Rassegna stampa 24 febbraio

 

Giustizia: e adesso chi ci proteggerà dalla "violenza buona"?

di Dacia Maraini

 

Corriere della Sera, 24 febbraio 2009

 

Non so se i nostri politici ascoltano le voci dei cittadini alla radio. Certo sarebbe utile che lo facessero. Non sono molte le trasmissioni che lasciano la parola al pubblico vero, quello che non telefona per guadagnare qualcosa o per partecipare a un sondaggio o a un evento spettacolare, ma che esprime liberamente le sue preoccupazioni, le sue critiche, o suoi dubbi. Una di queste è "Prima pagina" del Terzo programma Rai che trasmette ogni mattina dalle 7,15 alle 8,30. Vi si alternano giornalisti di diverse tendenze, il pubblico è vario, consapevole, diretto. Vi appare l’Italia che ascolta, pensa, partecipa. Non solo di sinistra, come molti pensano, ma quell’Italia, spesso cattolica, anche conservatrice e tradizionalista, che crede in certi valori da chiarire e da difendere.

In questi giorni sono intervenuti in molti sul tema delle ronde. Mi ha colpito l’osservazione di una giovane ascoltatrice di cui mi scuso di non ricordare il nome: "Come faccio - ha detto - a riconoscere i giovani di una ronda da un gruppo di uomini che va in giro cercando donne da stuprare?".

Un uomo forse non lo può capire. Si tratta infatti di una osservazione propria di chi in questi tempi è stata allarmata, intimorita dalle continue esibizioni di una pseudo sessualità maschile che cerca rivincite e vendette sul corpo delle donne.

E contrariamente a quello che dice il nostro capo di governo, non si tratta di donne bellissime che mettono in tentazione dei poveri maschi desideranti, ma di donne qualsiasi, anche di età avanzata, con la borsa della spesa in mano, su cui si è accanisce una sessualità che non ha niente di sensuale e di desiderante, ma esprime un odio profondo verso il sesso femminile, probabilmente per le troppe libertà che si è preso.

Si è discusso sull’opportunità o meno delle ronde che assomigliano troppo ai picchiatori fascisti, si è parlato della abdicazione dello Stato di fronte ad una giustizia "fai da te", ma nessuno si è messo nell’ottica di una ragazza che cammina sola di sera e vede in lontananza un gruppo di uomini senza divisa che avanza con l’aria di cercare qualcosa.

Come fa a capire velocemente se si tratta di amici o nemici? Questo per dire che spesso fra i cacciatori di violenza si possono nascondere gli stessi violentatori. Un’altra voce femminile, quella di una psichiatra è intervenuta infatti per dire che spesso quella più da temere è la violenza degli insospettabili.

C’è in effetti una prepotenza feroce non detta, non riconosciuta e non denunciata, che si sfoga fra le quattro mura e sappiamo dalle statistiche della polizia che è la più insidiosa e temibile. Una violenza che quasi sempre rimane nascosta per una sorta di complicità sorda che la società impone alle donne in nome della conservazione della famiglia. Come al solito ne parlano molto gli uomini: ronde sì o ronde no. Ma vogliamo ascoltare anche le donne? Sempre alla radio, una voce maschile ha aggiunto una proposta ingegnosa: perché non inventare delle ronde contro l’evasione fiscale?

Giustizia: alla politica servono "buoni volontari", non le ronde

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 24 febbraio 2009

 

Quando, ormai molti anni fa, la Lega, evocando la secessione e ripiegando tatticamente sulla devoluzione, cominciò a rivendicare la polizia locale (e armata) finanziata dal federalismo fiscale, la mattanza jugoslava era appena alle spalle, e anche le devote visite dei dirigenti leghisti a Milosevic. Ma la Lega sembrava assottigliarsi fino a diventare irrilevante, e della Jugoslavia non si era voluto capire niente, per non capire niente di sé.

La classe politica tradizionale italiana, quella sopravvissuta a stento alla prima repubblica ma ancora memore delle sue scuole di partito, ha sempre creduto di poter addomesticare qualunque intruso. Ha creduto davvero alla suggestione del motto del Gattopardo, e intanto tutto cambiava e niente restava come prima, e gli apprendisti stregoni cadevano uno dopo l’altro come birilli.

Oggi la Lega si fa le ronde, o piuttosto le legalizza dopo averle praticate a man salva. Disarmate, per il momento, finché un’altra emergenza della cronaca nera imponga il sacrificio di armarle. Si dirà che un’emergenza sicurezza c’è davvero, e non è solo l’evocazione pretestuosa di leghisti e alleati nazionali. Può darsi, ma era sette anni fa che Bossi proclamava che "la polizia di Stato si occupa di ordine pubblico, quella regionale di sicurezza".

Ora si denuncia già la corsa dei partiti ad accaparrarsi le "ronde", e magari i superstiti politici della prima repubblica avranno nostalgia del manuale Cencelli anche per la distribuzione dei posti miliziani. La corsa dei partiti, e anche della società civile, cioè, in tanta parte del paese, di mafia e camorra e ‘ndrangheta, e squadrismi d’ogni colore, impazienti ormai - come successe in Jugoslavia - di uscire in permanenza dalle curve degli stadi.

Perfino di fronte a una simile enormità, alcuni dirigenti del centrosinistra esitano. E perché esitano? Lasciamo stare quelli che lo fanno per paura di perdere altri voti - non si finisce mai di perdere voti, e di assomigliare all’avversario. Il motivo profondo del turbamento e del balbettio sta nel fatto che le ronde sono una parodia del volontariato, e il volontariato è un nome sacro del centrosinistra, tanto più pronunciato quanto meno praticato. E il centrosinistra, e più nitidamente la sinistra, serba qualche memoria di quella militanza che fu, nel bene e nel male, la sua anima. E riconosce nel volontariato, ronde comprese, la sostanza del "radicamento nel territorio" che è diventato la sua frustrata giaculatoria. Anche qui, se non la Jugoslavia, può soccorrere la lingua slava, che a differenza della nostra nomina il volontariato avendo cura di associargli la qualifica di buono.

Noi diciamo "volontario", e si spande un odore di santità, benché anche l’entrata a gamba tesa e l’omicidio possano essere volontari. Quando evochiamo il volontariato, è alla buona volontà che ci riferiamo, al comportamento che a Belgrado o Sarajevo o Zagabria si dice dobrovoljan, dobrovoljac.

Ecco: le ronde sono cattivo-volontariato. L’imbarazzo che si prova a sinistra è il sintomo della carenza di buon volontariato, che si tratti dei luoghi di lavoro e dei luoghi vietati agli estranei ai lavori, dell’uscita dalle scuole o delle persone sole, di chi è senza casa e di chi ha freddo e fame, di chi delinque e di chi mena le mani, dei luoghi bui e dei luoghi illuminati.

Senza il buon-volontariato, non c’è vera conoscenza del mondo in cui viviamo, e tanto meno del modo di renderlo migliore, o meno peggiore: anche nel caso più favorevole, dove cioè esista ancora una onesta e appassionata attività di amministrazione locale, che resta pur sempre burocratica o monca se non si integri con la buona volontà civile. Fare un po’ di chiarezza sul punto servirà almeno a mostrare come la stessa attività politica abbia bisogno di tornare a essere prima di tutto volontaria, e reimpari dunque, piuttosto che a selezionare i peggiori, come in ogni altra corporazione, a promuovere i più capaci di generosità e di un’intelligenza aperta.

Giustizia: Rutelli (Pd); passo breve verso "spedizioni punitive"

 

Redattore Sociale - Dire, 24 febbraio 2009

 

L’ex sindaco di Roma commenta il decreto anti-stupri: "Tra le ronde e le spedizioni punitive per spaccare la testa agli stranieri, magari in un parco e colpevoli di nessun reato, il passo è breve".

"Attenzione a non dare un messaggio profondamente sbagliato, quello che Ci facciamo giustizia da soli: tra le ronde e le spedizioni punitive per spaccare la testa agli stranieri, magari in un parco e colpevoli di nessun reato il passo è breve".

Con queste parole Francesco Rutelli, senatore del Pd e presidente del comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica commenta il decreto anti-stupri, che prevede, fra i punti più contrastati, le ronde gestite dai prefetti. Rutelli, intervenuto questa mattina ad una tavola rotonda sulla violenza contro le donne realizzata da Tandem generation a Roma, ha spiegato che "in Italia stiamo moltiplicando i soggetti che devono farsi vedere invece di organizzare il sistema. Manca un serio coordinamento fra soggetti pubblici".

L’ex sindaco di Roma ha parlato della possibilità di controllare il territorio in un modo diverso: "Abbiamo utilizzato nella Capitale - racconta Rutelli - associazioni per curare il rispetto dei parchi, anziani per il servizio davanti alle scuole o ai musei Capitolini. Erano ronde quelle? È evidente - continua - che se abbiamo la Folgore al capolinea della metropolitana ci sentiamo più sicuri, e senz’altro se la brigata San Marco andasse a lucidare i citofoni dei cittadini del Tuscolano loro batterebbero le mani e sarebbero contenti, ma le forze dell’ordine devono fare un altro lavoro".

Rutelli, passando in rassegna i diversi provvedimenti utili per contrastare il fenomeno della violenza parla poi di un progetto a lui caro, presentato al Senato e approvato "con un’ampia convergenza, quello della banca del Dna, nel rispetto assoluto della privacy delle persone. Il provvedimento - spiega il senatore del Pd - è stato già approvato al Senato e questa è una pagina positiva, questa misura credo che sia la più efficace per contrastare le violenze sessuali". La misura, già legge in Inghilterra dove si è registrata una significativa flessione di questo tipo di reati "sottolinea come in silenzio vengono realizzate e approvate delle leggi che presentano istituzioni pronte a lavorare con umanità e serenità".

A fare eco all’ex sindaco di Roma è il questore di Roma Giuseppe Caruso: "Il decreto antistupri era una cosa auspicata e auspicabile, che sicuramente ci aiuterà. Per le ronde - conclude il questore - per il momento mi astengo da commenti, le autorizzazioni sono in mano ai prefetti e bisogna quindi vedere come funzionerà".

Giustizia: su stalking e stupri le prove di svolta del Governo

di Jacopo Antonelli e Caterina Malavenda

 

Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2009

 

Mettere mano al Codice penale per punire gli atti persecutori e arginare il fenomeno degli stupri. È questa la strada tentata dal Ddl con le "disposizioni in materia di violenza sessuale, esecuzione dell’espulsione e controllo del territorio" approvato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri e in attesa di pubblicazione in G.U. agli articoli 612 e 660 del Codice penale si aggiungerà, con l’articolo 612-bis (introdotto dall’art. 7 del Dl) una fattispecie di reato specifica che, con l’individuazione della condotta e con la pena prevista, mira a prevenire o reprimere le pericolose derive di rapporti familiari o sentimentali.

È sintomatico del reato il perdurato e grave stato d’ansia o il fondato timore per l’incolumità propria e di altri o ancora l’alterazione delle abitudini di vita, che costituiscono altrettante conseguenze della condotta incriminata. La mancata tipizzazione di entrambi i presupposti consente anche di punire atteggiamenti non apertamente vessatori,ma idonei a causare quel malessere che costituisce la vera novità della norma.

L’art.8 del Dl prevede l’aggravante per il coniuge separato o divorziato o l’ex fidanzato, l’adozione di provvedimenti che limitino o inibiscano l’uso delle armi, la procedibilità d’ufficio, anche in assenza di formale querela da parte della vittima. Infine, il dl prevede l’istituzione di un numero verde (art. 12), l’agevolazione dei contatti con i centri antiviolenza (art. 11) e l’adozione di precisi divieti (art. 9) in realtà già contemplati dall’art. 282-bis, comma 2 del Codice di procedura penale (i divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima a cui si aggiunge ora l’obbligo di mantenere una certa distanza da quest’ultima, ovunque si trovi).

Il provvedimento con l’art 2 modifica l’articolo 275, comma 3 del Codice di procedura penale eliminando la possibilità di concedere gli arresti domiciliari per chi è accusato di violenza sessuale (con la sola esclusione dell’ipotesi di "minor gravità" prevista all’art. 609-bis, comma 3 del Codice penale).

Modificata anche la disciplina dell’arresto obbligatorio in flagranza di reato, esteso - con l’aggiunta del comma 2, lettera d) all’articolo 380 del codice di procedura penale - anche ai casi di violenza sessuale ( con la sola esclusione dell’ipotesi di "minor gravità") e di violenza di gruppo, ma non all’ipotesi di atti sessuali con minorenne.

Il giro di vite interessa anche i benefici penitenziari, non più concedibili ai detenuti condannati per reati sessuali che non collaborino con la giustizia. Da ultimo, il dl prevede il gratuito patrocinio a spese dello Sato per le vittime di violenza sessuale, anche in deroga ai limiti di reddito previsti dalla legge.

Giustizia: Pecorella (Pdl); pesanti dubbi su ddl intercettazioni

di Liana Milella

 

La Repubblica, 24 febbraio 2009

 

Davanti alla commissione Affari Costituzionali non ha nascosto dubbi pesanti. Gaetano Pecorella, ex legale di Berlusconi ed ex presidente della commissione Giustizia, li ha messi in fila chiedendosi se il ddl sugli ascolti rispetti "il valore costituzionale della corretta e buona amministrazione della giustizia". E se "ne ostacoli il corso e la condanna dei colpevoli".

 

C’è contraddizione tra le norme sugli ascolti e quelle sulla sicurezza? Non le appaiono restrittive, ma in un senso opposto all’altro?

"La pena certa presuppone strumenti efficaci d’indagine. Come le intercettazioni. Che devono avere limiti perché costano molto e invadono la vita privata. Ma per garantire la sicurezza è necessario procedere con molta prudenza prima di renderle tendenzialmente inutilizzabili anche per reati che allarmano la gente. Bisogna fare una riflessione approfondita se il pendolo delle riforme non sia andato da un eccesso all’altro".

 

"Gravi indizi di colpevolezza": non basta "sufficienti"?

"La scelta originaria del governo, alzare il tetto a dieci anni con le eccezioni, era la migliore. I "gravi indizi", da un lato possono cambiare poco rispetto a oggi, perché il magistrato deciderà discrezionalmente se sono gravi o meno; dall’altro, una volta che il tribunale li avrà ritenuti gravi, ci sarà il rischio che il giudizio condizioni anche le motivazioni di un arresto. È il tribunale che li definisce gravi e il gip non può che adeguarsi. Ma la sensibilità del giudice nel dire sì a un ascolto è molto diversa da quella che avrebbe nel mettere in carcere una persona".

 

È favorevole a cambiare la formula?

"Sono favorevole al primo testo del governo che prevedeva i "gravi indizi di reato" per i delitti meno gravi e i "sufficienti indizi" per quelli più gravi come mafia e terrorismo. Altrimenti c’è il rischio che, avendo solo sufficienti indizi di colpevolezza nei confronti di una persona, non si possa mai arrivare ai gravi indizi usando le intercettazioni".

 

Durata, solo 60 giorni. Non mette a rischio le indagini?

"Un termine ci vuole. Non possono durare anni come ora. Ma bisogna prevedere che, in casi eccezionali, l’intercettazione possa proseguire. Un esempio: se nell’ultima telefonata consentita due criminali si danno un appuntamento per commettere un reato in un luogo che verrà comunicato solo il giorno dopo, è evidente che l’ascolto in corso non si può sospendere. Deve poter proseguire sino all’evento specifico".

 

Segreto sulle indagini fino al dibattimento: sarà blackout sulla cronaca giudiziaria. Sposterebbe indietro l’asticella?

"Il processo che prevede la formazione della prova nel dibattimento dovrebbe lasciare il tribunale all’oscuro di tutto ciò che è accaduto prima. È vero però che si sono evitati errori giudiziari proprio attraverso la critica del modo di conduzione delle indagini. Se nulla si sa, nulla si può dire. Potrebbe essere lo stesso gip a togliere il segreto quando non è più necessario per la tutela delle indagini. Se poi dovesse restare ignoto anche il nome del magistrato, casi come quello di De Magistris non sarebbero mai venuti alla luce".

 

Carcere per il giornalista che pubblica ascolti da distruggere. Per la Fnsi è una norma intimidatoria. Lei?

"Quegli ascolti sono estranei al processo perché riguardano la vita privata delle persone. Ma la libertà di stampa è un bene così essenziale per la democrazia che in ogni caso il carcere è una misura eccessiva".

 

Microspie: non è assurdo autorizzarle solo se è in corso un reato?

"È assai difficile prevedere che si stia commettendo un reato senza che le forze di polizia non intervengano per impedirlo".

 

Indagini sugli ignoti: i limiti non impediscono di trovare i colpevoli?

"La norma nasce dalla cosiddetta "pesca a strascico", ascolti indiscriminati anche su persone del tutto estranee. Ma si può individuare un gruppo di soggetti probabili autori del crimine. Il luogo di uno stupro e la presenza di un gruppo di rumeni. Davvero non si potrà intercettare il telefono del bar frequentato da quel gruppo di persone?"

Giustizia: Viminale; 60% stupri opera di italiani, 7% di romeni

 

La Repubblica, 24 febbraio 2009

 

Secondo i numeri forniti dal ministero dell’Interno, solo il 7% dei violentatori è romeno, il 6% marocchino.

Gli autori delle violenze sessuali sono italiani in più di sei casi su dieci. È il dato rilasciato dal Viminale durante un convegno dedicato alla violenza sulle donne, che si è tenuto oggi a Roma. Il ministero dell’Interno ha reso noto che gli autori di stupro sono di nazionalità italiana nel 60,9% casi. Solo il 7,8% dei violentatori, invece, è romeno, mentre il 6,3% è marocchino. Il ministero precisa poi che le vittime sono donne nella gran parte dei casi (85,3%). Nel 68,9% sono di nazionalità italiana.

I numeri sono nazionali, ma ci sono anche dati relativi alle singole zone e città. "Vicino Roma il dato cambia", ha sottolineato il capo di gabinetto delle Pari opportunità, Simonetta Matone. Rimane la prevalenza degli italiani, ma nei dintorni della capitale la percentuale scende "al 48%", mentre quella dei romeni "sale al 28%".

Dalle informazioni a disposizione del Viminale si evidenzia anche che a Milano, ad esempio, le violenze sessuali sono diminuite nel triennio 2006-2008: si passa dai 526 episodi del 2006 ai 480 del 2008. Anche qui però prevalgono gli italiani tra gli autori del reato: nel 41% dei casi denunciati il responsabile è cittadino italiano, nell’11% romeno, nell’8% egiziano e nel 7% marocchino.

Giustizia: in Italia si nasconderebbe il 40% dei romeni latitanti

 

Panorama, 24 febbraio 2009

 

In Italia si troverebbe il 40% dei romeni ricercati con mandato internazionale. Nelle carceri del nostro Paese ci sono inoltre circa 2.700 cittadini romeni, in attesa di giudizio (1773) o condannati in via definitiva (953). Negli ultimi due anni il governo italiano ha chiesto il trasferimento in penitenziari romeni di 57 condannati: finora, soltanto 13 hanno lasciato l’Italia.

A snocciolare i dati è stato il ministro della Giustizia di Bucarest, Catalin Predoiu, mentre il suo collega Cristian Diaconescu incontrava il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini. Il capo della Farnesina, per risposta, ha annunciato dapprima "tolleranza zero" nei confronti di chi commette reati, non importa se italiano o romeno; poi pugno duro verso chi mette in atto azioni di "rappresaglia contro cittadini romeni". "I romeni per bene che vivono in Italia" ha detto Frattini "sono preoccupati di poter essere vittime di atti di rappresaglia", atti "gravissimi" come "aggressioni e spedizioni punitive", contro in quali le forze di polizia sono "molto attive" e che non verranno in alcun modo tollerati "il bisogno di sicurezza dei cittadini che sono spaventati".

Nei mesi scorsi Bucarest ha inviato in Italia una ventina di poliziotti che hanno aiutato i colleghi nell’individuare i responsabili dello stupro avvenuto la settimana scorsa a Roma. Ma la collaborazione, secondo Frattini, va ampliata, con l’invio di altri poliziotti romeni "che collaborino con le forze di sicurezza italiane nel contrasto dei reati che destano particolare allarme sociale", come gli stupri e gli omicidi.

Tornando alle cifre dell’allarme: alla data del 19 febbraio nei penitenziari italiani erano ospitati 1.773 cittadini romeni, su cui non sono state emesse condanne definitive. Il Guardasigilli romeno ha precisato che 1.626 sono uomini e 147 donne: "Dal 2007, lo Stato italiano ha sollecitato il trasferimento verso i penitenziari romeni di 57 condannati, di questi, 13 sono stati oggetto di tale misura" ha spiegato Predoiu. "In nessun caso una condanna pronunciata dalla giustizia italiana non viene riconosciuta in Romania".

Il ministro ha sottolineato che a rendere pressoché impossibile la certezza della pena sono le procedure per l’estradizione che "stanno incontrando difficoltà": durano infatti quattro-cinque mesi perché in certi casi la documentazione è incompleta. Il ministro ha per questo fatto appello ai "magistrati italiani a fare il possibile affinché le procedure vengano accelerate". Secondo i dati, la maggior parte dei romeni in carcere si dividono tra i penitenziari del Lazio (127), del Piemonte (116) e della Sicilia (114).

Da parte sua Diaconescu ha ribadito che la Romania continuerà a garantire la massima collaborazione nella lotta alla criminalità, ma "non prenderà mai misure che limitano la libera circolazione" dei suoi cittadini. Anche per quanto riguarda il rimpatrio dei romeni condannati con sentenza definitiva, Bucarest è disposta a collaborare. Ma, ha sottolineato Diaconescu dopo l’incontro con Frattini, "valuteremo caso per caso senza parlare di espulsioni, perché parliamo di cittadini europei". Contro replica di Frattini: Bucarest deve impegnarsi a fornire "comunicazioni" su chi ha già commesso reati al momento dell’ingresso nel nostro Paese. "Non possiamo bloccare questa circolazione, ma in spirito di collaborazione chiediamo che la polizia italiana sia informata".

E mentre Diaconescu rinfocola la polemica affermando che la presunzione di innocenza è "un principio fondamentale" dello stato di diritto che deve valere sia per i cittadini italiani sia per quelli romeni, si fa sentire anche il presidente del Senato romeno Mircea Geoana ha definito "inaccettabile" l’approccio di natura xenofoba e razzista contro l’intera comunità romena in Italia. Geoana, che è anche il leader del Partito socialdemocratico, ha parlato della necessità di "condannare con più fermezza i casi di violenza e criminalità commessi da alcuni romeni in Italia".

Tocca sempre al titolare della Farnesina rispondere: l’Italia rispetta "per prima" il principio di presunzione di innocenza di tutti i cittadini europei, romeni compresi, ma chiede alla Romania di far scontare nelle proprie carceri la pena inflitta "in modo definitivo" ad alcune centinaia di cittadini romeni. "Giusto che scontino il carcere nel loro Paese, sarebbe un gesto di buona volontà". Anche nei confronti dei "900 mila romeni per bene che sono accolti in Italia come amici, come cittadini europei che hanno il diritto di restare".

Giustizia: Idv; pene sono blande, facile sfuggire alle condanne

 

Redattore Sociale - Dire, 24 febbraio 2009

 

"Un governo come quello Berlusconi, che in meno di un anno ha già emanato ben tre decreti in materia di sicurezza senza però venire a capo del problema, forse farebbe bene a domandarsi perché il 40% dei romeni ricercati con mandato internazionale ha deciso di rifugiarsi nel nostro paese, come ha rivelato ieri il ministro della Giustizia romeno".

Lo afferma Silvana Mura deputata di Idv. "E la risposta - sottolinea - sta nel fatto che da noi le pene sono più blande, ma soprattutto è più facile sfuggire alla condanna. Le forze dell’ordine non sono in grado di garantire la sicurezza del territorio e dei cittadini e la legge Bossi-Fini è tanto severa sulla carta ma un vero e proprio colabrodo in concreto".

E aggiunge Mura: "Ne è la prova che i pregiudicati di altri Paesi entrano in Italia e le espulsioni non si fanno, come dimostra il fatto che su oltre 900 condannati romeni in via definitiva ne sono stati espulsi 13 e ed è stata richiesta l’espulsione solo per 57". Il governo, conclude la parlamentare, "invece di risolvere questa situazione preoccupante la aggrava ulteriormente con una legge sulle intercettazioni che danneggerà le indagini, con i tagli alle forze dell’ordine e con provvedimenti spot che non risolvono nulla".

Giustizia: Italia condannata per mancato rispetto diritti umani

 

Apcom, 24 febbraio 2009

 

Lo Stato italiano è stato condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per non aver rispettato una ordinanza della Corte stessa e per aver violato un articolo della Convenzione contro i maltrattamenti dei detenuti. Lo stato italiano dovrà anche risarcire il tunisino Ben Khemais con 15.000 euro tra danni e spese morali.

I fatti risalgono al febbraio 2002 quando Ben Khemais fu condannato in Italia a cinque anni per associazione a delinquere ed espiò l’intera condanna. Nel frattempo subì un nuovo processo, ancora pendente in Cassazione, nella quale si stabiliva che una volta scontata la pena dovesse essere rimpatriato. Poco prima di questi fatti, il 30 gennaio del 2002, Ben Khemais era stato però anche condannato a dieci anni in contumacia da un tribunale militare tunisino per terrorismo "sulla base delle sole deposizioni di un coimputato", sottolinea la Corte.

Scontata la condanna definitiva italiana, nel gennaio 2007 Ben Khemais, ancora in Italia, presentò una istanza alla Corte di Strasburgo contro la sua traduzione in Tunisia. Nel marzo del 2007 la Corte emise una ordinanza (in base all’articolo 39) con la quale ingiungeva all’Italia di non rimpatriarlo in attesa dello svolgersi delle procedure che lo riguardavano. Il 3 giugno del 2008, invece, Ben Khemal viene messo su un aereo a Milano ed espulso verso la Tunisia, in esecuzione di un decreto di espulsione causato dalla sua pericolosità per lo Stato in quanto legato a gruppi di estremisti islamici vicini al terrorismo.

Richiesto, il governo italiano aveva poi inviato alla Corte dei documenti che "descrivevano le assicurazioni diplomatiche ottenute da parte delle autorità tunisine, secondo le quali il detenuto non sarebbe stato sottoposto a torture, a trattamenti inumani o degradanti o a una detenzione arbitraria, che avrebbe avuto cure mediche, visite del suo avvocato e dei membri della famiglia".

La Corte ha però sentenziato contro l’Italia, ricordando dei precedenti che provavano numerosi casi in cui la tortura e trattamenti contrari alla dignità dell’uomo sono inflitti in Tunisia in maniera costante a persone sospette di terrorismo e che, in base alle visite effettuate dalla Croce rossa nei luoghi di detenzione tunisini non era possibile escludere trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione. La Corte ha anche verificato che l’avvocato di Ben Khemal non può visitare il suo assistito.

La corte riporta poi altri rapporti, come quello Amnesty International del 2008, afferma che una volta trasferito il detenuto in Tunisia diventa impossibile verificare le condizioni della detenzione e ricorda che in base a una risoluzione del Consiglio d’Europa del 2005 "le assicurazioni diplomatiche non sono sufficienti se l’assenza di pericolo di maltrattamenti non è accertata con sicurezza".

Per questo l’Italia è stata condannata per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo. Una seconda condanna è poi giunta allo Stato italiano per aver violato l’articolo 34 della Convenzione, per non aver rispettato l’ordinanza della Corte e perché ha proceduto all’espulsione "prima ancora di ricevere le assicurazioni diplomatiche" su una detenzione rispettosa dei diritti dell’uomo.

Lettere: trasferimenti privano detenuti dell’appoggio affettivo

di Alberto De Nadai (Volontariato Carcere del Friuli Venezia Giulia)

 

Messaggero Veneto, 24 febbraio 2009

 

L’inadeguatezza del carcere non permette agli operatori di volgere il loro lavoro di rieducazione e di reinserimento dei detenuti, come prevede la Costituzione, ma anche toglie dei diritti fondamentali ai detenuti stessi quali il rapporto con i propri familiari. Ogni detenuto vive la settimana scandita non dalla domenica, ma dal giorno del colloquio.

Il colloquio è l’attimo più bello e più importante che si rinnova settimanalmente nella vita monotona del detenuto. Il colloquio è quello che lo unisce al mondo affettivo esterno. Si contano i giorni, non vedi l’ora che venga quello del tuo turno e quando arriva sei felice, contento.

Scompare la tristezza, ti prepari fisicamente e psicologicamente, indossi il pantalone migliore, non vuoi far vedere ai tuoi cari che ti trascuri, non vuoi farli andar via tristi. Ti presenti a loro con il sorriso sulle labbra, non farai trasparire la tua solitudine. Non dirai niente del carcere, del come vivi, taglierai corto dicendo che più o meno è come un collegio.

Parlerai poco, ascolterai molto, sei affamato di affetto. Già sarà tanto poter dare un bacio, una carezza. La terrai nel cuore per tutto il resto della settimana. Vorrai sapere tutto, come stanno i fratelli, i genitori, il figlio, la moglie o la fidanzata, come vivono fuori, cosa fanno durante la settimana, se ti hanno pensato, se sentono la tua mancanza.

La sala del colloquio e piccola, gremita di gente; per poter parlare e farti ascoltare dovrai quasi gridare. Le emozioni si intrecciano e spesso non hanno parole per esprimerle; rimangono lì pietrificate e costituiscono una parte delle sbarre invisibili. C’è un nervosismo in quel rimbombo di voci che blocca ogni relazione.

Senza dimenticare la stanchezza dei familiari causata dal disagio di un lungo viaggio e dalla lunga attesa, con bambini piccoli e poi le umiliazioni delle perquisizioni. Ti sembra di essere appena entrato che già ti chiamano per andar via. Quest’ora ti è sembrata un minuto. Il momento del distacco è penoso, lo vivi in cuor tuo, cerchi di non lasciarlo trasparire minimamente, rovineresti tutti gli sforzi che hai fatto per darti un’apparente forza interiore che in realtà non hai.

Giusto il tempo per l’ultimo saluto, un bacio, una carezza, e ti portano via. Già cominci a contare i giorni che ti separano dal prossimo colloquio, e, a seconda delle notizie che hai avuto, vivrai una settimana distesa o nervosa, aspettando con ansia o serenità il prossimo colloquio. I colloqui sono un diritto per i detenuti e, per i familiari, anche una risorsa possibile: è il momento in cui l’individuo è disponibile a dei cambiamenti e all’assunzione di responsabilità. Per chi è detenuto nel carcere di Gorizia questo diritto e queste risorse non sono possibili perché, subiti dopo il giudizio (processo) viene trasferito nei vari carceri d’Italia a scontare la pena causa le ristrettezze della sede carceraria.

Vengono così interrotte tutte le relazioni e i trasferimenti o nel carcere di Tolmezzo, o in quello di Verona, di Padova, di Venezia, di Pordenone, di Trieste, di Udine, etc… portano via ogni appoggio affettivo e morale. Però anche il lavoro rieducativo per un reinserimento non vien più fatto, così al detenuto resta soltanto lo "scontare la pena". E questa è giustizia o vendetta da parte dello Stato?

Messina: Fp-Cgil; necessario un incontro urgente con il sindaco

 

La Sicilia, 24 febbraio 2009

 

Protesta carcerati. Fp Cgil: "Necessario incontro urgente con il sindaco e il direttore della Casa Circondariale".

Sovraffollamento, carenza di personale, mancanza di sicurezza e di sufficienti condizioni igienico-sanitarie. Questa per il segretario Clara Crocè le condizioni della struttura di Gazzi.

I due giorni di protesta organizzati dai carcerati della Casa Circondariale di Gazzi per protestare contro la mancanza di igiene, sicurezza e sufficienti condizioni di vivibilità all’interno della struttura, non è passata sotto silenzio. È di questa mattina infatti la notizia che la segretaria provinciale di Fp Cgil Clara Crocé ha avanzato la richiesta di un incontro urgente con il primo cittadino Buzzanca e il direttore del carcere affinché si faccia luce "sulle ben note carenze strutturale dell’edificio dove in alcuni reparti piove dentro" sostiene Crocè.

"La Casa Circondariale soffre un drammatico degrado edilizio e di condizioni igienico sanitarie precarie, una cronica carenza di personale di Polizia penitenziaria e del comparto dei Ministeri, che compromettono le normali attività istituzionali, la sicurezza interna ed esterna del carcere e le già precarie - afferma la Fp Cgil - condizioni di lavoro del restante personale. Per garantire i livelli minimi di sicurezza nei reparti detentivi maschili e femminili, al Cdt e al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, risulta necessaria l’assegnazione di altre 100 unità di personale di polizia penitenziaria".

A mancare, secondo Clara Crocè, non sono solo unità di Polizia Penitenziaria, ma anche le necessarie professionalità socio-educative, assistenziali e amministrative. L’adeguamento della pianta organica diventa non più rinviabile se si pensa che alle criticità derivanti dal cronico sovraffollamento della struttura carceraria, che ospita 480 detenuti rispetto ad una capacità recettiva di 300, con pesanti ricadute sotto il profilo della sicurezza e dell’igiene. Da non sottovalutare poi la presenza di numerosi detenuti ad Alta Sicurezza e dall’impiego di numerosissime unità di Polizia Penitenziaria nello svolgimento dei processi.

Venezia: Cgil; il carcere di Santa Maria Maggiore è al collasso

 

Il Gazzettino, 24 febbraio 2009

 

La Cgil: "Mancano 60 agenti, niente fondi per la manutenzione, problemi di sovraffollamento e promiscuità".

Cronica carenza di personale in strutture che stanno per scoppiare. Non è certo un bilancio che promette bene quello illustrato ieri mattina dalla Funzione pubblica della Cgil in merito alla situazione in cui operano gli agenti della Polizia penitenziaria. La Cgil, in pratica, ha elencato problemi e magagne che da troppo tempo attendono una risposta. Salvatore Lihard, infatti, sottolinea che da almeno due anni si è in attesa dei fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri veneziane, ormai al limite del collasso.

"Anche il recente tentativo di evasione - ha spiegato Lihard - è dovuto all’aspetto fatiscente del carcere maschile. Ma non è solo un problema di strutture e di interventi edilizi. Secondo i nostri calcoli mancano sessanta agenti di Polizia penitenziaria a Santa Maria Maggiore ed altri venti nel femminile".

Su questi temi si è anche svolto un incontro con il prefetto Guido Nardone il quale ha confermato la sua disponibilità ad intervenire. "Il problema delle traduzioni dei detenuti è molto importante, per questo abbiamo chiesto un tavolo con le varie forze dell’ordine per evitare l’ingolfamento. In una città come Venezia si tratta di un argomento molto sentito visto che generalmente, dopo 48 o 72 ore, ogni detenuto deve uscire dalla struttura carceraria e quindi serve un maggiore coordinamento. Riteniamo grave inoltre - ha aggiunto Lihard affiancato da Teresa Dal Borgo - che sia stata chiusa, per mancanza di risorse, la Casa di lavoro che serviva per avviare al lavoro molti detenuti".

Ma non è tutto. Nel corso dell’incontro con il prefetto, la Cgil ha poi chiesto che nell’ospedale Civile venga creato un apposito spazio riservato ai detenuti ammalati, in modo tale da evitare che le guardie vengano fatte passare in mezzo ai pazienti normali.

"Il carcere sta scoppiando - ha aggiunto Lihard - due terzi dei detenuti sono extracomunitari, un numero davvero elevato. La convivenza, in pochi metri quadrati, tra le 22 etnie non è certo facile ed oltre a questo c’è il costante rischio del proliferare di malattie infettive come scabbia e tubercolosi".

Altro problema tipico di Venezia è quello della sicurezza nelle traduzioni. Mentre nelle altre città venete il detenuto entra subito nel mezzo che lo trasporta in Tribunale, in laguna ci sono lunghi percorsi "a cielo aperto" che necessitano di un impegno notevole di personale.

Ad aggravare la situazione, se mai ce ne fosse bisogno, si aggiungeranno anche gli effetti della crisi economica.

"Non è difficile prevedere un ulteriore aggravamento del problema del superaffollamento - aggiunge la Cgil - perché molti stranieri, una volta perso il lavoro, si troveranno clandestini e parecchi di loro finiranno in carcere dove, ormai, non c’è più posto".

Oltre a chiedere posti auto per il personale in servizio a Santa Marta, i sindacati degli agenti di Polizia penitenziaria vogliono il ripristino degli stanziamenti per la sicurezza del carcere e anche garanzie per il prezioso lavoro svolto dagli assistenti sociali.

Belluno: un record di stranieri in cella, sono il 68% dei detenuti

 

Il Gazzettino, 24 febbraio 2009

 

Baldenich è tra quelli a prevalente presenza extracomunitaria. Il costo annuo dei 134 "ospiti" ammonta a 13 milioni di euro.

Il carcere di Belluno scoppia. Di extracomunitari. Rappresentano ben il 68 per cento dei detenuti, dato in assoluto tra i più alti a livello nazionale. L’etnia prevalente, con il 52 per cento, è nordafricana, seguita, con al 20 per cento, da quella dei paesi balcanici. Si tratta di detenuti che arrivano prevalentemente da fuori provincia, smistati da altre carceri. Dal 1990 ad oggi la presenza di stranieri è salita dal 15 ad una media attuale del 37 per cento, con punte quasi doppie in alcuni penitenziari del nordest, come appunto Belluno.

In tutto i detenuti di Baldenich sono 134 su una capienza ideale di 100. Gli stranieri sono 91 di cui 2 donne. Un costo per la collettività di quasi 13 milioni di euro l’anno.

Azzerato l’effetto indulto, le celle sono dunque tornate affollate, mescolando tra loro varie razze e creando inevitabili tensioni etniche. La denuncia arriva dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che, chiedendo un potenziamento di personale drammaticamente all’osso, auspica che il governo trovi presto una soluzione che permetta alleggerire il carico dei penitenziari, appesantito anche dalle tensioni tra razze diverse. Il Sappe plaude alla proposta del presidente del Senato, Renato Schifani, di far scontare le pene nei paesi d’origine. Necessario incrementare le trattative bilaterali con i paesi esteri da cui provengono i detenuti.

"Questo può essere anche un buon affare per lo Stato - afferma il segretario Donato Capece, visto che un detenuto costa 250 euro al giorno". "Premesso che tutta questa gente non dovrebbe nemmeno entrare - ribatte l’onorevole leghista Franco Gidoni - e che mantenerli in albergo alla fine ci costerebbe molto meno, vorrei ricordare come arrivare a degli accordi efficaci sia estremamente difficile e complesso. Nel frattempo ci troviamo a fare i conti con altre centinaia di migliaia di extracomunitari pronti a salpare per l’Italia dalle coste libiche".

In queste condizioni il problema non è certo di facile soluzione. Da uno a dieci, la difficoltà di rispedire nel loro paese queste persone, resta pari a otto.

"In Italia dobbiamo inoltre fare i conti con una cultura del buonismo di cui tutte le nostre leggi sono pervase. In altri paesi - prosegue Gidoni -, come la Spagna o la Grecia le cose vanno diversamente. In questo quadro la soluzione sta nel trovare accordi con i paesi d’origine e nello snellire le procedure di rimpatrio, anche a costo di dover pagare una parte dei costi di detenzione allo Stato estero che si impegna concretamente a collaborare". La stessa proposta arriva anche dal Sappe.

Il problema resta dunque pesante e di difficile soluzione, anche se dalla direttrice del carcere di Belluno, Imma Mannarella, non arrivano voci allarmistiche sulla presunta difficile convivenza tra italiani ed extracomunitari all’interno delle celle. "Il nostro obiettivo è favorire la convivenza e la tolleranza. La condivisione della giornata deve essere un modo per imparare a capirsi più che a dividersi".

Siracusa: Ugl; il "caso Brucoli" arriva in Federazione Nazionale

 

La Sicilia, 24 febbraio 2009

 

Nel corso della riunione che si è tenuta a Roma, nella sede della segreteria nazionale dell’Ugl Fn-Pp (Federazione Nazionale Polizia Penitenziaria) è stata dibattuta la vertenza che da tempo è in corso con la direzione della Casa di reclusione di Brucoli-Augusta. Come ha ribadito il vice segretario nazionale dell’Ugl-FnPp Sebastiano Bongiovanni, è stato richiesto al Provveditore dell’amministrazione Penitenziaria della regione Sicilia, la necessità di avere con urgenza sollecito riscontro circa i gravi fatti che l’organizzazione sindacale aveva denunciato con una nota inviata lo scorso 12 dicembre. In questa nota venivano messe in risalto alcune mancanze da parte della Direzione della Casa di reclusione di Brucoli-Augusta. In particolare veniva messa in evidenza la carenza di oltre 100 unità di personale.

A causa delle deficienze negli organici il personale deve effettuare turni festivi lavorativi domenicali e infrasettimanali eccedenti oltre i tre turni previsti dal contratto di lavoro. Anche il turno di lavoro straordinario risulta eccessivo proprio per questa carenza di personale, che ha anche portato ad un inserimento, ritenuto arbitrario dall’Ugl, di un turno di servizio dalle 14 alle 20.

Inoltre, l’Ugl FnPp ribadisce che sono state apportate anche modifiche del servizio programmato mensile, e viene fatto osservare il mancato utilizzo di validi criteri circa l’individuazione del personale a cui modificare il turno e la mancata comunicazione per iscritto con dovute motivazioni all’interessato. L’Ugl nel ribadire la fiducia verso il Provveditore, evidenzia che sta valutando ogni opportuna possibilità di intraprendere azioni sindacali. Pertanto, entro il prossimo 15 marzo saranno convocati tutti i dirigenti provinciali e regionali per discutere il da farsi in merito ai fatti più volte denunciati.

Piacenza: sindacati di polizia penitenziaria incontrano il sindaco

 

Sesto Potere, 24 febbraio 2009

 

Il sindaco di Piacenza Roberto Reggi e l’assessore alle Politiche Sociali Giovanna Palladini hanno ricevuto questa mattina in Municipio i rappresentanti sindacali degli agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale delle Novate.

Nel corso dell’incontro, gli esponenti delle diverse sigle sindacali hanno illustrato agli Amministratori comunali le principali difficoltà con cui si confrontano i dipendenti della struttura carceraria cittadina, a cominciare dalla carenza di personale che, in un’ottica territoriale più ampia, riguarda l’intero comparto dell’Emilia Romagna: è emerso infatti che, nella nostra regione, a fronte di 4.282 detenuti, gli agenti in servizio non superano le 1.838 unità. Per quanto concerne la situazione piacentina, i rappresentanti sindacali hanno evidenziato come la pianta organica predisposta nel 2001 per la casa circondariale delle Novate sia ormai datata, e inadeguata non solo a fare fronte all’incremento dei detenuti, ma anche a garantire la qualità e la dignità del lavoro degli agenti stessi.

Nel contempo, sono stati presentati al sindaco e all’assessore Palladini alcuni problemi strutturali relativi alla sede penitenziaria cittadina: dalla mancata presenza delle docce nelle singole celle - come prevederebbe invece la normativa nazionale - alle infiltrazioni d’acqua, con particolare attenzione alle generali condizioni igienico-sanitarie dell’edificio.

Nuoro: i sindacati; molti problemi a Badu ‘e Carros e Mamone

 

Ansa, 24 febbraio 2009

 

Carenza di personale, turni faticosi, ferie e riposi arretrati, aumento di competenze e crescita esponenziale dei detenuti. Questi alcuni dei problemi denunciati stamani da i sindacati della Polizia penitenziaria. In particolare Cisl e Cgil hanno evidenziato il malessere esistente all’interno degli istituti di Nuoro e Mamone.

Il recente sfollamento disposto nel carcere nuorese, per la ristrutturazione di un’intera sezione, ha messo in seria difficoltà anche il penitenziario sui monti di Onanì dove non si era pronti ad accogliere un numero così elevato di detenuti.

Ma è soprattutto sul fronte degli organici che la Polizia penitenziaria segnala forti carenze e la distribuzione del personale in servizio non sempre è disposta nel migliore dei modi, a fonte di un numero crescente di detenuti.

Nel corso della conferenza stampa i rappresentanti sindacali hanno invitato i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, regionale e nazionale, ad attuare politiche più vicine ai bisogni di chi opera all’interno delle carceri sarde garantendo quantomeno i diritti essenziali.

Ravenna: corruzione; arrestato assistente polizia penitenziaria

di Carlo Raggi

 

Il Resto del Carlino, 24 febbraio 2009

 

Vito Miacola, 49 anni, assistente capo della Polizia penitenziaria, da moltissimi anni in servizio nella Casa Circondariale di Ravenna, è stato arrestato ieri mattina dagli uomini della Squadra Mobile in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare che si richiama alle ipotesi di reato di tentata concussione, corruzione e istigazione alla corruzione.

Il provvedimento è stato firmato dal gip Cecilia Calandra su richiesta del pm Stefano Stargiotti, il magistrato che da novembre sta indagando sul fronte del carcere ravennate a seguito dell’inchiesta giornalistica condotta da il Resto del Carlino.

Contestualmente all’esecuzione dell’ordinanza - Miacola si trovava in servizio in carcere - è stata effettuata una perquisizione in tutta la casa circondariale che ha visto impegnati 120 uomini fra appartenenti alla Polizia di Stato e alla Polizia Penitenziaria di Ravenna e del Dap di Bologna, con unità cinofile della Polizia e della Guardia di finanza. È stata rinvenuta solo un piccola quantità di hashish in una cella.

Nel primo pomeriggio di ieri, Miacola è stato condotto a palazzo di giustizia per l’interrogatorio di garanzia; oltretutto aveva chiesto lui di essere sentito subito. Assistito dall’avvocato Gabriele Sangiorgi, nominato di fiducia, Miacola ha risposto alle domande del gip e del pm Stargiotti (era presente anche il capo della Mobile, Gianluigi Manganelli).

Ha ammesso di avere chiesto denaro inteso come prestiti per far fronte a gravi difficoltà familiari, ha negato di essere un concussore o un corruttore, ha negato anche di essersi mai incontrato con alcuni detenuti fuori dal carcere salvo poi essere subito smentito dal pm che ha fatto riferimento a intercettazioni telefoniche e ha esibito fotografie relative agli incontri. L’interrogatorio, iniziato alle 14,45 si è protratto fin verso le 17, dopodiché l’assistente è stato trasferito nel carcere militare di Santa Maria Capua a Vetere.

Le ipotesi di reato contestate a Miacola si riferiscono a episodi avvenuti dall’estate scorsa fino a poco tempo fa: l’assistente della polizia penitenziaria, infatti, ha continuato a tenere una certa condotta ben oltre il codice penale anche dopo l’inchiesta giornalistica condotta su queste colonne dalla metà di ottobre e che portò, ai primi di novembre, all’ispezione ministeriale nel carcere e all’avvio dell’indagine preliminare con immediate intercettazioni telefoniche.

In particolare Miacola è indagato per aver chiesto denaro a uno o più detenuti in semilibertà minacciando di svolgere relazioni negative nei loro confronti; di essersi fatto consegnare denaro da detenuti per consegnare lettere (eludendo così la censura) all’esterno o comunque per tenere contatti con persone all’esterno del carcere e infine per aver ancora chiesto denaro per svolgere relazioni favorevoli per i detenuti onde evitare trasferimenti o comunque perché potessero avere benefici.

Rimane fuori da questa fase dell’inchiesta l’aspetto relativo alle richieste di denaro ad avvocati, fatte apparire come prestiti con la promessa della restituzione, ma che in realtà era forse il prezzo pagato per favorire le nomine, da parte dei detenuti, di certi difensori al posto di altri.

L’inchiesta del pm Stargiotti, secondo quanto è dato di sapere, vede non solo Miacola come indagato. Sul registro degli indagati della Procura, con ipotesi di reato soprattutto di corruzione, è iscritto quanto meno anche il nome di un altro agente della Polizia penitenziaria. Il riferimento, per questo fronte dell’indagine, è quello relativo all’ingresso in carcere di un telefonino cellulare, sequestrato poi nella cella di un detenuto "eccellente", di un coltello e anche di piccoli quantitativi di sostanza stupefacente. Aspetti dell’indagine preliminare, questi, che non compaiono nell’ordinanza di custodia cautelare notificata a Miacola.

Bari: presentato il nuovo numero della rivista "Altre prospettive"

 

Bari Live, 24 febbraio 2009

 

Un giornale dal carcere Gugliemo Minervini: "È importante offrire a queste persone una opportunità di reinserimento". È stato presentato oggi pomeriggio il nuovo numero del periodico "Altre prospettive - libertà e dintorni", la rivista scritta dai detenuti del carcere di Bari. A supportare l’iniziativa è l’assessorato regionale alla Trasparenza e Cittadinanza Attiva.

"È il terzo anno che sosteniamo anche finanziariamente questo lavoro, che sta migliorando nella sua qualità editoriale per contenuti e grafica - ha dichiarato l’assessore Guglielmo Minervini - Abbiamo deciso di raccogliere il patrimonio di umanità che si nasconde dentro le carceri per agevolare la relazione tra il mondo interno e quello esterno. Non vogliamo arrenderci all’ipotesi che questi due mondi diventino irreversibilmente impermeabili gli uni agli altri.

L’incontro di presentazione della rivista ha avuto luogo durante una manifestazione in cui si è tenuto un monologo teatrale e un incontro di un gruppo di detenuti con l’assessore regionale Minervini: "Quello interno alle carceri è un pezzo di società civile alla quale bisogna offrire una opportunità di reinserimento - ha continuato l’assessore - .

Certo in questo momento il clima sociale sembra essere il meno adatto a recepire inviti all’inclusione, ma proprio per questo e ancora di più non ci arrendiamo. Le mura delle carceri non devono trasformarsi in una barriera insormontabile". Tra i temi affrontati all’interno della rivista ci sono i diritti sanitari dei detenuti, la vita quotidiana in carcere, un omaggio a Nelson Mandela più un’intervista al criminologo della casa circondariale. A ciò si aggiungo alcuni scritti delle detenute della sezione femminile, frutto del laboratorio di scrittura autobiografica condotto da Valeria Simone e Agnese Purgatorio.

Immigrazione: botta e risposta (a distanza) tra Italia e Romania

 

Corriere della Sera, 24 febbraio 2009

 

Frattini (Esteri): la Romania ci segnali persone sospette. Preodiu (Giustizia): il 40% dei nostri ricercati è in Italia. E i condannati non vengono rimpatriati.

La polizia romena deve "comunicare" alla polizia italiana le persone a rischio che entrano nel Paese. È questa una delle richieste che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha fatto al collega romeno Cristian Diaconescu con cui ha avuto un colloquio bilaterale al ritorno del Consiglio degli Esteri Ue a Bruxelles. "Mi aspetto che - ha detto Frattini in una conferenza stampa - che quando stanno entrando in Italia persone che hanno commesso delitti ci sia una comunicazione". "È il modo giusto - ha aggiunto il ministro - di portare avanti una collaborazione tra la forze di sicurezza dei due Paesi: non impedisce la libera circolazione delle persone e permette alla polizia di fare meglio il proprio lavoro".

La Romania è attenta alla questione e noi facciamo ciò che dobbiamo fare, ma "il Il 40% dei ricercati romeni con mandato internazionale si trova già in Italia". Lo ha detto il ministro della giustizia romeno, Preodiu.

Preodiu ha aggiunto che la Romania è disposta ad accogliere i detenuti condannati in via definitiva e precisato che dei 953 romeni condannati al momento in via definitiva in Italia, le autorità di Roma, dal 2007 a oggi, hanno sollecitato 57 trasferimenti nelle prigioni romene. Dei 57, 13 sono stati trasferiti in Romania e otto liberati con la condizionale dalle autorità italiane, anche se la giustizia romena aveva approvato le decisioni di trasferimento. Entro un mese o due è atteso l’ok definitivo di Bucarest per altri quattro trasferimenti, mentre per altri 32 casi le procedure sono in corso.

Immigrazione: Schifani; chi delinque sconti la pena al suo Paese

 

Agi, 24 febbraio 2009

 

"Io sono fermamente convinto che per contrastare anche il fenomeno della criminalità, fenomeno trasversale, non tocca solo quella straniera tocca ahimè anche quella nazionale, sia corretto che chi delinque nel nostro paese, essendo straniero, espii la propria pena dinanzi ad una sentenza irrevocabile nelle proprie patrie galere in maniera tale che se proprio queste patrie galere non dovessero essere vivibili come alcune nostre patrie galere, questi soggetti ci pensino perché è vero che nel nostro paese esiste un tema di sovraffollamento delle carceri ma certamente le nostre carceri sono di gran lunga più vivibili rispetto a quelle di alcuni paesi". Lo ha detto il Presidente del Senato rispondendo alle domande dei giornalisti a Palazzo Giustiniani dopo l’incontro con l’omologo polacco Bogdan Borosewicz.

"È giusto tra l’altro che in tema di espiazione delle pene - spiega la seconda carica dello Stato - ogni paese possa ospitare chi lasciando i confini di quei territori occupi altri spazi andando a violare le norme di quei paesi. Io insisto su questa idea e mi auguro che si sviluppino delle iniziative diplomatiche da parte del governo perché si realizzino accordi bilateriali ed anche che si discuta all’interno dell’Ue di questa scelta perché ritengo che l’Europa debba assumersi delle responsabilità sul fronte della criminalità internazionale perché è un tema che tocca tutti i paesi. Sarebbe sbagliato che i paesi che non vengono toccati da questo problema si sottraessero alla partecipazione a questo dibattito che tocca la sicurezza dei cittadini e l’aumento al contrasto di certa criminalità".

Immigrazione: in una notte 200 sbarchi, i Centri sono al collasso

 

Libero, 24 febbraio 2009

 

Il governo scommette sui centri di identificazione ed espulsione (detti Cie) dei clandestini, per frenare l’invasione dello straniero e applicare il decreto sicurezza. Domani il Viminale avrà pronta la lista ufficiale e completa dei luoghi dove saranno situate le nuove strutture destinate a trattenere i senza-permesso fino a sei mesi (e non più due); scopo: dare loro un nome e rispedirli da dove sono venuti.

Però gli sbarchi intanto non si fermano e con l’arrivo della bella stagione sono destinati ad aumentare. Non passa giorno che le navi della marina militare non traghettino sulle nostre coste i disperati. L’ultimo "carico", l’altra notte, ne ha rovesciati oltre 170 su Porto Empedocle. Lo scenario straziante è sempre uguale: donne incinte stremate dall’attraversata, bambini affamati e infreddoliti, occhi di adulti spalancati e persi.

Essendo bruciato il centro di Lampedusa, li hanno disseminati altrove. Precisamente in tre centri di accoglienza siciliani: Cassibile, Caltanissetta e Trapani. Avanti così si rischia il collasso nelle varie strutture già affollate. A cominciare da quella di Pian del Lago (Caltanissetta), dove ieri ne sono stati portati 50. Qui ci sono oltre 700 persone a fronte di una capienza di 500. Non solo, come noto, i clandestini portati nei centri di accoglienza non hanno obbligo di permanenza: possono entrare e uscire quando vogliono. Tradotto: sono liberi di circolare da irregolari e anche di non fare rientrare nelle strutture.

La strategia di Roberto Maroni, attraverso i Cie, sarebbe proprio quella di impedire "l’evasione" e l’invasione incontrollata degli irregolari sul suolo italiano. E il disegno potrebbe essere efficace, se non fosse che il ministro deve prima di tutto fare i conti con la realtà. Una realtà prima di tutto connotata dalla contrarietà della stragrande maggioranza dei governatori che (a prescindere dal partito di appartenenza) non ne vuole sapere di ospitare i centri di "residenza obbligata". C’è infatti chi dà voce al solito buonismo di circostanza e rispedisce il progetto al mittente: noi siamo sempre stati per il dialogo e l’accoglienza dell’immigrato, esprimiamo assoluto dissenso alla realizzazione

di questi "nuovi lager"; e chi si appella ai diritti universali della persona: non c’è posto per questi centri di "detenzione mascherati", sono un insulto all’umanità. E via protestando.

Lo abbiamo visto anche nelle ultime ore, quando le agenzie di stampa hanno cominciato a diffondere l’elenco dei primi siti nei quali realizzare i Cie: Campania, Veneto, Toscana e poi Marche, Abruzzo, Umbria. I rispettivi governatori hanno risposto con il loro "no", i clandestini in soggiorno obbligato a casa nostra non li vogliamo. Maroni ha già detto e ripetuto che non intende fare un passo indietro: "Procederemo all’apertura dei centri e non tollereremo alcun episodio di violenza come quelli accaduti a Lampedusa".

Già Lampedusa. L’istituzione del Cie sull’isola non ha scatenato soltanto il falò del centro stesso (oltretutto appiccato dai clandestini istigati dagli scafisti, come ha dichiarato il capo dell’Interno a libero), la realizzazione della struttura di identificazione ed espulsione sta provocando la "saturazione" degli altri centri. Sia peri trasferimenti già avvenuti, sia alla luce dei nuovi sbarchi.

Altro elemento che rappresenta un ostacolo al progetto del ministro sono i tempi di realizzazione dei Cie. Non basta individuare i siti sui quali dovranno sorgere. Occorre anche considerare le esigenze di ristrutturazione degli edifici esistenti preposti (ex caserme e simili) e di edificazione di nuovi, dato che in molti casi sono stati indicati solo i terreni (demaniali). I posti disponibili, una volta portata a compimento l’opera, saranno 4.300 (al posto degli attuali 1.200); con una spesa iniziale di circa 40 milioni di euro. Intanto i clandestini già presenti e quelli in continuo arrivo dove andranno? Nei centri di accoglienza (Cpa), dove non esiste l’obbligo di permanenza. Tutto questo mentre sulle ceneri del Cie Lampedusa sono arrivati i magistrati.

Tre pubblici ministeri incaricati dalla procura di Agrigento sono atterrati ieri sull’isola. Per tutto il giorno hanno scartabellato la documentazione relativa alla struttura e depositata in municipio. Gli investigatori, guidati dal procuratore Renato Di Natale, vogliono accertare se il centro è stato realizzato nel rispetto della normativa edilizia: sicurezza degli impianti, dei sistemi antincendio eccetera. A fianco dei pm c’è anche una delegazione del governo tunisino che controlla le condizioni dei circa 500 connazionali rimasti sull’isola. In particolare, i nordafricani "controllori", vogliono sapere se c’è stata "violazione dei diritti umani ai danni degli irregolari rinchiusi nella struttura e prossimi al rimpatrio".

Del rispetto dei diritti degli extracomunitari dovrà parlare, alla Commissione straordinaria per la tutela e la protezione dei diritti dell’uomo, anche il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano. Sarà ascoltato domani a Palazzo Madama.

E come non bastasse, un’altra delegazione sarà a Lampedusa dal 25 al 27 febbraio, sempre per verificare che i clandestini godano di rispetto. Tutto questo interesse è nato all’improvviso, ovvero non appena il ministro italiano degli Interni ha deciso di non trasferire più gli irregolari sulla terraferma, ma di rimandarli in patria direttamente dal luogo in cui sbarcano.

Immigrazione: Maroni; espulsioni più sicure, veloci ed efficaci...

 

Redattore Sociale - Dire, 24 febbraio 2009

 

"C’è una prassi per rendere più veloci le espulsioni che passa attraverso un negoziato con i Paesi d’immigrazione e un’azione di identificazione più efficace, inoltre abbiamo prolungato da 2 a 6 mesi il tempo di intrattenimento nei Cie, il che ci consente di passare attraverso espulsioni più veloci, più sicure, più efficaci". Lo afferma il ministro dell’Interno Roberto Maroni, in un’intervista in onda stasera al Tg4.

"Anche per il controllo della criminalità nelle comunità straniere, in particolare quella romena, abbiamo già iniziato un’attività di controllo soprattutto nei campi nomadi, ma non solo, che prevede il censimento di chi ci vive e la chiusura progressiva di tutti i campi nomadi abusivi e l’immediato rimpatrio di chi non ha diritto a stare". E ha aggiunto Maroni: "Coloro che hanno diritto di rimanere, devono stare in condizioni decenti, il che significa dare strutture adeguate, il che vorrà dire riduzione dei fenomeni criminosi". Per quanto riguarda la sicurezza nelle città, il ministro ha sottolineato di aver "dato vita a tante iniziative per il controllo delle città che coinvolgono, oltre al corpo di polizia, anche i Sindaci ed i cittadini". E, ha aggiunto il titolare del Viminale: "Le polemiche sulle cosiddette ‘rondè sono solo pretestuose. Le città diventano più sicure se c’è maggior controllo e maggior presidio del territorio". Maroni ha quindi concluso: "Noi vogliamo chiamare a questo presidio, sotto il controllo della polizia, anche i cittadini che lo vogliono fare. Ciò serve a prevenire i reati, furti e stupri. Ed è quello che abbiamo deciso nell’ultimo decreto legge".

Guinea: Medici Senza Frontiere; carcerati in condizioni inumane

 

Vita, 24 febbraio 2009

 

In un rapporto pubblicato oggi, Medici senza frontiere rivela la situazione nutrizionale e sanitaria disperata rilevata dalle proprie équipe nel carcere civile di Guèckèdou, nel sud-est della Repubblica della Guinea.

Nel settembre 2008, Medici Senza Frontiere ha lanciato un intervento nutrizionale e sanitario di emergenza nel carcere civile di Guèckèdou. Vista la situazione catastrofica che ha colpito il centro penitenziario, Msf ha effettuato valutazioni e interventi mirati analoghi in altre tre carceri del paese: a Mamou, a Bokè e a Gaoual.

"Sebbene le condizioni varino nelle diverse strutture monitorate, in alcune di esse non vengono soddisfatti bisogni fondamentali come l’accesso all’acqua, la nutrizione e l’assistenza sanitaria, né sono rispettate le condizioni minime per il rispetto della dignità umani dei prigionieri" denuncia Msf.

"All’arrivo dell’équipe sanitaria a Guèckèdou, un prigioniero adulto su tre soffriva di malnutrizione", spiega Frank Bossant, coordinatore dei progetti di Msf in Guinea. "Le scarse condizioni igieniche avevano provocato nei detenuti una forte disidratazione, problemi gastrici, numerose infezioni delle vie respiratorie e malattie della pelle. Le celle sovraffollate ospitavano minori e adulti insieme, e addirittura detenuti malati di tubercolosi lasciati senza cure e costretti a vivere a stretto contatto con i detenuti sani".

In risposta a questa drammatica situazione, Msf ha provveduto a una distribuzione di alimenti terapeutici di emergenza per diversi mesi, ha fornito visite mediche, materiale per l’approvvigionamento dell’acqua e servizi igienico-sanitari.

Se la situazione riscontrata nelle carceri della Guinea, inferiori alle norme minime in materia di tutela dei diritti umani, può essere in parte attribuita alla povertà dilagante e alle risorse limitare del paese, non si riesce a spiegare la mancata risposta alla malnutrizione ricorrente e alle condizioni di vita inaccettabili per i detenuti, per gli uomini in particolare.

"La privazione di acqua e di cibo e il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali mettono a rischio la vita dei detenuti e sono pertanto assimilabili a dei veri e propri maltrattamenti", aggiunge Frank Bossant.

"Un intervento umanitario di emergenza non può essere la soluzione alle disfunzioni generali e strutturali dell’amministrazione penitenziaria per quanto riguarda la distribuzione di cibo e il mantenimento delle condizioni igieniche di base nelle prigioni. Le autorità nazionali e locali devono agire immediatamente per soddisfare le esigenze fondamentali dei detenuti, in conformità con le norme internazionali e nazionali, come richiesto dai donatori dei fondi internazionali e dagli altri attori presenti in Guinea, poiché è in pericolo la salute e la vita di migliaia di persone".

 

 

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