Rassegna stampa 10 giugno

 

Giustizia: Bossi e Di Pietro; il modello populista sulla sicurezza 

di Ilvo Diamanti (sociologo)

 

La Repubblica, 10 giugno 2009

 

Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L’unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi.

Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l’è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative. Nell’insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l’Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all’agenda politica, in campagna elettorale.

In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all’inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L’Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l’eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un’opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all’indulto.

Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L’Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D’altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader.

I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l’Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l’insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione.

Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L’esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D’altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall’Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po’ esule a casa propria.

Giustizia: su sicurezza, solo propaganda e strumentalizzazioni

di Gian Carlo Caselli

 

La Stampa, 10 giugno 2009

 

Sicurezza. Sicurezza. Sicurezza... Un bene primario, non c’è dubbio. Da tempo lo si invoca, nel nostro Paese, con toni sempre più forti. In campagna elettorale spesso esagitati. Ma la propaganda e le strumentalizzazioni possono giocare brutti scherzi.

Per esempio possono spingere a scelte illogiche, incoerenti al limite della schizofrenia. Penso a chi per tutelare la sicurezza ha previsto persino l’impiego dell’esercito nelle strade. Penso a chi ordina alla flotta di respingere in Libia dei disgraziati in cerca di sopravvivenza. Penso a chi vorrebbe pattugliare le strade delle nostre città con ronde di salute pubblica.

Attenzione: non voglio discutere (in questa sede) il merito dei provvedimenti. Mi chiedo invece come si possa mettere in campo, su alcuni versanti, tutto e di più (esercito, flotta e ronde), quando quel che funziona su altri - ancor più decisivi - versanti viene disinvoltamente smantellato. Mi riferisco alla nuova disciplina delle intercettazioni, che della sicurezza sembra farsi carico poco o nulla, dal momento che si ostacolano o si condannano ad esiti infausti le indagini su delitti anche gravissimi, indagini che proprio della sicurezza sono il primo e più solido baluardo. Con buona pace, appunto, della logica e della coerenza nelle scelte.

L’esperienza di una qualunque Procura offre ogni giorno un elenco interminabile di casi risolti grazie alle intercettazioni telefoniche o ambientali. Ogni giorno fior di colpevoli vengono individuati, e persone innocenti sono scagionate da false accuse, grazie a questo insostituibile strumento di indagine, fonte di certezze processuali. La nuova disciplina ne riduce drasticamente le potenzialità, di fatto lega le mani agli investigatori.

Ciò significa (non c’è trucco che possa cancellare questa verità) garantire impunità o quasi a fior di delinquenti che non siano mafiosi o terroristi ma "soltanto" assassini, rapinatori, estorsori, stupratori, pedofili, bancarottieri, corruttori, usurai, sfruttatori di prostitute, trafficanti di droga e via elencando. Semplicemente assurdo. Ancor più assurdo se a pretendere o a sostenere la riforma, accettando una sicura catastrofe per la loro e la nostra sicurezza, sono proprio coloro che continuamente strillano di "tolleranza zero".

Per cogliere meglio tale assurdità, supponiamo che un portavoce del Governo si presenti all’ordine dei medici per dire: "voi avete a disposizione radiografie, tac, risonanze magnetiche e altre cosucce del genere. Bene, da domani si cambia. Tornate alle sanguisughe e accontentatevi". Se mai questo paradosso (proposizione formulata in contraddizione con i principi elementari della logica) diventasse realtà, si ribellerebbero all’istante non solo i medici, ma tutti i cittadini italiani. Nessuno, uomo o donna, vecchio o bambino, leghista o democratico di sinistra, berlusconiano o finiano, consentirebbe a chicchessia di giocare con la sua pelle. Ci sarebbero tumulti di piazza in ogni dove, per difendere il sacrosanto diritto alla salute.

Spostiamoci ora dal settore della sicurezza sanitaria a quello della sicurezza sociale. Le intercettazioni sono vere e proprie "radiografie giudiziarie" che consentono di vedere in profondità, dentro i fatti da punire, scoprendone i responsabili. Bene: la riforma delle intercettazioni su cui il Governo intende mettere la fiducia equivale al discorso ipotizzato per i medici. E come se ai magistrati e alle forze dell’ordine si dicesse: scordatevi le intercettazioni, rinunziate a questi strumenti di indagine; troppo moderni; tornate alle "soffiate" di qualche confidente.

Difatti, consentire le intercettazioni soltanto quando vi sono indizi di colpevolezza "gravi" (la sostanza non cambia scrivendo "obiettivi" o "rilevanti") significa che in sostanza le intercettazioni potranno essere date soltanto in rari casi e che un bel numero di delinquenti (molti, molti più di oggi) riusciranno a farla franca. Forse che quando si tratta di intercettazioni ci si può consentire il lusso di ridurre la sicurezza ad un optional?

Fino a che punto i cittadini si rendono conto che con una mano si alzano muri (magari di cartapesta) e con l’altra si smantellano i veri bastioni della sicurezza, cioè le intercettazioni? Sembrerebbe che i cittadini siano vittime di un qualche sortilegio, perché se ne stanno buoni, mentre se si trattasse di sicurezza sanitaria protesterebbero, eccome!

Nessuno nega che vi sia il problema di impedire l’uso processuale e più ancora la divulgazione delle intercettazioni relative a soggetti, fatti o circostanze che sono estranei all’oggetto del processo. Al riguardo il progetto di riforma fissa dei paletti rigorosi e merita approvazione. Ma al di là di questo perimetro le potenzialità investigative delle intercettazioni vanno garantite, nell’interesse dei cittadini comuni.

Anche se qualche "potente" la pensa diversamente. Perché da sempre gli "arcana imperii" segnano le barriere con cui il potere cerca di proteggere le sue deviazioni. Le intercettazioni violano queste barriere, mettono a nudo il potere. Per cui ben si spiega l’ostilità di certa politica per gli incisivi controlli che le intercettazioni consentono. Ma questa ostilità non è certo un buon motivo per scagliare un siluro sotto la linea di galleggiamento della sicurezza di tutti gli altri italiani.

Giustizia: l’Italia, un paese di indagati… forse c’è un problema

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 10 giugno 2009

 

Provate a fare un sondaggio. Chiedete a un vostro amico o a un conoscente se è stato mai indagato o se conosce qualcuno che è stato sottoposto ad un’inchiesta. Noterete che la risposta, dopo una breve riflessione, sarà molto probabilmente positiva. Ma allora l’Italia è un Paese di indagati? Difficile rispondere.

La sensazione che si ha è che oggi un avviso di garanzia non si nega a nessuno. Basta fare un giro in un Palazzo di Giustizia per accorgersene. Un’impresa mal gestita. Un diverbio tra automobilisti. Una veranda forse abusiva. Un medico denunciato di negligenza. Indagati! Per non parlare di chi ricopre cariche pubbliche. A loro sembra essere riservato un trattamento particolare. Il monito: Non devi fare nulla. Non puoi intraprende nessuna attività innovativa o risolutiva. Il rischio: l’apertura di un’indagine. Bertolaso docet. Ora, intendiamoci.

Qui le cose sono due. O, l’Italia è una Repubblica basata sul reato. Oppure, siamo di fronte a un ricorso esorbitante e malato dello strumento investigativo. Nel primo caso, c’è poco da fare. Se siamo un Paese di delinquenti è inutile pure fare le indagini. Se invece, si indagano cittadini e pubblici amministratori senza verificare attentamente la fondatezza della notizia di reato.

Se, cosa ancor peggiore, si mandano avvisi di garanzia per moda, per abitudine o per notorietà, beh, allora le cose cambiano. E di tanto. In questo caso, infatti, ci troveremo di fronte ad una patologia nell’uso dell’accertamento giudiziario. Una patologia grave in un sistema democratico. Una patologia di cui i politici si ricordano solo quando ricevono un avviso di garanzia.

Giustizia: Csm; con il reato di clandestinità molti uffici paralizzati

 

Ansa, 10 giugno 2009

 

Le norme contenute nel pacchetto sicurezza, pronto per l’approvazione definitiva alla Camera, "ledono i diritti dei clandestini e dei loro figli" laddove vietano la registrazione all’anagrafe dei nuovi nati figli di immigrati senza permesso di soggiorno, ma comporteranno anche una "totale paralisi" di "molti degli uffici giudiziari". A suggellare il proprio "no" unanime alle misure del governo è la Sesta Commissione del Csm in un parere al ddl approvato all’unanimità e che oggi sarà discusso dal plenum di Palazzo dei marescialli.

 

Lesi i diritti dei bambini alla propria identità

 

Proprio la norma che impone il divieto di registrazione dei bambini se figli di genitori privi di permesso di soggiorno si pone "in contrasto - scrivono i consiglieri - con il diritto della persona di minore di età alla propria identità personale e alla cittadinanza da riconoscersi immediatamente al momento della sua nascita", sancito dalla Convenzione sui diritti del fanciullo di New York il 20 novembre 1989 e che è stata ratificata dall’Italia. Si determina così "una iniqua condizione" del figlio di stranieri irregolari, che verrebbe non solo "privato della propria identità" ma che "potrebbe essere più facilmente esposto" ad adozioni illegali attraverso "falsi riconoscimenti da parte di terzi, per fini illeciti e in violazione della legge ".

 

Per i migranti irregolari adulti violato il diritto alla salute

 

Quanto ai clandestini adulti, i consiglieri mettono in evidenza la lesione del loro diritto alla salute, e di altri beni fondamentali tutelati dalla Costituzione. Ci sarà "una inevitabile incidenza negativa - scrivono infatti - del nuovo reato di clandestinità" sull’accesso a servizi pubblici essenziali che riguardano "beni fondamentali" come il diritto alla salute da parte degli immigrati non dotati di valido titolo di soggiorno. E questo perché proprio in forza del codice di procedura penale "tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di denuncia in relazione alla cognizione funzionale di un reato procedibile d’ufficio". Senza deroghe a questo obbligo "il rischio concreto è che si possano creare circuiti illegali alternativi che offrano prestazioni non più ottenibili dalle strutture pubbliche".

 

Si avrà la paralisi di molti uffici giudiziari

 

Comporterà la "totale paralisi" di "molti degli uffici giudiziari" l’introduzione del reato di clandestinità. Ad avvertire delle "pesanti ripercussioni negative" che la novità avrà è la Sesta Commissione del Csm nel parere al pacchetto sicurezza approvato all’unanimità. Oltretutto, sottolineano i consiglieri, la nuova norma "non appare idonea a conseguire l’intento di evitare nel nostro Paese la circolazione di stranieri entrati irregolarmente"."Il reato di clandestinità provocherà un eccezionale aggravio dei processi" - L’introduzione del reato di clandestinità determinerà un "eccezionale aggravio" sull’attività giudiziaria, spiegano i consiglieri, proprio "l’imponenza quantitativa del fenomeno dell’immigrazione irregolare nel nostro Paese". E le conseguenze peggiori saranno per i giudici di pace: saranno "gravati da centinaia di migliaia di nuovi processi, tali da determinare la paralisi di molti uffici". Ma problemi si avranno anche per gli "uffici giudiziari ordinari impegnati nel processo in primo grado e nelle fasi di impugnazione successive".

 

Carceri già allo stremo, verrebbero ulteriormente gravate

 

Il tutto peraltro senza che la norma serva al suo stesso scopo, quello di favorire l’allontanamento dei clandestini. I consiglieri dubitano espressamente del suo "effetto deterrente": "Una contravvenzione punita con pena pecuniaria non appare prevedibilmente efficace per chi è spinto a emigrare da condizioni disperate; senza dire che "già la normativa vigente consente alle autorità amministrative competenti di disporre l’immediata espulsione dei clandestini"; uno strumento su cui pesano "non già carenze normative ma difficoltà di carattere amministrativo e organizzativo". Ma non sarà solo il reato di clandestinità a pesare sugli uffici giudiziari: anche le diverse norme del pacchetto che prevedono inasprimenti sanzionatori o nuovi reati e su cui il giudizio di merito "é positivo", avranno l’effetto di produrre "un ulteriore carico per il sistema penale, già particolarmente gravato e in evidente crisi di effettività" e per le carceri, "ormai allo stremo, avendo superato le 62mila presenze giornaliere".

Giustizia: Napolitano ai magistrati; basta con i "protagonismi"

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 10 giugno 2009

 

Il capo dello Stato ha voluto anche fare il giro di tavolo e stringere la mano a ciascuno dei consiglieri del Csm per ribadire, con un gesto non previsto dal cerimoniale, che il plenum e il suo presidente sono una cosa sola. Eppure, nella seduta convocata per discutere, sulla scia del caso Napoli, dei rapporti procuratore capo-pm, Giorgio Napolitano non ha risparmiato critiche alle toghe.

Premesso che bisogna evitare "strappi" costituzionali sul cammino delle riforme, ha messo in guardia i magistrati invitandoli ad "auto correggersi" davanti a una crescente crisi di fiducia nel sistema giustizia: "Quanto più ciascun pm si esponga in iniziative di dubbia sostenibilità, ignorando o condizionando il ruolo che spetta al capo della procura, tanto più la figura del pm finisce per non potere reggere agli attacchi dall’esterno della magistratura".

E di seguito è arrivato un richiamo al Csm che non deve farsi "condizionare nelle sue scelte da logiche di appartenenza correntizia" e non deve "assumere ruoli impropri, dilatando in via paranormativa i propri spazi di intervento". Una premessa, questa, che ha permesso al presidente della Repubblica di prendere di petto il problema dei rapporti nelle procure e il ruolo di indirizzo del Csm.

Napolitano ha parlato di "elementi di disordine e di tensione che si sono purtroppo clamorosamente manifestati in tempi recenti in talune procure" e ha rivendicato, alla luce del nuovo ordinamento giudiziario, le "funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al capo dell’ufficio" e i "poteri di sorveglianza dei procuratori generali e del pg della Cassazione".

Come dire che, pur non volendo tornare a "forme antiche di gerarchizzazione" delle procure, il Parlamento ha voluto introdurre un correttivo contro "l’atomizzazione nell’esercizio azione penale" Il dibattito che è seguito ha fatto registrare due posizioni. Una minoritaria, espressa da Antonio Patrono (Magistratura indipendente) e da Gianfranco Anedda (laico del Pdl), che hanno dilatato le osservazioni del capo dello Stato: "Nelle procure c’è un assemblearismo esasperato e Napoli è solo l’ultimo esempio di litigiosità", ha detto Anedda che però è stato richiamato da Napolitano quando si è avventurato oltre l’ordine del giorno.

Ciro Riviezzo (Movimento), Livio Pepino (Md), Giuseppe Maria Berruti (Unicost) e Vincenzo Siniscalchi (laico del Pd) hanno accolto le osservazioni del capo dello Stato ricordando però che il Csm continuerà comunque ad esercitare il suo ruolo di indirizzo per quanto riguarda l’organizzazione delle procure. Pepino ha citato la relazione in Cassazione dell’ex pg Delli Priscoli: "I poteri del procuratore vanno letti in termini di responsabilità e non di gerarchia".

Berruti non si è sottratto alle critiche del capo dello Stato: "Oggi i magistrati sanno di esser giudicati e il Csm sa di dover attuare la riforma dell’ordinamento giudiziario nel rispetto, però, dei principi costituzionali". Ha chiuso il vice presidente Nicola Mancino che ha parlato di "spirito di collaborazione con il governo e il Parlamento", annunciando però che presto si discuterà in plenum delle pratiche a tutela dei magistrati attaccati dai politici. A fine seduta i togati Ezia Maccora e Fabio Roia hanno voluto ribadire che non c’è stata alcuna bacchettata del capo dello Stato alla magistratura.

Giustizia: su ddl intercettazioni il governo ha chiesto la fiducia

di Mauro Romano

 

Italia Oggi, 10 giugno 2009

 

Il pubblico ministero, in casi d’urgenza, potrà chiedere anche i tabulati telefonici. Lo potrà fare per tutti i reati più gravi, quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare un grave pregiudizio alle indagini. È con questa misura, esplicitata all’interno di un maxiemendamento governativo, che oggi si voterà alla camera la fiducia sul disegno di legge sulle intercettazioni.

La blindatura del testo è stata decisa ieri, anche se indicazioni in tal senso erano già arrivate due giorni fa. Il voto sulla fiducia, previsto per le 17.10, è stato duramente contestato da Pd e Idv, che non hanno esitato a parlare di decisione scandalosa da parte del governo. Ma il canovaccio, su una materia incandescente come questa, va ormai avanti da mesi con gli stessi toni. La novità principale, a quanto pare inserita nel maxiemendamento su pressione del ministro dell’interno, Roberto Maroni, apre ai pubblici ministeri l’opportunità di chiedere i tabulati telefonici.

La decisione potrà essere presa dal pm con un decreto motivato da comunicare al tribunale entro 24 ore. Il tribunale, a sua volta, dovrà decidere se convalidare o meno il provvedimento entro 48 ore dalla sua adozione. In caso di mancata convalida, si legge nel maxiemendamento, l’acquisizione dei dati non può essere proseguita e i risultati non possono essere utilizzati.

Per il resto il pacchetto su cui è stata posta la blindatura non fa altro che riproporre il testo predisposto dal ministro della giustizia, Angelino Alfano, con le varie correzioni che sono state apportate in commissione giustizia della camera su iniziativa del relatore al testo, Giulia Bongiorno, e del sottosegretario alla giustizia, Giacomo Caliendo.

Questo significa che ci vorranno evidenti indizi di colpevolezza, tranne che per i reati più gravi come mafia e terrorismo, per disporre le intercettazioni. Confermato il divieto della loro pubblicazione, anche per riassunto e anche se non più coperte da segreto, fino al termine delle indagini preliminari. Rimane il carcere per i giornalisti anche se potrà essere trasformato in una sanzione pecuniaria. Delicata la parte dedicata dal maxiemendamento al caso degli 007.

Diventerà in sostanza più complicato intercettare le loro utenze. In questo caso la magistratura dovrà informare entro 5 giorni la presidenza del consiglio dei ministri, che dovrà stabilire se ricorrono gli estremi per porre il segreto di stato. L’autorità giudiziaria potrà in ogni caso procedere in base a elementi autonomi e indipendenti dalle informazioni coperte dal segreto. Se viene sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti del presidente del consiglio, e questo viene risolto nel senso dell’insussistenza del segreto, il segreto medesimo non può più essere opposto in riferimento allo stesso oggetto. Nel caso di rivelazione di atti o documenti coperti da segreto, scatta la reclusione da 1 a 5 anni. Pena che viene aumentata, si legge ancora nel maxi emendamento, se il fatto riguarda comunicazioni di servizio di appartenenti ai servizi. Viene confermato inoltre il divieto di pubblicare anche i nomi dei pubblici ministeri in relazione ai procedimenti loro affidati.

Giustizia: ddl intercettazioni; il rischio di indagini meno efficaci

di Vittorio Grevi

 

Corriere della Sera, 10 giugno 2009

 

La decisione del governo di porre la questione di fiducia sul disegno di legge in materia di intercettazioni suscita pesanti interrogativi, uniti a numerosi dubbi circa la ragionevolezza di quel testo. Di fronte alle forti motivazioni, in chiave di "tolleranza zero" contro ogni tipo di delinquenza, non può infatti non suscitare sconcerto - sotto il profilo della coerenza interna delle scelte governative di politica criminale - la accelerazione che in tal modo si vorrebbe imprimere ad un disegno di legge, che certamente non si colloca nella medesima direzione di contrasto alla criminalità.

Come tutti sanno - e nessuno finora ha nemmeno tentato di dimostrare il contrario - questo disegno di legge restringe in maniera notevolissima la possibilità di impiego investigativo delle intercettazioni (telefoniche ed ambientali), sottraendo così agli organi inquirenti uno strumento di indagine prezioso per l’accertamento di molti reati, e ponendosi perciò in vistosa controtendenza rispetto ai dichiarati propositi di "lotta alla criminalità". Che il progetto ministeriale all’esame della Camera sia destinato a produrre, se approvato, un risultato tanto disastroso per l’efficienza delle intercettazioni, rispetto alla disciplina oggi vigente, è facilmente dimostrabile. Anche soltanto facendo riferimento ad alcune delle più improvvide proposte innovative che lo caratterizzano.

1) Si vorrebbe, anzitutto, che le intercettazioni fossero autorizzate dal giudice solo in presenza di "gravi (o evidenti che dir si voglia) indizi di colpevolezza" a carico di un determinato soggetto, mentre oggi bastano "gravi indizi di reato": dunque soltanto della avvenuta commissione di un reato. Tuttavia non ci si rende conto che, in tal modo, se ne esclude l’impiego nei procedimenti "contro ignoti", quando invece le medesime sono spesso davvero "indispensabili" proprio per sapere in quale direzione si debba indagare.

2) Si vorrebbe, inoltre, ammettere le intercettazioni "ambientali", cioè tra persone presenti in un certo luogo, solo quando in quel luogo (anche se diverso dal domicilio) si stia svolgendo l’attività criminosa. Tuttavia non si considera che un simile presupposto, corrispondente in concreto alla flagranza di reato, è di verifica assai difficile, sicché questo tipo di intercettazione sarebbe sostanzialmente vanificato.

3) Si vorrebbe, ancora, estendere la disciplina delle intercettazioni di conversazioni, con tutti i suoi rigidi presupposti, a quella della ripresa visiva di immagini (anche in luogo pubblico o aperto al pubblico), nonché a quella dell’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. Tuttavia si tratta di operazioni molto diverse - quanto al grado di interferenza nell’altrui privacy - che non possono venire così grossolanamente omologate, e che comunque non esigono le stesse rigorose garanzie previste per le vere e proprie intercettazioni.

4) Si vorrebbe stabilire che la durata delle intercettazioni (oggi ammissibili anche lungo l’intero arco delle indagini) non possa comunque mai superare il termine massimo di 60 giorni, proroghe comprese. Tuttavia la previsione di un termine così breve appare non solo irrealistica rispetto alle esigenze di molte inchieste, ma anche paradossale allorché esso venga a scadere proprio quando le intercettazioni stiano fornendo concreti risultati.

5) Si vorrebbe, infine, ribadire che alcune delle limitazioni appena ricordate (in materia di presupposti delle intercettazioni, ovvero di durata delle stesse) non debbano operare quando si tratti di reati di natura mafiosa o terroristica, e questa è una scelta da condividere. Tuttavia una tale deroga non ingloba altri aspetti della nuova disciplina (ad esempio riprese visive, acquisizione di tabulati) e per di più non riguarda, come invece oggi, l’intero complesso dei delitti di "criminalità organizzata": sicché ne rimarrebbero esclusi tutti i procedimenti relativi a delitti riconducibili a quest’ultima area, ma diversi da quelli di mafia o di terrorismo.

Si tratta di questioni cruciali, dietro ad ognuna delle quali emerge il rischio di una sicura caduta di efficacia delle indagini concernenti molti gravi reati: come del resto viene da tempo denunciato dagli organi della polizia e della magistratura, oltreché dalla Procura nazionale antimafia. Un rischio inquietante e non teorico, che non si comprende perché mai venga sottovalutato in sede governativa, sebbene il vero problema delle intercettazioni non sia quello del loro impiego processuale, bensì quello della indebita pubblicazione dei loro risultati, allorché si tratti di intercettazioni ancora segrete, ovvero irrilevanti ai fini di giustizia. Ed è questo, quindi, il terreno su cui soprattutto occorrerebbe intervenire.

Giustizia: Radicali; l’indulto solo in casi "eccezionali", ma oggi lo è

 

Il Velino, 10 giugno 2009

 

"Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha dichiarato stamani, intervenendo alla presentazione di un libro, che il provvedimento di indulto approvato da due terzi del Parlamento nel 2006 è stato un errore, e ha fatto notare che quest’ultimo andrebbe adottato solo in casi eccezionali e non per sfoltire le carceri". Lo dichiara in una nota Irene Testa, segretario dell’associazione radicale "Il Detenuto Ignoto".

"L’indulto di tre anni fa ha rappresentato certamente una misura eccezionale per tentare di governare la situazione di emergenza che regna ancora oggi sulle carceri, con all’epoca circa 62 mila detenuti per una capienza massima degli istituti di pena di poco più di 42 mila. L’errore è stato nel dopo, nel non aver provveduto a fare le riforme e gli interventi necessari per riportare le carceri nella legalità amministrativa e costituzionale".

"Oggi, che le carceri hanno raggiunto la cifra di oltre 63mila mila detenuti - ha aggiunto nella nota Irene Testa - l’intero sistema penitenziario è ancor più di tre anni fa al collasso, ed è normalità quotidiana, ormai, la violazione dei diritti di detenuti, agenti di Polizia penitenziaria e ogni altro operatore. Ancora, il tanto sbandierato piano di edilizia penitenziaria del governo stenta a decollare, ma darà i primi frutti solo dopo tre/cinque anni dopo il suo avvio".

"Sorge quindi spontanea una domanda al presidente Fini - ha affermato Testa - quali sono secondo lui le condizioni eccezionali per concedere un provvedimento di indulto, se non è eccezionale tenere ammassati a marcire per anni quelli che nel frattempo saranno diventati verosimilmente più di 100 mila detenuti, concentrati nello spazio sufficiente per poco più di un terzo di loro?".

Giustizia: Sappe; ripensamento "bipartisan" del sistema penale

 

Il Velino, 10 giugno 2009

 

"Il presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini fa bene, come ha fatto oggi, a dichiarare che un eventuale ricorso all’indulto per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri suscita fondate perplessità".

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commentando le parole sulla situazione penitenziaria nazionale espresse oggi da Gianfranco Fini intervenendo alla presentazione del libro di Lucia Castellano e Donatella Stasio "Diritti e castighi".

"Ed è per questo - continua Capece - che auspichiamo che il presidente Fini, sempre molto attento e sensibile alle criticità del personale di Polizia penitenziaria e del sistema carcerario in generale, si faccia portatore della storica proposta del primo sindacato del corpo di Polizia Penitenziaria di una svolta istituzionale e bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’istituzione penitenziaria, proprio alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto del 2007".

"Destra, sinistra e centro - conclude Donato Capece nel comunicato del Sappe - concentrino sforzi comuni per varare una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. E per fare questo ci vogliono anche, ovviamente, adeguate risorse finanziarie".

Giustizia: Osapp; mancano anche i materassi, solo posti in piedi

 

Il Velino, 10 giugno 2009

 

Con una lettera aperta indirizzata al presidente della Camera dei deputati il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma della Polizia Penitenziaria), Leo Beneduci, uno dei massimi leader sindacali della categoria, fa appello alla terza carica dello Stato per una situazione carceraria diventata veramente esplosiva.

"Illustre presidente - si legge nella nota - non ci basta riportare le cifre di un disastro che da qui alla fine dell’estate si annuncia veramente drammatico. Che nel nostro Paese si stia assistendo ad un’emergenza umanitaria è sulla bocca di tutti, ma si guarda a questo solo nelle occasioni importanti: una presentazione di un libro o le celebrazioni di rito.

Bene, il 17 giugno prossimo si terrà a Roma, al cospetto del presidente della Repubblica, la Festa nazionale del corpo di Polizia Penitenziaria. Mai come in questo momento ci sentiamo feriti nell’animo, per un servizio reso alla Patria che tanto faticosamente portiamo avanti ogni santo giorno. Dovere a cui, allo stesso modo, sentiamo di non poter più ottemperare nella stessa maniera per i prossimi mesi, se non anni".

Il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci continua così nella lettera indirizzata al presidente Gianfranco Fini: "Con 64 mila ristretti effettivi nelle patrie galere i numeri di oggi ci dicono che siamo al limite del rispetto dei diritti umani, signor Presidente: carceri dove non esiste più un posto letto disponibile, ma solo posti in piedi perché sono finiti anche i materassi.

Il nostro pensiero non va, però, al presente, alle continue risse, agli episodi di intolleranza, agli incendi scampati, al rischio contagio che si moltiplica e come potrà capire colpisce anche la nostra categoria, alle morti drammatiche dei nostri colleghi, ma ai numeri di domani. Ci allarma quello che potrà accadere domani.

Un domani sempre più vicino, quanto mai inesorabile, a cui questo governo non ha saputo, fino adesso, porre rimedio. Il 23 giugno ci sarà la convocazione del ministro Alfano ma già sappiamo di non attenderci alcuna novità per gli incrementi dell’organico che abbiamo sempre chiesto o misure alternative per decongestionare le carceri. Per questi motivi - conclude Beneduci - ci appelliamo a Lei affinché possa levare alta la voce della sofferenza, fino adesso dalle istituzioni troppo spesso inascoltata. Ma al pari strumentalizzata e sbandierata nelle occasioni che invece contano".

Giustizia: direttore carcere rimosso; Corte Ue condanna l'Italia

 

Ansa, 10 giugno 2009

 

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato oggi l’Italia per aver violato il diritto a un equo processo nei confronti dell’ex direttore del carcere femminile di Empoli Nicola Silvestri. Nel settembre del 1996 Silvestri venne nominato a capo del carcere, ma il 21 marzo 1997 il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria decise di trasferirlo al provveditorato regionale della Toscana, per incompatibilità ambientale: Silvestri, riferisce la Corte di Strasburgo, avrebbe avuto difficoltà nel relazionarsi con colleghi e operatori esterni.

L’uomo ha quindi contestato la decisione appellandosi al Tar della Toscana, che ha emesso una sentenza per il suo reintegro. Nonostante la sentenza, e i successivi ricorsi fatti, Silvestri non è stato reintegrato, né gli è stata versata una somma di denaro, pari a 4 mesi di stipendio, che l’amministrazione penitenziaria gli doveva dopo aver posto fine al suo contratto il 10 aprile 2002. Secondo i giudici di Strasburgo la non esecuzione delle sentenze in favore di Silvestri, per cui l’Italia non ha dato motivazioni, e’ equivalsa a una violazione dei suoi diritti. La Corte ha riconosciuto a Silvestri 18 mila euro per danni morali e materiali e 13.500 euro per le spese processuali. L’Italia ha ora tre mesi di tempo per presentare ricorso.

Nel 2007 Nicola Silvestri è stato condannato dal Tribunale di Firenze a 11 anni di reclusione per abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, truffa e molestie sessuali. Nel 1999 l’ex direttore del carcere era stato indagato con l’accusa di aver perseguitato un’infermiera fino a sospenderla dal lavoro perché non avrebbe ceduto alle sue avances.

Giustizia: detenuto scarcerato perché "depresso", ricorso del pm

 

Step1, 10 giugno 2009

 

Di pochi giorni fa la notizia che a Giacomo Nuccio Ieni, accusato di far parte del clan Pillera, è stato revocato il regime di 41 bis. Ora la pubblica accusa ricorre contro il provvedimento. Il procuratore D’Agata risponde a Step1.

I titoli dei giornali si erano sprecati (e la fantasia, evidentemente, s’era esaurita presto): "Il boss è depresso, lascia il carcere" (Corriere della Sera, 3 giugno), "Presunto boss mafioso depresso: passa dal 41 bis ai domiciliari" (Repubblica, 3 giugno), "Il boss è depresso? Va ai domiciliari!" (Il Sole 24 Ore, 3 giugno), "Mafia, il boss è depresso: dal 41 bis ai domiciliari" (Il Messaggero, 4 giugno), "Boss depresso, dal 41 bis ai domiciliari" (La Sicilia, 3 giugno). Ma ieri, secondo quanto si è appreso in ambienti giudiziari, la Procura di Catania ha depositato l’appello contro la decisione che aveva suscitato tanto scalpore. Non è stata ancora fissata la data dell’udienza. Ma la pubblica accusa, di fronte al provvedimento di scarcerazione, non è rimasta inerte.

 

Era stata la terza sezione penale del Tribunale di Catania, pochi giorni fa, a concedere gli arresti domiciliari per Giacomo Nuccio Ieni, accusato di essere un boss del clan Pillera, precedentemente sottoposto al carcere duro in regime di 41 bis: sarebbe gravemente malato di depressione e la detenzione deteriorerebbe troppo le sue condizioni di salute.

"Sulla persona del Ieni sono state eseguite ben tre perizie sanitarie d’ufficio, l’ultima delle quali a novembre 2008, che ne hanno effettivamente confermato la depressione, però questo non è risultato incompatibile con la custodia cautelativa in carcere". Queste le parole del dottor Vincenzo D’Agata, procuratore generale di Catania, che, pur non entrando nel merito dell’appello (per il quale deve ancora essere fissata l’udienza) ha accettato di rispondere alle domande di Step1. "Si era evidenziato come potrebbe essere utile inserire Ieni in un programma presso una struttura sanitaria penitenziaria. Il tribunale, invece, ha deciso di dare più risalto ad una quarta perizia, di parte, nonostante tutto quello che "di parte" significa…".

 

L’operazione "Atlantide" è quella che ha portato all’arresto di Ieni. Cosa riguardava?

"L’operazione, datata novembre-dicembre 2006, riguardava trentadue persone imputate per associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli si contestavano estorsioni e traffici di stupefacenti. Sono stati, inoltre, sequestrati numerosi beni, anche allo stesso Ieni che è stato identificato quale reggente del gruppo Pillera, nominativo che, pur non avendo la notorietà che hanno avuto altri soggetti - Santapaola ed Ercolano, per dirne un paio- , ha notevolissima caratura criminale."

 

Giacomo Nuccio Ieni è stato condannato?

"Il procedimento è ancora in corso, però dei trentadue indagati ben quindici hanno patteggiato sia in primo che in secondo grado, e pure nel ricorso in appello, riportando condanne. L’impianto accusatorio non è per nulla approssimativo."

 

E adesso Ieni è agli arresti domiciliari…

"Presso la sua casa di Catania. Era stato sottoposto al regime di 41 bis perché ci s’era accertati che dalla normale detenzione lui manteneva contatti con l’esterno. Adesso è tornato nel suo domicilio: un capoclan rimesso in libertà quasi per fargli riprendere la sua attività. Se si pensa, poi, che non è stato neanche disposto il provvedimento di disattivazione del servizio telefonico. La Procura non può restare inerte sul piano operativo, né taciturna sul piano della reazione verbale."

 

Quant’è pericoloso un precedente del genere, cioè che un detenuto passi dal 41 bis ai domiciliari?

"Speriamo che si tratti di un caso isolato, ma se dovesse essere un precedente che fa giurisprudenza, il fatto (peraltro non definito da nessuna consulenza) che l’affetto della famiglia sia una medicina, potrebbe essere molto pericoloso. Significherebbe che qualsiasi detenuto, mostrando insofferenza per la detenzione -e vorrei trovare qualcuno che non ne mostri- potrebbe avere la libertà provvisoria o i domiciliari. Questo caso non è trascurabile, e colgo con una certa sorpresa l’indifferenza e il silenzio che c’è stato da parte di altri organi responsabili. Li ho visti mobilitarsi per molto meno."

 

Fin da subito la Procura ha contestato il provvedimento che concede i domiciliari. Con quali argomenti giuridici?

"Ci sono dei profili di fatto che lasciano un po’ sorpresi. Per esempio, con approssimazione si parla di "pericolosità del soggetto", mentre il concetto della pericolosità non rientra nei parametri tramite cui si può disporre la misura cautelare, per cui invece si parla di "esigenze cautelari", legate alle prove, alla possibilità della reiterazione del reato, al pericolo della fuga… Anche la stessa valutazione dello stato di malattia, se rapportata ai parametri di valutazione di solito applicati, non risulta in linea col dettato codicistico".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 10 giugno 2009

 

Noi, detenuti a Poggioreale. Caro Arena, come ormai ben saprai qua a Poggioreale è diventato un vero e proprio inferno. Il sovraffollamento è ormai arrivato alle stelle tanto che siamo circa mille detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare.

La conseguenza è che nelle celle più grandi, fatte per tre o quattro detenuti ci stano ammassati in 10 e anche più, mentre noi stiamo in tre dentro una cella fatta per un solo detenuto. Cella, detta cubicolo, che è piccola 3 metri di lunghezza per 1 metro di larghezza. Uno spazio talmente piccolo che è facile immaginare cosa dobbiamo patire qui dentro. Considera pure che rimaniamo chiusi in questa piccola cella per circa 22 ore al giorno… e c’è da impazzire!

L’ora d’aria ce la fanno fare 2 volte al giorno per una durata di 45 minuti. Insomma siamo costretti a subire la detenzione in modo indecoroso e incivile. Ma non basta. E già perché anche i nostri familiari patiscono le conseguenze del degrado del carcere di Poggioreale. Pensa che per fare un breve colloquio con noi, sono costretti a mettersi in fila alle 6 di mattina per incontrarci a colloquio alle 4 di pomeriggio. Ed è questa la cosa che ci fa soffrire di più! Ora ti salutiamo e ringraziamo te e Il Riformista che informate l’opinione pubblica su come siamo costretti a vivere.

 

Antonio, Luigi e Dario dal carcere Poggioreale di Napoli

 

Io, paralizzato in cella. Cara Radiocarcere, sono detenuto nel Reparto G9 del carcere Rebibbia di Roma, per scontare un residuo di pena dio 22 mesi. Il mio problema è che sono invalido al 100%, le mie gambe non funzionano, sono paraplegico, sono costretto a stare su una sedia a rotelle e necessito di un’assistenza 24 ore su 24. Prima di essere messo in una cella del Reparto G9, ho passato alcuni mesi nell’infermeria del carcere di Rebibbia.

Mesi in cui mi hanno sottoposto ad analisi che non hanno fatto altro che confermare quanto la Asl aveva già certificato. Ovvero la mia invalidità al 100%. Sta si fatto che, dopo poco mi hanno trasferito in una cella normale. La conseguenza è che, a causa delle barriere architettoniche che ci sono qui, mi è impossibile andare all’ora d’aria e così sono costretto a restare 24 su 24 chiuso in cella insieme al mio piantone. Inoltre, ho enormi difficoltà anche solo per farmi la doccia, essendoci dei gradini che non posso oltrepassare con la sedia a rotelle. Morale il mio piantone deve fare ogni volta uno sforzo disumano per prendermi di peso e consentirmi di lavarmi.

Io non chiedo la sospensione della pena per motivi di salute, chiedo solo di scontare la mia pena nel rispetto delle mie condizioni fisiche e della mia dignità.

 

Giorgio, dal carcere Rebibbia di Roma

Sicilia: Garante; nelle carceri regionali situazione è drammatica

 

Redattore Sociale - Dire, 10 giugno 2009

 

In cella "il doppio dei detenuti" della capienza ordinaria. E pesa "la scarsa assistenza sanitaria", soprattutto per i migranti: non ancora recepito il decreto che trasferisce l’assistenza al Ssn. Prioritario riaprire le carceri chiuse.

Riaprire i tre istituti di pena siciliani, migliorare l"assistenza sanitaria dei reclusi e istituire i centri di custodia attenuta per i tossicodipendenti. Questi sono alcuni degli obiettivi principali da raggiungere secondo il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia Salvatore Fleres. "Il detenuto è condannato alla privazione della libertà, ma non può essere condannato alla privazione della dignità. Quando non viene curato o tenuto con altri 14 detenuti in una stanza che ne può contenere quattro oppure quando non viene aiutato a reinserirsi, tutto questo diventa una sorta di pena aggiuntiva non prevista dal codice di cui qualcuno deve pure rispondere - afferma Fleres -. La situazione è drammatica perché, attualmente in Sicilia c’è il doppio dei detenuti che ci dovrebbero essere rispetto alla capienza ordinaria degli istituti di pena. Il sovraffollamento è un problema nazionale, che in Sicilia si aggrava ancora di più a causa della condizione in cui si trovano alcuni carceri siciliani".

In Sicilia ci sono 1000 detenuti in più rispetto a quanto ce n’erano il giorno prima dell’ultimo indulto. Nell’Isola sono presenti 24 carceri per adulti, quattro per minorenni e un Ospedale psichiatrico giudiziario. "I problemi fondamentali sono il sovraffollamento e la scarsa assistenza sanitaria legata soprattutto al fatto che la Sicilia non ha ancora recepito il decreto nazionale che trasferisce le competenze sanitarie dall’amministrazione penitenziaria a quelle del servizio sanitario nazionale - continua il Garante - . Le proposte recentemente varate dal Governo sono interessanti ma purtroppo prevedono l’applicazione nel lungo periodo. Intanto tra le proposte a breve termine che interessano la Sicilia ci sarebbe quella di riaprire i tre carceri siciliani che ancora sono chiusi e che sarebbero in grado di accogliere complessivamente circa 700 posti". I tre istituti di pena chiusi per motivi burocratici sono quelli di Noto (SR), Gela (Cl) e Villalba (CL).

Un altro problema con cui fare i conti è la scarsa assistenza psicologica dei detenuti. "Il recluso dovrebbe essere visitato da uno psicologo nel momento dell’accesso in carcere per poi essere seguito nel caso in cui dovesse presentare degli stati di salute psicologica allarmanti - continua Fleres - . Poiché questo non sempre è avvenuto, diversi sono stati i suicidi dei reclusi". Nell’ultimo anno in Sicilia dieci detenuti si sono suicidati. "A Messina sapevano che c’era una situazione drammatica di un detenuto che da tempo aveva gravi problemi di salute. Proprio nel giorno in cui è morto, aveva finito di scrivere una lettera al figlio in cui lamentava proprio la scarsa assistenza sanitaria - afferma ancora Fleres -. Qualche caso di possibile "morte annunciata" abbiamo cercato di evitarlo parchè siamo riusciti ad arrivare in tempo, operando il trasferimento di alcuni reclusi in strutture ospedaliere. Recentemente c’è stato pure un caso a Messina di anoressia gravissima che per fortuna siamo riusciti a salvare".

Anche la situazione dei detenuti immigrati presenti in Sicilia è abbastanza pesante. "La scarsa assistenza sanitaria ai detenuti immigrati sta producendo il ritorno di malattie che da noi erano scomparse - prosegue Salvatore Fleres -. Inoltre mancano i mediatori culturali. Molti li procuriamo noi come ufficio del Garante quando ci viene richiesto".

Altrettanto grave è pure la situazione dei detenuti con problemi di tossicodipendenza per i quali "occorrerebbe pensare pure in Sicilia alla nascita di strutture a custodia attenuata. La nostra proposta è quella di crearla all’interno del carcere di Villalba non appena verrà riaperto". Per i detenuti con disabilità a parte l’adeguamento di alcune celle e la presenza di scivoli in alcuni carceri i servizi offerti sono ancora pochi o del tutto inesistenti. "Ho seguito il caso di un detenuto che pesava 220 chili - dice ancora Fleres - che non riusciva ad utilizzare i servizi igienici della cella per cui utilizzava il water in piedi sorretto da stampelle".

Su tutti questi argomenti il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia ha presentato un dossier ed un esposto alla Commissione Europea nel quale si sottolineano i trattamenti umani degradanti operati in alcune carceri siciliane. Nel documento che, in questi giorni arriverà alla Commissione Europea, si chiederà la chiusura di alcuni carceri dell’Isola. In particolare, viene chiesta la chiusura del carcere di Catania Piazza Lanza e di Marsala. "Naturalmente in questo caso quando parliamo di chiusura non intendiamo una chiusura immediata ma sicuramente una chiusura programmata con la contestuale apertura di nuove strutture o con l’ampliamento di quelle esistenti".

Campania: Antigone; in un solo giorno, sono morti due detenuti 

 

Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2009

 

Due morti in una sola giornata nelle carceri della Campania. Ne da notizia l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone Campania.

"Nella giornata di ieri, registriamo due decessi - ha dichiarato Dario Stefano Dell’Aquila - che evidenziano il momento di crisi che vive il sistema penitenziario. Nel carcere di Secondigliano è deceduto, per cause naturali, un uomo di 79 anni. Mentre nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa è morto un internato V.N., di origini napoletane, di 65 anni".

"Si tratta di decessi - ha aggiunto il portavoce di Antigone Campania - che evidenziano la difficoltà del sistema penitenziario nel suo complesso e del difficile rapporto tra tutela del diritto alla salute e detenzione. La storia dell’internato ad Aversa ha poi dell’incredibile. Gravemente malato è stato ricoverato in una struttura sanitaria esterna, poi è rientrato in Opg per essere nuovamente ricoverato, ormai in fin di vita, solo poche ore prima della morte. Dal 2006 si trovava in regime di proroga delle misure di sicurezza."

"Siamo preoccupati, conclude Dell’Aquila, perché temiamo che con l’avanzare dell’estate, il crescente sovraffollamento e le difficoltà del passaggio della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale, si registrino ulteriori difficoltà per la popolazione detenuta e, di riflesso, per gli operatori penitenziari"

Caserta: 43enne si impicca all’Opg di Aversa, aveva un tumore

di Laura Ferrante

 

www.ecodicaserta.it, 10 giugno 2009

 

Paziente ricoverato all’ospedale psichiatrico, affetto da un male incurabile si è tolto la vita questa mattina impiccandosi con un lenzuolo. Il cadavere è stato scoperto dal personale medico che hanno allertato le guardie e la direzione.

Un paziente dell’ospedale psichiatrico è stato trovato morto nella sua cella, l’intervento dei sanitari locali si è rivelato inutile. Si chiamava Vincenzo Nappo, 43 anni, originario di Pompei.

Il pregiudicato era stato condannato e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Aversa (Caserta). Dove aveva già in passato tentato di suicidarsi. Sembra che il poveretto fosse affetto da un male incurabile, e per questo motivo dava anche segni di squilibrio. Questa mattina il 43enne aveva deciso di restare nel suo letto, dichiarando che non si sentiva bene. Ha aspettato che fosse solo per portare a termine quello che aveva in mente.

Ha afferrato il lenzuolo, ha legato una estremità ad una parte della cella ed un’altra l’ha stretta al collo, così si è lasciato andare penzoloni. La morte per il poveretto è sopraggiunta in breve tempo, dopo un immenso dolore. Sono stati i sanitari a trovarlo, privo di vita. L’uomo è stato liberato dal cappio ed adagiato sul letto, ma era ormai troppo tardi. I medici del reparto che lo hanno visitato non hanno potuto fare nulla per il poveretto.

Cosa lo abbia spinto a commettere l’insano gesto, resta un mistero. Tutta la vicenda sembra essere un mistero, all’interno dell’Opg non si sbilanciano su cosa sia potuto succedere all’interno della cella. Quindi per fare maggiore chiarezza sulla sua morte, la salma è stata trasferita all’ospedale Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, dove, su disposizione del sostituto procuratore della Repubblica dott. Alessandro D’Alessio, è stata trasferita nel reparto di medicina legale per una visita autoptica.

Si possono solo supporre le motivazioni del suicidio del Nappo, pare che l’uomo stava per essere liberato, perché aveva scontato la pena e perché era affetto da una brutta malattia. Un male incurabile che lo stava portando via poco alla volta. È possibile che sia stata questa la causa della decisione di farla finita con la sofferenza.

Non è la prima volta che un paziente dell’ospedale psichiatrico si toglie la vita, le condizioni del carcere, l’abbandono, le difficoltà a socializzare con altri detenuti. Tutte cause che possono scatenare nella psiche degli uomini rinchiusi, una forte emotività e Vincenzo in più, era malato. Tra qualche tempo sarebbe uscito, sarebbe stato libero. Ma non è stato così.

Palermo: Ucciardone; per i colloqui parenti fanno 10 ore attesa

 

www.radiocarcere.com, 10 giugno 2009

 

Ore 3 e mezza del mattino. Drinn! Drinn! Drinn! È la sveglia. Mi devo alzare. Devo andare in carcere. Oggi, come ogni mercoledì, è il giorno dei colloqui tra detenuti e familiari.

Mi chiamo Loredana, ho 23 anni, e mio padre è detenuto all’Ucciardone di Palermo. Per fare il colloquio con lui, devo essere alle 4 di mattina sotto al portone del carcere. E non sono la sola.

Ore 4.20. È ancora buio e l’Ucciardone è chiuso. Ma sono tanti i familiari che si raggruppano davanti a quel portone per prendere un bigliettino. Un bigliettino che è la prenotazione per fare il colloquio. Sono gli stessi parenti dei detenuti ad essersi organizzati in questo modo. Un’organizzazione spontanea nata per sopperire alla disorganizzazione del carcere. Funziona così: un parente di un detenuto annota l’elenco dei nomi dei familiari che quel giorno faranno il colloquio. Prima ci si inscrive sull’elenco e prima si farà il colloquio. Una volta prenotati, si deve attendere l’apertura del carcere. Passano le ore e sempre più persone arrivano sotto la vecchia galera.

Ore 7.30. C’è una grande folla fuori dall’Ucciardone. Circa 400 persone, tra mogli, genitori e figli, sono in fila fuori dal carcere. Molti sono gli anziani, molti i bambini.

Ore 8. Si apre il portone dell’Ucciardone e un agente prende l’elenco con i nostri nomi.

Ore 8.10. Finalmente, dopo circa 4 ore, veniamo identificati ed entriamo in carcere. La nostra destinazione è una sala d’aspetto. La prima. Si tratta di una stanzetta molto piccola, dove non c’è spazio per tutti. Così tanti sono costretti ad aspettare fuori, in una specie di cortiletto. Si sta lì, d’inverno al freddo o sotto la pioggia e d’estate con il caldo soffocante. In questa prima sala d’aspetto è tutto sporco e rovinato. Il bagno non esiste e c’è una puzza incredibile. Dura circa due ore la nostra attesa in quella stanzetta. Ma spesso anche di più. Un’attesa estenuante, viste le condizioni.

Ore 11.30. Il passa parola tra i familiari, bisbiglia il mio nome. Tocca a me. La prossima tappa è uno sportello tutto ricoperto di ferro, con in basso una fessura. Non si vede la faccia dell’agente con cui stai parlando. Lì si consegna il pacco per il detenuto. Pacco di vestiti e di cibo. Una curiosità. È vietato cibo condito. Tutto deve essere cotto senza olio, sugo o aromi. Ma non solo. Non tutti i cibi sono ammessi. È vietato il pollo, a meno che non sia disossato. È ammesso il pesce azzurro. Vietato il resto. Difficile capire il senso di queste regole.

Ore 12. Consegnato il pacco, se tutto va bene, vengo sistemata insieme ad altri in una seconda sala d’attesa. Una stanza ancora più squallida e fatiscente rispetto alla precedente. Una stanza talmente sporca che è stata più volte invasa dalle pulci. Una stanza dove il bagno c’è, ma è inutilizzabile.

Anche qui la nostra attesa dura un paio d’ore. Due ore che possono diventare tre, al minimo imprevisto.

Ore 14.30. Finalmente è arrivato anche il mio turno. Mi portano con altri parenti in una sala intermedia per perquisirci. Insieme a me perquisiscono anche bambini e anziani. Una perquisizione fatta con le mani, quasi mai con mezzi tecnologici.

Fatta la perquisizione, entriamo nella sala dei colloqui. Anche questa è una stanza degradata, gelida d’inverno e asfissiante d’estate. Sporca come le altre. Al centro c’è un lungo bancone di legno, con sopra un vetro divisorio che è vietato dalla legge. Dietro al bancone, ovvero al di là del vetro, sette detenuti. Di fronte: noi familiari. Inizia così un’ora di colloquio. Un’ora di colloquio, dopo dieci ore di attesa. Un vero e proprio strazio.

Ore 15.40. Con altri familiari esco dal carcere. Tra di noi c’è tanta disperazione. Vorremo solo fare i colloqui in ambienti più decorosi e senza dover subire queste attese infinite. In altre carceri tutto ciò è possibile. All’Ucciardone no.

Napoli: gli ex detenuti scrivono a Napolitano, chiedono un lavoro

 

Ansa, 10 giugno 2009

 

Una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per chiederne l’intervento affinché siano garantite opportunità occupazionali. A scriverla è il coordinamento delle persone che sono state sottoposte a privazione della libertà personale e che, saldato il conto con la giustizia, "desiderano reinserirsi pienamente nella società attraverso il lavoro", come ha spiegato il portavoce del coordinamento Pietro Ioia.

Il gruppo stamani ha tenuto una manifestazione davanti alla sede della Curia di Napoli chiedendo un incontro con l’Arcivescovo Crescenzio Sepe per averne il sostegno "affinché l’art. 1 della Costituzione trovi concreta e piena applicazione anche a Napoli".

"Chiediamo l’intervento del Capo dello Stato e di tutte le Istituzioni affinché il diritto al lavoro sia concreto e garantito anche nella nostra città e affinché possiamo contribuire a pieno titolo allo sviluppo della società attraverso il nostro reinserimento lavorativo", ha sottolineato Ioia.

A questo proposito, il portavoce del gruppo ha evidenziato che "il progetto Esco Dentro promosso dalla Regione Campania deve essere allargato per poter rispondere alla vasta platea degli interessati e, soprattutto, deve essere reso concreto attraverso l’intervento diretto della Regione affinché i corsi di formazione che vengono promossi possano essere realmente e seriamente tenuti e possano essere utili a creare opportunità occupazionali".

"Porteremo la nostra legittima e pacifica manifestazione presso tutte le istituzioni - ha concluso Ioia - perché crediamo fermamente nello Stato e nella Costituzione della Repubblica italiana e abbiamo fiducia che il diritto al lavoro sancito dall’art. 1 della Costituzione possa essere realmente garantito soprattutto a favore di chi, ai sensi dell’art. 27, deve avere l’opportunità di reinserirsi a pieno titolo nella società contribuendo al suo sviluppo socio economico".

Genova: nuovo Sportello, per il reinserimento degli ex detenuti

 

Ansa, 10 giugno 2009

 

Un nuovo sportello informativo per favorire il reinserimento nella propria comunità delle persone che escono dal carcere, a fine pena o con misure alternative alla detenzione, e aperto anche ai loro familiari. Nato su iniziativa congiunta dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) e della Provincia di Genova sarà inaugurato ufficialmente a Chiavari giovedì 11 giugno alle 10.30 all’assessora provinciale alle carceri Milò Bertolotto e dalla responsabile Uepe per le province di Genova, Savona e Imperia Santina Spanò, nei locali al terzo piano di via Vinelli 9 (l’edificio sede dei servizi nel Tigullio della Provincia di Genova).

Alla gestione dello sportello, realizzato con il contributo della Provincia e della Regione Liguria e coordinato dall’Uepe (struttura del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia) collaborano le associazioni del volontariato e del terzo settore Arkè, Consorzio Sociale Agorà e Arci. Il nuovo Sp.In. del Tigullio (a Genova lo sportello è stato istituito nel 2000, su impulso della Consulta carcere e città) offre informazioni alle persone che lasciano il carcere e può aiutarle - a partire dalle necessità più immediate, come trovare un posto per mangiare, lavarsi e avere abiti - nell’orientamento e avviamento nel campo della formazione professionale e dei percorsi di inserimento lavorativo, nelle richieste di documenti,nel contatto e accompagnamento ai servizi socio-sanitari idonei alle specifiche esigenze e nella definizione di pratiche legali, secondo un modello d’integrazione in rete dei servizi sul territorio.

Padova: detenuto aggredisce un agente, con taglierino alla gola

 

Il Gazzettino, 10 giugno 2009

 

Ha aggredito l’agente alle spalle, puntandogli alla gola un taglierino rudimentale ma affilatissimo, poi lo ha intimato di consegnargli le chiavi della sezione e portare così a termine il suo piano: evadere dal carcere di Padova.

La tentata evasione, perché di questo si tratta, dato che la reazione dell’agente ha scongiurato il peggio, è accaduta oggi nel carcere patavino Due Palazzi. Protagonista un detenuto di 41 anni di origine campana.

A raccontare nel dettaglio come si sono svolti i fatti è il segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno: "Il detenuto ha aggredito alle spalle l’agente portandogli alla gola un rudimentale, ma affilato, taglierino costruito in proprio - racconta Sarno -. Alla richiesta di consegna delle chiavi della sezione l’agente con un calcio ha spinto le stesse lontano ed è riuscito a divincolarsi attivando, poi, l’allarme generale". Il detenuto, secondo Sarno "già da alcuni giorni prima si era reso protagonista di minacce nei confronti di altro agente e nonostante ciò, inspiegabilmente, non è stato ancora trasferito in un penitenziario più idoneo".

Immigrazione: Piemonte; l'assistenza sanitaria per i clandestini

 

La Stampa, 10 giugno 2009

 

"L’assistenza sanitaria per i cittadini stranieri irregolari è una risposta dovuta, non solo sul piano umanitario, ma anche a garanzia della tutela della salute di tutti i cittadini". Angela Teresa Migliasso, assessore regionale al Welfare, spiega così uno degli articoli chiave del nuovo disegno di legge di integrazione dei cittadini stranieri immigrati in Piemonte approvato lunedì dalla giunta Bresso. Una serie di nome che "vogliono permettere una lettura estensiva dei diritti degli stranieri".

Una scelta che "trova riscontro nel carattere sempre più articolato, territorialmente diffuso e costantemente in crescita del fenomeno dell’immigrazione straniera". Secondo la stima fornita dal Dossier statistico Caritas 2008, infatti, la presenza dei migranti nella nostra Regione rappresenta il 7,1% del totale della popolazione residente. E così la Regione ha deciso di cambiare una legge vecchia di 20 anni "l’immigrazione, infatti, non può più essere considerata un’emergenza, ma un dato strutturale".

L’articolo 13 del disegno di legge che adesso passerà all’esame del Consiglio regionale garantisce anche agli stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno in Italia le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, anche se continuative, per malattia e infortunio. In particolare la tutela della gravidanza e della maternità e della salute del minore, le vaccinazioni e gli interventi di profilassi internazionale e la diagnosi e cura delle malattie infettive e bonifica dei focolai.

Nel disegno di legge si pone particolare attenzione ai minori, alla loro tutela, all’istruzione e alla salute e "questo è un importante investimento per il futuro - spiega l’assessore - ma abbiamo deciso di estendere la tutela alle persone vittime di tratta e traffico degli esseri umani, ai rifugiati e richiedenti asilo politico". Viene promosso anche

il diritto all’abitazione garantendo l’accesso a forme di sostegno al pagamento dei canoni di locazione degli alloggi, sia di proprietà pubblica che di proprietà privata a parità di condizioni con i cittadini italiani. Il testo proposto è il frutto di un prolungato lavoro tra diversi assessorati regionali e di un articolato processo di confronto e negoziazione con i soggetti istituzionali, le organizzazioni sindacali e la Consulta regionale per i problemi dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie.

La Regione, infine, promuove in modo attivo la lotta contro la discriminazione e si dota anche di uno strumento operativo: l’ufficio del Garante regionale per i diritti dei migranti che dovrà garantire il corretto svolgimento dei rapporti, tra cittadini stranieri e pubbliche amministrazioni.

Immigrazione: Opera Nomadi Veneto; non c’è emergenza rom

 

Redattore Sociale - Dire, 10 giugno 2009

 

La referente di Padova Renata Paolucci contesta la decisione di istituire anche a Venezia il commissario delegato per i campi nomadi: "Gli chiederemo spiegazioni, ma davvero non capisco quale sia il problema".

"Ma quale emergenza rom in Veneto? Non c’è nessun allarme". Renata Paolucci, referente dell"Opera Nomadi di Padova risponde così alla decisione di istituire anche a Venezia, dopo Roma, Milano, Napoli e Torino, il commissario delegato per i campi nomadi. La scelta del Governo è stata dettata, secondo le parole del ministro dell’Interno Roberto Maroni, dalla "grave situazione di alcuni insediamenti, caratterizzati da condizioni di degrado che mostrano un’incidenza negativa soprattutto su bambini e ragazzi". Ma l’Opera Nomadi non ci sta e attende di parlare con il commissario, ruolo che sarà rivestito dal prefetto di Venezia.

"Non so proprio dove sia tutta questa emergenza - sottolinea Paolucci -: nella nostra regione le cose sono andate o stanno andando a posto. Non ci sono grosse problematiche aperte per cui non mi spiego questa decisione. A Treviso la situazione mi sembra sia stata sistemata, a Verona lo stesso. A Venezia si sta facendo il campo per i sinti che ha avuto strascichi di polemiche tra la popolazione ma che è, appunto, in costruzione. Vicenza forse ha una situazione critica ma non emergenziale. Belluno e Rovigo non hanno campi". Per quanto riguarda il territorio di Padova, Paolucci è risoluta nello spiegare che non c’è niente da aggiustare: "Le case per i sinti, costruite da loro stessi, sono pronte quindi il campo di via Tassinari sarà smantellato. L’altro campo invece verrà sistemato dopo le elezioni con i soldi ottenuti dalla partecipazione al cosiddetto ‘bando Ferrerò, il programma per l’inclusione sociale dei migranti".

All’incirca trenta terreni, poi, sono stati acquistati regolarmente dai rom veneti e tedeschi che vogliono vivere con la struttura della famiglia allargata. Per quanto riguarda, invece, la possibile "incidenza negativa sui bambini" di cui parla il ministro, Paolucci sottolinea che da quindici anni a Padova sono attivi percorsi di scolarizzazione: "Tutti i bambini rom e sinti frequentano la scuola. Quasi tutti finiscono la terza media e alcuni si iscrivono anche alle superiori".

Per capire dunque quale emergenza sia da affrontare in Veneto secondo il governo, l’Opera Nomadi attende di parlare quanto prima con il nuovo commissario: "Gli chiederemo spiegazioni, ma davvero non capisco quale sia il problema. Probabilmente l’idea è nata sotto la pressione di qualche forza politica, perché altrimenti non so proprio spiegarmelo".

Immigrazione: per paura denuncia, badante muore dissanguata 

 

www.unita.it, 10 giugno 2009

 

Ha cominciato a perdere sangue, probabilmente per un aborto spontaneo, si è sentita male ma non ha voluto chiedere aiuto. Ha avuto paura. Paura di perdere il lavoro appena trovato, paura, forse, di essere giudicata. Così è morta Vira Orlova, che si faceva chiamare Ylenia, una donna che avrebbe compiuto 40 anni l’11 giugno prossimo, di nazionalità ucraina, arrivata - forse due anni fa - in Italia, come tante donne dei Paesi dell’Est, per fare la badante. Il suo corpo è stato trovato in una pozza di sangue in un appartamento di via Grotta Regina, nella località costiera barese di Torre a Mare.

Di lei si sa poco. Gli investigatori stanno cercando di rintracciare le sue amiche per poter ricostruire i suoi ultimi giorni di vita, anche per risalire alla data di arrivo in Italia. Per il momento i carabinieri hanno trovato il suo passaporto nella stanza che occupava: sanno il suo nome, la sua età, sanno anche che era una clandestina perché sul passaporto non ci sono visti di ingresso in Italia, e sanno che in quell’abitazione di Torre a Mare Ylenia accudiva da pochi giorni un’anziana non autosufficiente. È stato proprio il figlio dell’anziana a dare l’allarme ai carabinieri e a raccontare agli investigatori che Ylenia - questo il nome riferito dall’uomo - "era in prova". Secondo il racconto dell’uomo, Ylenia era in quella casa solo da pochi giorni.

Secondo quanto finora è stato accertato dai carabinieri, la badante durante la notte, mentre probabilmente era sola in casa con l’anziana, avrebbe avuto una forte emorragia, forse causata da un aborto spontaneo. La donna ha raccolto il sangue che perdeva in una bacinella, che è stata trovata dagli investigatori nella sua camera da letto.

Chiusa nella sua stanza, Ylenia aspettava e sperava di star meglio. Poi è uscita dalla camera da letto per andare in bagno, ma è stata colta da malore ed è caduta per terra, in seguito alla forte perdita di sangue. È morta senza chiedere aiuto. Il passaporto della donna è stato trovato in un appartamento di Mola di Bari, a pochi chilometri dal capoluogo pugliese, nel quale lei si recava, ospite di amiche, nei giorni di riposo.

Donne che i carabinieri ritengono siano clandestine e delle quali si ha traccia nel racconto fatto ai carabinieri dal proprietario dell’appartamento dove lavorava. Non è stato per ora possibile rintracciarle. Ylenia pare fosse separata e madre di un figlio ormai grande.

Tra i suoi effetti personali i carabinieri non hanno trovato alcun riferimento che possa condurre ai familiari: solo alcuni medicinali con caratteri cirillici, giornali in lingua russa e un portafoglio contenente 30 euro. Il suo attuale datore di lavoro ha riferito ai carabinieri che prima di giungere a Torre a Mare la donna aveva vissuto per un periodo a Mola di Bari. Il corpo della donna è stato trasferito all’ospedale di Acquaviva delle Fonti (Bari) per l’autopsia disposta dal sostituto procuratore di turno Ada Congedo.

 

 

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