Rassegna stampa 23 febbraio

 

Giustizia: nuovo corso politico e "vecchie libertà" da difendere

di Carlo Federico Grosso (Ordinario di diritto penale Università di Torino)

 

La Stampa, 23 febbraio 2009

 

Le novità elaborate dal governo in materia di giustizia e sicurezza sono numerose. Le ronde sono già diventate legge con decreto d’urgenza e sono in attesa della conferma parlamentare. I disegni di legge in tema d’intercettazioni e processo penale sono ai nastri di partenza in Parlamento (rispettivamente in aula e in commissione). Il testamento biologico sta impegnando la commissione Sanità e dovrebbe presto approdare al dibattito plenario con un testo fortemente voluto dalla maggioranza.

Davvero innovazioni utili al bene comune? Sui diversi profili vi saranno sicuramente opinioni divergenti, ed è naturale che sia così. Ciò che è, invece, incontrovertibile è che i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese. Ed è con questa modificazione di sistema che occorre fare i conti nel momento in cui si vuole esprimere una valutazione complessiva su ciò che, probabilmente, accadrà nei prossimi mesi.

Il disegno di legge in tema di intercettazioni prevede, sul versante dell’informazione, il divieto di rendere pubblico ogni contenuto degli atti di indagine preliminare. Ciò significa che, in spregio al diritto dei cittadini ad essere informati, nessuno potrà più pubblicare alcunché sulle indagini in corso fino al momento in cui esse si saranno esaurite. Viene meno, in questo modo, ciò che è stato considerato, da sempre, uno dei capisaldi della libertà di stampa. L’essere cioè, la stampa, strumento indispensabile di controllo pubblico sull’esercizio dell’attività giudiziaria fin dal momento in cui iniziano le istruttorie.

Il disegno di legge sulla riforma del processo penale prevede che fino a quando verrà consegnato all’autorità giudiziaria un rapporto sull’esistenza di un reato, la polizia è legittimata a condurre le attività investigative senza controllo o pungolo da parte dei pubblici ministeri. Quello sulle intercettazioni prevede, sul versante delle indagini, che, ad eccezione dei reati di mafia e terrorismo, tale importante strumento di acquisizione probatoria possa essere utilizzato per tempi brevi e soltanto dopo che siano già stati altrimenti acquisiti "gravi indizi di colpevolezza" a carico di qualcuno. Il che significa azzerare, di fatto, la stessa utilizzazione delle intercettazioni, che sono utili, soprattutto, quando esistono soltanto sospetti di reità ed occorre acquisire indizi o prove.

Sulla base di tali innovazioni vengono intaccati quantomeno due importanti cardini del sistema di giustizia vigente: l’indipendenza dell’attività investigativa ed il potere dei pubblici ministeri, l’incisività dell’attività giudiziaria nel contrastare il mondo del crimine. La totale autonomia delle forze dell’ordine nella prima fase delle investigazioni aprirà infatti la strada alla possibilità di interferenze da parte del governo (dal quale la polizia dipende gerarchicamente) sull’esercizio dell’azione penale. L’azzeramento di fatto delle intercettazioni taglierà le unghie a molte indagini per reati gravi, nelle quali l’intercettazione può essere strumento decisivo per individuare i colpevoli. Basti pensare a reati quali la pedofilia, la violenza sessuale, la corruzione.

Il decreto legge che ha riconosciuto l’utilizzazione delle ronde, sia pure non armate, per il controllo del territorio ha determinato un’alterazione delle consuete competenze in materia di sicurezza. Si è attribuito al privato una porzione di ciò che costituisce, da sempre, competenza esclusiva dello Stato sul presupposto che soltanto l’istituzione pubblica sia in grado di assicurare, con le sue strutture, l’indispensabile correttezza nella gestione di settori (delicati) quali sono i servizi sicurezza ed ordine pubblico.

Che dire, infine, della legge sul testamento biologico? Se passerà davvero il principio secondo cui l’idratazione e l’alimentazione artificiale di chi si trova in coma persistente saranno imposte anche a chi ha manifestato, quando era cosciente, la sua volontà contraria a tale tipo di trattamento, risulterà alterato il principio costituzionale per il quale nessuno può essere obbligato, neppure dalla legge, a subire un trattamento sanitario che travalichi i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Ho fatto alcuni esempi di modificazioni "di sistema" conseguenti agli interventi legislativi in cantiere: si intacca la libertà di stampa, si consente di fatto al governo d’interferire sulla gestione dell’azione penale alterando la divisione dei poteri, si indebolisce l’incisività delle indagini penali, si attribuiscono pericolosamente ai privati competenze nella gestione della sicurezza, si contravviene al principio di autodeterminazione in materia di interventi sanitari. Poco conta, a questo punto, auspicare che la Corte Costituzionale, se le menzionate innovazioni diventeranno leggi, le cancelli con le sue sentenze: l’attuale maggioranza parlamentare, con il sostegno della maggioranza popolare che l’ha votata, potrebbe infatti cambiare anche il testo della Costituzione.

Ciascuno di noi, di fronte a ciò che sta accadendo, deve piuttosto domandarsi se è d’accordo, o non è d’accordo, con un progetto politico che, sotto l’etichetta formale delle libertà, nei fatti tende ad intaccare, passo dopo passo, i diritti e le garanzie dello Stato liberale. Di questo è oggi importante ragionare e discutere, al di là degli obiettivi specificamente perseguiti da ciascuna delle nuove leggi programmate.

Giustizia: "rapine" di maggioranza delegittimano magistratura

di Bruno Tinti (Procuratore presso il Tribunale di Torino)

 

La Stampa, 23 febbraio 2009

 

Se mai ci sono stati dubbi sulla precisa volontà della maggioranza di minare la credibilità dell’amministrazione della Giustizia, abbandonarla all’inefficienza, far convergere su di essa e in particolare sulla magistratura lo scontento e la sfiducia dei cittadini, la storia che segue li elimina del tutto.

Abbiamo, finalmente - dice il ministro della Giustizia -, una riforma del processo penale che lo renderà veloce e rispettoso delle garanzie dei cittadini. Almeno sulla prima parte si può convenire: abolire di fatto le intercettazioni telefoniche, sottrarre al pm la polizia giudiziaria, impedirgli di acquisire autonomamente le notizie di reato, ridurrà drasticamente il numero dei processi. Tanti delinquenti resteranno impuniti ma i processi che restano saranno così semplici (quelli complicati senza intercettazioni non si fanno; e poi iniziavano quasi sempre per iniziativa delle Procure, che adesso non ci sarà più) che potranno essere conclusi rapidamente.

Resta il fatto che, come ognuno sa, per cantare messa servono soldi; e che in particolare la Giustizia è da tempo alla canna del gas. Proprio per questo, quando è entrata in vigore la legge 13 novembre 2008 n. 181, gli uffici giudiziari hanno emesso un corale respiro di sollievo. C’era la prospettiva di diventare ricchi.

Diceva infatti questa legge che le somme di denaro e i proventi derivanti dai beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione dovevano confluire in un "Fondo per la Giustizia"; da qui i soldi sarebbero stati prelevati per far fronte alle esigenze degli uffici giudiziari. Finalmente! Si sarebbero comprati elaboratori, pagati gli straordinari ai cancellieri (così si sarebbero fatte le udienze anche di pomeriggio), realizzati quei progetti informatici fermi da anni per mancanza di fondi.

Finalmente! Stenotipisti, traduttori, consulenti sarebbero stati pagati e avrebbero ricominciato a lavorare. Finalmente! Si sarebbero riparate le vecchie macchine e comprata qualche blindata nuova.

Era anche giusto, si diceva: la Giustizia produce un sacco di soldi, sequestra, confisca; se queste risorse fossero investite produrrebbero anche parecchi interessi. E cosa c’è di più razionale che far pagare la Giustizia ai delinquenti? Cosa di più normale che autofinanziarsi? Si scoprì subito che le prospettive non erano così rosee; perché di pretendenti alla torta se ne fecero avanti altri.

E così, dopo molti litigi parlamentari (leggersi il resoconto stenografico delle sedute in cui la legge venne discussa, è molto istruttivo), il bottino venne diviso in tre parti: un terzo all’Interno, un terzo al Bilancio dello Stato (ci sono tanti buchi da coprire) e un terzo alla Giustizia. Una vera rapina, ma meglio di niente.

Poi è arrivato il decreto legge sulla violenza sessuale; anche qui naturalmente servono soldi, se non altro per pagare il gratuito patrocinio alle vittime. E in effetti il "Fondo per la Giustizia" di soldi ne ha prodotti parecchi: adesso disponibili ci sono 100 milioni di euro. Solo che, dice il comunicato stampa della presidenza del Consiglio dei ministri (20 febbraio 2009), questi soldi se li prende tutti il ministero dell’Interno.

Naturalmente non si può contestare che anche lì non si nuota nell’oro e che far girare le volanti e pagare gli straordinari ai poliziotti è certamente una buona cosa. Ma anche le guerre tra poveri dovrebbero essere risolte con equità: si divida come era previsto dalla legge (anche se i soldi li ha guadagnati la Giustizia) dando un po’ di ossigeno a tutte due le amministrazioni. Anche perché la povertà genera inefficienza e l’inefficienza genera delusione, rabbia e sfiducia nei cittadini. Che alla fine se la prendono con chi non li tutela.

Ma guarda, forse la rapina di cui la Giustizia è rimasta vittima non è proprio così casuale: ancora una volta la sua inefficienza potrà essere attribuita ai magistrati; il Paese si potrà convincere più facilmente che i giudici sono dei fannulloni; la loro credibilità ne sarà ulteriormente diminuita; e la classe politica potrà ancora una volta protestare che le sue democratiche riforme sono osteggiate dalla magistratura "politicizzata". E i cittadini ci crederanno.

Giustizia: Ristretti Orizzonti; il decreto-sicurezza è catastrofico

 

Redattore Sociale - Dire, 23 febbraio 2009

 

L’analisi di Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti: "Oggi si fa quello che la gente vuole, non quello che è meglio e con il concetto di emergenza si giustificano soluzioni mai definitive, dagli stupri alle ronde".

"Una catastrofe": così Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, commenta i contenuti del decreto sicurezza approvato venerdì scorso. Il giudizio negativo viene poi esteso anche al disegno di legge sempre in materia di sicurezza in via di approvazione. Il problema, secondo l’esperta, sta nel concetto di "emergenza" che giustifica la scelta di soluzioni mai veramente definitive. A partire dall'emergenza stupri, che in realtà emergenza non è: "Da più parti è confermato che il trend non è assolutamente in aumento" spiega Favero.

Proprio dalla questione delle violenze sessuali parte l’analisi della coordinatrice di Ristretti, che accusa: "Si fa di un reato una categoria, generalizzando le diverse situazioni e togliendo di fatto al giudice la discrezionalità di valutare i singoli casi. Si capisce bene che un ragazzo di quattordici anni presenta una situazione ben diversa da quella di un adulto che compie violenza. Nel primo caso la cosa più opportuna sarebbe certo quella di indirizzare il giovane verso i servizi sociali".

Sul fatto poi che il decreto tolga i benefici agli autori di reati sessuali, Favero fa appello a tutti i dati e gli studi sulla recidiva elaborati dal ministero e ben noti agli addetti ai lavori: "Mi deve essere spiegato come si possono lasciare queste persone in carcere non creando alcun percorso graduale di recupero. Se i detenuti stanno in galera anche cinque anni in più ma senza nessun appoggio o progetto di uscita una volta finita la pena saranno delle bombe a orologeria. Il carcere da solo non serve, ma oggi come oggi si fa quello che la gente vuole, non quello che è meglio".

Una stoccata, poi, va in direzione di un luogo comune collaudato, del tipo "i romeni delinquono qui da noi e non in patria perché là sanno di avere leggi più dure". Ecco la risposta secca: "Non mi pare che lì ci sia proprio un modello di democrazia. Noi non dobbiamo prendere ad esempio situazioni di quel tipo, ma dobbiamo sempre puntare a una giustizia civile".

Altro tasto dolente: le ronde. "Qui a Padova ci sono diversi detenuti che si sono fatti giustizia da sé e sono in carcere per questo: vedo in loro la distruzione conseguente a queste azioni. Dicono che le ronde non saranno questo, ma io penso che se a volte è perfino difficile controllare l’uso della forza da parte di chi garantisce la sicurezza per lavoro, figuriamoci cosa potrebbe succedere con dei privati".

Tutto questo ha a che fare con l’abuso del concetto di emergenza: "In Italia non si parla mai di prevenzione: da una recente ricerca contenuta nel libro "Strage continua" di Elena Valdini (Edizione Chiarelettere) emerge ad esempio che l’Italia nel triennio 2004-2006 non ha investito neanche un centesimo in sicurezza stradale e 90 centesimi per ogni persona nel triennio successivo, mentre in altri Paesi come Svizzera e Svezia si parla di 20 euro a persona. Da noi si fa di questi temi delle emergenze, mentre l’unica soluzione possibile è la prevenzione".

Giustizia: i romeni "primi" tra gli stranieri, per i reati più gravi

di Maria Antonietta Calabrò

 

Corriere della Sera, 23 febbraio 2009

 

Il rapporto: primi tra gli stranieri nei reati più gravi. Sono il 15% degli accusati di omicidio e il 37% di chi ruba.

"L’attuale paura nei confronti dei romeni va oltre i dati statistici della criminalità": l’opinione è di Franco Pittau, coordinatore scientifico del Dossier sull’immigrazione di Caritas Migrantes, unico in Italia ad aver elaborato i dati demografici e le statistiche criminali sui romeni presenti in Italia.

Il problema infatti non è il tasso di criminalità, cioè il rapporto tra i denunciati romeni e il numero complessivo di romeni che vivono da noi. In Italia, a causa dell’enorme flusso migratorio che si è verificato soprattutto dopo l’entrata di Bucarest nella Ue (primo gennaio 2007), vivono e lavorano più di un milione di romeni. I detenuti alla fine del 2006 erano 1.650 e oggi sono 2.729, cioè lo 0,27 per cento.

Il problema, però, assume un altro peso se si esamina la quota-parte di gravi reati per i quali sono chiamati in causa i romeni. Nell’arco di tre anni, infatti, dal 2004 e al 2006, i romeni sono risultati al primo posto tra gli stranieri per gli omicidi volontari, primi per le violenze sessuali, primi per i furti in abitazione, con strappo e con destrezza, primi tra gli estorsori e nelle rapine in esercizi commerciali, come dimostrano le elaborazioni sui dati del ministero dell’Interno.

E hanno così scalzato il triste primato degli albanesi. Il Rapporto del Viminale 2007 indica, ad esempio, che i romeni (pari nel 2006 al 12% dei soggiornanti stranieri), avevano un’incidenza in media quasi doppia rispetto agli altri immigrati nel caso degli omicidi volontari (15,4), delle violenze sessuali (16,2), dei furti di autovetture (29,8), dei furti con strappo (19,3), con destrezza (37,0), delle rapine in esercizi commerciali (26,9). Gli stessi dati dimostrano che, mentre servono gli immigrati di dieci diversi Paesi per arrivare al 50% degli stranieri presenti in Italia, bastano solo romeni, marocchini e albanesi per mettere insieme la metà dei denunciati stranieri per furti con destrezza e in abitazione (e un terzo del totale delle denunce, italiani inclusi).

Per le persone di queste tre nazionalità, inoltre, gli addebiti giudiziari sono aumentati nel quinquennio 2000-2005 oltre la media nazionale del 45,9%: in particolare, le denunce sono quasi triplicate per la Romania. "Risulta, così, che alcune collettività hanno maggiore rilevanza di altre nelle statistiche di criminalità e tra esse è inclusa anche quella romena", scrive Pittau in un articolo che sta per essere pubblicato a Bucarest e che cerca di spiegare senza isterismi, ma con realismo, cosa sta succedendo in Italia. Un altro aspetto segnalato da Pittau sono i costi finanziari dei reati commessi dagli stranieri in Italia.

Cita una ricerca di Andrea De Nicola, docente di Criminologia all’Università di Trento, secondo cui le violenze sessuali commesse da stranieri - nelle quali tristemente primeggiano i romeni - sono il reato singolo che incide di più: si tratta di 2,7 miliardi di euro di spesa all’anno. Questa cifra enorme è stata calcolata in base ai costi conseguenti al reato (pecuniari, biologici e morali), al mancato reddito prodotto in seguito alla violenza subita, ai costi delle attività inquirenti e giudicanti (spese processuali e di detenzione).

"I detenuti romeni sono pochissimi, ma anche i denunciati sono pochi, rispetto a quanti siamo qui. Per questo non si può fare di ogni erba un fascio", afferma Dmitru Jlnca, 38 anni. Jlnca vive a Padova ed è un personaggio molto conosciuto nel Nord Est, oltre ad essere esponente del Pdl romeno, il partito liberale di centrodestra. Alle prossime elezioni europee sarà candidato nel Ppe. "Per il 99 per cento di noi - dice - l’Italia è una seconda patria".

Ma allora come si spiega che molti assassini e stupri sono opera di romeni? "Purtroppo il passaparola c’è anche tra i criminali: hanno visto che in Italia se commetti un reato esci dal carcere dopo tre giorni e quindi hanno pensato che è conveniente venire qui... Il problema dell’Italia è la certezza della pena. Chi sbaglia deve pagare, punto e basta, e i processi devono essere più veloci. Anzi, per me i detenuti, compresi quelli romeni, dovrebbero lavorare in carcere per mantenersi e pagarsi le spese: non è giusto che anche con le mie tasse si mantengano dei criminali".

Venerdì prossimo alla Stanga di Padova, il quartiere di via Anelli, si svolgerà una fiaccolata di solidarietà con le donne vittime di violenza carnale, e Dmitru Jlnca ci sarà: "Ma niente ronde, è lo Stato, e non i cittadini, che deve pensare alla sicurezza".

Sulla stessa lunghezza d’onda il centrocampista del Siena, Paul Codrea, che tre giorni fa ha dichiarato al quotidiano romeno Cotidianlu - riferendosi al clima che c’è in Italia dopo lo stupro della Caffarella - che "i criminali debbono rimanere in prigione": "Io sono un calciatore e non ho problemi, ma l’opinione degli italiani sui romeni è pessima. Le tensioni qui sono alte. La comunità romena è molto estesa e non possiamo essere giudicati tutti uguali: i criminali, quando vengono catturati, devono rimanere in carcere per evitare che commettano nuovi reati".

Da noi, secondo il segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Cascini, pubblico ministero nella Capitale, "è successo che con qualche superficialità non si è valutato il rischio criminale dell’inserimento della Romania nella comunità europea". Solo dopo il delitto Reggiani (ottobre 2007) "si è corsi ai ripari, di fronte all’emergenza criminalità che si è verificata in particolare a Roma, con strumenti legislativi e amministrativi non sempre adeguati perché assunti in fretta".

Eppure, secondo Alessandro Silj, del Consiglio italiano per le Scienze sociali Etnobarometro, "poiché la Romania entrerà nell’area Schengen solo nel 2011 e i controlli di frontiera dovrebbero essere tuttora in vigore, non dovrebbe essere impossibile per le autorità filtrare i cittadini che emigrano".

"Non a caso - sostiene - alcune associazioni di immigrati romeni intendono rivolgere un appello al governo di Bucarest affinché prenda iniziative in merito, inclusa addirittura la non concessione del passaporto ai concittadini che in patria sono stati già implicati in atti di violenza". Il motivo per Silj è evidente: "Altrimenti il discredito si riversa indistintamente su tutta la popolazione romena presente in Italia".

Giustizia: "frutti di stagione" come la castrazione per esempio

di Luigi Manconi e Federica Resta

 

www.innocentievasioni.net, 23 febbraio 2009

 

Il sillogismo è semplice e infallibile. Tutte le volte che il richiamo a mezzi forti e norme speciali, provvedimenti d’eccezione e misure drastiche non è accompagnato da rigorosi (meglio se preventivi) test sulla loro reale efficacia, lì si ha demagogia. Vale per le norme sulla violenza negli stadi come per l’emersione del lavoro nero.

E vale - forse ancor più - per quanto riguarda gli strumenti destinati a intervenire su quell’inestricabile groviglio che è l’intreccio tra psicopatologia e criminalità. Appena qualche settimana fa, sull’onda di una notizia proveniente dalla Francia, per due giorni si è ripreso a chiacchierare, all’interno del dibattito politico-giornalistico, di "castrazione dei pedofili". È un tema ricorrente. Press’a poco come quello della scomparsa delle stagioni e della dieta punti. In questo caso, la futilità dell’approccio è resa più grottesca dal fatto che la questione rimanda a problemi tragici e la cui soluzione è, a dir poco, impervia.

Cessato il clamore, vale la pena tuttavia di riprendere il discorso perché la ferita - quella dei minori abusati e degli adulti pedofili, spesso a loro volta abusati quando bambini - rimane aperta e dolente. Si dovrebbe partire, pertanto, da una rigorosissima distinzione tra i diversi trattamenti (terapia psicologica o farmacologia), tra i differenti protocolli (terapia scelta o imposta) e dalla attenta valutazione delle esperienze già realizzate e farne tesoro.

Accade raramente in Italia. Non accadde ad esempio quando, nel luglio 2003, l’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, in risposta a un’interrogazione alla Camera dei Deputati, preannunciò - un disegno di legge che affidasse "coattivamente all’uso di ritrovati farmacologici la possibilità di impedire la reiterazione del reato nei soggetti già condannati". Era, palesemente, non più che un messaggio ideologico: e tale rimase. Eppure, qualche mese prima, il Comitato nazionale di bioetica aveva già espresso un parere negativo sulla proposta, avanzata dal Procuratore generale presso la Cassazione, di "introdurre un trattamento obbligatorio successivo alla espiazione della pena, modellato sullo schema della misura di sicurezza".

Il Comitato nazionale di bioetica auspicava, invece, che il legislatore non prendesse "in considerazione l’ipotesi di introdurre nel nostro sistema un trattamento sanitario obbligatorio e permanente nei confronti delle persone con tendenza pedofiliache: istanze bioetiche fondamentali (...) inducono a ritenere che tale trattamento - anche se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile nel soggetto (il che è ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente) - acquisterebbe il carattere di una indebita violenza, tanto più grave in quanto motivabile (...) a partire da ragioni di difesa sociale e di equilibrio del sistema penale e non da una attenta considerazione del bene oggettivo delle persone umane che verrebbero coattivamente sottoposte al trattamento".

Nonostante ciò, forse anche per l’allarme suscitato dalla vicenda di Rignano Flaminio, in Italia, e da analoghi casi, in Francia, oggi si torna a discutere di "castrazione" per chi abusi sessualmente di minori. Questione che non può non dividere, opponendo chi invoca la "tolleranza zero" per quanti si macchino di reati così gravi (connotati, peraltro, da un alto tasso di recidiva, che con la castrazione si vorrebbe scongiurare) e chi osserva come, in una democrazia, la pena non debba mai arrivare al punto da incidere in maniera tanto profonda sul corpo, la vita, l’integrità e la personalità del condannato (cosa che avverrebbe se si precludesse irreversibilmente una funzione vitale come quella sessuale).

Tanto più in un’epoca in cui, come dice Foucault, "la pena, da arte di sensazioni insopportabili, ha progressivamente reciso i suoi legami con il corpo e la vita, per farsi economia di diritti sospesi". Dalla castrazione fisica, dunque, alla sospensione fisica del diritto alla sessualità. Ma queste potrebbero apparire come "sofisticherie" di fronte al dramma irrisarcibile di un minore abusato.

Pertanto, della pedofilia e della sua prevenzione (e repressione) si deve discutere, senza preclusioni e tabù, consapevoli che si tratta di uno dei problemi "più difficili del mondo". Che riguarda una forma particolare di devianza (quella sessuale), ma anche e soprattutto quel rapporto tra le generazioni, adulti e bambini, che Freud avrebbe potuto definire il vero "disagio della civiltà".

Di questo "disagio" parlano i fatti di cronaca ma anche le leggi, mai come in questa materia, tanto frequenti quanto, troppo spesso, inefficaci. E il tema della "castrazione" è quanto mai delicato. Non solo perché, come spiega Lino Rossi, da un lato, essa provoca un temporaneo abbassamento del desiderio sessuale e, dall’altro, rende il soggetto più aggressivo (cosa già di per sé meritevole di attentissima considerazione per i pericoli che comporta): anche perché chi abusa esprime un disturbo psicologico e non patologico-organico.

La pedofilia non è una malattia psichiatrica da potersi curare facilmente con rimedi farmacologici; secondo la più accreditata letteratura scientifica, è piuttosto parafilia, ovvero disturbo della personalità o del comportamento, qualificata dalla deviazione dell’interesse sessuale verso i minori.

Si spiega così (oltre che sulla base di ragioni giuridico-costituzionali, relative all’indisponibilità dei diritti fondamentali) perché, rispetto alla soluzione farmacologica, prevalga (almeno nei paesi europei) il modello della terapia psicologica.

Il condannato, per potere fruire dei benefici penitenziari o comunque a titolo di misura di sicurezza, è sottoposto a terapia psicologica, individuale o di gruppo, negli "istituti di terapia sociale". La prima condizione di questo trattamento è che per ridurre la recidiva (per essere, cioè, efficace) presuppone la volontaria adesione del condannato al programma riabilitativo.

Questo spiega perché nella maggior parte dei paesi (ad esempio, Finlandia, Spagna, Belgio, e molti stati nordamericani) la "castrazione" è prevista come esclusivamente volontaria. Invece, i sostenitori della legge tedesca, che ha previsto la terapia psicologica come obbligatoria, affermano che anche i condannati restii o contrari, dopo un primo periodo di terapia, superano le resistenze e portano a termine il percorso riabilitativo con buoni risultati (si stima una riduzione fino al 50% del tasso di recidiva, ma i dati sono decisamente contraddittori).

Discorso diverso richiede la "castrazione chimica" volontaria, prevista in Germania, Svezia, Norvegia, California e Canada. In Danimarca, poi, dove i violentatori possono scegliere fra lo scontare interamente la condanna in carcere o accettare di seguire un trattamento medico, beneficiando così di una liberazione anticipata, la terapia sembra aver dato risultati efficaci; i casi trattati (25 dal 1989 al 2005) non hanno registrato recidiva. E, tuttavia, questo non consente di eludere alcune domande di fondo.

Di fronte al pericolo di ulteriori violenze sui minori, qual è il limite del diritto e della pena? Fino a che punto si può accettare di comprimere i diritti fondamentali dell’imputato, in nome della protezione di un’infanzia indifesa? Qual è il limite oltre il quale il bisogno di tutelare i bambini non può imporre deroghe alle forme ordinarie e garantiste del diritto penale? Difficile rispondere. Ad aiutarci è quella stessa mozione del Comitato nazionale di bioetica prima ricordata. Essa non corrisponde solo ed esclusivamente a una sacrosanta affermazione di principi inviolabili: in un breve inciso è contenuto un argomento formidabile, e da troppi - irresponsabilmente - trascurato.

L’efficacia della "castrazione chimica", anche "se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile", è "ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente". Ecco il passaggio cruciale da tenere ben presente. Non disponiamo per ora di ricerche su campioni sufficientemente rappresentativi per trarre un bilancio definitivo, e definitivamente attendibile, dei risultati della "castrazione chimica".

I dati sono spesso controversi: e, tuttavia, alcuni devono farci seriamente riflettere. Consideriamo ancora una ricerca, quella condotta nel 1991 in California, che ha dimostrato come nel 7, 4 % dei casi, neppure la "castrazione chimica" ha potuto impedire la commissione di abusi sessuali nei cinque anni successivi al trattamento.

La "castrazione chimica" rischia quindi di essere quindi non soltanto una misura di dubbia legittimità (giuridica, morale, politica), ma anche inefficace, proprio perché non garantisce la prevenzione della recidiva. Se questa ultima ricerca fosse generalizzabile e, dunque, la adottassimo come parametro incontrovertibile dell’efficacia del trattamento in questione, le conseguenze sarebbero obbligate.

L’argomento più diffuso e "popolare" contro le preoccupazioni garantiste e la tutela dei diritti fondamentali dell’autore del reato - che cos’è la violazione di quei diritti di fronte allo scempio di un bambino? - perde la gran parte della sua forza. Quella percentuale di fallimento tende a vanificare l’argomento prima citato.

I diritti in alternativa - quello alla tutela del bambino e quello all’integralità del suo abusatore - risultano inconciliabili e portano, inevitabilmente, a privilegiare il primo quando la deroga al secondo dimostri la sua assoluta necessità (e utilità). Ma se nel 7,4% dei casi non è così, quel 92,6% di successo non è sufficiente a motivare la rinuncia a un diritto per definizione irrinunciabile. E impone, piuttosto, la ricerca di soluzioni diverse, la cui efficacia sia maggiore e la cui capacità di ledere diritti fondamentali sia minore.

Tutto ciò - lo sappiamo bene - è opinabile, ma ci sembra consentire un approccio più corretto e produttivo al problema. Problema che si conferma, come dicevamo, tra i "più difficili del mondo". Forse perché, come scrive Theodor W. Adorno, "il tabù più forte di tutti (...) è oggi quello che va sotto la voce di minorenne (...). Il sentimento di colpa, universale e motivato, del mondo degli adulti non può fare a meno di ciò che essi definiscono l’innocenza dei bambini, come della sua immagine speculare e del suo rifugio, ed ogni mezzo per difenderla per loro va bene".

Giustizia: le mani dei partiti sulle ronde, in prima fila Lega e An

di Vladimiro Polchi

 

La Repubblica, 23 febbraio 2009

 

I City Angels battono le strade milanesi da 14 anni. Gli "assistenti civici" di Livorno sono invece pronti a debuttare in questi giorni. Il decreto anti-stupri del governo non fa che accelerare un processo in corso: decine sono le ronde già attive nei comuni del centro-nord. Il rischio?

Le mani dei partiti sulla sicurezza. Una parte delle ronde ha infatti un colore politico: in testa, sventolano le bandiere della Lega Nord, seguite da quelle di An, Destra di Storace, Forza Nuova e Fiamma tricolore. "Il rischio di politicizzazione della sicurezza - avverte l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia - è reale e ci riporta alla memoria tempi che credevamo superati".

Quello delle ronde non è un fenomeno omogeneo. Si va dai pensionati con block notes di Firenze, agli studenti-vigilanti di Bologna; dagli storici e apartitici City Angels lombardi, alle ronde targate Carroccio. Se infatti è vero che una parte del fenomeno è trasversale a tutte le amministrazioni comunali, di centrosinistra e centrodestra, un’altra parte mantiene precisi connotati politici.

Molte ronde sfilano oggi sotto le insegne leghiste. Le prime? Le "Ronde padane", nate a Voghera nel 1997: "Stavamo raccogliendo le firme per chiedere una maggiore presenza di polizia nel centro storico - racconta uno dei fondatori, Gigi Fronti - quando ci venne in mente che noi stessi potevamo fare la nostra parte formando squadre che, disarmate, girassero per la città".

Quanti sono i volontari padani? Numeri ufficiali non ce ne sono, ma Mario Borghezio, già dieci anni fa, parlava di 8mila persone: "Da Cuneo e Trieste sono una quarantina i comuni coinvolti, anche grandi come Modena, Torino e Monza".

La bandiera della sicurezza porta voti e fa gola a molti. Gli altri partiti non stanno a guardare: si muove Alleanza nazionale, con Azione Giovani a Torino, Padova e Venezia; muovono i primi passi le ronde della Destra di Francesco Storace alla periferia di Roma; la Fiamma Tricolore annuncia di aver cento militanti pronti a Trieste; Forza Nuova è già attiva a Foggia e Pescara.

Bisogna vedere ora cosa cambierà con la patente di legittimità promessa dal governo, sotto la responsabilità del prefetto. "Non solo le ronde sono una maldestra surroga alla mancanza di turnover tra le forze dell’ordine - sostiene Enzo Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia - ma costituiscono un rischio reale di politicizzazione della sicurezza. Le ronde - prosegue - sono permeabili all’infiltrazione di organizzazioni criminali, come mafia e camorra e possono nascondere tra le loro fila delle squadracce di esaltati pericolosi".

Meno allarmato il giudizio del sociologo Marzio Barbagli: "Non serviranno a granché, ma non credo che siamo in presenza di fenomeni pericolosi, se disarmati e privi di colore politico. Una cosa però è certa: le ronde rappresentano una forma pre-moderna di sicurezza, di prima che nascesse la polizia. Se le si ritirano fuori, accanto all’uso dei militari in città, si mette in discussione la funzione stessa delle forze dell’ordine".

Giustizia: ddl intercettazioni; alla Camera è iniziata la battaglia

 

La Stampa, 23 febbraio 2009

 

Prosegue nel pomeriggio la discussione generale sul ddl Alfano che riforma la disciplina delle intercettazioni. Il voto finale sul testo, approdato stamane all’esame dell’aula di Montecitorio, è previsto - secondo quanto riferito da fonti parlamentari - nella seconda settimana di marzo.

Diritto di cronaca e gravi indizi di colpevolezza quali presupposti per avviare le intercettazioni sono due degli aspetti del ddl sui quali si sono incentrate stamane le critiche dell’ opposizione. In aula, Giulia Bongiorno, presidente della commissione giustizia e relatrice del provvedimento, ha difeso la ratio del ddl, frutto di un lungo lavoro di approfondimento in commissione. Sulla norma che impone il divieto di pubblicazione ha aperto ad una riflessione: "Una parte delle indagini deve assolutamente restare segreta - ha detto, fra l’altro, in aula - bisogna solo stabilire quanto estesa debba essere questa fase. È noto che le indagini possono essere molto dilatate nel tempo e questa dilatazione forse precluderebbe la possibilità di fornire informazioni di interesse per la collettività".

Sul tema dei gravi indizi di colpevolezza, "l’esame dell’Assemblea potrà servire a valutare ulteriormente questa scelta per verificare - ha detto Bongiorno, durante l’illustrazione del provvedimento - se possa essere sufficiente un minor grado di colpevolezza, prevedendo ad esempio che gli indizi di colpevolezza devono essere sufficienti. Si tratta di una questione tecnico-giuridica e non politica e come tale deve essere affrontata. A mio parere, il punto fermo è che il presupposto delle intercettazioni sia soggettivizzato, ovvero individualizzato sulla persona da intercettare". Quindi Bongiorno ha auspicato che "si arrivi celermente alla riforma che aspettiamo da anni per tutelare il diritto alla riservatezza. Il testo può essere migliorato ma già così è un importante passo avanti".

Secco il giudizio del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, che in aula ha ribadito di voler ricorrere al referendum abrogativo se il ddl sulle intercettazioni diventerà legge. Per Di Pietro non è solo incostituzionale ma anche "immorale" vietare la pubblicazione degli atti fino alla fine delle indagini preliminari. "Nemmeno in uno stato di polizia succede questo" ha detto ed ha criticato il provvedimento: questa proposta "professa una ratio ma ne insegue un’altra. Dice che vuol ridare credibilità allo strumento delle intercettazioni, ma il vero scopo è evitare che si usino le intercettazioni per scoprire i reati".

Anche dal Pd viene ribadito "un giudizio molto critico su questo provvedimento che introduce norme "ammazza indagini", che imbavagliano la stampa - sottolinea Donatella Ferranti capogruppo in commissione giustizia - che non garantiscono la riservatezza e che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini". L’auspicio che il confronto in aula possa giungere alla "massima condivisione possibile" di una riforma importante e delicata è stato espresso da Roberto Rao dell’Udc. "Gli abusi e le distorsioni vanno giustamente perseguite", ha detto Rao parlando del divieto di pubblicazione degli atti del processo, ma "queste giuste preoccupazioni non possono rovesciarsi in un clima da caccia alle streghe che possa mettere a rischio il diritto all’informazione".

Giustizia: Sappe; i 22mila detenuti stranieri, al paese d’origine

 

Comunicato stampa, 23 febbraio 2009

 

Sono tantissimi i detenuti stranieri in Italia. Questo è spesso indice di situazioni di tensione con i ristretti italiani e ciò sottopone le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria - Corpo di Polizia dello Stato caratterizzato da una grave carenza di organico di ben 5 mila unità - a pesanti carichi di lavoro davvero al limite della sopportazione.

È per questo che esprimiamo sincero apprezzamento per le parole espresse sabato 21 febbraio scorso dal presidente del Senato Renato Schifani, a margine della visita al centro Exodus di Don Mazzi, circa la necessità di far scontare agli immigrati che delinquono la pena nel Paese di provenienza. È vero che questo sarebbe un forte deterrente nei confronti degli extracomunitari che delinquono in Italia e noi, come Operatori di Polizia e Sindacato più rappresentativo della Penitenziaria, lo sosteniamo da tempo.

Ci auguriamo quindi che l’autorevole auspicio del presidente Schifani si concretizzi in urgenti provvedimenti legislativi in tale direzione. Negli ultimi dieci anni c’è stata infatti un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane: negli anni 90 non superavano la percentuale media del 15%, oggi invece, sono oltre 22mila, appartenenti a ben 147 nazioni, e rappresentano più del 37% del totale dei detenuti che è ora arrivato a quota 60.000. Percentuale che in tantissime carceri, specie del Nord Italia, supera abbondantemente il 70%!

Lo afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria dei "Baschi Azzurri", a commento delle dichiarazioni rilasciate recentemente dal Presidente del Senato della Repubblica Renato Schifani.

Noi un’idea l’abbiamo e la suggeriamo al Governo e al Ministro della Giustizia Alfano. Incrementare concretamente le trattative bilaterali con i Paesi esteri da cui provengono la maggior parte dei detenuti stranieri - a partire da Albania, Algeria, Marocco, Nigeria, Romania, Tunisia e così via - affinché questi scontino la pena nei Paesi d’origine può rivelarsi un buon affare anche per le casse dello Stato,(con risparmi di centinaia di milioni di euro), nonché per la sicurezza dei cittadini. Un detenuto costa infatti in media oltre 250 euro al giorno allo Stato italiano: garantire una piccola parte di questa cifra - ad esempio 100 euro - allo Stato estero che si impegna concretamente a detenere nelle proprie carceri, per tutta la durata della pena, chi ha compiuto dei reati sul nostro territorio porterebbe molti benefici tra i quali l’interesse dello Stato estero che venga scontata tutta la pena nelle proprie carceri poiché ciò assicurerebbe una buona contropartita economica.

E sulla gravissima carenza di Personale di Polizia penitenziaria (accertata dagli Uffici dell’Amministrazione penitenziaria in più di 5mila unità), Capece afferma che si dovrebbero bandire concorsi a base regionali per il Nord Italia, dando cioè ai partecipanti la possibilità di decidere fin dalla presentazione della domanda di assunzione la Regione nella quale vogliono prestare servizio, per permettere una contestuale e consistente mobilità del Personale di Polizia penitenziaria attualmente in servizio nelle sedi del Settentrione verso il Centro e Sud Italia.

Giustizia: morto Candido Cannavò, da sempre vicino ai detenuti

 

Ansa, 23 febbraio 2009

 

L’impegno civile, soprattutto a favore dei più deboli e dei detenuti, non lo ha mai fatto mancare anche quando dirigeva la Gazzetta dello Sport. Candido Cannavò ha sempre trovato il tempo di andare nel carcere di San Vittore a parlare con i detenuti per sostenere progetti per il loro recupero.

Luigi Pagano, storico direttore del carcere milanese e attuale provveditore delle carceri lombarde, è stato uno dei primi a far visita al Santa Rita, dove è stata allestita la camera ardente.

"Una delle cose più belle fatte da Candido - ricorda Luigi Pagano - è stato il progetto per far uscire dal carcere i bambini delle mamme detenute. Grazie a lui abbiamo costruito il progetto con la Provincia, il Comune e la Regione per trovare un’altra collocazione alle mamme detenute in modo da farle rimanere con i loro bambini ma non all’interno del carcere".

Sulla vita dei detenuti Cannavò ha scritto il libro Oltre le sbarre. Per un anno - ricorda Pagano - è venuto in carcere quasi ogni giorno e ha raccontato la storia di alcuni detenuti. Da quell’esperienza ha organizzato anche lo spazio Il caminetto dove periodicamente intervistava personaggi dello sport come Marco Materazzi, Massimo Moratti e Rino Gattuso.

Bollate: trattamento avanzato per "recuperare" i sex offenders

di Stefania Culurgioni

 

La Repubblica, 23 febbraio 2009

 

Nell’istituto di pena di Bollate, un programma che permette di far convivere gli autori di reati sessuali con gli altri detenuti. La direttrice: "Su 80 soggetti trattati, solo tre sono stati recidivi".

Nella subcultura carceraria sono "gli infami". Nel gergo tecnico di psicologi e operatori penitenziari sono i "sex offenders". Qualunque sia il modo di chiamarli, una cosa è certa: quando entrano in galera, le persone che si sono macchiate di un reato sessuale vengono spedite dritte nei reparti protetti, e lì confinate. Separate da tutti, isolate dal resto dei detenuti, esiliate in un girone a parte. Ovunque, tranne nel carcere di Bollate.

Si chiama "Progetto di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali in Unità di Trattamento Intensificato e sezione attenuata" ed è una sperimentazione avviata nell’istituto di reclusione milanese solo tre anni fa. L’unico caso in Italia in cui, dopo un anno di terapia in un’unità specializzata all’interno del carcere, i detenuti possono lasciarsi alle spalle il reparto protetto e vivere quotidianamente insieme agli altri detenuti di reati "comuni".

"I sex offenders seguono un trattamento avanzato - spiega la direttrice del carcere Lucia Castellano - un percorso studiato appositamente per chi ha commesso reati sessuali. Qui a Bollate in questo momento sono trenta persone, su un totale di 750 detenuti. E in questi tre anni posso dire che il progetto ha dato i suoi frutti. Su 80 soggetti, solo tre sono stati recidivi e uno di loro ha chiesto di tornare per continuare le terapie".

Considerato uno degli istituti penitenziari più all’avanguardia, il carcere di Bollate è nato nel 2000 con un obiettivo: offrire all’utenza detenuta quante più possibili opportunità lavorative, formative e socio - riabilitative. Un modo costruttivo per abbattere il rischio di recidiva e favorire il graduale, ma anche definitivo reinserimento del condannato nel contesto sociale.

"Perché una cosa è certa - continua la direttrice - pensare al carcere come a un luogo in cui si prende la chiave e la si butta via, non ha alcun senso. Non serve a niente. Il modo migliore per evitare che questi gravissimi fatti si ripetano ancora è accompagnare la galera a dei percorsi sensati. Non farsi prendere dall’onda emotiva, studiare bene le misure da adottare per evitare la recidiva. Affrontare il problema con razionalità. E poi, infine, sperare nel soggetto. Perché più di ogni altra cosa, la scelta del recupero dipende dalla persona".

È il "violentatore", cioè, che deve dire "sì, voglio guarire". E i mezzi per farlo, a Bollate, li ha. L’équipe che si occupa di seguire i sex offenders nel loro percorso fa parte del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (Cipm) di Milano. Un team composto da tre criminologi, sette psicologi, uno psichiatra, due educatori, un’arte-terapeuta e uno psicomotricista. "La novità di Bollate sta nel fatto che è stata creata una vera e propria unità terapeutica a sé stante, interna al carcere, come se fosse una piccola comunità" chiarisce lo psicologo Luigi Colombo.

Ed è lì che, giorno dopo giorno, per un anno di fila, i colpevoli di reati sessuali devono affrontare il loro mostro interiore. "Il lavoro ha una cadenza giornaliera - continua Colombo - I colloqui sono individuali e di gruppo e tutto il progetto è incentrato sul riconoscimento del reato. Perché se c’è una cosa che il sex offender fa è proprio questa: negare, negare, negare.

In carcere la negazione è usata per difendersi dagli altri. La cosa più facile e più frequente è cercare di dimostrare al compagno di cella ma anche allo stesso operatore che è tutta un’invenzione, che si è innocenti, che si è vittime di un tragico errore. Questo serve a mettersi al riparo dalle critiche e anche a difendersi da se stessi. Ed è lo stesso meccanismo che si mette in atto dentro la famiglia, con la propria moglie o con la propria compagna, quando ancora non si è finiti in galera. Distorsioni della realtà a cui, troppo spesso, si finisce per credere".

Il lavoro principale degli psicologi, allora, è quello sulla negazione. E quando è finito, comincia la seconda parte: la vita fuori dal reparto protetto, in mezzo agli altri detenuti. "All’inizio, tre anni fa, non è stato facile - ricorda Lucia Castellano - gli altri reagirono molto male, qualcuno decise di chiedere un trasferimento perché proprio non se la sentiva. Ma chi entra a Bollate oggi sa bene quello cui può andare incontro: se firma, accetta la possibilità di condividere la propria cella anche con un sex offender".

La maggior parte, stando ai numeri di Bollare, sono italiani che hanno commesso reati sessuali all’interno della famiglia. Padri su figlie, o patrigni su figli adottivi, spesso con la connivenza della madre. A volte amici dei genitori, ma comunque quasi sempre persone nel cerchio familiare. "Spesso si tratta di persone che hanno un comportamento esteriore molto contenuto, inibito, passivo - spiega Colombo - I reati di branco invece sono più limitati. Li commettono persone che hanno imparato un modello aggressivo di sessualità. Soggetti emarginati che utilizzano la violenza per rafforzare la propria identità virile. Lo fanno in gruppo perché, davanti agli altri, dimostrano a loro stessi di essere forti".

Per tutti loro stare in mezzo agli altri detenuti è un passo decisivo. "È una specie di banco di prova per anticipare il proprio rientro nella società - continua lo psicologo - una società in cui, volenti o nolenti, saranno sottoposti a dure critiche".

Il Cipm segue in tutto circa 200 persone (una trentina dentro al carcere, gli altri in esecuzione penale esterna. Far emergere questi reati, in realtà, è davvero difficile. Le violenze sessuali sono quelle con il "numero oscuro" più alto di episodi non denunciati. "Ma una volta presi - ribadisce la direttrice - è necessario che vengano messi davanti quello che hanno fatto. Il carcere deve essere anche il momento della consapevolezza, il luogo in cui riflettere sulla propria personalità, per capire perché si ha avuto il bisogno di aggredire. Solo così, forse, una volta fuori il sex offender non ripeterà più quelle terribili violenze".

Caserta: da Comune e Uepe sportello informativo per i detenuti

 

Il Mattino, 23 febbraio 2009

 

Siglato un protocollo tra il sindaco e il direttore dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Caserta. Il 19 febbraio è stato siglato il protocollo d’intesa per l’apertura del primo Sportello informativo per soggetti con problemi di giustizia della provincia di Caserta.

Il sindaco Giancarlo Giudicianni e il direttore dell’Ufficio di esecuzione penale Esterna di Caserta hanno firmato la convenzione per la realizzazione di un importante servizio destinato agli ex detenuti. La finalità è favorire una maggiore conoscenza delle opportunità lavorative e di integrazione per promuovere l’integrazione e l’inclusione sociale di soggetti in difficoltà.

In particolare i destinatari di questa iniziativa sono ex detenuti e loro familiari, persone sottoposte a misura alternativa, ma anche coloro che per motivi di studio o lavoro necessitino di informazioni inerente l’esecuzione penale esterna. Le risorse umane saranno messe a disposizione dall’Ufficio di esecuzione penale che assicurerà la presenza di un assistente sociale una volta alla settimana. Lo sportello informativo interprofessionale di "primo livello" sarà ubicato presso la sede dei Servizi sociali.

Belluno: "Codice a sbarre", progetto per i giovani ed i detenuti

 

Corriere delle Alpi, 23 febbraio 2009

 

Prevenzione e sensibilizzazione sono alla base del progetto "Codice a sbarre", promosso dall’Ufficio scolastico provinciale, in collaborazione con la Consulta provinciale degli Studenti, che verrà presentato oggi in Prefettura alle 15, alla presenza delle Istituzioni e delle associazioni che hanno collaborato alla sua realizzazione. Il progetto è rivolto ai ragazzi degli istituti scolastici superiori e ai detenuti della Casa circondariale di Belluno. Gli obiettivi che si prefigge sono di due tipi. Innanzitutto un’azione di prevenzione rivolta agli studenti, sulle tematiche della legalità, ma anche un’azione di sensibilizzazione della popolazione carceraria.

Ai ragazzi verrà consegnato uno strumento provocatorio, il "Passaporto per il carcere", di grafica ed impatto moderni e graffianti. Il libretto, simile a un vero e proprio passaporto, è suddiviso in sezioni contenenti nozioni sulla fedina penale, la vera storia di due giovani detenuti, un quiz per incuriosire gli studenti sulla tematica, la descrizione dei reati e delle relative pene e infine il ruolo che hanno i giovani come costruttori del futuro.

Al progetto sarà dedicata, nel mese di maggio, la Giornata dell’Arte. Alla presentazione in Prefettura parteciperanno numerose autorità istituzionali, tra cui gli assessori Ezio Lise e Angelo Paganin, il direttore della Casa Circondariale Immacolata Mannarella, il dirigente dell’Usp Domenico Martino e la referente del progetto Silvia Cason, il dirigente del Cpt di Belluno Emilio Guerra, Massimo Zanta (presidente dell’associazione Emergenze Oggi), Giorgio De Faveri (presidente dell’associazione Itaca), Ennio Colferai (presidente del Consultorio Familiare di Belluno), Massimo Simionato (presidente del Consorzio Belluno Centro Storico) e Patricia Da Rin (responsabile dell’Ufficio Comunicazione Nord Est di Poste Italiane). A fare gli onori di casa il prefetto.

Roma: il 25 febbraio; una "celebrazione" per i 10 anni dei Gom

 

Comunicato stampa, 23 febbraio 2009

 

Il 25 febbraio, alle ore 12.00, presso la Scuola di Formazione del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma, si celebra il decennale del Gruppo Operativo Mobile. Alla cerimonia partecipano il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta.

Il Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria è impiegato nella gestione dei detenuti sottoposti al regime differenziato, ai sensi dell’art. 41 bis O.P. Attualmente i detenuti affidati al Gom sono 529, di cui 7 collaboratori di giustizia. I detenuti sottoposti al regime ex 41 bis sono ristretti nei 12 reparti incardinati in altrettante sedi penitenziarie, dislocate sull’intero territorio nazionale.

Il Gruppo Operativo Mobile, istituito con Dm 14.02.1999, è chiamato a vigilare sul buon funzionamento del regime di detenzione speciale, opera alle dirette dipendenze del Capo del Dap e, su richiesta della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, nelle sezioni dove sono reclusi i soggetti sottoposti al regime previsto dall’art. 41bis ,ovvero in tutti gli altri casi nei quali vi siano speciali ragioni di sicurezza. Al gom è affidata una funzione altamente qualificata: garantire l’applicazione dell’istituto del regime speciale, impedendo la realizzazione di contatti del detenuto con l’esterno; cura le traduzioni ed i piantonamenti dei detenuti ed internati ad altissimo indice di pericolosità; provvede al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime speciale previsto dall’art. 41 bis comma 2 legge 26 luglio 1975 n. 354, nonché dei detenuti che collaborano con la giustizia ritenuti di maggiore esposizione a rischio.

Il Capo del Dipartimento, inoltre, dispone l’utilizzazione di personale del Gom nei casi previsti dall’art. 41 bis comma 1 legge 354/75 ed in ogni altro caso determinato dall’esigenza di fronteggiare gravi situazioni gestionale in ambito penitenziario. Accredito stampa: 06.66529355. Scuola di Formazione del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, Roma 00164, Via di Brava 99.

Catania: in scena il laboratorio teatrale di "Casa teatro Bicocca"

 

La Sicilia, 23 febbraio 2009

 

Lo spettacolo dei detenuti della Casa Circondariale di Bicocca è andato in scena nel corso della giornata su "Il disagio in carcere - Prevenzione dei suicidi, tutela della salute, promozione del benessere fisico e psichico delle persone detenute".

"Mi sembra di essere libero". Dice così uno dei detenuti di Casa teatro Bicocca, il laboratorio teatrale, condotto da Piero Ristagno e Monica Felloni; lo dice mentre fervono le prove e vengono fuori, come per incanto, le alchimie del teatro, tra le invenzioni della ragione e le esplosioni dei sentimenti.

Nessuno avrebbe detto all’inizio che "Sorrisi e voci" - questo il titolo dello spettacolo - si sarebbe dipanato pian piano, attraverso le menti e i corpi, piccolo grande miracolo di esperimento corale. Con il lavoro, andato in scena il 13 febbraio scorso e in replica il 19, è stato inaugurato il nuovo teatro della Casa Circondariale di Bicocca.

Un teatro progettato da un detenuto ed ora, finalmente, utilizzato dai carcerati, diciassette sul palcoscenico, centottanta in platea a spellarsi le mani con gli applausi. Come non emozionarsi per le canzoni napoletane e siciliane, per i monologhi vocali e corporei? Come non sorridere con gli sketch-parodia mutuati da una televisione fin troppo presente nella vita del carcere. Lo spettacolo si congeda con una struggente, antica ninna nanna siciliana e un brano di Saramago sulla musica che affratella e arricchisce. Come il teatro.

Sì, sembrava proprio di essere liberi. E non solo dal carcere ma anche dagli schemi, dagli stereotipi di una società senza valori, che spinge ad accumulare oggetti e denaro, a raggiungere posizioni di potere, a sopraffare l’altro. Senza pensare che alla fine c’è per tutti a "Livella". Ce lo ha ricordato Turi con un’ interpretazione magistrale della poesia del principe De Curtis, in arte Totò. "Sti pagliacciate ‘e ffanno sulo è vive. Nuje simmo serie, appartenimmo a morte".

Allo spettacolo, che ha dato il via alla giornata di sensibilizzazione sul tema "Il disagio in carcere - Prevenzione dei suicidi", hanno assistito anche il direttore di Bicocca, Giovanni Rizza, l’educatore Maurizio Battaglia, il commissario Sergio Bruno, Salvo Fleres, garante regionale per la tutela dei diritti dei detenuti e il direttore generale dei detenuti Sebastiano Ardita.

Musica: il tour di Alberto Mennini in tutti gli Istituti per minorenni

 

Affari Italiani, 23 febbraio 2009

 

Tour di Alberto Mennini in tutti gli Istituti per Minori. Diciassette tappe in giro per l’Italia per dar voce ai giovani che stanno scontando la pena e regalare musica per poter ricominciare a sognare.

 

Alberto da dove è venuta l’idea di fare un tour itinerante all’interno delle realtà dei carceri minorili italiani?

Già avevo fatto un concerto a Rebibbia nel 2001 e grazie a questo avevo avuto l’opportunità di conoscere e allo stesso tempo di entrare e vivere per un giorno la realtà carceraria. Poi visto il periodo storico che stiamo vivendo, con questo intendo la formazione di nuove baby gang e l’abbassamento dell’età media delle persone che commettono reati gravi, ho pensato che del carcere minorile se ne parlasse pochissimo.

Per questo ho preparato il progetto insieme ad altre persone e l’ho presentato al Ministero di Grazia e Giustizia che ne è rimasto piacevolmente colpito e l’ha accettato. E così abbiamo iniziato con la prima tappa proprio a Casal del Marmo a Roma.

"Il fulcro di questo progetto è invitare i ragazzi ad esprimere, durante gli eventi, le loro riflessioni sul concetto di libertà e sulle emozioni: amore, amicizia, famiglia, futuro e lavoro. Concetti capaci di farli sentire liberi, liberi anche di "volare". La voce dei ragazzi sarà espressa in qualsiasi forma legittima (un disegno, un testo scritto, un discorso, una stessa canzone) e verrà poi divulgata in forma audiovisiva in un album che nascerà da questa esperienza e il cui ricavato andrà in beneficenza.

 

Ci vuoi raccontare le tue sensazioni durante il concerto di apertura del tour nel carcere minorile di Casal del Marmo?

L’emozione è stata forte, quando si pensa ad un carcere minorile si crede sempre che non sia un carcere vero e proprio, invece è un carcere a tutti gli effetti , non è un ambiente a cui si è abituati, sono posti che nella vita si spera sempre di non vedere mai, ma è stato bello.

Dopo aver superato la loro iniziale diffidenza nei mie confronti, sono riuscito a trovare la chiave di volta per riuscire a trasmettere le mie canzoni e allo stesso tempo le mie emozioni.

Non mi è stato difficile comunicare con loro, e come ho iniziato il concerto ho sentito con mia grande soddisfazione di essere riuscito a coinvolgerli proprio nelle sensazioni che volevo trasmettere. Con le mie frasi e con l’appoggio del mio grande amico Stefano Masciarelli, che ha insistito per essere anche lui vicino a me ad affrontare questo tema, spero di essere riuscito a diffondere questo bellissimo messaggio di sentirsi liberi anche quando non lo si è.

La detenzione è viva di emozioni, speranze e progetti che i reclusi, soprattutto minori, non devono mai abbandonare. Valori che la società esterna non deve mai dimenticare. L’idea di questo tour non è il concerto in sé, ma sarà portare fuori la voce del carcere, il pensiero e le emozioni dei minori limitati dietro le sbarre".

Un aspetto sociale nonché artistico da non sottovalutare è che l’Associazione Liberi Onlus, già dalla prima tappa di Casal del Marmo, sta stimolando l’espressione sociale ed artistica dei ragazzi detenuti.

L’obiettivo è quello di dar voce ai ragazzi spingendoli a creare qualcosa che fuori li rappresenterà e li aspetta, infatti oltre al già menzionato cd che Alberto Mennini musicherà con i testi scritti dai ragazzi stessi, ad ogni tappa questi ultimi realizzeranno un’opera d’arte insieme all’Artista Cristiano Petrucci.

La prima opera è già stata creata all’interno dell’Istituto penale per minori di Casal del Marmo. Non appena i motori si metteranno in moto ed il Tour muoverà verso Napoli, si accenderanno le telecamere e legato al Tour sarà realizzato un Documentario diretto dal regista Flavio Parente.

Documentario del quale è ancora prematuro parlare, dice il regista, e per il quale i primi input e le prime testimonianze "li abbiamo già avuti da Casal del Marmo, dove la sceneggiatura ha cominciato a scriversi da sola: io vorrei solo essere un sottile sensibilizzatore e dar forma a quelle emozioni che incontrerò strada facendo lungo il percorso del Tour di Alberto Mennini in tutti gli Istituti per Minori".

"Voglio cogliere l’occasione - conclude Alberto Mennini - per ringraziare la mia band al completo: Gianluca d’Alessio e Alex Massari alle chitarre, Fabrizio Sacco al basso, Daniele Jacono alla batteria e Francesco Di Marco agli arrangiamenti".

Immigrazione: così si vive a Lampedusa, ormai un'isola-carcere

di Carlo Bonini

 

La Repubblica, 23 febbraio 2009

 

Il pattugliatore 290 della Capitaneria di Porto lascia la darsena del molo vecchio con la luce del primo giorno, scatarrando cherosene nell’azzurro cobalto dei fondali. Perché la clemenza del bollettino del mare e la disperazione di chi lo attraversa sono più forti di un decreto legge. Perché per quarantotto ore, il canale di Sicilia si fa laguna e nella notte torna a restituire uomini, donne e bambini alla deriva.

Questa volta, e "per disposizione di Roma", agganciati sui loro barconi oltre l’orizzonte e destinati alle spiagge di porto Empedocle, in Sicilia, e ai centri di identificazione ed espulsione (Cie) dell’isola madre.

In una coltre di "discrezione" che consenta di dire che gli sbarchi su questo scoglio di 20 chilometri quadrati si sono spenti d’incanto dopo il consiglio dei ministri che appena venerdì ha riscritto un significativo paragrafo della Bossi-Fini. Con la stessa rapidità con cui sono state soffocate prima, e cancellate dai palinsesti televisivi poi, le fiamme della rivolta tunisina nel centro di contrada Imbriacole.

È una finzione che, a ben vedere si è già svelata, nella notte tra sabato e domenica, sulle rocce di Punta Sottile, dove un gommone ha scaricato nove ombre inebetite e incartapecorite da freddo, acqua e salsedine, che parlavano la lingua del Maghreb. È una finzione che deve sedare la collera di seimila isolani e del sindaco ribelle che ne è alla testa, un ex seminarista nato a Pantelleria, eletto con il Movimento per le Autonomie di Lombardo, che di nome fa Bernardino De Rubeis e ha inopinatamente cominciato a chiamare le cose con il loro nome.

Qui, sulla terra ferma e persino a Bruxelles. Dimostrando che Lampedusa non è la nuova linea del Piave contro la spallata dei migranti del sud del mondo. Ma ne è e ne sarà solo la discarica. Non più luogo di transito della disperazione. Ma suo centro di stoccaggio e smaltimento definitivo.

In Piazza Libertà, appesi agli infissi scrostati delle case che affacciano sul corso e a quelle del fatiscente Municipio, lenzuoli imbrattati di vernice rossa e verde lo raccontano a modo loro. "Le carceri al Nord, anche lì spazio ce n’è"; "Maroni affonda Lampedusa. Lampedusa affonda Maroni"; "Pacchetto vacanze Lampedusa 2009. Camera con vista mare, gita in barca con avvistamento clandestini. Visita guidata Centro di identificazione ed espulsione e la sera birra con amico africano. Inoltre, per la vostra sicurezza, un militare per ogni bella donna. Il tutto offerto dal presidente Berlusconi e dal ministro Maroni. Grazie".

I numeri del Viminale dicono che alla mezzanotte di sabato 21 febbraio, nel Cie di contrada Imbriacole i detenuti, che la burocrazia dell’immigrazione chiama "ospiti", erano 579. Tutti tunisini. E che a quella stessa data e ora, il "dispositivo di sicurezza" sull’isola aveva raggiunto i seicento effettivi. Un uomo in divisa per ogni migrante.

O, se si preferisce, un uomo in divisa ogni dieci isolani. Carabinieri dei battaglioni di stanza in Sicilia, reparti mobili della polizia di stato risucchiati dalle questure di Catania e Palermo, finanzieri, soldati di esercito e aeronautica militare assegnati all’operazione "Strade sicure". Occupano ogni posto letto disponibile sull’isola (gli alberghi sono al completo fino ad agosto) e hanno trasformato il paesaggio verde e turchese dell’isola in un pezzo di Ulster italiano.

Soldati smontanti che fanno jogging sulle banchine. Cellulari per il trasporto dei reparti antisommossa parcheggiati con il muso rivolto verso l’oasi naturale dell’isola dei conigli. Scudi di plexiglass e sfollagente appoggiati all’ingresso delle taverne del porto dove vengono serviti spaghetti al nero di seppia e calamari alla plancia in convenzione con il Viminale.

"Lei come la chiama questa, eh? La chiama isola o la chiama carcere? È Lampedusa o Guantanamo?", dice il sindaco. A Roma, gli danno ora del pazzo, ora dell’irresponsabile, ora del furbacchione pronto a flirtare con quel che resta dell’opposizione di centro-sinistra e, prima o poi, a scendere a patti con il Governo, magari in cambio di un congruo indennizzo.

Lui sembra infischiarsene e ripete come un disco rotto quel che nessuno sembra disposto ad ascoltare sulla terra ferma. "Qui i senza futuro non ci possono stare. Noi possiamo continuare a fare quel che abbiamo fatto fino a un mese fa, quando il nostro era ancora un centro temporaneo di primo soccorso. Accogliere e strappare alla morte in mare chi arriva qui fuggendo la guerra e la miseria. Ma non possiamo fare di più. Lampedusa può essere un centro di transito, non può diventare la tomba dei clandestini in attesa di rimpatrio coatto".

Per spegnere l’ex seminarista che si è fatto incendiario, è arrivata sull’isola la donna che, per anni, ne è stata il braccio destro. L’ex vicesindaco Angela Maraventano, nata, cresciuta e residente a Lampedusa, oggi senatrice della Repubblica eletta con la Lega in un collegio scelto a caso in quel dell’Emilia Romagna. Di De Rubeis, la Maraventano pensa e dice il peggio. Di quel che sarà o dovrà essere l’isola dice di essere sicura tanto quanto la maggioranza di governo che rappresenta: "Fine del buonismo. Chi arriva a Lampedusa deve sapere che da qui ripartirà solo per tornare a casa propria. Il sindaco non vuole il Cie?

Io l’ho detto a Maroni: per me i centri li possiamo anche fare in mare. Sulle navi della marina, così questi che ancora ci provano non toccano neanche terra. Hanno bruciato il centro? E noi lo ricostruiamo. Subito. Provano a bruciarlo di nuovo? E noi gli togliamo gli accendini e le sigarette, che fanno anche male alla salute. Il piano Maroni funzionerà. Vedrete, se funzionerà".

Le statistiche lasciano prevedere il contrario. Il 70 per cento dei migranti che raggiungono Lampedusa fugge le guerre del Corno d’Africa e non c’è decreto legge che possa metterne in discussione il diritto all’asilo politico, riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Dunque, in Italia resteranno. Solo il trenta per cento (tunisini, marocchini, egiziani) arriva da quel Maghreb verso il quale dovrebbe essere rimpatriato. Ma è un numero così alto che non c’è discarica o prigione che possa contenerli. Novemila migranti maghrebini nel solo 2008. Vale a dire almeno otto volte il numero di clandestini per il quale gli accordi bilaterali chiusi dal nostro Paese consentono il rimpatrio coatto ogni anno.

Non è un calcolo complicato. Se da domani non arrivasse sull’isola anche un solo maghrebino in più (e non sarà così), ci vorrebbero almeno sette anni per riportare indietro quelli che già sono in Italia.

Ma nella logica di una gestione dell’emergenza che ricorda come un calco - persino nel linguaggio - quella dell’immondizia campana, lo stato di eccezione permanente si fa norma. A Lampedusa uomini e cose vengono impilati in buchi scavati nella terra. Gli uomini a Sud, nel centro sprofondato nella forra di contrada Imbriacole (le donne e i minori, in questi giorni assenti dall’isola, sono trattenuti nella ex base Loran dell’aeronautica, a Ponente).

Le cose a nord, in una ferita aperta dalla Protezione civile tra le argille di Taccio Vecchio, area naturale a protezione integrale della Comunità europea, violata dalle ruspe della Protezione civile in nome delle "procedure in deroga" per gli stati di calamità. Tre colline di legno, gomma e ferro, dove, inclinati su un fianco come carcasse di cetacei, riposano i barconi della disperazione, marchiati al loro arrivo con la vernice rossa di chi li agguanta (G. F., guardia di Finanza; C. P. Capitaneria di Porto) e destinati ad essere "tritovagliati" insieme alla rumenta dell’isola.

Simona Moscarelli, avvocato dell’Organizzazione Internazionale Migranti (una delle ong, che con "Save the children", l’Alto commissariato per le Nazioni Unite e la Croce Rossa lavora nel Centro di identificazione ed espulsione), racconta che ai prigionieri dell’isola nessuno ha ancora avuto il coraggio di comunicare quale sarà il loro destino. Che, verosimilmente, toccherà farlo a una delegazione del governo tunisino attesa per oggi.

"Vogliamo prima capire se il decreto si applicherà anche a chi è sbarcato prima dell’approvazione della nuova legge", dice abbassando lo sguardo. Anche perché ricorda cosa è stato, sin qui, spiegare agli "ospiti" un altro dei buchi neri in cui la burocrazia dello smaltimento migranti ha sin qui annegato i ricorsi di chi, dichiarandosi minorenne, viene al contrario destinato al rimpatrio perché ritenuto maggiorenne. "La legge prevede il diritto di ricorso al Tar.

Ma quello di Palermo si è dichiarato incompetente a favore dei giudici di pace di Agrigento. I quali, però, si sono detti a loro volta incompetenti. E comunque, chi ricorre non può contare sul gratuito patrocinio degli avvocati".

Ricorrere è inutile. Quasi quanto chiedere oggi accesso al Centro. Non è un carcere, dicono. Ma, esattamente come un carcere, è ora impermeabile al mondo esterno "per motivi di incolumità". Gentili funzionari del Viminale assicurano che "tutto è tranquillo". Che "gli ospiti giocano persino a pallone". Dalla collina che lo sovrasta, lo spettacolo è diverso.

Nei due bracci sopravvissuti all’incendio, separati dallo scheletro di lamiera dell’edificio fuso dal calore delle fiamme, una folla di uomini ciondola e spesso grida, agitando stracci dai ballatoi degli alloggi in cui è stipata. In brande e a terra. Nell’unico, angusto cortile, si sta seduti a gambe incrociate per l’appello, sotto lo sguardo di poliziotti trasformati in secondini. Tanto da strappare a Franco Maccari, segretario generale del Coisp, sindacato di polizia, arrivato sull’isola per guardare con i suoi occhi, che "in una situazione così degradante e allucinante, il peggio può ancora venire".

Una nuova rivolta o magari un’altra notte come quella del 6 febbraio scorso. Alle 19 di quel venerdì, come ne documentano i registri di ingresso, arrivò nel poliambulatorio dell’isola il primo tunisino trasportato d’urgenza dal Centro. E dopo di lui, altri otto. Fino alle 5.20 del mattino. Nello stomaco di tutti, imprigionati in molliche di pane e morsi di patata, "corpi radio opachi". Lamette da barbiere. Nascoste nelle protesi dentarie al momento dello sbarco e ingoiate poi. Per bucarsi dentro e riuscire ad evadere dall’isola che si è fatta sarcofago.

Immigrazione: rom a Napoli; la storia di una sentenza già scritta

 

Internazionale, 23 febbraio 2009

 

La giovane rom condannata per il tentato rapimento di una bambina a Ponticelli potrebbe essere innocente. L’inchiesta del corrispondente dall’Italia del quotidiano spagnolo El Paìs.

Nel maggio del 2008 Angelica V., una sedicenne rumena, è finita, in carcera a Napoli con un’accusa molto grave: tentato rapimento di una neonata. Il 13 gennaio un giudice del tribunale per minorenni di Napoli ha condannato la ragazza a tre anni e otto mesi di carcere. È la prima condanna del genere contro un rom in Italia. Il suo avvocato presenterà il ricorso, ma non si fa illusioni. " Il processo è stato parziale, l’appello lo sarà altrettanto", dice Christian Valle. "I diritti umani di Angelica sono stati violati".

Da otto mesi Angelica è rinchiusa nel carcere minorile di Nisida, anche se si dichiara innocente ed è stata condannata solo sulla base della testimonianza della madre della bambina. In prigione tutte le detenute sono rom come lei.

Il caso di Angelica è insolito per l’Italia, dove la certezza della pena non è poi così certa e la giustizia è molto lenta. Come mi ha detto Salvatore, un tassista romano, "qui le regole valgono solo per i più deboli". E Angelica V. è una di loro. Anche se è europea a pieno titolo, non ha carta d’identità, è giovane, è donna, è zingara non ha studiato.

Come se non bastasse, ha avuto la sfortuna di trovarsi a Napoli quando i governo Berlusconi ha inaugurato la sua politica del pugno di ferro. Il presidente del consiglio aveva appena nominato come ministro dell’interno Roberto Maroni, della Lega Nord, il cui obbiettivo dichiarato era ristabilire un senso di sicurezza. Maroni aveva le idee chiare e un nemico in mente. Non la camorra, la ‘ndrangheta o Cosa Nostra. Ma i rom. Una violenza inaudita.

La storia di Angelica V. è legata ai pogrom di Ponticelli, immagini che hanno fatto il giro del mondo. Dopo l’allarme lanciato da una donna per il tentato rapimento di sua figlia, gruppi di giovani in motorino si sono fatti giustizia da soli dando fuoco agli accampamenti dei rom del quartiere.

"La reazione è stata di una violenza inaudita" ricorda il giornalista del Corriere della Sera Marco Imariso, che ha raccontato i fatti di quei giorni nel libro I giorni della vergogna. Cronaca di una emergenza infinta ( L’Ancora del Mediterraneo 2008 ). Alcuni hanno cercato di descrivere gli attacchi come una rivolta popolare contro i rom, una battaglia spontanea tra i poveri. Ma a Napoli tutti sanno che è stato "un fatto di camorra".

Imariso racconta che "per lasciarli vivere a Ponticelli, il clan che controlla il quartiere riscuoteva cinquanta euro a baracca. Lo ha fatto per anni. A un certo punto, però, ha smesso e ha cominciato a dare fuoco agli insediamenti. La gente del quartiere non voleva i rom. Il presunto tentativo di rapimento è stata una scusa per cacciarli ".

Negli ultimi mesi si è scoperto che dietro gli attacchi di Ponticelli si nasconde un intreccio di degrado, povertà, razzismo, demagogia, criminalità organizzata e speculazione edilizia. Il punto fondamentale è che i terreni dove sorgevano gli accampamenti illegali bruciati a maggio del 2008 dovranno ospitare il Palaponticelli, un grande progetto urbanistico dichiarato di interesse pubblico nel giugno del 2007 dalla giunta del sindaco Rosa Russo Iervolino (del Partito Democratico).

Questo progetto faraonico si estende su 85 mila metri quadri e comprende un padiglione polivalente, una sala concerti, un centro commerciali con un parcheggio per tremila auto e una piazza. Il costo previsto è di 200 mln. Di euro, a carico della società promotrice. È prevista inoltre la creazione di mille posti di lavoro.

Andrea Santoro, un consigliere comunale di Alleanza Nazionale, ha denunciato pubblicamente l’operazione come "una delle più grosse speculazioni edilizie e commerciali che abbia mai colpito la città di Napoli". Il consigliere fa notare che la società promotrice, la Palaponticelli srl, è protetta da un sistema di scatole cinesi. La società è infatti proprietà di Armonia, un’azienda di Reggio Emilia amministrata da Marilù Faraone Mennella e Silvio De Simone.

La società emiliana, è a sua volta di proprietà della romana Dm, che spiega Santoro, "fa capo a società lussemburghesi, anonime, soggette a una giurisdizione che rende impossibile risalire ai soci". Le accuse di Santoro sono cadute nel nulla e il 30.01.09 la giunta comunale di Napoli ha approvato il via definitiva al progetto.

Il luogo scelto per il Palaponticelli, come si legge nella delibera della giunta del 2007, era in "condizioni di abbandono e degrado". Un anno dopo il comune ha risolto il problema senza pagare un euro e senza trovare una sistemazione a nessuno.

"I rom sono scappati, sono andati nei centri di accoglienza, o sono tornati nei loro paesi", spiega Roberto Malini, fondatore dell’Ong EveryOne. Il giorno dell’esodo dei rom Patrizio Gragnano, un consigliere di Rifondazione Comunista, ha attaccato la destra e il Partito Democratico.

"Hanno continuato a seminare odio tra la gente e a cavalcare l’esasperazione popolare", ha dichiarato alla Repubblica. Nello stesso articolo si legge: "Nell’area in cui sorgeva uno dei campi bruciati è prevista la costruzioni del Palaponticelli, struttura da 12mila posti per i concerti. Lo sgombero dei rom lì, era nei programmi da tempo".

La donna che ha accusato Angelica è Flora Martinelli, 28 anni, figlia di Ciro Martinelli, conosciuto dai carabinieri di Napoli come ‘O Cardinale o ‘O Vescovo.

Martinelli è un collaboratore dei Sarno, il clan camorrista che regna su Ponticelli ed è noto per l’abilità nell’aggiudicarsi gli appalti pubblici. Martinelli è stato condannato nel 1999 per associazione a delinquere. Anche sua figlia è stata arrestata nel 2004 per un reato minore: falso ideologico e falsificazione di documenti.

Angelica era arrivata in Italia dalla Romania da poco e stava sempre con il suo ragazzo. I rom di Ponticelli quasi non la conoscevano. I due vivevano appartati, tiravano avanti rubando, chiedendo l’elemosina, e facendo delle commissioni per chi capitava. Ma Angelica non era particolarmente scaltra nei furti.

Nell’aprile del 2008 è stata affidata alla comunità di Monte di Procida, una delle tante case famiglia che si trovano in Italia, dove l’assistenza è affidata ai privati e quasi sempre alla chiesa cattolica. Pochi giorni dopo è riuscita a scappare ed è tornata a Ponticelli. Domenica 11 maggio, alle nove e mezzo di sera, è salita al secondo piano di una casa e ha cercato di portarsi via una bambina. La madre l’ha colta sul fatto. Settanta persone hanno cercato di linciarla. La polizia l’ha salvata. È finita in carcere il 13 maggio.

La sera dell’11 erano già cominciate le ritorsioni. La prima vittima è stato un rumeno, ma non di etnia rom. Aveva una casa, non viveva in un accampamento, e faceva l’operaio. In venti l’hanno aggredito con calci e pugni, e l’hanno accoltellato alla schiena. Poi sono arrivati gli incendi e le sassaiole. Nessuno è stato risparmiato, neanche le donne, i bambini o i ragazzi. A capo di tutto c’erano i Sarno. In quarantotto ore tutti i rom erano fuggiti da Ponticelli perché la polizia non era in grado di garantire loro sicurezza. Si sono lasciati alle spalle i vestiti, tutte le loro cose e cinque cani. Nessuno è stato arrestato per le violenze.

Questa è la versione dei fatti che la stampa ha raccontato in quei giorni. Convincente ma incompleta. Secondo il giornalista Marco Imariso e l’avvocato di Angelica, le cose sono andate diversamente. Imariso sostiene che non c’è stato nessun rapimento. "Anche la polizia crede che in questa storia ci sia qualcosa di strano", scrive "E fin dall’inizio ha sollevato dei dubbi sulla versione ufficiale, costruita sulla base del racconto della madre della bambina e dei suoi familiari".

Nel suo rapporto la polizia ha messo in dubbio la "verosimiglianza" degli eventi dell’ 11 maggio 2008. "I cellulari dei Martinelli sono stati tenuti sotto controllo per due mesi", spiega Imariso, "per sentire se nelle loro parlassero di quella che agli investigatori sembrava una messinscena o una versione esagerata degli eventi".

‘O Cardinale avrebbe bloccato la ragazza sulla soglia di casa. "È un personaggio molto noto, un uomo rispettato. È difficile immaginare che qualcuno vada a rubare a casa sua, tanto meno a rapire sua nipote". Angelica era già stata in quella casa, raccontano i vicini, "almeno tre o quattro volte". "Probabilmente anche di più", sostengono gli investigatori. "Chi ha raccontato che ci andava perchè le davano dei vestiti". Una versione poco credibile.

Flora Martinelli ha dichiarato alla polizia che Angelica è entrata forzando la porta e si è portata via la bambina. Durante il processo ha cambiato versione e ha detto che la porta era aperta. La tesi della polizia è che Angelica sia entrata con il permesso della famiglia e che a madre abbia lasciato la bambina in salotto mentre andava in camera a cercare qualcosa: in quel momento forse Angelica ha deciso di rubare qualcosa e Flora l’ha vista.

Secondo una donna, la ragazza stava uscendo di casa con la bambina in braccio. Ma la polizia e l’avvocato considerano inverosimile questa versione dei fatti: la distanza tra il salotto e la porta di casa è molto breve, e Angelica avrebbe fatto in tempo a scappare prima del ritorno della Martinelli. Il nonno ha sentito le urla ed è salito. Ha bloccato la zingara sulle scale, ma poi misteriosamente l’ha lasciata fuggire. Poi l’ha inseguita per cinquecento metri fino a quando non l’ha raggiunta.

Durante il processo ‘O Cardinale e i suoi vicini hanno detto di non aver visto Angelica con la bambina in braccio. L’ha vista solo la mamma, ma è stato sufficiente per la giudice Cirillo: il 13/1 il tribunale per minorenni di Napoli ha condannato Angelica V. a tre anni e otto mesi di carcere con l’aggravante della minorata difesa, visto che la madre della bambina era in un’altra stanza.

"Ho l’impressione che si stia condannando un’innocente", ha detto Enzo Esposito, segretario dell’Opera nomadi di Napoli. L’avvocato Valle ha la stessa sensazione: "Non è stato un processo imparziale. Tutte le domande della difesa sono state considerate irrilevanti.

E gli atti del processo non sono stati tradotti come stabilisce la legge nel caso in cui l’accusato non capisca l’italiano. L’unica prova alla base della condanna è la testimonianza della madre della bambina. Secondo il pubblico ministero e la giudice, la Martinelli non avrebbe avuto alcun interesse ad accusare la ragazza se le cose non fossero andate davvero così. Tra una mamma napoletana, figlia di un uomo rispettato, e una zingara ladra a chi dovremmo credere ?".

Dopo la sentenza il gruppo di avvocati di a cui appartiene anche Cristian Valle, ha emesso un comunicato: "Ogni richiesta della difesa è stata sistematicamente respinta, perfino l’ammissione al gratuito patrocinio. L’apparato giudiziario ha scatenato la sua offensiva contro una ragazzina rom, sola e in difficoltà, accanendosi in una piccola smania di persecuzione alimentata dal più vergognoso razzismo e dalla dilagante ideologia securitaria di stampo fascista".

Angelica era condannata a essere condannata. Forse aveva la vocazione a capo espiatoria. Prima dell’11 maggio gli abitanti del quartiere si erano incontrati più volte per studiare il modo di cacciare i rom. Gli abitanti delle case popolari costruite negli anni sessanta nella periferia est di Napoli, ricorda Imariso, avrebbero fondato non meno di cinque comitati civici per sgomberare gli accampamenti.

L’unico a difendere gli zingari è stato il parroco di Ponticelli, che dopo il pogrom ha dichiarato: " Qui c’è un intreccio perverso, qualcosa di più della mafia". Si riferiva al Palaponticelli e alla compattezza con cui i politici e i mezzi d’informazione italiani hanno seminato l’odio contro i rom. A Napoli questa campagna di criminalizzazione è stata guidata dal centrosinistra, come dimostra un manifesto del Pd locale con la scritta: "Via gli accampamenti rom da Ponticelli".

I rom vivevano lì da quindici anni e il comune non si è mai preoccupato di integrarli. Il quartiere è un luogo di degrado e abbandonato, dove l’unica legge e quella della camorra. Nella primavera del 2008, inoltre, Ponticelli stava vivendo un’altra emergenza: quella dei rifiuti.

Gli abitanti della zona aspettavano da anni il messaggio di Berlusconi e Maroni: più sicurezza, più stato, via i rom. Aspettavano una pioggia di miliardi che tardava ad arrivare e che avrebbe dovuto cambiare il volto di quella periferia.

C’è poi un altro elemento da tenere in considerazione: la camorra. Il clan dei Sarno è noto per l’abilità con cui si muove sullo scivoloso terreno degli appalti pubblici, in un mondo che in parte è crollato qualche settimana fa con l’arresto di Alfredo Romeo, un imprenditore vicino al Partito Democratico. Tra i giovani che hanno guidato gli assalti contro i campi nomadi c’era anche un parente del "sindaco" di Ponticelli, Ciro Sarno, che continua a esercitare il suo potere dal carcere.

Il 21 febbraio la giunta comunale aveva modificato e dato forma definitiva al piano di recupero urbano di Ponticelli (Prup). Secondo la stampa locale, era stata introdotta una clausola importante: se i cantieri non fossero stati avviati prima del 4 agosto, i finanziamenti ministeriali sarebbero andati in fumo. Quindi c’era fretta.

Il giorno in cui Angelica è entrata in carcere la dirigente del servizio infrastrutture, studi e progettazione del comune di Napoli, Elena Camerlengo, ha mandato dei tecnici per cominciare i sopralluoghi per il progetto del Palaponticelli. Poche settimane dopo, il ministro Maroni ha annunciato un censimento di tutti i rom in Italia, bambini compresi. A luglio trenta famiglie di zingari hanno avuto il coraggio di tornare in via Argine. Non hanno avuto il tempo a sistemarsi che qualcuno ha dato fuoco ai terreni su cui si erano accampati.

Forse Angelica ha davvero cercato di rubare la bambina ma è difficile da credere. Secondo lo studio La zingara rapitrice, realizzato dall’università di Verona per la Fondazione Migrantes, il cento per cento delle accuse di questo genere presentate in Italia dal 1986 al 2007 è risultato falso.

L’avvocato Valle ricorrerà in appello. Magari la prossima volta potrà chiamare a deporre, oltre al silenzioso ‘O Cardinale, anche i leader politici locali, i membri della famiglia Sarno e i rappresentanti del governo che soffiano sul fuoco della xenofobia e continuano a tollerare che si ripetano storie come questa.

Immigrazione: Ordini dei medici; sanzioni a chi segnala clandestini

 

La Repubblica, 23 febbraio 2009

 

I medici che segnaleranno all´autorità giudiziaria gli immigrati irregolari potranno essere sanzionati dagli Ordini professionali di appartenenza per aver violato il Codice deontologico. È quanto deciso in un documento, votato all´unanimità dal Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo), riunito a Roma, nel quale si ribadisce nero su bianco il "forte dissenso all´emendamento al ddl sicurezza", già passato al Senato, "che abroga il divieto per i medici di denunciare alle autorità gli immigrati irregolari che si rivolgono, per essere curati, alle strutture sanitarie pubbliche". Un documento nel quale i camici bianchi italiani lanciano un appello affinché la Camera dei Deputati non lo approvi.

Immigrazione: storie dei bambini contesi tra la Romania e l’Italia

di Elisabetta Zamparutti (Deputata Radicale eletta nelle liste del Pd)

 

www.innocentievasioni.net, 23 febbraio 2009

 

Gratian Gruia, un bambino di origini romene di quasi quattro anni, fu trovato due anni fa in condizioni terribili dalla squadra mobile di Roma, perché, dopo essere stato abbandonato dalla madre, era costretto dalla nonna a mendicare.

A seguito della perdita della potestà genitoriale da parte del padre e della madre, Gratian venne accolto in una casa famiglia di Roma, dove iniziava a stare meglio, quando giunse la richiesta di riconsegna da parte della Romania. Il Tribunale per i minorenni di Roma, dove era stato aperto il procedimento per la declaratoria dello stato di abbandono, decideva il rimpatrio di Gratian, nonostante il parere negativo del pubblico ministero e degli esperti. Gratian dopo esser stato affidato a un’assistente sociale romena, venne poi dai tribunali locali riaffidato a familiari del clan Gruia.

La Romania, che fa registrare il tasso di crescita più alto di ingressi in Italia, sta adottando una politica intensiva di recupero dei minori a cui il Governo italiano ha prestato il fianco firmando, lo scorso mese di giugno, un accordo di cooperazione sui minori non accompagnati.

Il problema è che le circa tremila richieste di rimpatrio, riguardano esclusivamente bambini piccoli. Non risulta invece alcuna richiesta per i minori romeni tra i quattordici e i diciotto anni arrestati nel Lazio. In Romania l’adozione è un istituto semisconosciuto. Nessuno vuole i "figli di nessuno", per cui i bambini non andranno in una famiglia, ma, con tutta probabilità, verranno restituiti ai clan che li sfruttano o passeranno tutta la vita in istituto. È quindi necessario interrogarsi su questa politica chiedendosi a cosa siano destinati i rimpatriati.

In quel paese vivono settantaduemila bambini abbandonati, molti dei quali sieropositivi che non hanno accesso, per pregiudizi nei confronti di questa condizione, alla scuola e costretti, fino a qualche anno fa, a girare con un bracciale con la scritta "Aids".

La Romania si trova in una situazione particolarmente delicata in seguito alla chiusura di numerosi istituti e orfanotrofi in cui i ragazzi romeni privi di famiglia venivano accolti. Tale chiusura non è stata affrontata dalle autorità locali con la predisposizione di forme alternative di accoglienza. I ragazzi che spesso hanno vissuto esperienze di grande deprivazione sia morale che materiale, dopo la dimissione dagli istituti in cui erano ospiti, sono rimasti privi di punti di riferimento e conseguentemente sono stati facile oggetto di sfruttamento e reclutamento da parte della malavita. Lo confermano i dati raccolti nei centri di prima accoglienza e negli istituti penali minorili, soprattutto del nord e del centro Italia.

È doveroso quindi verificare le condizioni di vita dei bambini rimpatriati, per capire soprattutto se sono destinati a vivere in un istituto o se verranno riconsegnati ai clan di sfruttamento da cui provengono. Da recenti studi sugli istituti assistenziali romeni, è emerso che non si tratta di situazioni simili alle nostre, ma di assistenza maternale delegata a persone che per un compenso irrisorio si occupano dei bambini: e si registrano numerosi casi di abuso.

La vicenda di Gratian non è unica, è accaduto ancor prima ad altri quattro bambini, tra loro fratelli, di età compresa tra i due e i sette anni. Sono Cristina Narcisa, Lorenzo, Romeo e Marinella Raducan la cui richiesta di rimpatrio da parte del Console romeno è stata accolta nello scorso agosto dal Tribunale dei minori di Roma. Le autorità romene parlano di 50 bambini già rientrati dall’Italia mentre il responsabile del V Dipartimento del Comune di Roma, Stefano Giulioli, sta chiedendo a tutti i tutori (sono sette o otto) di preparare una lista dei bimbi romeni che si trovano in case famiglia a Roma.

Il tutto nell’indifferenza delle nostre istituzioni. E, invece, senso di umanità ed i giustizia vorrebbe che si bloccassero tutti i rimpatri di minori finché le politiche rumene per l’infanzia non prendono una piega diversa.

Droghe: il Forum Droghe non partecipa a Conferenza di Trieste

 

Fuoriluogo, 23 febbraio 2009

 

Ecco perché Forum Droghe ha deciso di non essere presente all’interno della Conferenza nazionale di Trieste. Le nostre critiche all’impostazione della Conferenza riguardavano principalmente il mancato coinvolgimento dei principali attori della politica delle droghe nella preparazione; la programmazione blindata delle sessioni tematiche senza spazi di dibattito libero aperto ai partecipanti; la mancata previsione di una valutazione degli effetti della legge Fini Giovanardi approvata nel 2006; la censura della riduzione del danno. Il tutto aggravato dal previsto ricorso al televoto, che sanciva il carattere di puro evento mediatico propagandistico della Conferenza.

Abbiamo comunque accolto l’invito del capo dipartimento antidroga Giovanni Serpelloni ad uno scambio di idee. Abbiamo presentato la nostra posizione, chiedendo pregiudizialmente il riconoscimento di Forum Droghe insieme ai soggetti firmatari dell’appello "Trieste è vicina" come portatori di una posizione alternativa agli indirizzi governativi.

Per sancire questo ruolo abbiamo avanzato richieste minime di agibilità politica, dalla previsione di un nostro intervento nelle plenarie di apertura e chiusura, alla presenza di uno spazio interno alla Conferenza per organizzare eventi paralleli, fino alla possibilità di diffondere i materiali di documentazione (da parte di nostra e di qualsiasi altro soggetto). Al di là dei riconoscimenti a parole, la risposta del capodipartimento è stata negativa su tutti i fronti. Da qui la decisione di non partecipare ad una Conferenza in cui non sono previsti spazi di critica.

Droghe: Torino; i Radicali contro la Procura, per no a narco-sale

 

Notiziario Aduc, 23 febbraio 2009

 

Riceviamo e pubblichiamo questa dichiarazione degli esponenti radicali torinesi Giulio Manfredi e Domenico Massano: "Rileviamo, innanzitutto, la tempestività con la quale il Pm torinese Andrea Padalino interviene pubblicamente sui temi della sicurezza pubblica: un anno e mezzo fa, quando si ventilava la concreta possibilità di aprire una narco-sala in città, il suo autorevole intervento in punta di diritto, contrario a tale iniziativa, contribuì non poco al suo affossamento.

Oggi, invece, rispetto alle ronde, Padalino dice SÌ, premettendo di non chiamarle "ronde". Ora, egli converrà con noi che il problema non è se i cittadini Padalino, Manfredi e Massano si mettono d’accordo nel chiamarle diversamente, ma è se chi sta già organizzandosi, con il decreto del governo in tasca, per battere le strade di notte intende il suo ruolo come "civile partecipazione alla difesa della sicurezza collettiva" (per dirla alla Padalino) o come "giustiziere della notte".

Al riguardo, qui a Torino i precedenti non sono certo tranquillizzanti, dall’incendio doloso del 1° luglio 2000 per il quale l’on. Mario Borghezio della Lega Nord fu condannato in via definitiva a due mesi e venti giorni di reclusione (commutati poi in una multa di 3.040 euro) alle botte ai cittadini tossicodipendenti a Parco Stura.

Vorremmo anche ricordare a Padalino e a tutti che, a Torino, i comitati spontanei di quartiere (che non possono essere sicuramente accusati di simpatie radicali o sinistrorse) si sono dichiarati contrari alle ronde, rivendicando il loro lavoro di questi anni consistente in pure e semplici segnalazioni alle forze dell’ordine.

E non dimentichiamo, non dispiaccia a Padalino, che i comitati si sono dichiarati anche favorevoli alle narco-sale, comprendendo come la loro istituzione ridurrebbe il danno non solamente dei consumatori di sostanze ma anche l’insicurezza e la violenza esistente nei quartieri per colpa non del destino cinico e baro ma del monopolio criminale sulla vendita di alcune droghe garantito dal regime proibizionista.

Sia rispetto alle politiche sulle droghe sia rispetto alle politiche sulla sicurezza, è lo Stato che deve intervenire a governare i fenomeni, assicurando la protezione dei cittadini; ogni delega alla sedicente giustizia private non risolve nulla, anzi provoca solamente nuove violenze e nuovi abusi.".

Iraq: riapre "carcere di tortura" Abu Ghraib, ci sono 400 detenuti

 

Ansa, 23 febbraio 2009

 

Abu Ghraib, il carcere conosciuto per e tortura inflitte ai prigionieri, ha riparto a tre anni dalla chiusura.

La prigione di Abu Ghraib in Iraq, meglio conosciuta come il carcere delle torture, riapre a tre anni dalla chiusura con un nuovo nome. Il carcere, la cui chiusura era stata richiesta a gran voce dopo gli scandali provocati dalle sevizie inflitte ai prigionieri da parte dei soldati americani, si chiama adesso Baghdad Central Prison e ospita circa 400 detenuti.

Il carcere, considerato alla stessa stregua di un lager riservato agli iracheni, era stato chiuso circa tre anni fa a seguito della pubblicazione di alcune foto che ritraevano prigionieri, obbligati a denudarsi, ammassati l’uno sull’altro oppure seviziati e scherniti dai militari statunitensi che infliggevano loro martiri corporali di varia natura. Le foto che maggiormente colpirono l’opinione pubblica mondiale ritraevano però diversi prigionieri, deceduti a seguito delle torture, affiancati da soldati che, con aria soddisfatta, indicavano gli attrezzi usati per le violenze.

Oltre al nome cambia la struttura stessa della costruzione che, a differenza del passato, ospiterà nuove stanze dedicate alle attività ricreative, un grosso cortile con fontana destinato ai familiari dei prigionieri in visita e moderne strutture mediche specializzate per il primo soccorso. La Baghdad Prison potrà ospitare circa 14.000 detenuti e sarà strettamente controllata dal punto di vista dei trattamenti riservati ai prigionieri.

Stati Uniti: ecco perché Karl Louis Guillen è un ragazzo fortunato

di Claudio Giusti (Membro del Comitato scientifico dell’Osservatorio)

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 23 febbraio 2009

 

Karl Louis Guillen è un ragazzo fortunato. È entrato nel Tritacarne e, come Jona dalla balena, ne è uscito vivo per raccontarcelo. Molti dei suoi compagni di viaggio non sono stati così fortunati. O sono stati uccisi, o dal Tritacarne non usciranno più.

A onor del vero KLG dal Tritacarne non è ancora uscito del tutto e, se non trova uno spiraglio nel costoso ginepraio giudiziario americano, ne avrà fino al 2013, ma poteva andargli ben peggio. Comunque la sua vicenda ci aiuta a capire il funzionamento della giustizia americana e a uscire dalla conoscenza telefilmica che ne abbiamo.

Devo ammettere che i telefilm americani di oggi (come The Practice) sono molto più vicini alla realtà di quelli sfacciatamente falsi di un tempo, ma ancora ci sfugge l’insieme del problema. Non abbiamo ben chiaro che il sistema giudiziario americano è un costoso disastro. Un disastro razzista e classista, ammantato di superbia e disinformazione. Un sistema che funziona solo grazie alla brutalità del suo pressappochismo giudiziario.

Ogni anno, anche se la metà dei crimini gravi non è denunciata, le 18.000 diverse agenzie di polizia americane compiono 15 milioni di arresti. Questa immensa massa spezzerebbe le reni a qualsiasi sistema giudiziario, ma non al Tritacarne americano, perché il processo, che da noi è la norma, negli Usa è l’eccezione e riguarda solo 155.000 casi all’anno (un terzo sono cause civili).

Il nostro obsoleto concetto di giustizia prevede che sia un processo a stabilire se è stato commesso un crimine, che tipo di crimine, da chi e che pena debba costui eventualmente soffrire. Nulla di tutto questo accade negli Usa dove è il District Attorney a decidere se iniziare l’azione legale e contro chi, se portarla avanti e per quali capi d’imputazione, se patteggiare o garantire l’immunità, se andare al processo e se proporre alla giuria le lesser included offences.

Questa pressoché assoluta libertà di azione (e di ricatto) si traduce nel trionfo del patteggiamento con cui si ottengono il 96% delle condanne per i felonies e il 60 di quelle per omicidio.

Le 3.000 Trial Courts of general jurisdiction hanno quindi una funzione decisamente minore rispetto a quella delle nostre corti di giustizia, ma, come se non bastasse, alla base del sistema giudiziario americano ci sono 13.500 Trial Courts of Limited Jurisdiction (indicate con una miriade di nomi diversi) che sbrogliano sommariamente 90 milioni di misdemenours e piccole cause civili l’anno, facilitate dal non dover tenere un verbale (courts not of record) e dal fatto che la presenza di un avvocato difensore non è normalmente prevista e spesso nemmeno consentita (anche perché spesso quei giudici non sono nemmeno diplomati).

La serenità del sistema giudiziario americano è poi assicurata dal fatto che le giurie non devono motivare verdetti e sentenze (devono raggiungere l’unanimità) e dalla inesistenza dell’appello, almeno per come è concepito in Italia. Esso infatti non è un diritto costituzionale e solo i condannati a morte hanno la certezza che la loro condanna sarà riveduta da una corte superiore (che culo, vero?). Per tutti gli altri la possibilità di revisione è estremamente remota, tanto che in una dozzina di stati le corti d’appello nemmeno ci sono.

Nel 2004, su 45 milioni e duecentomila procedimenti giudiziari (civili, penali, juveniles, family courts, ecc.) nelle Courts of general jurisdiction, i casi in appello erano appena 273 mila. In ogni caso l’appello non consiste nel rifacimento del processo, ma nella revisione formale del verbale del dibattimento e può diventare una messa cantata pluridecennale, con cause civili che durano trent’anni, come da trent’anni c’è chi aspetta il boia, ma normalmente la faccenda è piuttosto sbrigativa.

Questo sistema non garantisce una "giustizia giusta" o un minimo di equità. La semplice lettura dei giornali americani ci mostra quotidianamente come la giustizia sia, a tutti i livelli, "arbitrary and capricious", con alcuni che finiscono all’ergastolo per reati da quattro soldi e assassini che non stanno in prigione più di dieci minuti.

Negli ultimi trent’anni, non per caso in coincidenza del ritorno del boia, gli americani hanno imprigionato sempre più gente per periodi di tempo sempre più lunghi e questo ha prodotto il più grande esperimento di incarcerazione di massa dai tempi di Stalin. Ogni giorno, nelle più di 5.000 galere dell’American Gulag, si stipano, in condizioni spesso atroci, 2 milioni e cinquecentomila persone. Un milione e seicentomila sono nelle prigioni statali e federali (trent’anni fa erano 300.000).

130.000 sono ergastolani, di cui un quarto LWOP e fra questi 3.000 sono minorenni, alcuni dei quali avevano 13 anni al momento del crimine. Altri 300.000 stanno scontando condanne nelle County Jails, dove in 500.000 sono in attesa del processo. Più di 100,000 sono i minorenni in riformatorio e 30.000 quelli nelle carceri per adulti.

Le donne detenute sono 200.000 e spesso si ha notizia di una di loro costretta a partorire ammanettata mani e piedi. Il 6% degli americani ha gravi problemi mentali, ma per i detenuti si passa al 20% e le carceri, con 500.000 malati mentali, sostituiscono gli ospedali psichiatrici. Un adulto americano ogni cento risiede nel Tritacarne, ma per i neri si passa a dieci. Se prendiamo in considerazione anche i 5 milioni in probation e parole arriviamo ad un adulto ogni 31. Se consideriamo anche i 5 milioni di felons che hanno perso i diritti civili e i bambini che hanno almeno un genitore in prigione arriviamo a 15 milioni di persone: un ventesimo della popolazione americana. La metà abbondante dei paesi rappresentati alle Nazioni Unite non ha tanti abitanti.

Il turnover è impressionante: nel 2003 è stato di 2.200.000 persone nella probation e di 600.000 nelle carceri. Incalcolabile quello nelle jails. Il Gulag cresce di mille unità a settimana. Ogni anno il Tritacarne ingoia più detenuti di quanti ne contiene tutto il sistema penale italiano.

Gli Stati Uniti d’America detengono il record mondiale di un carcerato ogni 120 abitanti, con un tasso di detenzione di 833 per 100.000, ma, se contiamo anche quelli in libertà vigilata, arriviamo a un condannato ogni 40 abitanti e a un tasso di 2.500 per centomila. I neri sono il 13% della popolazione, ma forniscono la metà dei carcerati. Un terzo dei ventenni di colore è in prigione o in libertà vigilata e il loro tasso d’incarcerazione è di 13.000 per centomila, mentre per i loro coetanei bianchi è di 1.700. Ogni giorno 50.000 persone entrano nel Tritacarne. Alcuni per pochi minuti, altri per sempre.

Usa: 11enne uccide la fidanzata del padre incinta poi va a scuola

 

Associated Press, 23 febbraio 2009

 

Ha freddato la fidanzata incinta del padre con un colpo alla nuca, mentre riposava nel letto della casa in cui vivevano in Pennsylvania, negli Stati Uniti. Poi, come se nulla fosse, ha preso lo scuola bus ed è andato a lezione. L’assassino è un bambino di 11 anni, Jordan Brown, che è stato incriminato come un adulto per l’omicidio della 26enne Kenzie Marie Houk, all’ottavo mese di gravidanza. Lo ha annunciato in conferenza stampa il procuratore distrettuale della contea di Lawrence, John Bongivengo.

Parenti e amici della vittima, che si sono radunati nella notte nell’abitazione dei genitori, hanno raccontato che la donna aveva avuto problemi in passato con il figlio del compagno. "È stata una questione di gelosia", ha dichiarato il cognato della Houk, il 34enne Jason Kraner, "Ha davvero raccontato a mio figlio che voleva farle questo". Brown, figlio del fidanzato e convivente della vittima, è stato incriminato per omicidio e omicidio di un nascituro, ha spiegato Bongivengo. È detenuto nel carcere della contea di Lawrence ed un’udienza preliminare è stata fissata per giovedì. Il bambino è stato prelevato dalla scuola venerdì dagli agenti della polizia di stato della Pennsylvania, che hanno trovato il cadavere della Houk su segnalazione dell’altra figlia di quattro anni.

Grecia: due detenuti evadono in elicottero, per la seconda volta

 

Ansa, 23 febbraio 2009

 

Il criminale greco più celebre del paese, Vassilis Paleocostas, e un complice albanese sono evasi in elicottero dal carcere di massima sicurezza di Korydallos, vicino ad Atene. Per la seconda volta.

Stando alle reti tv Antenna e Alpha i due sarebbero fuggiti intorno alle 15.30 di oggi ora locale (le 14.30 in Italia). I due si sono serviti di una scaletta di corda lanciata dall’elicottero. Le guardie carcerarie hanno aperto il fuoco ma senza riuscire a impedire l’evasione. Il velivolo è stato poi ritrovato nella regione di Kapandriti, a nord della capitale. Il 42enne Paleocostas, condannato per sequestro e rapina a mano armata, e il suo complice Alket Rizaj (mafioso di 34 anni in carcere per omicidio) erano già fuggiti dalla stessa prigione nel giugno 2006. Rizai era stato riarrestato nell’agosto 2006 e Paleocostas la scorsa primavera.

Spagna: ordine è "arrestate almeno 35 immigrati alla settimana"

 

Redattore Sociale - Dire, 23 febbraio 2009

 

Un Commissariato di Madrid riceveva ordini di arrestare una quota settimanale di immigrati senza documenti. Polemica in Spagna dopo la scoperta che un commissariato di Madrid riceveva ordini di arrestare una quota settimanale di immigrati senza documenti. Secondo i sindacati di polizia è una pratica diffusa in tutto il paese. Dove i controlli a campione si fanno in base alla carnagione.

Questa settimana si è scoperto che gli agenti di un Commissariato di Madrid hanno ricevuto l’ordine di arrestare ogni settimana una determinata quota di immigrati in situazione irregolare, 35 per la precisione. La circolare ufficiale sottolinea che se non si raggiunge la quota nella zona si può andare a cercare in altri quartieri.

Esistevano sospetti sulla messa in atto di questa pratica, sebbene il ministro dell’Interno Alfredo Perez Rubalcaba lo abbia smentito in Senato lo scorso 10 febbraio: una settimana prima che i sindacati della polizia la denunciassero come "abituale" in tutta la Spagna.

Non c’è dubbio sull’esistenza di quest’ordine, né sul fatto che sia abusivo. Quello che resta da stabilire è se si tratta di un eccesso di zelo da parte dei funzionari, di una pratica circoscritta a Madrid o se è applicata in tutto il paese.

Le leggi non specificano che mezzi la polizia deve adottare per fare in modo che si rispettino, il che apre uno spazio di discrezionalità da utilizzare con scrupolo perché in esso si gioca l’essere o no uno Stato di diritto. E quello che dimostra l’ordine del commissariato di Vallecas così come la sua applicazione pratica, constatata da questo giornale nelle strade, è che la polizia ha usato come criterio l’identificazione tra immigrazione e delinquenza.

I controlli nelle strade si fanno sulla base dell’apparenza di essere stranieri, e vengono detenute solo le persone che non hanno i documenti. Ma non avere i documenti è una irregolarità amministrativa e perché la polizia possa arrestare qualcuno devono esistere indizi di delitto. Non avere i documenti non significa perdere i diritti personali elementari.

 

 

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