Rassegna stampa 9 febbraio

 

Giustizia: la sfiducia nei tribunali e la tentazione di fare da sé

di Riccardo Alfonso

 

Aprile on-line, 9 febbraio 2009

 

Il Ministro Alfano ci assicura, il presidente del consiglio conferma. Avremo finalmente una riforma della giustizia che permetterà di celebrare processi, lungo tutti i gradi di giudizio, in tempi brevi. È questo che preme più di tutto all’opinione pubblica, lo ribadiscono le condanne avute dall’Italia dalla corte di giustizia europea.

Ma dopo l’iniziale entusiasmo subentra l’immancabile diffidenza che contorna, purtroppo, la mente degli italiani che vanno a ritroso nel tempo e ricordano le tante promesse fatte e le immancabili delusioni subite. Oggi se analizziamo le vicende di cronaca che i media ci scodellano di continuo in tutte le salse, ovvero in video e in carta stampata e in audio dalle emittenti radio, due sono gli eventi che maggiormente ci hanno colpito.

Il primo è la triste vicenda di Eluana che da 17 anni è in coma irreversibile e ancora si è in dubbio, nonostante sentenze, i decreti legge in odore di illegittimità costituzionale, ecc., se è da considerarsi un essere in vita o è morta e la rabbia della gente per alcuni fatti di cronaca nera che stavano per sfociare in un linciaggio da parte della folla inferocita nei confronti del colpevole.

Due fatti che, a mio avviso, denotano un malessere della società che si trova ad affrontare fatti reali mentre sull’altro versante le istituzioni mostrano tutti i propri limiti con leggi inadeguate e strumenti di giudizio che per trasformarsi in sentenze definitive hanno bisogno di tempi biblici e lungo tale tragitto scattano inevitabilmente garanzie che non permettono carcerazioni prolungate e giustificano gli arresti domiciliari o la rimessa in libertà dopo l’iniziale fermo di polizia.

Tutto ciò non accadrebbe se le indagini della procura non andassero oltre i sei mesi e i processi si svolgessero in tutti i suoi percorsi di giudizio non superando i due anni. È questo, a mio avviso, il vero tratto significativo per una riforma della giustizia penale e civile che tutti noi ci aspettiamo e che da decenni non riusciamo ad ottenere.

È una giustizia negata perché non si può fare giustizia se costringiamo migliaia di persone a dover spendere gran parte della loro vita in attesa di una sentenza per poi sentirci dire che il tal fatto è andato in prescrizione per decorrenza dei termini.

Così favoriamo solo i furbi, quelli che possono permettersi avvocati ben ammanierati, quelli che hanno tutto l’interesse alla tecnica dei rinvii che oggi sono stati istituzionalizzati e non fanno più scandalo se il giudice stabilisce che se ne possa riparlare tra due o anche 4 anni. Perché, mi chiedo, quel pirata della strada che è stato arrestato in flagranza di reato e ha persino rischiato il linciaggio, non è stato portato nel giro di qualche giorno davanti al giudice e assistito da un legale (di fiducia o d’ufficio) non è stato giudicato e condannato, se ritenuto colpevole, con sentenza di primo grado.

Il tutto si sarebbe risolto nel giro di qualche settimana, al massimo. Se questo genere di risposta la società stenta a dare diventa oltremodo diseducativo considerare la giustizia per quella che è non per quella che deve essere. E qui parliamo di una giustizia che rischia di diventare virtuale mentre diventa sempre più reale quella del farla da sé.

Giustizia: il decreto-sicurezza non risolve problema criminalità

di Giorgio Sbrissa

 

Il Mattino di Padova, 9 febbraio 2009

 

Se davvero qualcuno crede che il pacchetto sicurezza votato in Senato, quando sarà definito in Parlamento, risolverà o quantomeno allevierà il problema della criminalità nei nostri paesi e nelle nostre città, è un illuso oppure ci marcia.

Delegare il dramma dell’ordine pubblico e della criminalità ai medici e ai vigilantes in un paese in cui parecchie regioni (anche del Nord) sono in mano a quella organizzata è pura follia. Peggio ancora è limitare i poteri dei giudici (fatti salvi gli abusi) o impedire le intercettazioni.

Infine, credere che rendere la vita più difficile ai clandestini risolverà il problema dell’immigrazione, non può essere un’ingenuità. A scanso di equivoci, buonismi e/o cattivismi: i clandestini non piacciono a nessuno. Ma ci sono, come la pioggia, il sole, le cavallette e le puttane. E come l’acqua scende sempre verso il basso, l’emigrazione volge dove c’è o si crede ci sia ricchezza. E come l’acqua passa sotto le porte così avviene per l’immigrazione. Equiparare immigrazione e criminalità e affermare di riuscire a eliminare la seconda impedendo la prima è razzismo.

Ma il problema dell’insicurezza è reale, non è un’invenzione della Lega o di chi altro la agita ogni momento. I ladri nelle case ci entrano, gli spacciatori per le strade fanno i propri comodi e i cittadini anche della nostra regione sono impauriti e non escono più di casa la sera e temono giustamente per i loro figli e le loro figlie e guardano agli altri con paura. E più sono "altro" più il sospetto aumenta, fino a sfiorare la psicosi, che da individuale è ormai collettiva. Per uscirne non c’è che un modo, rendere più sicure le nostre città.

Servono strumenti e non sono quelli proposti dal Governo. Cercare di trasformare i Cie o Cpt che dir si voglia in lager, non è degno dell’Unione europea e non basta. Ma non si può dire solo no, vediamo di suggerire delle alternative, allora. Accordi internazionali (senza lasciarsi prendere per il naso dal Gheddafi di turno) che prevedano forme di investimento nei paesi di origine, per regolamentare l’immigrazione.

Efficienza nel vaglio delle domande di asilo e rimpatrio coatto per chi non ha diritto all’accoglienza, trasferendo personale dai ministeri (Brunetta non ha forse stanato migliaia e migliaia di fannulloni e malati immaginari? Li utilizzi). E il legislatore faccia il suo mestiere: legiferi. Basta muoversi sulla spinta emergenziale, come sta avvenendo per la povera Eluana, tirata di qua e di là da politici di ogni colore.

Si lasci perdere il reato di immigrazione clandestina che l’Europa rischia di farci rimangiare e quattro anni (veri) in galera si facciano fare a chi delinque davvero. E se un criminale reitera il reato si moltiplichi la pena stessa. Non ci sono carceri? Costruiamole, così magari ridiamo impulso all’edilizia pubblica (anche questo può essere uno stimolo contro la crisi).

E non prendiamoci in giro: le centinaia di spacciatori che girano per Padova, per Mestre, per Treviso, sempre negli stessi posti vanno controllati e presi. Non perseguire chi passa per la strada per gli affari suoi e ha la faccia strana. Sennò legittimiamo i picchiatori specializzati che sempre più numerosi aumentano il clima di terrore (Verona docet).

Perché è di questo che hanno bisogno per affermarsi e aumentare il loro potere e la loro forza. E i loro emuli si sentono incoraggiati a bastonare e perfino a bruciare vivo il clochard, il povero, considerati feccia e perciò privi di diritti. Come i clandestini, no? Stupisce e fa male vedere che i veneti e chi li rappresenta stanno diventando intolleranti e ciechi.

Per chi come me è stato adolescente negli anni ‘70 e guardava con fiducia al prossimo, tutto questo appare drammatico e inaccettabile. Tornare indietro nel tempo non si può. Ma non si può neppure lasciare che sia la pancia a guidarci. E basta apparenza, si passi alla sostanza.

Non abbiamo bisogna di immagine o di sedute straordinarie del governo a Venezia (ci costerebbe un patrimonio in scorte e sicurezza). Si torni a usare la testa. Qualche soluzione in più sicuramente la troveremo.

Giustizia: i mass-media danno spazio all'inciviltà del linciaggio!

di Aldo Grasso

 

Corriere della Sera, 9 febbraio 2009

 

Da un po’ di tempo i giornali e i telegiornali danno molto spazio ai tentativi di linciaggio. L’ultimo è di ieri: a Roma un romeno ubriaco ruba una macchina e uccide un uomo. A stento è scampato al linciaggio. Tempo fa a Gela, a Guidonia, a La Spezia: le immagini sono sempre le stesse. Si vede l’ubriaco o il bandito trascinato via dalla polizia mentre una piccola folla preme con l’intento di farsi giustizia da sola.

La parola "linciaggio" è relativamente recente e c’è chi la fa risalire a un latifondista e patriota della Virginia, Charles Lynch, che intorno al 1782 presiedette una corte irregolare incaricata di punire i coloni fedeli alla corona britannica con finti processi. Ma la pratica è antica, è la muta che insegue la vittima in fuga. Elias Canetti in Massa e potere scrive: "Questa parola è sfrontata come ciò che designa: si tratta infatti di una sospensione della giustizia. L’imputato non conta più nulla. Senza alcune delle forme consuete tra gli uomini, egli deve finire come un animale".

Quando qualcuno ha bisogno di aiuto, per un malore o per un incidente, la gente non si ferma mai, non presta soccorso. Ma quando qualcuno incita all’esecuzione sommaria il branco si forma in fretta. Specie se c’è già la polizia e la "vittima" è del tutto inerme. Per questo i telegiornali dovrebbero essere più cauti nel mostrare la brutalità di questi nuovo riti tribali. Dal linciaggio reale al linciaggio mediatico poi il passo è breve, sempre nel segno della "sospensione della giustizia".

Giustizia: parla il parroco di Guidonia, padre Andrea Stefani

di Elena Ceravolo

 

Il Messaggero, 9 febbraio 2009

 

"Siamo tutti grati ai carabinieri che con un lavoro encomiabile hanno messo in carcere quei delinquenti, ma certo è anche normale domandarsi perché li abbiamo visti uscire dalla caserma con segni evidenti di percosse. Io davvero come quei segni se li sono fatti non lo posso sapere, posso solo cogliere un sospetto che in questi giorni è stato avanzato".

Padre Andrea Stefani, parroco di Guidonia, ha precisato ieri pomeriggio le sue stesse parole diffuse in mattinata da una nota dei Radicali che riportava il contenuto della lettera inviata a Rita Bernardini, diventata bersaglio di insulti via mail dopo la visita in carcere e la denuncia di maltrattamenti subiti in caserma dai romeni arrestati per lo stupro di via della Selciatella.

"Anche a me risulta - sono le parole di padre Stefani riportate nella nota a conclusione della missiva - che questi delinquenti siano stati pestati nella nostra caserma di Guidonia, ma basta solo vedere le foto per averne la certezza". Dunque la "certezza" del parroco, come ha successivamente precisato, era fondata solo sulle immagini dell’uscita dei quattro dalla caserma riprese da tv e giornali.

"Mi è bastato leggere alcune delle mail che le hanno inviato - ha scritto padre Andrea all’esponente radicale - per rimanere inorridito. Non so se tra quelli che scrivevano ci sia qualcuno che si dica cristiano. Mi auguro di no. Ma se qualcuno pensasse di esserlo scrivendole quelle cose allora sarà bene che sia scomunicato. Personalmente la ringrazio per aver fatto quello che io avrei fatto e quello che un cristiano è tenuto a fare: visitare i carcerati".

Padre Andrea nei giorni scorsi si è molto speso per lanciare un messaggio alla città ferita dalla violenza e poi anche dalle "ritorsioni" contro i romeni: "Non lasciarsi coinvolgere in situazioni di rabbia".

Giustizia: 1,5 mln di telecamere; Italia sotto videosorveglianza

di Francesca Barbiero

 

Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2009

 

C’è perfino il condominio milanese che ne ha installata una, ma finta e di poco prezzo, sperando di raggirare i potenziali criminali e preservare dai ladri il portone dello stabile. E c’è il proprietario del piccolo supermercato siciliano che, sul comodino della camera da letto, ha il video puntato sulla saracinesca del suo negozio e durante la notte di tanto in tanto ci butta l’occhio. Sono un milione e cinquecentomila le telecamere che controllano strade, uffici, negozi e abitazioni private in Italia, per un giro d’affari che nel 2008 è cresciuto del 15%, superando il mezzo miliardo di euro.

Il numero di apparecchi è cresciuto in maniera significativa: nel 2000 le telecamere in Italia erano circa un milione, che sono poi diventate un milione e trecentomila nel 2007. Quasi la metà (45%) è situata in luoghi pubblici e infrastrutture, anche i piccoli commercianti si stanno "armando" di telecamere per sentirsi più sicuri. Un’emergenza, quella di furti e rapine, che anche le istituzioni hanno deciso di fronteggiare con finanziamenti ad hoc.

La mappa delle iniziative comprende, a livello nazionale, un credito d’imposta fino all’80% del costo sostenuto per un importo massimo di 3mila euro (Finanziaria 2008) e - in base alla manovra 2001 - una detrazione di imposta del 36% se si installano fotocamere e cineprese collegate con centri di vigilanza privati. Ma la prevenzione del crimine vede impegnate anche le Regioni, con finanziamenti a fondo perduto o prestiti agevolati.

Un mercato dinamico da molti anni, ma che avrebbe potuto crescere a ritmi superiori se gli operatori fossero stati a conoscenza della pioggia di incentivi esistenti, statali e locali.

Infatti non di rado i bandi pubblici sono stati trascurati o addirittura ignorati. Secondo Fiorando Baldo, presidente di Anciss, l’Associazione delle imprese della sicurezza e dell’automazione degli edifici, il motivo dello scarso ricorso agli incentivi pubblici per l’installazione di sistemi di videosorveglianza da parte delle imprese commerciali è semplicemente dovuto alla scarsa informazione. In effetti si tratta di finanziamenti che in alcuni casi arrivano a coprire buona parte della fattura di un sistema di videosorveglianza.

 

Sorvegliati da 1,5 milioni di telecamere

 

Un milione e cinquecentomila occhi per rendere più sicure strade, aziende, negozi e abitazioni private. Tanti sono i sistemi di videosorveglianza attivi oggi in Italia, per un giro d’affari che nel 2008 è cresciuto del 15% superando il mezzo miliardo di euro. Un’emergenza, quella di furti e rapine, che i commercianti vivono ogni giorno sulla loro pelle e che anche le istituzioni hanno deciso di fronteggiare con finanziamenti ad hoc. Non sempre i diretti interessati sono a conoscenza di questi incentivi, ma i dati raccolti dimostrano che la domanda è crescente.

La mappa delle iniziative comprende, a livello nazionale, un credito d’imposta fino all’80% del costo sostenuto per un importo massimo di 3mila euro (Finanziaria 2008) e - in base alla manovra 2001 - una detrazione di imposta del 36% se si installano fotocamere e cineprese collegate con centri di vigilanza privati.

Ma la prevenzione del crimine vede impegnate anche le Regioni, con finanziamenti a fondo perduto o prestiti agevolati. Sono otto quelle che per il 2009 hanno stanziato incentivi per la sicurezza e nel pacchetto di aiuti menzionano anche l’attivazione di telecamere. Di queste due, Sicilia e Liguria, hanno un bando specifico per finanziare l’acquisto e l’installazione di attrezzature di videosorveglianza. La maggioranza ha scelto la strada delle sovvenzioni a fondo perduto con una copertura che va dal 20% dell’Umbria al 60% della Liguria.

Nella prima, dove l’edizione 2008 ha registrato più di mille richieste e 180 interventi finanziati, quest’anno si replica, ma restringendo le sovvenzioni ai soli centri commerciali e naturali (consorzi).

Percorso inverso, invece, per la Liguria, che rispetto ai bandi prece denti del 2004 e 2005 ha ampliato la platea dei beneficiari: non solo bar, ristoranti e tabaccherie, ma anche farmacie, benzinai e ambulanti dei mercati coperti; entro il 2 maggio possono chiedere un contributo. In Valle d’Aosta 0 "pacchetto sicurezza" è sempre più richiesto: l’ammontare di contributi totale è passato dai 17mila euro del 2007 a 27mila nel 2008.

Nelle Marche l’ammontare è rimasto stabile (250mila euro) ma il tetto massimo di spesa (6mila euro) è raddoppiato rispetto al 2004. Nel Lazio - dove sono piovute più di mille prenotazioni online per il terzo bando - nonostante l’esaurimento dei fondi disponibili i tempi sono stati prorogati per consentire al maggior numero di commercianti di avere la chance di accedere al contributo.

Piemonte e Toscana hanno invece optato per finanziamenti a tassi agevolati. Nella prima esiste un fondo rotativo che dal 2000 ha erogato più di 5400 finanziamenti per un importo complessivo di oltre 190 milioni di euro. Il bando della Regione Toscana, scaduto il 31 gennaio, ha ottenuto 400 richieste e verrà riaperto dal primo maggio, al 30 agosto.

A giugno anche l’Emilia-Romagna avvierà una gara di finanziamento per attività le commerciali che installano questi impianti: si tratterà di un contributo del 50% della spesa fino a un massimo di 26mila euro. In via di definizione anche il piano della Regione Lombardia.

Regioni a parte, anche alcuni Comuni finanziano la sicurezza, con risposte diverse da parte dei commercianti. A Brescia c’è tempo fino al 27 febbraio per avere contributi a fondo perduto fino al 50% del costo degli impianti di videosorveglianza, con un tetto di 6mila euro.

Possono presentare la domanda non solo commercianti e artigiani ma anche amministrazioni condominiali e sedi di associazioni "Abbiamo già ricevuto circa 80 richieste e stiamo pensando ad un altro bando per estendere i contributi anche per saracinesche, inferriate, allarmi e sistemi antisaccheggio", spiega il vicesindaco e assessore alla sicurezza Fabio Rolfi. Accoglienza più tiepida per l’iniziativa del Comune di Arezzo: il bando scaduto a metà dicembre è stato prorogato fino all’11 febbraio perché sono state presentate solo 4 domande. Quest’anno anche Milano dovrebbe decidere nuovi incentivi, dopo quelli del 2007 per impianti di sicurezza nei negozi e del 2008 per sistemi antirapina sui taxi

L’espansione della videosorveglianza non è sfuggita al Garante per la privacy. Ciò che preoccupa maggiormente è l’interconnessione delle telecamere private alla rete pubblica. Questo pone nuovi problemi per la tutela della privacy, con particolare riguardo agli obblighi di informare i cittadini della presenza di telecamere. L’Autorità sta monitorando il fenomeno, anche in vista di una possibile integrazione ed aggiornamento delle linee guida del 2004 sul tema.

Giustizia: la "burocrazia medioevale" che paralizza i tribunali

di Graziano Cetara e Marco Menduni

 

Secolo XIX, 9 febbraio 2009

 

La giustizia al rallentatore incattivisce ed esaspera. Ma a volte scatena anche spaventose tragedie personali. Come quella della donna di 41 anni rimasta semiparalizzata dopo essersi gettata dal terzo piano di un palazzo genovese, nel quartiere di Castelletto. Di fronte al rinvio dell’udienza che avrebbe dovuto decidere sull’assegno di mantenimento, ha tentato di farla finita.

Ma che cosa c’è nell’agenda di un giudice? Quale mole di impegni costringe a rimandare le cause civili, ormai, al 2012 o addirittura al 2013? Davvero le carenze sono solo strutturali? O c’è qualcuno che va con il freno a mano tirato?

"Lo spiego io - spiega il giudice Michele Marchesiello - che cosa c’era sul mio taccuino. Tre istruttorie al giorno. E almeno tre sentenze alla settimana: il massimo che ci possa stare, se si vogliono fare le cose bene, articolando e motivando". Ed è da qui che inizia il nostro viaggio nella giustizia e nella sua lentezza. Pochi magistrati, scarsità di mezzi. Ma il nemico numero uno è la procedura. Arcaica, elefantiaca. Spesso assurda. Che nelle aule dei tribunali italiani, e anche di quelli della Liguria, dispiega tutte le sue paradossali conseguenze.

"Il problema - insiste Marchesiello - non sta solo nell’aumento della litigiosità, che esiste ma spesso è solo la conseguenza dell’aumentata consapevolezza dei propri diritti. La realtà è che siamo diventati giudici a cottimo e la giustizia civile è ormai un sentenzificio". Tradotto: in rarissimi casi le parti riescono a trovare un accordo. "C’è chi dice - insiste Marchesiello - che la sentenza è una patologia del processo civile. Dovrebbe essere l’ultima ratio, quando proprio le parti non riescono a trovare un accomodamento. Invece nel novanta per cento dei casi si "vuole" la sentenza, di "vuole" la decisione del giudice".

Risultato? Un magistrato, mediamente, riesce a scrivere tra le 100, 150 sentenze l’anno. Troppo poche per far fronte a quelle che, ogni giorno, approdano nei palazzi di giustizia. Le occasioni non mancherebbero: uno screening eseguito a Genova dimostra che ogni causa ha, ogni anno, almeno tre o quattro occasioni per poter finire davanti al giudice. Quasi mai, però, si trova un accordo. "E spesso il rinvio è concorde tra le parti. Ma alla fine poi l’accomodamento non arriva comunque. E ci vuole la sentenza". Un caso esemplare? Le cause di risarcimento per i danni da amianto dei lavoratori dell’Eternit (il cui fallimento si è concluso nelle scorse settimane); si sono contati anche sei rinvii con la formula "pendenti trattative", cioè con il tentativo delle parti di trovare un accordo. Intanto sono trascorsi anni.

Ma la giustizia penale non sta meglio. Le cause dei tempi lunghi? L’avvocato Silvio Romanelli sfodera uno studio Eurispes commissionato dalle Camere penali. "E si scopre - spiega - che le tanto vituperate "garanzie" dell’imputato, che qualcuno giudica eccessive e indica come la prima causa della lentezza dei processi, incidono solo del 5 per cento sui rinvii delle udienze. E comunque bloccano i tempi della prescrizione". Dove sta l’ingolfamento? Nei ritardi delle notifiche, nell’assenza dei testi; per il venti per cento nella cosiddetta udienza filtro. Nelle intenzioni del legislatore doveva accelerare le cose, con l’ammissione delle prove. Si è trasformata in un’udienza di automatico rinvio, in cui si fissa solo la data del vero e proprio inizio del processo.

Rinvii che spesso sono comunque lunghissimi: mesi. Francesco Pinto è il nuovo presidente della sezione ligure dell’Associazione nazionale magistrati. A lui la domanda: la giustizia va a rilento, ma chi passa per i tribunali il pomeriggio, vedrà sempre le aule vuote. "Ma noi - spiega - saremmo disposti a lavorare anche il pomeriggio. Lo si può fare solo eccezionalmente e comunque non oltre le 17, per accordi sindacali del personale di cancelleria. Fermo restando che, dei processi, bisogna anche scrivere le sentenze". E i rinvii eccessivamente lunghi? "I giudici hanno delle priorità. Che vanno ai processi ai detenuti, a quelli vicini alla prescrizione, a quelli in cui la parte offesa non sia stata ancora risarcita. Gli altri vanno in coda. È una scelta razionale, anche se il processo in qualche modo meno "urgente" oggettivamente rischia di slittare molto avanti".

Ma anche sulla giustizia civile Pinto dice la sua: "Il problema vero su cui non si riesce a incidere è l’enorme arretrato. In questo caso, credo che anche i miei colleghi dovrebbero contenere la tendenza alla dilazione che spesso è coltivata dalle parti stesse della lite e dagli avvocati. Dopo il primo rinvio, se non c’è un accordo, bisogna andare a sentenza. Punto e basta".

Ma a bloccare i processi c’è anche un sistema bizantino e fuori dal tempo per le notifiche giudiziarie: per posta, con ricevuta di ritorno. "Abbiamo - spiega Vito Olivieri, primo dirigente del tribunale di Genova - gli uffici pieni di quei maledetti tagliandini verdi. Le notifiche vengono inviate esattamente e gli errori sono rarissimi. Ma le ricevute non arrivano quasi mai per tempo". Risultato? Basta che una notifica non sia andata a buon fine e scatta il rinvio. "La beffa è che, quasi sempre, arrivano il giorno dopo". Ma intanto l’udienza è slittata. Spesso a mesi dopo.

Ma nonostante le ristrettezze di personale e di fondi, giura Olivieri, "non c’è udienza che non sia stata coperta con l’assistenza del cancelliere e frequenti sono quelle che proseguono il pomeriggio. Siamo riusciti l’anno scorso a pagare settemila ore di straordinario: non è moltissimo ma siamo riusciti a non far saltare una sola udienza e non c’è sentenza che non sia stata pubblicata". Anche se i dipendenti erano, dieci anni fa, 310 e oggi 240. E i fondi, al 2 giugno 1999 (data in cui la legge unificò le preture al tribunale), lo stanziamento era di 300 milioni di lire e oggi di 45 mila euro l’anno.

Rilancia Francesco Pinto: "È vero, il problema delle notifiche è uno dei motivi più frequenti dei ritardi. Il sistema è farraginoso. Lancio una proposta agli avvocati: se veramente vogliamo accelerare la giustizia, troviamo in maniera concorde una soluzione più adeguata. Ma non sono sicuro che si voglia rinunciare così facilmente a uno dei sistemi più utilizzati per dilazionare i tempi".

A stretto giro risponde Corrado Pagano, presidente della Camera penale di Genova: "È tutto vero. Se le poste non funzionano è inutile pensare che le notifiche funzionino. Siamo perfettamente d’accordo. Ma allora rivediamo, contestualmente, anche il problema delle copie. Sembra un dettaglio, oggi è diventato uno dei maggiori impicci e causa di rallentamento. In un processo grosso ci vogliono più di 20 giorni per ottenere le fotocopie degli atti, indispensabili per il nostro lavoro. Tutta carta. Un sistema medievale. Io, in un solo procedimento, ho dovuto analizzare quattromila documenti".

E la via informatica? Sarebbe la soluzione migliore. Ma quanto costa un cd con gli atti giudiziari? "Duecentocinquanta euro, anche se contiene un solo foglio". Così tanti legali continuano a chiedere le tradizionali fotocopie. E la giustizia affoga (anche) nella carta.

Roma: è ubriaco alla guida, uccide un uomo e poi… va al bar

 

Corriere della Sera, 9 febbraio 2009

 

Il romeno responsabile dell’incidente rischia il linciaggio: i carabinieri lo salvano chiudendolo in un’ambulanza.

Un romeno ubriaco ha ucciso a Roma, con una macchina che aveva appena rubato, un uomo e ferendo gravemente una donna. Il dramm è avvenuto la scorsa notte sulla via Prenestina all’altezza del raccordo anulare. Dalle prime ricostruzioni sembra che il romeno, dopo aver rubato una Peugeot 307, abbia imboccato la via Prenestina zigzagando da una corsia all’altra fino a centrare una Daewoo su cui viaggiava una coppia. Nell’impatto il conducente, un italiano di 36 anni, è morto sul colpo e la donna è rimasta gravemente ferita.

Il romeno sembra non abbia minimamente prestato soccorso alla coppia. Al contrario, si sarebbe diretto verso un bar vicino dove avrebbe ordinato una birra consumata tranquillamente come se nulla fosse successo. Un gruppo di persone, che aveva assistito all’incidente, lo ha però raggiunto e tentato di linciarlo: a salvarlo polizia, carabinieri e agenti della municipale che lo hanno chiuso dentro un’ambulanza.

 

I parenti: "chiediamo giustizia o la faremo noi"

 

Marco avrebbe compiuto 37 anni il 21 febbraio, era a 5 chilometri da casa, a Ponte di Nona quando c’è stato lo schianto. I cugini: "Anche stavolta finirà che chi muore giace e chi vive si dà pace, giustizia non sarà fatta".

"Ma perché non gliel’hanno fatto linciare? Carabinieri e forze dell’ordine dovevano girarsi dall’altra parte e lasciarli fare; a quel bastardo che ci ha distrutto la vita bisognava dargli subito una lezione, presto lui sarà fuori a far piangere qualcun altro, e mia madre e mio padre invece non potranno nemmeno salutare il figlio, perché così come è ridotto non possiamo farglielo vedere".

Sono arrivati in redazione pieni di rabbia, portandosi dietro anche le due nipotine di 8 anni per cui Marco, il trentaseienne centrato in auto dal romeno ubriaco, stravedeva. E venerdì sera, avrebbero potuto esserci anche le bambine in auto con lo zio che voleva portarle a mangiare la pizza, nella Daewoo travolta dalla Peugeot rubata dal romeno, che zigzagava contromano su via Prentestina.

Cosa si provi a piombare nella tragedia, con un vigile urbano che ti tira giù dal letto nel cuore della notte e ti dice che tuo fratello non c’è più, e senti le grida di tua madre lacerare la quiete della periferia di Centocelle mentre tuo padre sviene, l’hanno raccontato Giuseppe, 36 anni, "Pino" per gli amici, il fratello di Marco, che lavora in un supermercato, e i tre cugini: Saverio, 33 impiegato del ministero della Difesa, e Stefano 35 e Luigi 32, entrambi tipografi, che ieri pomeriggio hanno voluto spiegare a Il Tempo, come mai quattro cittadini onesti come loro, che si alzano alle cinque del mattino per andare a lavorare, debbano trasformarsi in giustizieri. "Anche stavolta finirà che chi muore giace e chi vive si dà pace" dicono convinti che "la giustizia non sarà fatta". Ma loro non resteranno con le mani in mano. "Se lo metteranno fuori ci penseremo noi a trovarlo. L’unica speranza che ha di farla franca se il romeno esce di galera é che lo mettano su un aereo e lo spediscano in Romania, altrimenti non ci sarà un posto sicuro per lui qui da noi".

Ma è davanti alla tivvù che la rabbia di Giuseppe e quella dei tre cugini esplode. Quando il tiggì rilancia le immagini del tentativo di linciaggio su via Prenestina, che ricorda un altro linciaggio fallito, quello a Guidonia, con la caserma dei carabinieri circondata dai residenti che tentano di mettere le mani sul branco di stupratori romeni della ventunenne in auto col fidanzato.

La notte di venerdì, invece, la rabbia dei romani è esplosa a via Prenestina 1090, nei pressi del Gra, davanti al romeno, appena prelevato dagli automobilisti al bar, poco distante dal luogo dell’incidente, dove era andato a farsi una birra, invece di prestare soccorso. "Eccolo, maledetto, fatelo nero" gridano anche i parenti davanti alla tv, alzandosi in piedi, come se potessero davvero incitare la folla a dargli addosso, mentre carabinieri e polizia fanno scudo all’immigrato e tentano di far scendere il romeno dall’ambulanza del 118, dove l’avevano chiuso i vigili urbani in attesa che arrivassero i riforzi per metterlo al riparo dalla folla inferocita. "Se quel bastardo esce di galera - dicono i familiari - ci faremo giustizia da soli e ci dessero pure 30 anni, a noi è sicuro che ce li danno, perché siamo italiani e paghiamo le tasse".

Marco avrebbe compiuto 37 anni il 21 febbraio, era a 5 chilometri da casa, a Ponte di Nona quando c’è stato lo schianto. "Era un bonaccione - lo descrive il fratello Giuseppe - gli volevano tutti bene. Adesso poi aveva anche trovato lavoro, stava aspettando la chiamata a Canale 5, avrebbe lavorato a Forum. E da tre mesi stava insieme a Cinzia, un po' più grande di lui, che gli aveva fatto perdere la testa. E per la prima volta nella sua vita pensava di mettere su famiglia con questa ragazza che lavora in un ristorante biologico e si occupa dei ragazzi disagiati, devolvendo l’incasso dei lavori realizzati dalle cooperative dei detenuti. E invece non ci sarà più nulla. Ecco perché non può esserci nessuna pietà per gente che viene a casa tua a spadroneggiare, convinta di poter fare il comodo suo, anche di ammazzare, restando impunita".

Ma questa volta "sarà diversa", ne sono certi, "non andrà come tutte le altre" promettono a se stessi, intenzionati ad andare fino in fondo, se l’assassino del caro Marco non sarà punito come merita, convinti che sia "la cosa giusta" e di avere moralmente al proprio fianco tutta l’Italia. "Ne stanno succedendo troppe - dicono - la gente non ne può più: se ci pensiamo noi a quella belva saranno tutti contenti" dicono. Poi l’appello al sindaco di Roma, Gianni Alemanno. "Lo vogliamo incontrare, lo stimiamo ma ora deve passare ai fatti".

E il ringraziamento ai romani: "Siamo riconoscenti agli automobilisti che l’altra notte, invece di tirare dritto, si sono fermati impedendo che quell’assassino fuggisse, andandolo a recuperare nel bar dove era andato a bersi un’altra birra". Infine l’appello, drammatico: "Romani, nel fine settimana invece di andare in discoteca venite con noi a fare le ronde - dicono - vogliamo prendere questi alcolizzati e pestarli di botte prima che facciano ancora del male ad altri".

 

La testimonianza dei primi vigili accorsi

 

Il primo a giungere sul posto è stato Antonio Matrigiani, vigile urbano in servizio da una vita all’VIII Gruppo, uno dei più conosciuti, diretto dal comandante Antonio Di Maggio che dirige anche il Gssu. "L’altra sera ero di turno con due colleghi - racconta - stavamo aspettando che riasfaltassero una buca all’altezza dell’Acqua Vergine, quando ci è arrivata la chiamata di un incidente apparso subito gravissimo. Arrivati sul posto - continua - gli automobilisti ce l’hanno consegnato. Sono stati loro a impedire che il romeno scappasse. Sono gli stessi automobilisti che avevano visto l’incidente mentre viaggiavano. Ma, fermatisi, l’investitore non c’era più. Allora si sono messi a cercarlo. Qualcuno gli ha riferito di averlo visto dirigersi verso un bar nelle vicinanze.

Sono entrati e l’hanno trovato, mentre beveva l’ennesima birra invece di prestare soccorso". Ai vigili urbani l’atmosfera è apparsa subito rovente. "La folla sembrava pronta a tutto. Per metterlo al sicuro l’abbiamo fatto salire a bordo dell’ambulanza del 118, e abbiamo chiamato rinforzi" racconta ancora. Ma i momenti più drammatici dovevano ancora venire. L’ambulanza è stata circondata dalla folla inferocita che gridava insulti. "Sono arrivati una trentina di uomini su una decina di auto, carabinieri, polizia, e vigili urbani del V gruppo, che poi hanno fatto i rilievi e l’alcol-test risultato positivo, - continua - la zona è stata chiusa e abbiamo fatto un cordone di protezione intorno all’ambulanza; ma quando il romeno è sceso li abbiamo avuti tutti addosso, gridavano "datecelo a noi quel pezzo di m., e anche noi abbiamo avuto paura".

Sassari: il carcere dell’Asinara riaprirà, col decreto-sicurezza?

di Gianni Bazzoni

 

La Nuova Sardegna, 9 febbraio 2009

 

Sull’Asinara decide sempre il ministero, che si tratti di parco naturale o di carcere. E stavolta che il commissariamento del parco è scattato con precisione cronometrica (come mai accaduto finora), per una strana coincidenza la decisione si incrocia con il via libera del Senato al decreto sicurezza che prevede carceri "ad hoc" per i boss, preferibilmente nelle isole. E le isole dove è possibile riattivare strutture carcerarie con le caratteristiche indicate, sono solo due: Asinara e Pianosa.

Tra l’altro la decisione del Senato non arriva a sorpresa, perché nelle scorse settimane - quando il decreto era ancora all’esame della commissione Giustizia - voci "autorevoli" erano andate ben oltre le proposte generiche. È il caso del procuratore di Agrigento Ignazio De Francisci, magistrato di lungo corso nel pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che ha sostenuto l’importanza di riaprire le carceri di Pianosa e dell’Asinara dove è possibile la piena ed efficace applicazione del 41 bis, perché per i boss è quasi impossibile comunicare con l’esterno.

Una posizione che ha trovato il sostegno del senatore diessino Giuseppe Lumia, sentito durante l’audizione in commissione Affari costituzionali e Giustizia. Sulla stessa linea anche il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingoia e il capogruppo del Pd in commissione Antimafia Laura Garavini.

Che cosa sta succedendo? L’impressione è che tra il frettoloso commissariamento del parco nazionale dell’Asinara e la necessità di dare pronta ed efficace attuazione alle nuove norme che inaspriscono il 41 bis (inserite tra l’altro con un emendamento bipartisan), per dare nuovo impulso alla lotta contro la mafia, ci sia un collegamento per niente casuale.

E che l’obiettivo del Governo (con il largo sostegno anche dell’opposizione) sia quello di riaprire i supercarceri chiusi tra il 1996 e il 1998 dall’allora Governo Prodi. A questa situazione si può aggiungere che il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, poco dopo il suo insediamento, aveva annunciato l’intenzione di porre fine a quei parchi diventati un "poltronificio": "Il ministero sta studiando un nuovo modello", aveva affermato.

L’Asinara com’è considerata? Di certo rientra nelle attenzioni del ministero, non a caso il commissario nominato al posto dell’appena decaduto presidente Piero Deidda è un dirigente che già si è occupato della gestione di parchi nazionali (è stato commissario della Sila), è uno dei collaboratori più stretti del direttore generale Aldo Cosentino.

E c’è un’altra questione che non va sottovalutata: quattro anni fa i ministri della Giustizia e dell’Ambiente hanno firmato un accordo (che riguarda 22 parchi e 25 aree marine protette) con l’obiettivo di definire progetti di lavoro per i detenuti nei parchi, compresi quelli dell’Asinara e di Pianosa dove già esistevano strutture penitenziarie. Quell’intesa è sempre valida, tanto che i ministeri non hanno mai rinunciato alle competenze sull’isola-parco, i cosiddetti "usi governativi".

E, per quanto riguarda l’Asinara, proprio nei giorni scorsi - in ambienti carcerari - è trapelata l’indiscrezione di progetti già valutati per l’eventuale riapertura delle diramazioni di Santa Maria e di Fornelli per dare corso all’attività lavorative di detenuti (tra 80 e 100) legate al settore agricolo. Ora, c’è differenza tra reclusi sottoposti al 41 bis e detenuti "leggeri" da inserire in progetti di lavoro nel parco. Ed è questo il vero problema in una fase di assoluta incertezza per il parco nazionale dell’Asinara.

Sassari: l'Assessore Morittu; "no" all’Asinara di nuovo carcere!

 

Adnkronos, 9 febbraio 2009

 

L’assessore della Difesa dell’ambiente Cicito Morittu: "La Sardegna ha già dato su questo fronte, basta con le servitù carcerarie e militari. L’Asinara è proprietà della Regione affidata alla Conservatoria delle coste e alla comunità del Parco".

"L’Asinara non diventerà nuovamente carcere, né super, né leggero. L’attuale governo regionale non consentirà alcun insediamento carcerario all’Asinara e si opporrà in tutte le sedi e in tutti i modi possibili al decreto sicurezza".

Così l’assessore della Difesa dell’ambiente della Sardegna, Cicito Morittu, risponde da Sassari, dove è impegnato nella campagna elettorale sarda, al decreto sicurezza del governo Berlusconi che ha avuto il via libera al Senato. "Un decreto - spiega Morittu - che prevede la riattivazione delle strutture carcerarie nelle isole, per i boss mafiosi.

A due giorni dal frettoloso commissariamento del Parco dell’Asinara da parte del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo arriva anche il provvedimento per l’attuazione delle norme che inaspriscono il 41 bis. A questa soluzione insorge la Regione Sardegna che sull’Asinara ha approvato il Piano del Parco volto in direzione dello sviluppo sostenibile".

"La Sardegna ha già dato su questo fronte, basta con le servitù carcerarie e militari - attacca ancora Cicito Morittu -.

L’Asinara è proprietà della Regione affidata alla Conservatoria delle coste e alla comunità del Parco, soggetti che con il lavoro di sinergie hanno messo in piedi azioni di sviluppo mirate: alcune finanziate altre in essere". Morittu rincara la dose a proposito dell’atteggiamento del Governo sul Parco dell’Asinara: "È giunta l’ora che lo Stato - dice -restituisca alla Sardegna ciò che ancora abusivamente detiene per i cosiddetti usi governativi a Casa Reale.

La richiesta del trasferimento dei beni in questione è stata più volte avanzata dall’allora presidente Renato Soru e recentemente ribadita dal sottoscritto, senza che una risposta nel senso delle richieste sia arrivata. Al di là delle promesse elettorali che i vari ministri stanno facendo in questi giorni nei loro tour in Sardegna a spese dei contribuenti, le vere intenzioni del governo Berlusconi sono chiare: fare della Sardegna un luogo per ricchi vacanzieri con giardini privati, qualche super carcere e se occorre anche qualche centrale nucleare".

Morittu ricorda inoltre i progetti già realizzati e in fase di realizzazione dalla Regione e dall’Ente Parco nell’Asinara: "Abbiamo programmato e stiamo eseguendo gare internazionali - sottolinea - per la creazione del Centro velico a Trabuccato, abbiamo istituito la continuità territoriale con l’Isola Parco.

È in fase di realizzazione l’Osservatorio del mare che nascerà tra Cala Reale e Campu Predu. Nel Centro verranno effettuate tutte le attività previste dall’Area Marina Protetta: aule didattiche, laboratori, esposizioni e quant’ altro. In questa struttura migrerà il Centro tartarughe di Fornelli. Contiamo di continuare su questa strada e anzi di migliorare il nostro lavoro". "L’ Asinara - conclude l’assessore Morittu - si è affrancata dalla detenzione e da qualche tempo a questa parte non ha niente a che fare con carceri leggere o super perché proiettata su altri fronti dello sviluppo".

Lucca: i processi sono troppo lenti, e intanto il carcere scoppia

 

La Nazione, 9 febbraio 2009

 

La giustizia segna purtroppo il passo e i tentativi di migliorare la situazione, a volte, paradossalmente sembrano farla inciampare ancora di più. I processi restano lunghi e dall’iter alquanto tormentato, talvolta anche frustrante, mentre la percezione della sicurezza da parte dei cittadini è piuttosto negativa.

A poco o nulla è servito anche lo strumento dell’indulto. Basta vedere come "scoppia" attualmente il carcere di "S. Giorgio". La situazione fotografata proprio pochi giorni fa mostra numeri significativi in questo senso. Il totale dei detenuti ospitati nella struttura circondariale è di 137 unità, di cui ben 82 stranieri, ovvero il 60 per cento.

Durante l’estate si è arrivati a punte massime del 90 per cento di detenuti extracomunitari. Ebbene, il limite di ospiti per il buon funzionamento del "S. Giorgio" è fissato in 85 unità, mentre la capienza tollerabile è di 124. Quindi attualmente siamo ben oltre il livello di guardia. Oltretutto con una popolazione carceraria dove convivono gomito a gomito 40 detenuti con sentenza definitiva, altri 52 condannati in primo grado e una cinquantina ancora in attesa di giudizio.

Sono alcune delle cifre emerse durante la serata dedicata alla giustizia e ai suoi problemi tenutasi giovedì scorso al Rotary Club di Lucca. Ne hanno parlato il nuovo procuratore capo della Repubblica, dottor Aldo Cicala e il sostituto procuratore dottor Domenico Manzione, invitati dal presidente del Club dottor Alessandro Caturegli alla presenza di soci e ospiti, tra i quali numerosi avvocati, a cominciare dal presidente dell’ordine, avvocato Mauro Cortopassi.

Dopo il saluto del nuovo procuratore capo Cicala che ha preso le redini dell’ufficio lucchese da un mese e mezzo e ha sottolineato i problemi di organico nel personale amministrativo, è stato il dottor Manzione ad addentrarsi nelle problematiche della giustizia e del processo penale, sottolineando la sproporzione oggi esistente tra il costo che lo Stato deve sopportare e la sanzione comminata nei confronti di reati di non rilevante gravità, in grande maggioranza commessi da stranieri presenti, non sempre in modo regolare, sul nostro territorio.

"Questo avviene - ha sottolineato Manzione - perché si è pensato alla sicurezza in modo disgiunto dalla pena. Oltretutto nell’attuale contesto sociale si sta rischiando la perdita del valore deterrente della sanzione, almeno nella percezione collettiva, con riferimento anche a recenti episodi di criminalità e a provvedimenti adottati al riguardo, considerati non proporzionati alla gravità dei reati commessi". Anche sul fronte delle tanto discusse intercettazioni telefoniche, sono emerse le cifre relative al 2008. "Nell’arco dell’ultimo anno - ha sottolineato il dottor Domenico Manzione - la Procura di Lucca ha effettuato intercettazioni solo nell’ambito di 42 fascicoli di inchiesta, sui circa 30mila gestiti in dodici mesi. Ognuna di queste indagini, per lo più in ambito di traffico di droga, ha comportato l’intercettazione di un numero di utenze telefoniche variabile da uno a 20, per un totale di 438, cui vanno aggiunte una cinquantina di intercettazioni ambientali.

Il totale non arriva dunque a quota 500. Con le nuove norme che si annunciano, non sappiamo davvero cosa accadrà, dato che è previsto che le intercettazioni siano autorizzate da tre giudici a Firenze e in presenza di gravi indizi di colpevolezza. Non indizi di reato, ma proprio di colpevolezza, ovvero quando il magistrato di fatti ha già elementi per chiedere un provvedimento di custodia cautelare".

E sul buon funzionamento della macchina della giustizia incidono anche altre situazioni particolari. Come il rebus delle notifiche a imputati e difensori, che spesso costringono a rinviare, pena nullità, processi già fissati. La valanga di atti da notificare, secondo norme sempre più rigide e con forze a disposizione sempre meno numerose, mette in crisi il lavoro dei gip e dei sostituti procuratori. Un imbuto nella cui strozzatura spesso si perdono mesi e mesi. Con buona pace della sicurezza e della giustizia.

Pavia: detenuto morì in cella il ministero deve risarcire la famiglia

 

La Provincia Pavese, 9 febbraio 2009

 

Il 27 giugno del 2002, alle 11,15 del mattino, Miguel Bosco, detenuto a Torre del Gallo per il furto di uno scooter, si chiude nel bagno della cella e si toglie la vita, a 30 anni, con una bomboletta di gas. Dopo sette anni, un giudice di Milano ha condannato, per quella vicenda, il Ministero di Grazia e giustizia a pagare alla famiglia del giovane, rappresentata dall’avvocato Fabrizio Gnocchi di Pavia, la cifra di circa 140mila euro come risarcimento.

Una decisione che porta la firma del giudice Andrea Manlio Borrelli, figlio del più noto Saverio Borrelli, e che, più che una sentenza, ha il taglio della lezione di diritto, che attribuisce alle strutture di "disciplina", come il carcere, anche l’obbligo di "prendersi cura del corpo". Il procedimento contro il Ministero, per omessa sorveglianza, parte nel 2003: la madre e le sorelle del detenuto, appoggiate dall’avvocato Gnocchi, avviano la trafila giudiziaria che si è conclusa pochi giorni fa con il deposito delle motivazioni della sentenza.

Che non solo dà ragione ai parenti del detenuto, ma condanna anche il Ministero a pagare una cifra che non può definirsi simbolica. Il giovane, di etnia rom, viene arrestato a giugno del 2002 per il furto di uno scooter. Appena entra in carcere dà segni di insofferenza, di rabbia per la carcerazione.

Il medico gli somministra dei tranquillanti e prescrive "l’attenta sorveglianza" da parte degli agenti di polizia penitenziaria, indicando perfino come "medio" il rischio di suicidio. Il mattino del giorno dopo, Bosco va al magazzino del carcere, poi all’ufficio matricola. Infine torna in cella. Chiede al suo compagno di alzare il volume del televisore e si chiude in bagno. Il forte odore di gas fa scattare l’allarme. Miguel Bosco viene trovato esanime. Accanto c’è una bomboletta che non avrebbe dovuto possedere. Il giudice non ha avuto dubbi.

"Deve ritenersi che, in uno Stato di diritto dei giorni nostri, quanto maggiore è il potere attribuito all’istituzione di comprimere la libertà personale dell’individuo affidatogli - si legge nella sentenza - tanto maggiore è l’obbligo dell’istituzione di prendersi cura quantomeno del corpo della persona soggetta al potere stesso".

Da qui il risarcimento per i danni subiti. "Premetto l’ancora vivo dispiacere per una giovane vita che si è spenta in un luogo che Cesare Beccaria aveva scritto essere, al contrario, di rinascita - è il commento dell’avvocato Fabrizio Gnocchi -. La sentenza del Tribunale di Milano è una summa di principi di diritto ed un forte richiamo al rispetto di valori fondamentali, quali la vita e la dignità della persona".

Pavia: fratello a "metà", il giudice gli nega colloquio in carcere

 

La Provincia Pavese, 9 febbraio 2009

 

Fratelli solo a metà. Madre in comune, ma un padre diverso. Così il più piccolo non può andare a far visita all’altro, che è detenuto nel carcere di Torre del Gallo da tre mesi. Il rifiuto è arrivato dal magistrato, e la madre dei due ragazzi proprio non riesce a digerirlo. Ieri mattina si è presentata di nuovo a palazzo di giustizia, perché il paradosso fosse sanato.

"Invece mi sono vista chiudere ancora le porte in faccia", si sfoga Vittorina Lavagna. Cancellieri e personale della Procura alla fine sono riusciti a calmarla. "Ma non mi arrendo, mi sento privata dei miei diritti - ha ripreso -. Mio figlio ha sbagliato, ma sta già pagando. Non possono togliergli anche la famiglia". La donna racconta dall’inizio. "Mio figlio è stato arrestato a ottobre dello scorso anno, una vicenda di cui preferisco non parlare - spiega -. Dico solo che a quel punto abbiamo presentato i documenti per avere i permessi per i colloqui. A me, come madre, è stato dato quello permanente.

Al mio secondo figlio, avuto da una prima relazione, hanno dato quello ordinario, mentre al mio convivente e al terzo figlio, nato da questa relazione, non è stato concesso nulla. Eppure sono fratelli a tutti gli effetti. Quello che i magistrati non riescono a capire è che andare in carcere non è una passeggiata, non lo è per nessuno. Ho chiesto di sapere per quale ragione si è arrivati a questa decisione, ma nessuno l’ha voluta motivare".

La scelta del magistrato, tuttavia, sembra partire dal presupposto che i colloqui non devono vanificare la custodia cautelare, e per questo non sono concessi facilmente. "Una ragione che non posso accettare - commenta la donna -. Mio figlio ha sbagliato, certamente, ma questo non significa che bisogna privarlo anche del diritto di vedere suo fratello.

Lo stesso vale per il mio convivente: è assurdo che non gli venga data la possibilità di entrare nel carcere, visto che stiamo assieme da 22 anni". E ora che cosa farà? "Sono disposta a incatenarmi davanti al tribunale, se nessuno mi ascolterà. Quello che sta succedendo non è giusto. Per questo non mi fermerò".

Padova: "Evasioni di carta", aperta ieri la mostra-laboratorio

 

Il Mattino di Padova, 9 febbraio 2009

 

Inaugura ieri nella ex Fornace Carotta (Via Siracusa 61) la mostra-laboratorio "Evasioni di carta/dal carcere al territorio", presenti il direttore della Casa di reclusione Salvatore Pirruccio, il vice sindaco Claudio Sinigaglia, la commissione Pari opportunità del Consiglio di quartiere Centro.

La mostra, organizzata dalla cooperativa sociale AltraCittà e promossa dalla commissione Pari opportunità del Consiglio di quartiere Centro, con il patrocinio del sindaco di Padova, presenta i manufatti di carta del laboratorio di legatoria della Casa di reclusione di Padova.

Una mostra-laboratorio che illustra anche i materiali, le tecniche, gli attrezzi, il percorso. Ovvero: carta rinata, carta decorata a mano, carta e libri, cartotecnica (carta, cartone, forme, oggetti); carta, colore, disegno; gioielli di carta; fiori di carta; luce di carta.

La Cooperativa sociale AltraCittà coordina all’interno della Casa di reclusione di Padova un laboratorio dedicato alla carta: legatoria, cartotecnica, carta decorata a mano e riciclata, oggetti e monili di carta, con il sostegno del Comune (Servizi sociali-Progetto Carcere).

Ha inoltre collaborato a numerosi progetti di formazione della Regione, gestiti dal Ciofs Don Bosco, sulle attività artigianali legate alla carta. Il Consiglio di Quartiere Centro ha promosso questa mostra per presentare al territorio i manufatti del laboratorio, ma anche le tecniche per realizzarli. Nel laboratorio del carcere alcune persone lavorano e altre imparano; altre persone, esterne, insegnano. Lo scopo sociale della cooperativa è l’inserimento sociale e lavorativo di persone detenute.

Milano: i sindaci-sceriffi di provincia, contro il degrado urbano

di Oriana Liso

 

La Repubblica, 9 febbraio 2009

 

Marcallo con Casone, poco più di cinquemila anime a trenta chilometri da Milano, la furia ordinatrice del sindaco Moratti ha fatto scuola. Così la giunta leghista ha varato, ancora in ottobre, tre ordinanze su prostituzione, accattonaggio e decoro urbano. Meglio hanno fatto a Cusago, tremila abitanti e sei ordinanze che regolano ogni attività.

Nel giro di pochi mesi molti comuni della provincia hanno deciso di non essere da meno del capoluogo: e così in 27 (con Monza) hanno messo a punto una sessantina di testi, in alcuni casi corredati da tanto di giustificazioni sociali o etiche dei divieti. In altri, con divieti e basta: non si fa perché non sta bene, dicono i sindaci con aspirazioni da sceriffo.

Una mappa con tanti colori: giunte di centrodestra e centrosinistra, liste civiche di vario orientamento. Perché quando si tratta di spiegare ai propri concittadini che i muri non si imbrattano, che non ci si deve avvicinare alle prostitute, che i camper non si parcheggiano neanche nel proprio vialetto di casa non c’è divisione politica che tenga.

Cusago, si diceva. Qui l’ordinanza 44/2008 sui "comportamenti che offendono il pubblico decoro e recano pregiudizio e pericolo all’accesso, alla fruizione e all’utilizzo degli spazi pubblici o aperti al pubblico" rileva che "l’utilizzo di sostanze stupefacenti non è più limitato solo alle situazioni di isolamento ed emarginazione sociale, ma è diffuso anche quale mezzo per intensificare sensazioni ed emozioni o migliorare la performance produttiva" e che "tale consumo è sempre più vissuto come momento di gruppo, per sperimentare e condividere esperienze trasgressive e sensazioni esasperate all’eccesso".

Dopo la diffusa analisi sociale, ecco l’allarme: "Gli effetti alienanti e stimolanti conseguenti all’assunzione di droghe possono ingenerare negli altri soggetti disagio e ansia tali da turbare il libero utilizzo degli spazi o da indurre in particolare i minorenni a rinunciare alla fruizione del bene comune...". Per tutto questo, il sindaco Cairati vieta ai cusanesi di fare uso e di vendere droghe in luoghi pubblici, pena una multa massima di 500 euro. E chi compra? A Cusago hanno pensato a tutto: un’altra ordinanza già stabiliva anche questo divieto.

A Cesano Maderno la giunta del centrosinistra, invece, non si limita a vietare il consumo di alcol in luoghi pubblici, ma anche di alimenti (ma non è specificato quali: le gomme da masticare come verranno considerate?) dei quali è vietato, ovviamente, anche abbandonare i contenitori per strada.

A Cornaredo l’ordinanza che vieta il consumo di alcolici premette che "in Cornaredo si va diffondendo in modo preoccupante, in special modo tra i giovani, l’eccessivo consumo di bevande alcoliche da parte di persone che stazionano negli spazi pubblici, con l’inevitabile conseguenza del manifestarsi di schiamazzi" e che "il fatto ha preoccupanti ripercussioni, in primo luogo, sugli stessi giovani che vivono la cosa senza avvertirne l’immediato disvalore, e in secondo luogo sull’intera popolazione".

Sulla prostituzione quasi ogni Comune, tra quelli che ha emanato ordinanze, ha voluto dire la sua. A Limbiate, dove forse non hanno buoni rapporti con i comuni limitrofi, specificano che "il fenomeno della prostituzione esercitato su strada, pur non avendo diffusione sul territorio del Comune, è presente nelle immediate vicinanze del confine".

A Paderno Dugnano non c’è rispetto per nessuno: come spiega l’ordinanza, "le persone che appaiono dedite alla offerta di prestazioni sessuali a pagamento spesso stazionano perfino dinanzi alla locale caserma della Guardia di Finanza".

Anche i writer preoccupano non poco il sonno degli amministratori di Robecco sul Naviglio, Turbigo, Bollate, Trezzano, Bareggio, Gorgonzola (dove si considera anche che "le frasi offensive riportate sui muri possono costituire minaccia per la convivenza civile, la coesione sociale e per un corretto rapporto dialettico tra le forze politiche locali").

E così chi chiede l’elemosina (a San Donato si rileva che c’è "una notevole quantità di persone che praticano una forma di accattonaggio in modo ripugnante o vessatorio, simulando deformità o malattie") o chi staziona con la roulotte dove non dovrebbe, o chi fa un po’ di tutto questo messo assieme (a Legnano hanno fatto un’ordinanza onnicomprensiva) corre sempre lo stesso rischio. Cinquecento euro, concilia?

Immigrazione: 14mila clandestini nei Centri costano 150 mln €

di Francesca Padula

 

Sole 24 Ore, 9 febbraio 2009

 

Lampedusa si prende, meritatamente, tutta la ribalta. Con gli sbarchi quasi quotidiani (in media 83 persone al giorno nel 2008), con un centro che ha appena cambiato destinazione, la "fuga" rientrata e i tentati suicidi degli immigrati, il braccio di ferro tra il sindaco e il Viminale. Con i suoi 800 posti, dove arrivano ad ammassarsi 1.200 persone, da sola, Lampedusa nasconde alle cronache tutti gli altri centri dove vivono in totale 14mila immigrati irregolari e richiedenti asilo.

C’erano i Cpt. Sono stati trasformati in dieci Centri di identificazione ed espulsione, sei Centri di accoglienza e altrettanti Centri per i rifugiati, ma anche questi sono al completo. I posti sono esauriti persino nelle oltre quaranta strutture di emergenza, sparse in tutta Italia. Villaggi turistici come "Il Veliero" a Follonica che ospita da novembre poco più di 200 immigrati arrivati in autobus dopo l’approdo all’isola: situazione sotto controllo nonostante l’allarme sanitario per i casi di scabbia e anche di Tbc. Oppure edifici e case famiglia della Croce Rossa (a Massa Carrara e a Taranto), dei Comuni e della Caritas. Nella task force non mancano le cooperative, c’è l’Esercito della salvezza in provincia di Salerno, ci sono le Suore di Gesù Redentore a Caltagirone (Caltanisetta) che ospitano 34 minori stranieri non accompagnati. E che battono cassa perché non vengono pagate da più di un anno.

Da Lampedusa a Gorizia, Centri veri e strutture di emergenza danno vitto e alloggio agli immigrati sbarcati e ai richiedenti asilo ospitati dai Comuni (nell’ambito del progetto Sprar), fuggiti da Paesi in guerra e ora in attesa di un responso sullo status di rifugiato.

Un numero che non si ridurrà a breve. "Il complesso internazionale è preoccupante per la situazione del Corno d’Africa e per la crisi economica che investe non solo l’Europa ma anche i paesi più deboli - sottolinea Mario Morcone, capo del dipartimento Immigrazione e libertà civili del Viminale -: questa situazione fa temere che le necessità e le speranze di un futuro migliore resteranno immutate o si accentueranno. L’ultimo esempio, quello degli arrivi tunisini negli ultimi sei mesi è la conferma di un’accelerazione brutale". Altrettanto brutale è stata la crescita della spesa per il mantenimento dei centri.

Nel 2008 non sono bastati i 139 milioni di euro stanziati; quest’anno il sistema dell’accoglienza parte "zoppicante" con un rosso di circa 10 milioni e conta sull’anticipo di 34,5 milioni nell’ambito dello stanziamento del pacchetto sicurezza per la costruzione dei nuovi Cie che il ministro Maroni vorrebbe realizzare in ogni regione.

Dal punto di vista operativo il Viminale ha messo in campo la sua risposta: costituire nuovi e rafforzare accordi di cooperazione preesistenti, come quello con la Tunisia e la Libia, e come - annuncia Morcone - sarà il caso nelle prossime settimane di altri paesi delle coste del mediterraneo meridionale: Marocco, Algeria, forse nuovamente Egitto. "Il discorso si amplia, per ottenere non solo la riammissione dei cittadini, ma un confronto di opportunità sul piano del mercato del lavoro. Si possono migliorare i rapporti nell’ambito delle quote di ingresso e della formazione dei lavoratori direttamente in quei Paesi".

Tocca ai Paesi dell’Europa meridionale affrontare la questione dei clandestini e dei centri di accoglienza: "La polemicità della politica italiana drammatizza tutto, mala condizione degli altri paesi non è migliore - spiega ancora il prefetto Morcone -. Le difficoltà nel gestire pressioni migratorie grandi, che nascono da eventi eccezionali, stanno mettendo in crisi tutti. Bisogna farsi sentire di più sul tavolo dell’Unione europea e non solo durante gli incontri internazionali". Negli accordi bilaterali si deve puntare sul rientro assistito. Poiché molti degli immigrati ospitati nei centri non si fanno identificare, evitando così il più a lungo possibile il rientro in Patria, al Viminale si studiano forme di rimpatrio e insediamento assistito: garantire a chi rientra il sostegno ad avviare un’attività è l’unico modo per spingere gli immigrati a farsi riconoscere e a rendere possibili i rimpatri. Intanto, sono al lavoro in tutta Italia 15 commissioni territoriali per vagliare oltre 30mila domande si asilo politico. Servono ancora 3-4 mesi per assorbire tutte le richieste che in un anno sono più che raddoppiate. Ma in altri Paesi, Germania e Regno Unito in testa - assicura Morcone - il tempo medio non è inferiore al nostro.

Immigrazione: i medici "potranno", o "dovranno", denunciare?

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 9 febbraio 2009

 

Dunque, i medici "potranno" o "dovranno" denunciare i clandestini che avranno bisogno delle loro cure? Non c’è dubbio che, se si legge soltanto la norma che cancella il divieto per i medici di segnalare la presenza di irregolari, la denuncia non è un obbligo. È soltanto una possibilità: il medico potrà comportarsi secondo coscienza. Ma conviene ascoltare, con molta attenzione, i senatori della Lega che questa barbarica legge hanno pensato, scritto e imposto.

Gli uomini del Carroccio non nascondono le loro intenzioni. Se sollecitati, le svelano in pubblico (come è accaduto a Otto e mezzo condotto da Gruber e Guiglia). Che cosa dicono? Spiegano che la norma per i medici va letta ricordando che "l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato" è diventato un reato procedibile d’ufficio (art. 19 delle nuove leggi sulla sicurezza). E dunque impone dei precisi comportamenti al pubblico ufficiale, come deve essere considerato un medico che assolve a un pubblico servizio.

È un comportamento previsto dal codice penale: un incaricato di pubblico servizio che, "nell’esercizio o a causa del servizio" ha notizia di un reato deve denunciarlo "all’Autorità giudiziaria o a un’altra Autorità che a quella abbia l’obbligo di riferire". Se "omette o ritarda la denuncia" sarà punito (art. 362, codice penale). Ieri, era fatto divieto esplicito di denuncia ai medici. Oggi, caduta furbescamente questa norma, bisogna chiudere gli occhi per non vedere che cosa accadrà se la legge xenofoba dovesse essere approvata anche alla Camera.

È vero, in Puglia come in larga parte del Paese non si muoverà una paglia. I medici non denunceranno gli irregolari malati, nessuna autorità lo pretenderà. Alla Lega non importa un fico secco di quel che accadrà "in Italia". Alla Lega interessa soltanto quel che accade nel territorio che il Carroccio si ostina a definire "la Padania".

Interessa soltanto la potenzialità di una legge che, opportunamente interpretata, consentirà in quelle regioni un controllo dell’immigrazione prossimo all’arbitrio. Il combinato disposto del reato di immigrazione e la fine del divieto di denuncia, infatti consente di trascinare davanti al giudice i medici che non indicheranno alle polizie i "senza visto".

Gli uomini della Lega non tacciono che chiederanno ai direttori generali, ai direttori sanitari e amministrativi delle Asl (tutte nomine politiche) di pretendere la segnalazione dei medici: sono l’autorità che, con la polizia e la magistratura, può esigere di essere informata del reato. Anche volendo sottovalutare le sanzioni penali che dovranno affrontare, i camici bianchi che non si adegueranno (facile profezia) non avranno una vita comoda in quelle aziende sanitarie e in comunità fortemente condizionate dalla Lega.

E allora i medici "potranno" o "dovranno" denunciare gli irregolari? La risposta più adeguata deve tener conto di un’Italia già pericolosamente divisa e frammentata. In larga parte del Paese "potranno"; nelle regioni padane "dovranno", e i medici saranno costretti non all’obiezione di coscienza, ma alla disobbedienza civile.

Immigrazione: i missionari; serve un "pacchetto integrazione"!

 

www.unimondo.org, 9 febbraio 2009

 

Numerose e critiche le reazioni delle associazioni mediche, cattoliche e del mondo missionario per l’approvazione giovedì scorso da parte del Senato delle diverse misure del "pacchetto sicurezza" (il Disegno di legge n. 773), in particolare quelle che riguardano direttamente la salute e i diritti dei migranti.

Già da tempo diverse realtà del mondo cattolico avevano criticato varie misure riguardanti il problema della "sicurezza", nei giorni precedenti il voto al Senato alcune tra le più rappresentative associazioni cattoliche avevano convocato una conferenza stampa nella quale prendendo in esame i diversi punti della proposta di legge sottolineavano che tali misure "offendono la dignità umana", sollevano "indignazione morale", costano molto e non garantiranno il raggiungimento degli obiettivi per le quali sono state pensate.

All’indomani dell’approvazione da parte del Senato di diversi punti del disegno di legge, insieme alla "preoccupazione e allarme" ribadito da Medici Senza Frontiere e di diversi associazioni direttamente impegnate nella tutela della salute dei migranti, va registrata la contrarietà della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo) secondo cui "la norma va contro l’etica e la deontologia e che si potrebbe rivelare un boomerang sul piano della salute pubblica", mentre le Acli hanno giudicato il disegno di legge "un gravissimo passo indietro sul piano dell’integrazione e della stessa sicurezza" auspicando "l’attivazione dell’obiezione di coscienza da parte di tutti gli operatori sanitari, per il rispetto che si deve a ogni vita umana". "L’incapacità di gestire la questione sicurezza sembra riversarsi con rabbia contro i più poveri" - ha commentato il presidente Olivero.

Le principali realtà degli Istituti e delle riviste missionarie italiani in un comunicato criticano con durezza le nuove misure: "Una ferita ai diritti delle persone immigrate e un pericolo per la salute degli stessi immigrati e dei cittadini tutti e perciò esprimiamo la nostra indignazione". Per missionari italiani la decisione adottata dal Governo "costituisce un fatto grave, per di più in un momento delicato come l’attuale in cui al legislatore sono chiesti saggezza, equilibrio e lungimiranza".

"L’esigenza legittima di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza non può mai far sì che siano calpestati i diritti delle persone" - ribadiscono i missionari. "Una scelta di questo tipo non fa che aggravare un clima già pesante, che vede gli immigrati più vulnerabili che mai e tende a esasperare le contrapposizioni, invece di favorire l’integrazione".

Gli Istituti missionari italiani chiedono soprattutto che "cambi l’approccio culturale a una questione come l’immigrazione". "Un popolo e uno Stato che si riconoscono nei valori della Costituzione non possono rinunciare ad avvicinare l’immigrato - regolare e clandestino - innanzitutto come una persona, con diritti e doveri. In caso contrario, stiamo scivolando a grandi passi verso la barbarie" - conclude la nota dei missionari.

Simili i rilievi di Franco Pittau, Coordinatore del Dossier statistico immigrazione Caritas-Migrantes che ha sottolineato la necessità di passare dalla logica del "pacchetto sicurezza" a quella di un serio "pacchetto integrazione".

"È tempo che in Italia si cominci a parlare seriamente di pacchetto integrazione; è quello che la situazione richiede ed è ciò che chiede anche la maggioranza degli immigrati che vive e lavora onestamente e si sente ignorata" - ha detto Pittau all’agenzia Misna. "Come ci si può aspettare una società ben integrata se non si investe in questo progetto?" - ha ribadito Pittau. Caritas e Fondazione Migrantes auspicano "il superamento del complesso di Penelope - si legge nel Dossier Statistico immigrazione presentato a Roma - che porta lo schieramento politico maggioritario a disfare quanto fatto in precedenza, senza che così possa nascere un minimo comune denominatore libero da logiche ideologiche o partitiche.

Intanto la Caritas diocesana di Roma informa che nelle prossime settimane verranno potenziate le attività di assistenza sanitaria a favore degli immigrati privi di permesso di soggiorno. "Allo stesso tempo - aggiunge la nota - i medici della Caritas intensificheranno l’attività di animazione e sensibilizzazione verso gli operatori socio-sanitari degli ospedali e nelle strutture sanitarie pubbliche e private". La Caritas di Roma afferma così di prepararsi a "fronteggiare le gravi conseguenze" che potrebbe causare l’approvazione della legge.

Pur se non ancora in vigore "la Caritas ritiene che il provvedimento rischia di avere dei pericolosi effetti immediati sulla sanità pubblica per il clima di paura che sta causando. Per questo si attiverà anche nel far conoscere agli immigrati che al momento possono usufruire delle cure senza alcun rischio di denuncia" continua il comunicato. L’organismo diocesano si augura una modifica dell’emendamento nel passaggio al secondo ramo del Parlamento.

Ieri a Lampedusa una decina di immigrati di origini tunisina hanno tentato di togliersi la vita all’interno del Centro di prima accoglienza molto probabilmente a seguito dei rimpatri annunciati e per chiedere un trasferimento dal Cpa dell’isola.

"Gli episodi di autolesionismo di alcuni migranti nel centro di Lampedusa sono la conseguenza della trasformazione della struttura in centro di identificazione ed espulsione" - ha commentato Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr. "Quanto sta accadendo a Lampedusa è espressione di un grande disagio e di una disperazione da parte di persone che comprendono che non hanno più nulla da perdere dopo che hanno saputo che 120 connazionali sono stati rimpatriati in Tunisia.

Temono per la loro stessa sorte e per quello che gli succederà in quel Paese dopo aver perso l’occasione della loro vita" - ha aggiunto la portavoce Unhcr sottolineando che "questi gesti disperati, che si verificano con più frequenza nelle strutture detentive, erano prima veramente rari nel Cpa di Lampedusa perché era una realtà di transito".

Immigrazione: gesuiti; ddl 733, provvedimenti inutili e dannosi

 

Redattore Sociale - Dire, 9 febbraio 2009

 

L’associazione San Marcellino, nata per continuare l’opera del gesuita Lampedusa, denuncia "l’assoluta mancanza di conoscenza del problema dei senza dimora" rivelata dal ddl 733.

Da Genova arriva un secco "no" al pacchetto sicurezza. L’Associazione San Marcellino per la promozione della dignità umana e l’accoglienza di persone senza dimora è nata nel 1988 ma ha radici antiche che affondano nell’Opera di carità La Messa del Povero fondata dal padre gesuita Paolo Lampedusa a Genova nel 1945.

Oggi l’associazione offre a senza dimora e a persone in difficoltà ascolto, pronta accoglienza, alloggio, servizi di mensa, docce e lavanderia, educazione al lavoro, animazione, senza dimenticare la proposta culturale con l’aggiornamento e la formazione. Di fronte al pacchetto sicurezza l’associazione ha manifestato tutta la propria disapprovazione e ha chiamato i cittadini genovesi a una riflessione comune, invitandoli a "fare circolare questa notizia e le possibili riflessioni che ne conseguono. Inutile dire che questo provvedimento, ove definitivo, rappresenterà un enorme guaio per molte centinaia di persone che stabilmente accompagniamo a san Marcellino".

Il comunicato che l’associazione San Marcellino ha diramato parla chiaro: "l’approvazione in Senato del disegno di legge 733 trova tutta la nostra disapprovazione, ci muove alla più forte indignazione e ci costringe a prendere la parola in vece di coloro che incontriamo quotidianamente e che si trovano nell’impossibilità di farlo. Per quanto riguarda, in particolare, gli articoli 36 e 44, si evince o l’assoluta mancanza di conoscenza del problema delle persone che vivono in condizione di senza dimora, e/o, forse peggio, il totale disinteresse all’impatto che provvedimenti tanto inutili e dannosi, quanto demagogici, hanno sulle persone, soprattutto su quelle più deboli, a favore di provvedimenti che paiono voler spostare l’interesse dei cittadini dai reali problemi del paese.

Troviamo poi più che discutibile la filosofia presente in numerosi altri articoli del decreto, non ultimo l’articolo 39, che prevede l’abolizione del comma 5 dell’articolo 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, 286, che vieta la segnalazione alle autorità, da parte dei medici, dei pazienti stranieri non in regola: la quasi totalità degli stranieri sulla strada da noi seguiti inizieranno a vivere sotto questa ulteriore minaccia".

Le parole dell’associazione - affidate alla penna del presidente, padre Alberto Remondini s.j., e del responsabile dei servizi e delle attività culturali, Danilo De Luise - entrano pi nello specifico: "l’articolo 36 lega il diritto alla residenza alla verifica, per conto degli uffici comunali, delle condizioni igienicosanitarie del luogo in cui si richiede la residenza.

Questo rende, nella prassi, ancora più difficile per le persone senza dimora ottenere e mantenere la residenza anagrafica. Non ottenere la residenza, di fatto, implica l’esclusione dai diritti civili più importanti che la nostra Costituzione riconosce (iscrizione al Servizio sanitario nazionale, accesso ai servizi sociali). Inoltre data la scadente qualità media delle abitazioni (soprattutto nei centri storici, in alcuni quartieri popolari, nelle zone rurali) questa norma va a produrre un blocco di massa delle variazioni e iscrizioni anagrafiche con un conseguente alto numero di persone legalmente presenti nel nostro paese escluse dalla residenza".

Poi il documento di San Marcellino continua; "L’articolo 44, con l’istituzione, presso il Ministero degli Interni, di un registro nazionale delle persone senza dimora, evidenzia più una volontà di controllo che di interesse a promuovere e sostenere percorsi di accompagnamento sociale, muove a inquietanti ricordi e separa l’iscrizione anagrafica dagli abituali luoghi di vita con ricadute imprevedibili sul reale accesso ai servizi delle persone in condizione di senza dimora.

Ricordiamo che già fino ad ora il tema della residenza anagrafica e della sua variazione ha comportato non poche complicazioni a persone faticosamente agganciate ai servizi dopo un lavoro di anni. Chiediamo: una persona genovese in condizione di senza dimora, iscritta in tale geniale registro a quali servizi di competenza dovrebbe rivolgersi? Quelli romani o quelli della sua città? La risposta è tutt’altro che scontata.

A Genova sono molte centinaia le persone senza dimora con una residenza anagrafica legale presso il nostro Centro di Ascolto, quello dell’Auxilium e quello del Comune di Genova. Che sarà di loro e di tutto quel processo burocratico di sostegno al percorso di riabilitazione che queste persone hanno accettato di intraprendere in questi anni?". La domanda lasciata in sospeso dall’associazione mette in critica tutto il provvedimento e fa dire ai responsabili, in chiusura del comunicato, che "ancora una volta registriamo provvedimenti che vanno nella direzione opposta alla tutela dei diritti e alla promozione della dignità umana".

Immigrazione: Amnesty; i migranti a rischio di rimpatrio illegale

 

Vita, 9 febbraio 2009

 

Amnesty International lancia una petizione contro il rimpatrio forzato delle persone attualmente sull’isola di Lampedusa senza le dovute garanzie.

Tutti i migranti attualmente detenuti sull’isola di Lampedusa sono a rischio di rimpatrio forzato senza la possibilità di opporsi al rimpatrio nell’ambito di procedure effettive di controllo giudiziario e con il rischio di un mancato accesso alla procedura d’asilo. Qualora rimpatriati in assenza di queste garanzie, potrebbero trovarsi a rischio di subire torture e altre gravi violazioni dei diritti umani.

Il 28 gennaio, durante una conferenza stampa, il ministro dell’Interno ha dichiarato che, in base a un accordo stipulato tra l’Italia e la Tunisia sul rimpatrio dei migranti irregolari, 500 migranti tunisini sarebbero stati rimpatriati nei due mesi successivi. il 3 febbraio, inoltre, il ministero dell’Interno ha annunciato che 120 migranti irregolari sarebbero stati rimpatriati immediatamente in Tunisia.

Il centro di detenzione in cui si trovano i migranti è stato costruito per accogliere 850 persone. Il 23 gennaio, l’Ufficio dell’Alto commissariato delle nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione sulle condizioni di vita nel centro di detenzione e ha chiesto alle autorità italiane di intraprendere tutte le azioni necessarie per affrontare la difficile situazione umanitaria in cui si trovano i detenuti. Secondo una dichiarazione rilasciata dall’Unhcr il 9 gennaio, "Ai richiedenti asilo deve essere permesso di sbarcare in un posto sicuro dove possano ricevere informazioni sui loro diritti e avere una reale opportunità di formulare una domanda di asilo che venga valutata in base ad una procedura equa. Rimandare indietro i rifugiati in paesi dove non possono ottenere un’effettiva protezione, potrebbe rappresentare una violazione degli obblighi internazionali presi dagli Stati di rispettare il principio del non-refoulement (non respingimento)".

In quanto stato parte della Convenzione 1951 sui rifugiati, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), della Convenzione contro la tortura (Cat) e della Convenzione europea sui diritti umani (Echr), l’Italia ha l’obbligo di non rimpatriare nessuno nei paesi in cui le persone potrebbero essere a rischio di subire torture o altri maltrattamenti. Il principio del diritto internazionale sul non-refoulement, che è vincolante per tutti gli stati, proibisce il rimpatrio forzato di qualcuno in un paese in cui potrebbe subire gravi abusi dei diritti umani, tra cui la tortura.

Immigrazione: in Tunisia le carceri affollate di espulsi dall’Italia

 

Ansa, 9 febbraio 2009

 

L’Italia ha avviato, dalla metà della scorsa settimana, il rimpatrio di immigrati irregolari tunisini. Lo si apprende a Tunisi da fonti bene informate secondo le quali si tratta, per il momento, di cifre assai modeste, con cadenza quotidiana. Le espulsioni avvengono sia con voli di linea regolari, sia con le navi traghetto che collegano l’Italia al porto di La Goulette (Tunisi).

Sempre secondo le stesse fonti, l’esiguità dei provvedimenti sarebbe dovuta, per il momento, anche al problema della capacità ricettiva delle carceri tunisine, nelle quali vengono rinchiusi in attesa di processo tutti coloro che devono rispondere del reato di espatrio clandestino. Nessun commento, per ora, da fonti ufficiali.

 

Lampedusa: temono l’espatrio, tentano il suicidio

 

Qualcuno ha tentato d’impiccarsi, altri hanno ingerito detersivi, altri ancora hanno ingoiato lamette e bulloni. Le loro condizioni non sono gravi, ma undici di loro, quasi tutti tunisini, ospiti da mesi nel centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, sono ricoverati nel poliambulatorio dell’isola, mentre un altro è stato trasferito con un elicottero del 118 nell’ospedale Civico di Palermo. Tentano di uccidersi pur di non essere espatriati in

Tunisia o in Egitto come dovrebbe accadere per molti di loro dopo gli accordi intercorsi dal ministro degli interni, Roberto Maroni con le autorità tunisine. Nel centro di Lampedusa c’è dunque molta tensione e si teme che la protesta di un centinaio dei mille extracomunitari possa passare a gesti più estremi, mentre si allarga la partecipazione allo sciopero della fame cominciato nei giorni scorsi.

La clamorosa iniziativa degli immigrati, ha rinfocolato le polemiche. "La situazione a Lampedusa è ormai insostenibile: giovedì sarò a Bruxelles per incontrare il commissario europeo Barrot" diceilsindaco dell’isola, Dino De Rubeis, protagonista nei giorni scorsi di un duro scontro con il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

"L’accanimento del governo nel volere trasformare il Cpa in un Centro di identificazione ed espulsione - spiega De Rubeis - sta portando questi disperati alla morte. Noi vogliamo invece che all’interno della strutturavi siano pace e serenità e soprattutto che vengano garantiti i diritti dell’uomo".

Immigrazione: in Grecia record delle espulsioni dall’Ue, 54mila!

 

Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2009

 

L’ultimo grido di allarme è stato lanciato da Médecins Sans Frontières, l’estate scorsa, in un duro rapporto in cui accusava il Governo greco di Costas Karamanlis di tenere rinchiusi centinaia di profughi in un centro sovraffollato dell’isola di Lesbo, senza garantire loro le adeguate misure igieniche e cure mediche, una situazione definita dall’organizzazione di "crisi umanitaria".

"I profughi, la maggior parte dei quali provenivano dall’Afghanistan, erano alloggiati in stanze senza acqua corrente e potevano uscire all’aria aperta ogni due giorni", aveva denunciato Yiorgos Karayiannis, a capo del programma di assistenza migranti di Msf in Grecia. "Il rischio di contagio è alto - aveva spiegato l’organizzazione - visto che alcuni profughi soffrono di tubercolosi e malattie della pelle, e al campo lavora uh unico medico senza interprete, mentre ai medici dell’organizzazione umanitaria è proibito l’accesso per fornire cure mediche. I profughi sono aumentati da 150 agli inizi di giugno ad 800 di luglio. Arrivano con degli scafi dalle coste turche o del Nord Africa".

Il Governo greco rispose negando la gravità della situazione, ma ammise che l’eccezionalità dell’ondata di profughi aveva messo a dura prova la rete di assistenza. La Grecia ha un confine di 14.900 chilometri di costa mediterranea che è spesso una meta per profughi provenienti da Iraq, Palestina, Somalia, Pakistan e Afghanistan.

I profughi che si trovano in centri come quello di Lesbo - sei in tutta la Grecia - vi rimangono fino a tre mesi, dopodiché viene loro dato un ultimatum di un mese per lasciare il Paese. Alcuni vanno ad Atene o a Salonicco, seconda città del Paese, ma altri si muovono verso nazioni più ricche della Ue, come l’Italia. Il Governo, nel tempo, ha varato una politica sempre meno tollerante: la Grecia, infatti, ha il record di espulsioni. Secondo gli ultimi dati disponibili, su più di 200mila procedure effettuate dai Paesi della Ue nel 2007, il primato spetta alla Grecia con 54.756 espulsi, pari al 27% del totale degli stranieri.

Immigrazione: in Francia richiesta d’asilo è solo per chi ha soldi

di Leonardo Martinelli

 

Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2009

 

E scoppiato pochi giorni fa, a Bordeaux, l’ultimo incendio doloso in un Cra (Centre de rétention administrative), i centri francesi dove convergono i clandestini identificati dalla Polizia. L’ennesimo segnale di tensioni permanenti.

"È il frutto della "politica delle cifre" voluta da Sarkozy, prima come ministro dell’Interno e poi come Presidente - osserva Laurent Giovannoni, segretario generale dell’Ong Cimade -. Fissare quote precise di stranieri da espellere ogni anno mette pressione sulle forze dell’ordine. E riempie i Cra, dove la convivenza è sempre più difficile".

In Francia si contano 23 di questi centri (e altri quattro nei territori" d’Oltremare). Esistono poi le zones d’attente, aree dove vengono si-stematigli stranieri appena entrati illegalmente nel Paese: sulla carta un’ottantina, ma in realtà le sole davvero in funzione sono quelle localizzate presso gli aeroporti di Parigi, in particolare a Roissy.

A partire dal 2003, quando la "politica delle cifre" ha avuto inizio, è cresciuto rapidamente il numero di persone portate nei Cra, fino a superare le 35mila presenze nel 2007, gli ultimi dati disponibili: una cifra record. "Secondo le stime, il totale del 2008 dovrebbe essere inferiore, anche se di poco"; sottolineano alla Cimade, che è l’unica Ong autorizzata a entrare in questi centri, dove l’accoglienza e le condizioni igieniche sono migliorate molto negli ultimi anni e non sono più oggetto di polemiche. Scatenate, invece, da altre ragioni: nel 2007 furono 242 i bambini, in gran parte nati in

Francia, iscritti regolarmente alla scuola, che si ritrovarono nei Cra. "Abbiamo chiesto, ma inutilmente, che i minori restino fuori", precisa Giovannoni. Che si dice preoccupato per l’applicazione in Francia della direttiva rimpatri. "Per il momento la legge prevede che si possa rimanere nei Cra al massimo 32 giorni, il minimo in Europa, ma ora il Governo potrebbe decidere di estendere tale periodo".

Delle persone che si ritrovano nei Cra, in media il 40% viene espulso. Il resto, invece, è rimesso in libertà. Alcuni (la minoranza) ottengono un permesso di soggiorno provvisorio dalla prefettura per procedere a una domanda di regolarizzazione. Gli altri vengono messi fuori senza alcun documento, come clandestini, a rischio di essere di nuovo catturati.

Veniamo alle zones d’attente. Le persone confinate hanno due giorni per impostare una domanda d’asilo. Anche qui gli ultimi dati sono relativi al 2007: 4.773 persone sono state ammesse alla procedura e non espulse (appena 2.727 nel 2006). È andata male, invece, ad altri 17.681. "Presentare una domanda d’asilo è molto complicato - osserva Caroline Maillary di Anafe, una Ong di giuristi che prestano servizio in queste aree -. Chi non ha i soldi per pagarsi un avvocato è praticamente escluso da questa possibilità. Lo Stato non ha mai accettato di concedere più tempo. E neppure un’assistenza a chi non se la può permettere".

Droghe: Padova; ordinanza sindaco viola la "Fini-Giovanardi"!

di Giulio Manfredi (Radicali Italiani)

 

Notiziario Aduc, 8 febbraio 2009

 

Una settimana fa, il sindaco di Padova ha firmato un’ordinanza che prevede una sanzione di 500 euro per chiunque acquista o riceve sostanze stupefacenti in aree pubbliche o aperte al pubblico "‘insistenti in zone residenziali"; in alternativa alla suddetta sanzione pecuniaria, il cittadino interessato può fare richiesta entro 30 giorni di essere inserito in un programma di riabilitazione presso un Sert (servizio pubblico per le tossicodipendenze). L’ordinanza suddetta si richiama espressamente al Decreto cosiddetto "Maroni" (D.M. 5 agosto 2008, "Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione").

In materia di sanzioni sia penali che amministrative relative agli stupefacenti, la normativa di riferimento è esclusivamente quella contenuta nel D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), come modificato dalla cosiddetta legge "Fini-Giovanardi" (L. 49/2006).

In particolare, l’art. 75 (Condotte integranti illeciti amministrativi) del DPR fissa le sanzioni amministrative nei confronti di "chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all’articolo 73 (relativo alle sanzioni penali, ndr) …L’interessato, inoltre, ricorrendone i presupposti, è invitato a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122 o altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio …".

La legge demanda in modo esclusivo al Prefetto del luogo dove è avvenuto l’illecito amministrativo la competenza in materia di invio al Sert; tale invio non è alternativo alla sanzione amministrativa ma ne costituisce un’integrazione.

E il cosiddetto "Decreto Maroni", avendo la natura giuridica di decreto ministeriale, è sotto ordinato, nella gerarchia delle fonti, alla legge dello Stato, nel caso specifico al succitato DPR 309/90.

Pertanto, la cosiddetta "ordinanza Zanonato" rappresenta un vero e proprio "eccesso di potere", invadendo palesemente e pesantemente le competenze fissate in materia dalla legge dello Stato, che deve essere comunque rispettata, anche se si tratta della famigerata legge "Fini-Giovanardi", che è in realtà la pura e semplice conversione del Decreto Legge 30 dicembre 2005, n. 272, emanato in origine solo per il finanziamento delle Olimpiadi Invernali di Torino; un’aberrazione giuridica e costituzionale di cui porta la piena responsabilità, assieme al governo Berlusconi dell’epoca, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che promulgò la legge.

Brasile: il Carnevale fa rinviare una decisione sul caso Battisti

 

Il Tempo, 9 febbraio 2009

 

Mercoledì il Supremo tribunale federale di Brasilia esaminerà il caso Battisti. Ma la sentenza non si avrà fino ai primi di marzo. La causa di tutto questo tempo è il Carnevale. In Brasile, durante i festeggiamenti, tutte le attività del Paese, comprese quelle giudiziarie, si fermano e riprendono solo a fine febbraio. La decisione di iniziare l’esame del caso è stata presa dal presidente Gilmar Mendes. Vista la fortissima esposizione mediatica del caso alla quale sono sottoposti i membri del Tribunale supremo che in Brasile hanno lo status di ministri, si è deciso di accelerare l’esame del caso dell’ex terrorista dei Pac, attualmente in carcere nel penitenziario di Papuda, a Brasilia.

La stampa brasiliana sta seguendo l’affaire Battisti con attenzione e nello spulciare i precedenti ha riproposto il caso di Pietro Mancini, condannato in Italia a 19 anni e quattro mesi rapina, partecipazione a gruppo armato con fini sovversivi e omicidio, e latitante in Brasile da 15 anni. L’Italia aveva chiesto l’estradizione di Mancini nel 2005, e in quel caso la maggioranza dei giudici del STF votarono contro l’estradizione. Oggi Mancini fa il produttore tv e a dicembre ha ospitato in Brasile Tony Negri al quale era legato nel periodo dell’Autonomia padovana. Non solo. Proprio Mancini è uno dei promotori dell’appello per la libertà a Cesare Battisti e l’amico Tony Negri ha sottoscritto quella petizione.

In Brasile la colonia dei transfughi del terrorismo rosso italiano sono ben introdotti nelle stanze del potere. Achille Lollo fa l’editore. Rita Cauli, e il marito Guglielmo Guglielmi delle Ucc, coinvolto in traffico d’armi con i palestinesi dell’Olp e in altre azioni della lotta armata, lavorano nei progetti dell’Onu e dell’Ue in concorso con il governo Lula.

E Battisti si è conquistato le simpatie di politici di rango come il senatore del Partito di Lula, Eduardo Suplicy, amico della giallista Fred Vargas molto impegnata anche in Francia per la "libertà a Battisti". Suplicy lo va spesso a trovare in carcere. Inoltre il deputato Verde Fernando Gabeira ha mobilitato l’opinione pubblica attraverso il suo blog affinché l’estradizione di Battisti non sia concessa. Lo stesso avvocato di Battisti, Luis Eduardo Greenhalgh è legato alla sinistra di governo.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva