mattino di Padova, 8 giugno 2009

 

"La situazione di sovraffollamento della Casa Circondariale di Padova è la più critica tra le carceri del Nordest". A denunciarlo è il consigliere regionale Gianfranco Bettin. L’esponente dei Verdi rilancia così l’allarme sulle pesanti condizioni a cui sono sottoposti i detenuti e il personale della polizia penitenziaria, all’indomani della denuncia della Cgil sul sovraffollamento che rischia di portare al collasso il sistema penitenziario.

Sabato mattina, assieme a Marco Rigamo dell’Associazione Liberi Tutti, Bettin ha visitato le strutture del carcere Due Palazzi soffermandosi per un’ora e mezza all’interno del circondariale. La capienza della struttura, pensata per non più di cento persone, ha una soglia di tolleranza che può arrivare fino a 180 detenuti. Attualmente ne ospita 240, con le immaginabili conseguenze.

"Ci sono celle per due persone in cui sono distesi a terra cinque materassi - afferma Bettin - In quelle che invece dovrebbero ospitare quattro detenuti si stringono in otto. Sto visitando i penitenziari del Veneto e finora quella del Circondariale di Padova è la situazione decisamente più critica". Al problema delle celle sovraffollate si aggiunge poi quello della sottodotazione del personale di agenti. Attualmente al circondariale sono impiegate 110 persone. "Ma dovrebbero essere almeno 40 di più" ha chiuso Bettin.

Bollate (Mi): la direttrice; questo carcere… non è una "galera"

di Paola Rizzi

 

Metro News, 8 giugno 2009

 

Lucia Castellano è una signora napoletana allegra, abituata a frequentare assassini e spacciatori, stupratori seriali e pedofili. Lo fa con fiducia e ottimismo, ripagata dai bassi tassi di recidiva dei detenuti che escono a fine pena dal penitenziario che dirige dal 2002, il carcere "a custodia attenuata" di Bollate. Le celle sono aperte dalle 8 alle 20, tutti i 750 detenuti lavorano, 85 lavorano all’esterno, si fa teatro, c’è la sala musica, ci si incontra con i propri cari nella stanza degli affetti. Un’eccezione, nell’incubo carcerario italiano fatto di celle sovraffollate, di abbandono, di sopruso. O "tortura", come ha detto Giuseppe Grechi, presidente della Corte d’ Appello di Milano. E vuoto, 24 ore di niente dove l’unica educazione è quella del criminale più esperto, in violazione di leggi e Costituzione per le quali la pena non è punizione ma rieducazione. Un degrado che Castellano conosce fin da quando 27enne era vicedirettore a Marassi e che racconta insieme alla giornalista Donatella Stasio nel libro "Diritti e castighi".

 

Sembra che per lei il carcere andrebbe abolito…

No, ma dovrebbe essere l’estrema ratio. È sbagliato far coincidere la pena con il carcere: in galera ci dovrebbero andare solo i mafiosi, i terroristi e gli autori di delitti gravi. Per gli altri pene alternative e pecuniarie. Altrimenti si affollano le galere di detenuti che stanno troppo poco per un progetto di recupero.

 

Nel libro parla di San Vittore e Secondigliano, strutture fatiscenti, ma belle e inserite nella città, mentre le carceri nuove sono brutte, periferiche. È importante?

Sì, perché sottolineano l’esclusione: a Bollate abbiamo cercato di migliorare la situazione colorando muri grigi, ma oggi nessuno si sforza di pensare un’edilizia carceraria decente.

 

L’atmosfera più accogliente di Bollate non dipende dal fatto che da lei al comandante della polizia penitenziaria siete tutte donne?

Ma no, c’è solo un pi più di cura. Ciò che fa di Bollate un posto diverso è la sua apertura all’esterno.

 

Una buona fetta di detenuti, a Bollate il 30%, è costituita da stranieri, cosa significa recupero per loro?

Uno straniero il recupero lo fa a perdere, quando avrà finito la pena sarà espulso, quindi se devo assegnare un lavoro esterno fatalmente lo do all’italiano: è una contraddizione che produce discriminazioni. Se poi la clandestinità è un reato sarà tutto più difficile.

 

Che bisogna fare per migliorare la situazione delle carceri italiane?

Una cosa rivoluzionaria in Italia: applicare le leggi.

Villalba (Cl): nel carcere abbandonato adesso pascolano i cavalli

di Roberto Mistretta

 

La Sicilia, 8 giugno 2009

 

Due anni fa erano state le pecore a pascolare placide nell’area esterna di pertinenza del carcere di Villalba, struttura chiusa da anni per motivi burocratici tutt’ora irrisolti. Oggi, sfrattati gli ovini, è la volta degli equini. E così diversi cavalli dal pelo lustro, scorrazzano in un’area che teoricamente dovrebbe essere chiusa vietata ai non autorizzati (animali compresi), ma che nei fatti viene utilizzata senza alcuna autorizzazione.

La segnalazione comprovata da foto inequivocabili è stata fatta da un cittadino della zona e così ieri abbiamo sentito il vicesindaco Totò Zaffuto. Dice l’amministratore: "Abbiamo dato disposizioni ai vigili urbani di eseguire dei controlli ma da quanto ci hanno detto, durante tali controlli non era emerso nulla di anormale. Non so quindi a questo punto che cosa dire".

Che i cavalli ci fossero è innegabile stante che gli equini sono stati immortalati. Così come è innegabile che una struttura recuperabile giaccia dimenticata da tutti. E dire che due anni fa, dopo che "Striscia la notizia" aveva rilanciato lo scandalo di molte carceri italiani, tra cui quello di Villalba, già pronti per ospitare detenuti e che invece restano inspiegabilmente chiusi, c’erano state interrogazioni parlamentari e quant’altro, ed anche una troupe di Sky si era recata a Villalba per girare un servizio sul carcere chiuso.

Il carcere era stato anche ceduto in comodato d’uso a Casa Rosetta, ma anche quell’iniziativa non andò in porto. I problemi del carcere iniziarono quando il ministero della Giustizia chiuse la Casa Mandamentale e l’immobile diventò di pertinenza del Comune. Il carcere di Villalba si compone di 32 celle a due posti, servizi igienici e docce annesse, la cucina per 250 pasti, la lavanderia, la mensa e spazi verdi per i detenuti, nonché padiglioni per gli uffici, la matricola e gli alloggi del personale. Tutto disponibile, ma tutto chiuso… tranne per i cavalli.

Nei magazzini sotterranei si trovano riserve idriche per 350.000 litri e una bonza per il cherosene. La zona lavanderia è ancora funzionante, si potevano lavare e stirare centinaia di lenzuola al giorno; l’attrezzatura della sala cucina è stata invece smontata e rimontata nell’asilo nido.

Nel braccio dove sono le celle, sez. A e sez. B, si trovano 16 celle a due posti per ogni sezione, dotate di servizi igienici (bidet, gabinetto e armadietti), armadi e comodini a muro, letti a castello fissati al pavimento, impianto di riscaldamento e antenna tivù. Ogni cella misura circa 4 metri per 2.20 ed è chiusa da due porte ferrate: una a giorno e una per la notte, dotata di spioncino. Ogni sezione è dotata di docce. C’è anche una grande sala adibita a cappella. La zona per l’ora d’aria, si compone di circa 600 mq di spazi aperti delimitati da altissime mura (15-20 metri).

Al piano superiore del carcere si trovano due appartamenti per il personale, ogni appartamento attrezzato di tutto punto misura circa 100 mq. Ma è tutto chiuso e abbandonato mentre altrove i detenuti sono ammassati in minuscole celle. Per Villalba, minuscolo centro svuotato dall’emigrazione la riapertura della Casa Mandamentale significherebbe la creazione di un notevole indotto economico. Da qui l’impegno per la sua riapertura profuso dalla giunta comunale, impegno però che finora è caduto nel vuoto.

Rieti: "sciopero della scheda", detenuti aventi diritto non votano

 

Il Messaggero, 8 giugno 2009

 

Sciopero della scheda. I detenuti di Santa Scolastica dicono "no" al diritto-dovere di votare. È il dato saliente della seconda giornata elettorale seguita ai momenti di tensione che hanno caratterizzato la prima. In sessanta, nel carcere della città, si sono rifiutati di votare. La legge elettorale parla chiaro: i detenuti devono manifestare la volontà di votare ma ieri, davanti al presidente del seggio 1 bis scortato dalle forze dell’ordine nella Casa Circondariale di via Terenzio Varrone, nessuno degli ospiti ha voluto accettare la scheda ed esprimere nel segreto della cabina la propria volontà. "Un episodio del genere non si era mai verificato a Rieti - spiegano all’Ufficio elettorale - e va ricollegato alla protesta dei detenuti per il sovraffollamento e le pessime condizioni di vita nelle carceri italiane".

Mantova: seminario; "Favorire l'inclusione sociale dei detenuti"

 

La Gazzetta di Mantova, 8 giugno 2009

 

Nella sede della Camera di Commercio di Mantova in largo Pradella 1 il 10 giugno dalle 14.15, si terrà il seminario "Opportunità per le imprese e per il territorio: come favorire l’inclusione sociale dei cittadini detenuti". Presentato nel marzo scorso alla Regione, il progetto regionale "Responsabilità sociale di impresa: lavoro, carcere e imprese" per la promozione di interventi di inclusione sociale dei cittadini detenuti, prosegue nella sede della Camera di Commercio di Mantova. L’incontro si rivolge al mondo imprenditoriale, istituzionale e associativo, per fornire strumenti operativi legislativi e amministrativi per attuare gli inserimenti lavorativi di persone in esecuzione di pena. Obiettivo del progetto, promosso da Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia con la collaborazione di Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, Confindustria Lombardia, Confcooperative e Bergamo Formazione, è di favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese profit e no profit lombarde. Nel seminario si punta l’attenzione e si approfondiscono in particolare gli aspetti che riguardano il mondo delle imprese: i vantaggi diretti che derivano da questa opportunità sia a livello di sgravi fiscali, sia a livello di percorso di Responsabilità sociale.

Vasto (Ch): riparte il progetto "Marina Mia", con aiuto detenuti

 

Il Centro, 8 giugno 2009

 

Anche quest’anno la costa vastese compresa tra Punta Aderci e la foce del fiume Sinello potrà contare sulla cura e la pulizia garantite dai detenuti della Casa Circondariale di Vasto. È stata rinnovata, infatti, la sottoscrizione del Progetto "Marina Mia", che vede impegnati, appunto, alcuni detenuti ristretti nel carcere di Torre Sinello, nella manutenzione di questo suggestivo tratto di spiaggia. Il Progetto va avanti ormai da anni e con ottimi risultati, inizialmente con il contributo volontario e gratuito di alcuni detenuti, successivamente, grazie all’intervento della Amministrazione comunale, con l’istituzione di borse lavoro a sostegno di questo importante contributo ambientale.

I lavoratori, già dai prossimi giorni, saranno impegnati nelle operazioni di pulizia e di cura della vegetazione della zona dunale, tutte le mattine dal lunedì al sabato, sotto la supervisione dei referenti della Cooperativa Cogecstre di Penne, cui da anni è affidata la gestione della Riserva Naturale di Punta Aderci. La finalità del progetto è quella di contribuire alla cura e alla salvaguardia di un luogo di grande pregio naturalistico, ma anche di reintegrazione lavorativa delle persone detenute a vario titolo nella Casa circondariale di Torre Sinello.

Vasto (Ch): la polizia penitenziaria in protesta rifiutata la mensa

 

Il Centro, 8 giugno 2009

 

Cresce il malcontento fra i 225 agenti della polizia penitenziaria del carcere di Torre Sinello. Gli agenti da due settimane in stato di agitazione, per protesta giovedì hanno rifiutato i pasti dell’amministrazione. I sindacati Sappe, Osapp, Cgil-Fp, Cisl-fsn, e Uil-papen chiedono maggiori risorse, il riordino delle carriere, il rinnovo del contratto e il ricambio del personale. "Rivendicazioni più volte palesate ma rimaste inascoltate", lamentano.

Lo stato di agitazione permarrà fino a quando non ci saranno novità nella spinosa trattativa sindacale. Secondo i sindacati ad aggravare il disagio degli agenti in servizio a Torre Sinello ci sono anche le difficili relazioni sindacali con la direzione dell’istituto di pena. Gli operatori, sotto organico di almeno 40 unità, invocano il confronto e il dialogo con il dirigente della casa circondariale, Carlo Brunetti, e il ripristino delle corrette relazioni sindacali. Torre Sinello ha 120 detenuti. L’effetto indulto è un ricordo.

Padova: i detenuti-pasticceri hanno creato un "Dolce del Santo"

 

Il Padova, 8 giugno 2009

 

I suoi creatori l’hanno battezzata la "Noce del Santo". Dentro il "guscio" di questo nuovo dolce in vendita a partire dai prossimi giorni nel negozio del chiostro della Basilica, le speranze di riscatto sociale dei detenuti-pasticceri del laboratorio gestito dalla cooperativa Giotto all’interno del carcere. Nella fase di gestazione che ha portato alla nascita della Noce, i frati del Santo hanno avuto un ruolo determinante.

"L’idea di un dolce dedicato a Sant’Antonio - racconta il rettore del Santo padre Enzo Poiana - mi è venuta un anno fa quando ho visitato i laboratori del Due Palazzi. Con i rappresentati della cooperativa abbiamo consultato la nostra biblioteca per capire cosa mangiavano i frati all’epoca di Sant’Antonio". Un lavoro di studio e ricerca che ha portato all’ideazione di questa nuova ricetta dai sapori antichi.

Per ogni Noce venduto, un euro sarà devoluto i progetti di solidarietà della Caritas antoniana. Il presidente dell’azienda Turismo Padova Terme euganee Ubaldo Lonardi si dice pronto a scommettere sul successo del dolce, cui i frati hanno deciso di "concedere" anche lo stemma antoniano: "Il carcere si mostra come una realtà inserita dalla città, tanto da sopperire a un deficit nel marketing turistico: mancava fino a questo momento un dolce che identificasse il territorio e che fosse facilmente trasportabile in valigia". Insomma, la nuova Noce potrebbe rivelarsi un "souvenir" appetibile per le migliaia di pellegrini che ogni anno visitano la Basilica.

Alla vendita diretta si affianca la vendita on-line, con la possibilità di richiedere spedizioni in ogni parte del mondo. "Fra i detenuti che hanno la possibilità di lavorare - ha ricordato il presidente della cooperativa - la recidiva, ovvero la percentuale di coloro che tornano a delinquere una volta usciti dal carcere, è praticamente nulla".

Al contrario, la quasi totalità di coloro che non usufruiscono di questa opportunità finisce con il commettere nuovi reati. Ecco che, spiega Boscoletto, investire in progetti di questo tipo "significa investire sulla sicurezza e risparmiare alti costi sociali".

La visita dei frati in Basilica è stata segnata da alcuni momenti forti. Alle 10 padre Poiana ha celebrato l’eucaristia con i detenuti. Durante l’omelia ha rivolto loro parole di speranza: "Ognuno di noi - ha detto ricordando un’espressione di Sant’Antonio - vale tanto quanto vale agli occhi di Dio". Poi, un gesto significativo: i frati hanno consegnato nella mani dei detenuti un esemplare autentico di noce del Santo, un piccolo arbusto "figlio" della pianta cara a Sant’Antonio, che verrà piantato nel giardino del Due Palazzi.

Catania: progetto "Teatro e Legalità", in parallelo con le carceri

di Daniela Domenici

 

La Sicilia, 8 giugno 2009

 

L’attore, regista e autore Nicola Costa porterà il 12 e il 13 giugno prossimi all’interno della Casa Circondariale di piazza Lanza a Catania un suo progetto teatrale, nato per volontà del Garante per i diritti del detenuto della Regione Siciliana, on Salvo Fleres. Questo progetto itinerante in alcune carceri siciliane è costituito da due lavori inediti di Costa, "Terra mia" e "Scacco matto al Re", un atto unico che parla del difficile rapporto tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria ai quali è dedicato lo spettacolo del giorno 12.

Nicola Costa, vincitore di vari premi tra cui il Premio Letterario Europeo di Terni e il Premio Nazionale "i Fiumi", ha coinvolto in questo suo progetto, che a settembre sarà portato nell’altro carcere catanese, quello di Bicocca, due dei suoi colleghi docenti dell’Accademia del Teatro del Tre, Gaetano Lembo e Riccardo Maria Tarci, e una collega attrice, Alice Ferlito.

"Terra mia" è una specie di viaggio nella letteratura siciliana grazie ai versi di grandi poeti e scrittori come Omero, Goethe, Quasimodo, Pirandello, Sciascia e Fava. Il regista Nicola Costa, alla domanda se il teatro può essere anche considerato uno strumento sociale, così ha risposto :"L’arte non può essere considerata un fenomeno per far cassetta - diceva Ludwig Van Beethoven - né tantomeno uno strumento di propaganda politica, aggiunge il sottoscritto.

È piuttosto un veicolo fondamentale attraverso cui sollecitare emozioni e riflessioni sopite. Per un teatrante come me, in attività da sempre, è impossibile sottrarsi alla tentazione di fornire un contributo alla propria terra. Sono felice e fiero che, tra tanti professionisti, la scelta di condurre dei progetti così delicati sia ricaduta su di me. Questo progetto "Teatro e Legalità", in parallelo con le carceri, coinvolge anche le scuole sempre sotto la direzione artistica di Nicola Costa.

Rieti: cocaina a detenuto; agente condannato a 3 anni di pena

 

Il Messaggero, 8 giugno 2009

 

Condannato e licenziato, non è facile rintracciare precedenti analoghi alla sentenza emessa dal Tribunale di Rieti che ha definito in primo grado la vicenda nella quale era rimasto coinvolto un agente di polizia penitenziaria, in servizio nel carcere di Santa Scolastica fino al 2007, un detenuto e la sua compagna.

L’agente, Enrico S., sardo, era accusato di corruzione per aver favorito la consegna di dosi di cocaina da parte della donna, Silvia M., al suo compagno arrestato proprio per reati di droga. Il collegio giudicante (presidente Bresciano, con Scipioni e Soana) ha ritenuto provato il pagamento di denaro all’agente perché, nel corso delle perquisizioni personali che precedono i i colloqui in carcere, chiudesse un occhio sulla cocaina trasportata dalla donna. Alla guardia penitenziaria il tribunale ha inflitto tre anni di reclusione oltre a una serie di pene accessorie tra le quali l’interdizione dai pubblici uffici, e ha dichiarato inoltre "l’estinzione del rapporto di impiego tra l’imputato e l’amministrazione penitenziaria". All’imputata i giudici hanno invece inflitto due anni di reclusione. Gli atti della sentenza sono stati poi trasmessi alla Corte dei Conti.

Un primo stralcio, a carico dello stesso detenuto Patrizio D., romano, era stato celebrato a marzo 2007 e si era concluso con la condanna inflittagli dal giudice dell’udienza preliminare, Roberto Saulino, a 4 anni e 4 mesi oltre a 20 mila euro di multa. Per lui le accuse erano di corruzione e detenzione illegale di sostanze stupefacenti, le stesse contestate agli altri due imputati.

L’inchiesta, coordinata sin dall’inizio dal pubblico ministero Lucia De Santis che ha poi sostenuto anche l’accusa nei diversi processi sollecitando condanne più pesanti per i tre imputati, aveva preso le mosse da una segnalazione partita dalla direzione del carcere perché erano stati gli stessi colleghi di Steri a nutrire i primi sospetti sul suo comportamento. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali oltre che dalle deposizioni raccolte durante l’indagine condotta dalla sezione di polizia di stato presso la procura, è stato possibile ricostruire le modalità del passaggio della droga, qualche grammo alla volta, consegnata dalla donna al pregiudicato.

Immigrazione: Amnesty; dall’Ue più impegno comune per "asilo"

 

Asca, 8 giugno 2009

 

I ministri degli Interni dell’Unione europea (Ue) dovrebbero lanciare un chiaro segnale politico del loro impegno nel creare una politica d’asilo comune, basata su alti standard di protezione per coloro che fuggono dalla persecuzione e da gravi violazioni dei diritti umani. Lo ha dichiarato Amnesty International in occasione del Consiglio giustizia e affari interni che si tiene oggi e domani a Lussemburgo.

I ministri sono chiamati a discutere la riformulazione dell’attuale legislazione dell’Ue sull’asilo e l’immigrazione irregolare nel Mediterraneo. In una lettera alla presidenza della Repubblica Ceca, Amnesty International ha richiesto ai ministri un approccio orientato alla protezione rispetto alle proposte della Commissione sull’asilo. Ha inoltre sottolineato che le politiche di asilo dell’Ue devono essere pienamente in linea con il diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati.

"L’Ue ha le potenzialità e la capacità di sviluppare un Sistema europeo comune di asilo che possa funzionare come modello per altre regioni del mondo. È giunto il momento che l’Ue risponda a queste aspettative e assicuri che il diritto d’asilo sia rispettato nella pratica" - ha dichiarato Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso l’Ue.

Amnesty International ha inoltre condannato la decisione dell’Italia di inviare in Libia migranti soccorsi in mare, senza un’adeguata valutazione dei loro bisogni di protezione. L’organizzazione teme che essi possano essere a rischio di gravi violazioni dei diritti umani e ha chiesto all’Ue di esprimersi contro questa prassi, ricordando inoltre che essa costituisce una violazione del diritto internazionale e regionale dei rifugiati e dei diritti umani.

Amnesty International è, inoltre, molto preoccupata per le recenti proposte di esternalizzare la valutazione dei bisogni di protezione dei richiedenti asilo affidandola a paesi terzi, tra cui la Libia. Al momento la Libia non è parte della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e non ha un sistema di asilo che consenta di identificare adeguatamente le persone bisognose di protezione internazionale.

"C’è un’enorme differenza tra i tentativi sinceri, da parte di stati membri dell’Ue, di aiutare i paesi terzi a divenire in grado di proteggere adeguatamente i diritti dei rifugiati e dei migranti, e l’intenzione di scaricare semplicemente su questi paesi le proprie responsabilità" - ha detto Beger. "L’Ue non può meramente appaltare i propri obblighi derivanti dal diritto internazionale a paesi dove non esistono garanzie per persone bisognose di protezione. Le persone rinviate forzatamente in Libia dagli stati membri dell’Ue rischiano condizioni di detenzione degradanti e l’ulteriore espulsione verso paesi dove potrebbero subire imprigionamenti e torture".

Amnesty International ha visitato la Libia nel maggio 2009 e ha potuto accedere al centro di detenzione di Misratah, dove diverse centinaia di migranti considerati irregolari sono trattenuti in condizioni di grave sovraffollamento. Molti di essi sono cittadini di paesi come l’Eritrea, la Somalia e il Sudan, dove gravi violazioni dei diritti umani sono perpetrate quotidianamente. Alcuni di essi hanno dichiarato ad Amnesty International di essere detenuti a Misratah già da due anni. L’organizzazione ha anche ricevuto denunce circa le condizioni inumane di trattamento in altri centri di detenzione per migranti del paese.

"L’attuale prassi attuata ai confini meridionali dell’Ue evidenzia ancora una volta la necessità di un Sistema europeo comune di asilo basato su alti standard di protezione, come richiesto dal diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti umani" - ha concluso Beger.

Immigrazione: "Niente paura"… ritorna il Meeting Antirazzista

 

Redattore Sociale, 8 giugno 2009

 

Dal 10 al 18 luglio a Cecina e Livorno. Evento organizzato dall’Arci: in programma dibattiti, presentazioni di libri, musica, teatro. Tra gli appuntamenti l’Assemblea dei migranti e la giornata dedicata ai rom.

Si preannuncia di grande attualità la 15esima edizione del Meeting internazionale antirazzista, in programma a Cecina e Livorno dal 10 al 18 luglio. Mai come negli ultimi mesi, infatti, i temi dell’immigrazione, dell’integrazione e della xenofobia sono stati al centro del panorama politico-sociale italiano ed europeo. Al Meeting organizzato dall’Arci si affronterà la tematica attraverso eventi culturali, seminari, laboratori culturali, convegni, assemblee pubbliche e tavole rotonde, workshop e presentazioni di libri.

Tra gli appuntamenti più rilevanti da segnalare la kermesse di apertura, che si svolgerà presso la Fortezza Medicea di Livorno la sera di venerdì 10 luglio, che vedrà alternarsi sul palco artisti di diverse aree culturali che offriranno momenti di musica, teatro, con una testimonianza e riflessione contro la cultura della paura. Tra gli altri eventi l’Assemblea dei migranti sabato 11 a Livorno, la Giornata dedicata al popolo rom e le università estive, che vengono ripetute dopo il successo della scorsa edizione e che vedono coinvolti operatori e addetti ai lavori in un momento formativo altamente qualificato, centrato quest’anno sui due temi del diritto d’asilo e del razzismo. Molti saranno i temi trattati, tra cui la comunicazione e l’informazione, la salute, i servizi, i diritti, la scuola, i cambiamenti legislativi in atto, grande attenzione verrà inoltre dedicata alle reti internazionali e alla partecipazione giovanile.

A questo appuntamento hanno preso parte in questi anni migliaia di persone provenienti da tutta Europa e dall’area del Mediterraneo, in prevalenza ragazzi e ragazze di organizzazioni impegnate nel campo dell’antirazzismo, studiosi, esponenti di sindacati, associazioni di categoria e rappresentanti delle amministrazioni pubbliche di vari paesi e di diversi livelli.

Promosso dalla regione Toscana, dagli enti locali della provincia di Livorno e dal Cesvot, il Meeting internazionale antirazzista è oggi uno degli appuntamenti più importanti del movimento antirazzista italiano e internazionale, che punta a costruire solide alleanze con le amministrazioni pubbliche, con il mondo della cultura e dello sport, con l’università, la scuola e il mondo del lavoro.

Europa: 600mila i detenuti nell’Ue, 131mila in attesa di giudizio

di Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro

 

Liberazione, 8 giugno 2009

 

Sono circa 600 mila i detenuti ristretti nelle carceri dell’Unione Europea, dei quali 131mila in attesa di giudizio. La popolazione carceraria europea è cresciuta negli ultimi anni in 23 dei 27 paesi e in 14 paesi è allarme sovraffollamento. All’Italia spetta il primato per il numero di detenuti in attesa di giudizio (il 60% della popolazione carceraria) ed è tra i primi posti per quel che riguarda sovraffollamento e aumento del tasso di carcerazione.

Alla vigilia delle elezioni europee riteniamo sia doveroso, per un partito comunista, impegnarsi per un’Europa dei diritti, anche per chi è ristretto nella propria libertà personale. Perché il carcere è la cartina di tornasole dello stato di salute di una democrazia. Perché in carcere dovrebbe essere limitata esclusivamente la libertà di movimento e non anche i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto di vivere in un luogo salubre e non in celle sovraffollate. Perché la pena dovrebbe tendere al reinserimento sociale del condannato e non alla vendetta di stato. Perché la sanzione penale dovrebbe essere comminata soltanto per condotte che effettivamente ledono i diritti altrui.

La discussione sulla giustizia in Europa va condotta con serietà e non con trovate populiste e demagogiche. Troppo spesso la destra e la sinistra moderata, in Europa come in Italia, alimentano emergenze, e sotto lo slogan della sicurezza propongono norme razziste e violente, al sol fine di alimentare la guerra tra poveri, nascondere le proprie responsabilità di governanti (a partire dal decollo del welfare state), e creare consensi elettorali.

Dunque, nel processo europeo di uniformazione del diritto penale, deve essere data priorità alla diminuzione delle fattispecie penali in quanto soltanto tale riduzione può snellire il carico di lavoro dei tribunali e, di conseguenza, migliorare l’efficienza degli stessi.

Pertanto in Italia è inutile parlare di ampliamento delle carceri se non si cancellano le leggi riempi carceri (la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva).

Oggi i detenuti nelle patrie galere hanno superato le 63mila unità contro una capienza regolamentare di circa 43mila posti. I detenuti aumentano di 1000 unità al mese, così che nel 2012, se il trend non cambierà con l’abrogazione, quanto meno, delle tre leggi appena citate, arriveremo a quota 100mila. Dunque, il piano carceri è un bluff, in quanto prevedendo un aumento di 17mila nuovi posti letto entro il 2012, non risolverà il dramma del sovraffollamento perché comunque anche nel 2012 avremo 40mila persone in più rispetto la capienza regolamentare.

Tornando all’Europa, e alla nostra idea di giustizia, riteniamo che nel processo di unificazione dell’esecuzione delle pene, deve essere accordata preferenza alle misure alternative alla detenzione carceraria, in quanto le misure restrittive della libertà diverse dal carcere abbattono la recidiva molto più che la pena carceraria.

Basti pensare che in Italia, secondo le statistiche del Ministero, reitera il reato il 68% degli ex detenuti, mentre cade nella recidiva il 19% di coloro che hanno usufruito di una misura alternativa.

Eppure tali dati non vengono mai presi in considerazione dall’attuale legislatore forcaiolo né dai media. Il primo preferisce aumentare le preclusioni all’accesso alle misure alternative e le fattispecie penali. I secondi preferiscono enfatizzare gli episodi di recidiva di chi è in misura alternativa o ha beneficiato dell’indulto. Eppure durante le esecuzioni delle misure alternative sono davvero pochi, meno dell’1%, coloro i quali commettono reati. Eppure un recente studio, condotto da Giovanni Torrente dell’Università di Torino, ha addirittura dimostrato che la recidiva di chi ha usufruito dell’indulto si è attestata sul 27%, molto meno della recidiva ordinaria (68%).

L’Europa che vogliamo è l’Europa dei diritti universali, dove il termine sicurezza deve indicare, in primo luogo, la sicurezza dei diritti civili e sociali della gente.

Europa: nasce Rete per reinserimento socio-lavorativo ex detenuti

 

Ansa, 8 giugno 2009

 

È stato lanciata in un incontro a Brema, in Germania, la Rete tematica europea "Ex offenders" per il reinserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti. Un itinerario - riferisce l’agenzia Sir - che prevede un percorso triennale di recupero umano e reintegrazione sociale. Prima tappa: definire il programma entro la fine di settembre 2009.

Meta finale: abbattere, attraverso la condivisione di buone pratiche e lo scambio di idee tra Paesi europei, i "muri" che molti ex detenuti incontrano uscendo dal carcere. Agli 11 Paesi coinvolti nel progetto: Germania, Italia, Austria, Belgio, Inghilterra, Irlanda del Nord, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Spagna, Ungheria, si sono aggiunti recentemente Grecia e Slovenia.

Questo primo incontro a Brema ha visto la partecipazione di due direzioni generali della Commissione europea: Educazione e Cultura, ed Impiego e Affari sociali, a dimostrare, si legge in una nota, "la volontà di integrazione tra interventi e politiche di formazione e di lavoro a livello europeo", con l’obiettivo "di inserire gli interventi per gli ex detenuti nel contesto europeo delle iniziative di formazione permanente, nella convinzione che la formazione in carcere non debba essere intesa come separata dall’educazione rivolta agli adulti". (Vedi comunicato ufficiale - in pdf)

Libia: da tre mesi più di 1.500 nigeriani sono nelle carceri libiche

 

Redattore Sociale, 8 giugno 2009

 

Oltre 1500 nigeriani detenuti da 3 mesi nelle carceri libiche. Le autorità dello Stato di Edo, nel sud della Nigeria, hanno espresso preoccupazione per le loro condizioni. Un testimone contattato telefonicamente dal giornale ha denunciato violenze da parte della polizia libica. Sei donne sarebbero rimaste incinta in seguito alle violenze sessuali subite dalle forze di sicurezza di Tripoli.

Oltre 1.500 nigeriani originari dello Stato di Edo, nel sud della Nigeria, si trovano da tre mesi nelle carceri libiche dopo essere stati fermati mentre cercavano di raggiungere l’Europa. Secondo un testimone, raggiunto telefonicamente da Vanguard, i detenuti, uomini e donne, hanno subito aggressioni e abusi da parte della polizia libica. La stessa fonte ha denunciato che ci sono sei donne che sono rimaste incinta dopo essere state violentate da agente delle forze di sicurezza libiche.

Insieme ai nigeriani sono stati arrestati decine di cittadini del Mali e del Kenya, per un totale di 3.000 persone. Gli immigrati maliani e keniani sarebbero però già stati rilasciati dopo l’intervento dei governi dei paesi d’origine. Le autorità dello Stato di Edo hanno espresso preoccupazione per le condizioni di vita degli immigrati incarcerati e ha promesso che farà il possibile per liberarli. Un deputato nigeriano, Samson Osagie, ha promesso che insieme a una delegazione viaggerà in Libia fra due settimane per cercare di ottenere il rilascio. "La situazione è molto triste - ha dichiarato - e sappiamo che le ragazze già sono state espulse".

Corea Nord: due giornaliste condannate a 12 anni di lavori forzati

 

Agi, 8 giugno 2009

 

C’è "profonda preoccupazione a Washington per la condanna a 12 anni di lavori forzati di due giornaliste statunitensi da parte di un tribunale nordcoreano. "Siamo impegnati attraverso tutti i canali per arrivare alla loro liberazione" ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Ian Kelly.

Laura Ling ed Euna Lee erano state arrestate al confine tra Cina e Corea del Nord il 17 marzo scorso mentre realizzavano un reportage sui rifugiati. Le guardie di frontiera di Pyongyang le hanno catturate lungo il fiume Tumen che segna il confine tra i due Paesi.

"I nostri pensieri sono per le famiglie delle due giornaliste in questi momenti così difficili" ha detto Kelly, "ancora una volta chiediamo alla Corea del Nord di rilasciare le due giornaliste americane per motivi umanitari". Già in passato si è arrivati alla liberazione di giornalisti americani catturati in Corea del Nord, ma sempre dopo un intervento individuale e non istituzionale. Per questo non è escluso che l’ex vicepresidente Al Gore intraprenda una missione a Pyongyang per ottenere il rilascio delle due donne.

Francia: parte il "Tour dei detenuti", con la scorta di 124 agenti

 

Ansa, 8 giugno 2009

 

Recuperare socialmente il detenuto non è impresa facile. Aiutarlo nel reinserimento in società, magari dopo anni passati all’interno di una cella, può essere un lavoro faticoso anche per le istituzioni più moderne e progressiste.

C’è però una novità. In Francia i detenuti del carcere di Lille parteciperanno a un Tour de France davvero speciale, organizzato solo per loro. "È un modo per evadere" dice ironicamente uno dei partecipanti mentre all’interno della palestra del carcere si allena pedalando alla cyclette.

I detenuti pedaleranno lungo i 2.300 chilometri del percorso, scortati da 124 persone fra guardie e allenatori e si fermeranno in 17 città del Paese. Ogni città in cui il tour si fermerà è dotata di una casa circondariale ma questi speciali corridori dormiranno in hotel. La gara non prevede una classifica finale e nemmeno la possibilità di sprintare a poche centinaia di metri dal traguardo.

Grazie al Tour i prigionieri potranno farsi vedere dai loro familiari in situazioni meno degradanti da quelle di una stanza parlatorio. Dobbiamo essere in grado di dimostrare alle autorità che siamo persone responsabili, che possiamo avere successo nella vita e che si possa tenere in considerazione anche la possibilità di una riduzione della pena" dice uno dei detenuti. Intanto, gli allenatori si danno da fare per motivare gli improvvisati atleti e li aiutano nella preparazione della gara.

Per tutti l’obiettivo è quello di giungere a Parigi dove ci sarà l’arrivo della gara. L’iniziativa è comunque positiva: far lavorare in equipe i detenuti, abituarli a condividere la fatica, le gioie e i dolori è il traguardo dichiarato delle direttrici penitenziarie che si sono date da fare per portare a termine il progetto.

 

 

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