Rassegna stampa 13 febbraio

 

Giustizia: la Costituzione è una "corazza" contro la dittatura

di Giorgio Bocca

 

La Repubblica, 13 febbraio 2009

 

Ci sono due recenti dichiarazioni pubbliche del premier Berlusconi che servono a capire il personaggio e il suo populismo: che Eluana Englaro dopo diciassette anni di vita artificiale potesse partorire, e che i costituenti italiani del 1948 erano degli stalinisti che s’ispiravano alla costituzione dell’unione Sovietica. Due dichiarazioni che sono la negazione dell’impossibilità umana di sopravvivere alla morte della coscienza e dell’intelligenza, e la negazione della dittatura come annullamento della democrazia.

Generazioni di comunisti europei hanno saputo benissimo, sin dalla sua promulgazione nel 1936, che la costituzione staliniana era un sogno e un’impostura per coprire la dittatura, che il socialismo reale era quello dei piani quinquennali e della modernizzazione forzata, ma nella convinzione e nella speranza che quello fosse il solo percorso possibile.

Come Togliatti scrisse in risposta alle critiche di Gramsci: "Dobbiamo riconoscere che l’azione del partito comunista russo, la rivoluzione russa sono stati il più grande fatto di organizzazione e di propulsione delle forze rivoluzionarie. Oggi questa propulsione è ancora attiva e crescente nel proletariato mondiale, all’evidenza è ancora attiva nelle classi operaie del mondo, nel mondo intero c’è la convinzione che in Russia, dopo la conquista del potere, il proletariato può costruire il socialismo e sta costruendolo".

Nella generazione dei comunisti dell’era staliniana restava cioè la profonda convinzione che con tutte le sue deviazioni autoritarie Stalin restava nel profondo un socialista, e che la dittatura sovietica, nonostante i suoi spaventosi prezzi, aveva tenuta aperta la via al socialismo, come era stato confermato dalla vittoria contro il nazismo. Siamo cioè di fronte a uno dei grandi paradossi della storia: i comunisti europei sanno che il socialismo in un solo paese si è trasformato in una dittatura spietata, ma pensano che sia ancora possibile riparare l’errore di percorso, costruire un socialismo democratico.

Togliatti è il testimone politico più autorevole di questa ambiguità. Rappresentante del Comintern in Spagna durante la guerra civile, detta i tredici punti di una costituzione repubblicana che entrerà in vigore a guerra vinta contro il franchismo: autonomie regionali, rispetto della proprietà e dell’iniziativa private, e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il franchismo, ingresso della Spagna nella Società delle Nazioni, amnistia per tutti gli spagnoli che hanno partecipato alla guerra di liberazione. In sintesi il progetto di rimettere assieme un paese diviso fra anarchici, socialisti, comunisti e conservatori, un paese, si badi, dove la polizia politica stalinista continuava ad arrestare e fucilare i nemici, presunti o reali.

La costituzione togliattiana fu naturalmente criticata sia dalla sinistra trozkista come un tradimento della rivoluzione, sia dai conservatori come un cavallo di Troia dello stalinismo. Ma essa resta nel 1938 come uno dei punti più alti del rilancio democratico. Aggiungiamo che anche il cinico Togliatti si era illuso sulla possibilità di correggere lo stalinismo: è proprio di quell’anno la svolta machiavellica di Stalin, che cessa gli aiuti alla rivoluzione spagnola per preparare le nuove alleanze con le grandi democrazie minacciate dal nazismo. Sconfitto in Spagna il riformismo togliattiano ritorna nell’Italia democratica dopo il ‘45, e questa volta è l’intero arco costituzionale, dai comunisti ai democristiani ai liberali, in un paese che ha conosciuto la ferocia nazista, a volere una costituzione democratica, di cui Piero Calamandrei può dire "lo spirito della Costituzione deve tradursi in questi caratteri essenziali: la democrazia come sistema politico delle libertà, e il lavoro come sostanza di una libertà non solo formale. In sostanza il programma dei fratelli Rosselli e del movimento Giustizia e libertà". Il progetto spagnolo di costituzione scritto da Togliatti deve adattarsi al mutamento della società italiana: il partito comunista e le sue pretese egemoniche sono state fortemente ridimensionate dalle elezioni, il primo partito italiano è il socialista seguito dal democristiano, il peso dei cattolici nella società italiana è determinante, e il partito comunista ne prende atto facendo approvare anche ai compagni più riottosi l’articolo sette, cioè la conferma dei patti lateranensi che riconoscono alla chiesa una posizione di assoluto privilegio.

Due compagni, La Noce e Terracini, negano il loro voto, ma il partito compatto approva. E qui si chiude il mito del partito della rivoluzione o della "terza ondata", che ancora turba i sogni del nostro premier, e che viene ripetuto sino all’ossessione nella sua propaganda elettorale. La Costituzione repubblicana e democratica non è nata solo da un accordo politico fra i partiti. È nata dalla guerra di liberazione, dalla presa di coscienza che il paese era socialmente imperfetto e antico, che l’Italia regia e fascista aveva compiuto una modernizzazione tecnica e in parte economica, ma non aveva risolto le divisioni sociali, restava una società divisa in cui gli operai, i contadini e in genere i poveri restavano diversi anche nel modo di vestire, di parlare, e persino nel pubblico passeggio, oltre che nella giustizia e nei diritti umani. La guerra partigiana non fu una rivoluzione politica, ma come guerra di popolo, a cui partecipavano italiani di ogni ceto, fu una rivoluzione sociale, per fare finalmente del popolo italiano un popolo unito.

I critici della Costituzione si dividono fra quelli che la giudicano troppo prudente e quelli per cui è troppo avanzata. È difficile però disconoscerne i meriti, essa è stata nel dopoguerra una corazza che ha protetto il paese da cedimenti autoritari, da ipocrisie populistiche e demagogiche, cioè dalle tentazioni cui il nostro premier spesso cede.

Giustizia: Alemanno; custodia cautelare e... certezza della pena

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 13 febbraio 2009

 

Roma. È capodanno. Una ragazza viene violentata. Iniziano le indagini e dopo poco un coetaneo confessa di aver abusato, in preda all’alcol e alla droga, di quella povera ragazza.

Il Pm di Roma, analizzati i pericoli in concreto, chiede e ottiene gli arresti domiciliari per l’indagato. Insorge il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. "No agli arresti domiciliari per i colpevoli di violenza sessuale!". Ed ancora: "I magistrati non assumano decisioni che possano sembrare atti di clemenza nei confronti dei responsabili di reati".

Difficile capire cosa voglia dire Alemanno. Difficile comprendere cosa c’entri l’accertamento di colpevolezza con l’applicazione di una misura cautelare nei confronti di un presunto non colpevole. Difficile cogliere il significato dell’appello rivolto ai magistrati.

Quasi un monito a non applicare la legge. Legge che impone di graduare la scelta della misura cautelare in base alle esigenze oggettivamente riscontrate. Insomma, affermazioni irragionevoli e giuridicamente errate. Affermazioni fatte in nome della c.d. certezza della pena. Certezza della pena che in verità non c’entra nulla con il carcere prima del processo.

Con la detenzione di un indagato. Chi è indagato non è "colpevole", ma è presunto non colpevole. Spetterà al giudice del processo, e solo a lui, pronunciarsi circa la colpevolezza. La pena certa, non è quella di una giustizia sommaria, fatta a colpi di misure cautelari. Certezza delle pena significa processare in tempi brevi un imputato e, nel caso di condanna, irrogare la giusta sanzione.

Giustizia: quanto deve durare il processo? esperti a confronto

 

www.radiocarcere.com, 13 febbraio 2009

 

Ecco le risposte di avvocati, magistrati e politici.

Il problema centrale della nostra giustizia è la sua lentezza. Una lentezza che rende ingiuste le sentenze, sia di assoluzione che di condanna. Una lentezza che genera nei cittadini una profonda sfiducia e un profondo senso di insicurezza. In base alla classifica stilata dalla Banca Mondiale, l’Italia è al 156° posto per l’eccessiva durata dei processi. Prima di noi c’è l’Angola, il Gabon e la Guinea. I questi paesi i processi durano meno che da noi. Per affrontare concretamente il problema e individuare le soluzioni, abbiamo posto ad avvocati, magistrati e politici due domande.

1) Dopo quanto tempo deve intervenire una sentenza definitiva di condanna?

2) Qual è la prima riforma da fare per raggiungere questo obiettivo?

 

Giulia Bongiorno

 

I tempi attuali di durata del processo penale, 6 o 7 anni, sono inaccettabili e idonei a una civiltà preistorica del diritto. Occorre ridurre l’irragionevole durata del processo, intervenendo innanzitutto sulla concentrazione delle udienze dibattimentali.

Le udienze si devono svolgere con cadenza settimanale (anche due volte a settimana) e non con ampi rinvii come accade ora. Incrementare la concentrazione delle udienze consentirebbe di tradurre in mesi - e non più in anni - la durata del primo grado di giudizio. Inoltre, è necessario incidere sui tempi delle indagini preliminari, le quali devono avere una durata certa: non è ammissibile che una persona resti indagata per molti anni senza un giustificato motivo. Senza rinunciare alla garanzia dell’appello, è necessario ridisegnare il sistema delle impugnazioni soprattutto incidendo su quelle impugnazioni inutili e dilatorie. Infine, per dimezzare i tempi attuali dei processi servono più risorse. Oggi troppo spesso il sistema giudiziario si blocca perché mancano cancellieri o mezzi e strutture adeguate.

 

Luciano Violante

 

Processi particolarmente complessi, come quelli per mafia e terrorismo, dovrebbero arrivare a una sentenza definitiva entro 4 anni. Invece la durata ragionevole di processi meno complessi dovrebbe essere assai minore. È prioritario ridurre il numero dei tribunali. Non solo. I tempi della giustizia non sono uguali in tutta Italia. La durata media di un processo civile nel Sud è di 1209 giorni, nel Nord di 842. Occorre intervenire sulle cause di queste inefficienze e esportare i modelli organizzativi virtuosi. Se non si interviene sulle cause strutturali dell’inefficienza le riforme normative saranno inutili.

 

Nello Rossi

 

Penso che, in un paese civile, un processo normale, celebrato con il rito ordinario, non dovrebbe durare più di 2 o 3 anni. Per realizzare questo obiettivo occorrerebbe conferire (finalmente!) assoluta centralità al giudizio di primo grado, imperniato sulla oralità e sulla formazione della prova in contraddittorio, ridurre i termini delle indagini preliminari, introdurre una prescrizione di tipo "processuale" o ancorata solo al primo grado di giudizio. Sul versante delle impugnazioni, alla scelta di precludere l’appello del pm avverso le sentenze di assoluzione, dovrebbero accompagnarsi la previsione di un filtro di ammissibilità dell’appello dell’imputato, una struttura più rigorosa e circoscritta dell’atto di appello, limiti temporali per far valere le nullità processuali e la limitazione del controllo di legittimità della Cassazione alle violazioni di legge. Intorno a questo asse centrale dovrebbero ruotare ulteriori misure di razionalizzazione quali l’accorpamento dei piccoli tribunali per giungere a dimensioni più efficienti ed un largo utilizzo dell’informatica e della telematica, in particolare per le notifiche via e-mail agli avvocati.

 

Oreste Dominioni

 

Credo che il tempo ragionevole di un processo dovrebbe essere di 2 o al massimo tre 3 anni.

Un obiettivo impossibile da raggiungere con l’attuale processo penale la cui durata è irragionevolmente lunga.

Per questa ragione serve una riforma veramente innovativa. Una riforma che elimini drasticamente i tempi morti, ovvero quelli di attesa, che oggi rendono il processo, nelle sue diverse fasi, troppo lungo. Inoltre, penso che si debba intervenire sulle impugnazioni. Un sistema che va totalmente ripensato perché così come è congeniato non è fonte di garanzia, né per l’accusa né per la difesa, per avere una sentenza più giusta, ma è soltanto causa di lungaggini e di reiterazione di giudizi. Giudizi spesso insipienti non tanto per colpa dei giudici ma per i meccanismi processuali.

Infine, serve sia una migliore capacità organizzativa del lavoro dei magistrati, ma occorre anche diminuire il carico dei processi inserendo la norma sull’irrilevanza penale del fatto. Fare meno processi, ma farli meglio e più rapidamente.

 

Enrico Marzaduri

 

Un anno, un anno e mezzo, dovrebbe essere la durata ragionevole perché si arrivi a una sentenza definitiva. Per arrivare a questo risultato però occorre ripensare integralmente il sistema processuale. Nel nostro sistema, infatti, a differenza di quanto avviene in Inghilterra, dove il ricordo del processo più lungo riguarda un processo durato 2 anni, nell’ipotesi migliore si arriva ad una condanna definitiva dopo 4 o 5 anni.

Serve dunque un nuovo modello processuale che si muova su alcune linee guida come una maggiore organizzazione del lavoro dei magistrati e una più efficiente distribuzione dei tribunali. Allo stesso tempo si impone una forte depenalizzazione, un maggior ricorso ai reati perseguibili a querela, ma anche un maggior coraggio a utilizzare le regole che portano all’archiviazione o alla sentenza di non luogo a procedere. Insomma più deflazione processuale e più deflazione sostanziale.

 

Carlo Citterio

 

Tre anni, o al massimo 4, sarebbe il periodo di tempo ideale per concludere un processo.

Per raggiungere questo traguardo è necessario rafforzare il ruolo centrale del giudizio di primo grado e rivedere il sistema delle impugnazioni. Penso quindi a un giudizio di primo grado con spazio per ogni contraddittorio sulla prova e con massima, indispensabile, concentrazione delle udienze, dove in tempi ravvicinati si assumono le prove richieste dalle parti e interviene la decisione del giudice.

Rafforzato il primo giudizio, non avrebbe più senso un appello generalizzato sulle carte, come avviene oggi. Più coerente prevedere un secondo grado di giudizio limitato solo alle doglianze serie, con il filtro preliminare della Corte che valuti la possibile fondatezza dell’appello. Per tutti solo il ricorso in cassazione per violazione di legge.

 

Fabio Lattanzi

 

Sei mesi, un anno, lo stesso tempo che occorre nei paesi anglosassoni per arrivare ad una decisione esecutiva. Obbiettivo realizzabile sia attraverso modifiche normative sia organizzative. Incentivare realmente i riti speciali e modificare sostanzialmente il sistema delle impugnazioni. Organizzare in modo tale che ogni giudice conduca a termine un processo prima di iniziarne un altro. Un numero minore di processi che si concludono piuttosto che un numero maggiore che non arriva alla conclusione.

Giustizia: Mancino; intercettazioni, il Csm non è terza Camera

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 13 febbraio 2009

 

Mentre la Camera prevede di licenziare il Ddl Alfano sulle intercettazioni il Csm rinvia a martedì il voto definitivo sul parere critico al ddl della VI commissione. Mancino ha ripetuto che il "Csm non è la terza Camera e che ha rispetto per il Parlamento" osservando che sul ddl intercettazioni c’è anche un giudizio positivo su alcuni articoli.

Il problema segnalato da Mancino - nel momento in cui i Pm e la polizia giudiziaria dovranno modificare il loro lavoro perché le intercettazioni, come confermato dal voto in commissione Giustizia della Camera, scatteranno solo se già ci sono "gravi indizi di colpevolezza - viene ribadito anche dal togato Giuseppe Berruti (Unicost).

Tuttavia, la strada è ormai tracciata anche se ieri sera il Pdl non è andato oltre l’approvazione dell’art. 4 (su 17). Sull’articolo 4 - intercettazioni autorizzate in presenza di gravi indizi di colpevolezza - Federico Palomba (Idv) osserva: "Questa norma mette lo Stato nell’impossibilità di individuare i responsabili dei reati". È grave, insiste il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti che il governo voglia limitare pesantemente il diritto di cronaca e anche il Csm parla di divieti incostituzionali per la stampa.

Giustizia: intercettazioni, scatta il divieto di pubblica opinione

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 13 febbraio 2009

 

Quante storie, con i nomi, i tempi, le frasi e gli esiti giusti non potrete conoscere mai, se dovesse essere approvata la legge sulle intercettazioni che disciplina anche il diritto di cronaca. Diciamo meglio, che cancella il dovere della cronaca e il diritto del cittadino ad essere informato. Che cosa ha imposto il governo alla sua docile maggioranza?

Con un tratto di penna ha deciso che il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto si estenda anche agli atti non più coperti dal segreto. Il governo vuole che non si scriva un rigo fino al termine dell’udienza preliminare (accusa e difesa, con i loro argomenti, dinanzi a un giudice terzo). Si potrà sapere che un pubblico ministero senza nome sta accertando che a Roma le sentenze si vendevano all’incanto.

Non si potrà dar conto delle fonti di prova e scrivere che il corruttore di toghe si chiama Cesare Previti e si è messo in testa addirittura di fare il ministro di giustizia. Si potrà scrivere che qualcosa non torna nei bond di una società quotata in Borsa e un’innominata toga se ne sta occupando, ma non si potrà dire del pozzo nero che ha inghiottito i modesti investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia nelle banche e in Parmalat. Si potrà dar conto di un gestore telefonico che ha "schedato" illegalmente migliaia di persone. Non si potrà raccontare che il presidente della Telecom Marco Tronchetti Provera si è lasciato ingrullire, povero ingenuo, dal capo della sua sicurezza, Giuliano Tavaroli.

Né tantomeno si potranno elencare i nomi degli "spiati". Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci. La pubblica opinione dovrà attendere, anche se quei protagonisti sono personaggi pubblici che chiedono fiducia al Paese per rappresentare chi vota e governare il Paese o amministratori pubblici e privati a cui è stata affidata la nostra salute, i nostri risparmi, la nostra vita. È inutile tediarvi con le tecnicalità.

Qui basta forse dire che finora ce la siamo cavata muovendoci lungo il sentiero stretto di un articolo della procedura penale, il 329: "Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari". Come abbiamo scritto e ripetuto spesso, in questo varco hanno lavorato le cronache.

Sarebbe uno sciocco errore negare gli abusi, gli eccessi, la smoderatezza in cui pure è caduto il giornalismo italiano. Ma, se si rispettano i confini dell’articolo 329, si possono tenere insieme i tre diritti che il dovere professionale del giornalista è chiamato a tutelare: il diritto della pubblica opinione a essere informata; il diritto dello Stato a non vedere compromessa l’indagine; il diritto dell’imputato a difendersi e a non essere considerato colpevole fino a sentenza. Nel triangolo di questi tre diritti, il giornalista può fare con correttezza il suo mestiere, proporre al lettore le fonti di prova raccolte dall’accusa e gli argomenti della difesa, valutare l’interesse pubblico di quelle storie.

Perché non ci sono soltanto responsabilità penali da illuminare in questi affari. Spesso diventano cronache del potere tout court, come è apparso evidente nel racconto dei maneggi della loggia massonica di Licio Gelli; della fortuna della mafia siciliana o dei traffici di Tangentopoli, delle imprese di chirurghi più attenti al denaro che non al malato e alla malattia. Quelle cronache sono un osservatorio che permette di vedere da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società.

Svelano quale tenuta ha per tutti, e soprattutto per coloro che svolgono funzioni pubbliche, il rispetto delle regole. Indicano spesso problemi che impongono nuove soluzioni. L’incontro ravvicinato con le opacità del potere ha in qualche caso convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto.

È il suo mestiere, piaccia o non piaccia. Perché non c’è nessuna ragione accettabile e decente per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - è il caso di un governatore della Banca d’Italia - come un’autorità di vigilanza, indipendente e "terza", protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato. Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze.

È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. È stato già raccontato da Repubblica che Berlusconi abbia sorriso ascoltando i suoi consiglieri chiedere "più galera per i giornalisti" (fino a sei mesi per un documento processuale; fino a tre anni per un’intercettazione). Raccontano che Berlusconi abbia detto: "Cari, lasciate dire a me che sono editore di mestiere. Se li mandi in galera, ne fai degli eroi della libertà di stampa e magari il giornale per cui lavorano vende anche di più, e questo sarebbe uno smacco. La galera è inutile. So io, da editore, quel che bisogna fare?".

Ecco allora l’idea che sta per diventare legge dello Stato. Efficace, distruttiva. Che paghino gli editori, che sia il loro portafogli a sgonfiarsi. La trovata sposta la linea del conflitto. Era esterna e impegnava la redazione, l’autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, redazioni e proprietà editoriali.

La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L’editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si porta così le proprietà a intervenire nei contenuti del lavoro redazionale, le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi dei contenuti, della materia giornalistica vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo pretende addirittura che l’editore debba adottare "misure idonee a favorire lo svolgimento dell’attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio".

Evidentemente, solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell’attività giornalistica è possibile "scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio". Di fatto, l’editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela. Divieto di cronaca per il tempo presente, controllo dell’editore nelle redazioni in tempo reale.

Ecco dunque lo stato dell’arte: si puniscono i giornali e i giornalisti; si sospende il direttore dall’esercizio della sua funzione; si punisce l’editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi non conoscerete più (se non dopo quattro o sei anni) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che influenzano le nostre stesse vite.

Giustizia: 83% di detenuti stranieri senza permesso soggiorno

di Paolo Arvati

 

L’Espresso, 13 febbraio 2009

 

Su cento stranieri detenuti 83 non hanno il permesso di soggiorno. Il rischio è consegnare una massa di disperati al mondo dell’illegalità.

La recente relazione di apertura dell’anno giudiziario segnala il forte incremento a Genova dei reati degli stranieri: "493 reati in tema di stupefacenti, 17 per violazione di norme sulla prostituzione, 675 furti, 161 rapine, 1.204 violazioni delle norme in tema di immigrazione". Quasi la metà dei 2.550 reati pendenti a carico di stranieri è quindi attribuibile alla condizione stessa di immigrato irregolare: una bella statistica "tautologica", non c’è che dire. Questo esempio mostra l’esigenza di un approccio rigoroso a statistiche particolarmente insidiose come quelle giudiziarie.

Ci aiuta una recente ricerca di Marzio Barbagli ("Immigrazione e sicurezza in Italia", Il Mulino). Chi sostiene la tesi secondo cui i fenomeni migratori provocano un forte aumento della criminalità, cita spesso la crescita degli immigrati nella popolazione carceraria. Crescita indubbia, perché la quota di stranieri sul totale dei detenuti è passata a livello nazionale dal 15,1% del 1991 al 37,5% del 2007. Vi sono però molti buoni motivi per considerare questo come il meno affidabile degli indicatori. A parità di reato commesso infatti, la custodia cautelare è imposta molto più spesso agli stranieri, proprio perché quasi tutti irregolari. A parità di pena inoltre, gli stranieri godono molto meno degli italiani delle misure alternative e di pene sostitutive alla detenzione.

Indicatori più "sicuri" sono invece quelli delle quote di stranieri sul totale dei denunciati e dei condannati, quote in aumento per tutti i reati, lievi e gravi, specie nelle grandi città. Per esempio in Liguria gli stranieri denunciati per droga salgono dal 15% del 1988 al 53% del 1998, per poi scendere al 36% del 2007. A Genova, nello stesso periodo, si passa dal 21% del 1988 al 59% del 1998 al 41% del 2007. La presenza straniera è ovviamente maggiore nello strato più basso dello spaccio, ma è consistente anche nel segmento più alto della produzione e del traffico, a segnalare la forza delle reti di criminalità organizzata. Lo stesso fenomeno avviene per le estorsioni e soprattutto per il mercato della prostituzione e, in generale, per il traffico di immigrati.

La stragrande maggioranza della criminalità straniera è composta di irregolari, che costituiscono l’83% degli stranieri detenuti. Nel 2007 su 100 persone denunciate per borseggio, 32 sono italiani, 14 stranieri regolari, 54 irregolari. Ancora minore (2,4%) è l’incidenza dei regolari nei reati di droga.

A parità di condizione economica - osserva Barbagli - gli immigrati regolari delinquono con la stessa frequenza degli italiani, mentre la crescita della criminalità degli irregolari è favorita dall’inefficienza dei controlli, a partire dal "fiorente, enorme settore dell’economia informale". Ma l’analisi dei dati riserva grosse sorprese, a partire da quella che in tanti delitti gli immigrati sono più colpiti degli italiani. I rischi di "vittimizzazione" sono superiori di cinque volte a quelli degli italiani per rapine e borseggi e più di tre volte per lesioni dolose, violenze sessuali e anche omicidi. Questo perché la criminalità "in-group" è nettamente superiore a quella "inter-group".

Non è certo la prima volta nella storia che si registra una preoccupazione di massa per la criminalità degli immigrati. Fu così negli Stati Uniti nel primo trentennio del secolo scorso e nell’Europa nel secondo dopoguerra (in primo piano eravamo noi italiani). È così ancora in Europa dagli anni Settanta in poi. Ciò che fa la differenza tra quei paesi in quei momenti storici e l’Italia d’oggi è l’attuale inaudito sfruttamento politico del fenomeno, sino a prefigurare con le recenti leggi per la sicurezza una nuova Costituzione non ancora scritta che disegna una società di diseguali, privati dei diritti universali alla salute e alla dignità della persona. Con il rischio paradossale di consegnare una massa crescente di disperati proprio a quella criminalità organizzata che dovrebbe essere più efficacemente combattuta e che invece si troverà a gestire non solo i traffici illeciti, ma anche le abitazioni, i risparmi e finanche la salute degli "irregolari".

Giustizia: pedofilia; dal Pdl un ddl per la "castrazione chimica"

 

Redattore Sociale - Dire, 13 febbraio 2009

 

"Le pene che il codice penale prescrive contro le violenze e gli abusi sessuali sui minori sono del tutto insufficienti". È necessaria "un’azione clinica su coloro che si rendono colpevoli di reati sessuali sui minori". È quanto sottolinea la senatrice Cinzia Bonfrisco (Pdl) nella relazione introduttiva al ddl da lei presentato al Senato e assegnato ieri in commissione Giustizia, precisando che questa richiesta "non è espressione di intolleranza bensì volontà di eliminare la possibilità che coloro che si sono macchiati di tali reati possano ripeterli. Del resto, procedure in tal senso sono già previste dagli ordinamenti di paesi e stati considerati ad alto tasso di democrazia quali, ad esempio, gli Stati Uniti, la Germania o la Danimarca".

Ecco quindi che all’articolo 1 del ddl si prevede che "chiunque è stato riconosciuto colpevole, con sentenza passata in giudicato", dei reati di violenza carnale, o di atti di libidine violenti, o di ratto a fine di libidine su dei minori, "è sottoposto al trattamento del blocco androgenico totale attraverso la somministrazione di farmaci analoghi dell’LH-RH ovvero metodi chimici e farmacologici equivalenti". Il che, in sostanza, è l’equivalente della castrazione chimica. Come spiegano alcuni testi medici, dove si legge in merito agli analoghi dell’LH-RH: "Questi producono inizialmente un aumento di LH e FSH, seguito da una down regulation dei recettori ipofisari con conseguente castrazione chimica".

Sempre all’articolo 1, poi, si spiega che "il blocco androgenico totale è adottato in luogo delle pene previste dal codice penale". Tuttavia, si precisa, "qualora il giudice ritenga particolarmente grave il fatto commesso, può comunque comminare anche le pene".

Seguono gli altri articoli della legge: "L’articolo 2 prevede che sia il giudice, nella sentenza, a disporre la sottoposizione al trattamento, a stabilire il metodo da applicare, ad indicare la struttura sanitaria pubblica che dovrà eseguire l’intervento, nonché ad individuare l’ufficio di polizia giudiziaria che deve, in un certo senso, certificare l’avvenuta somministrazione dei farmaci. Nell’ipotesi in cui il condannato si sottragga all’esecuzione della pena ovvero non si presenti presso l’ufficio di polizia giudiziaria. L’articolo 3 prevede che le competenti autorità devono immediatamente notificare l’accaduto al giudice, il quale ordinerà, a norma dell’articolo 205 del codice penale, le opportune misure di sicurezza".

Infine, all’articolo 4, "è prevista la possibilità che l’imputato, prima della fine del processo possa decidere di sottoporsi volontariamente al trattamento previsto dalla legge, facendo in tal modo, estinguere la pena".

Lettere: i detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 13 febbraio 2009

 

Il degrado del carcere di Tolmezzo. Caro Riccardo, mi trovo nel carcere di Tolmezzo dall’aprile del 2008 e ti dico che mai ho visto un carcere che funziona così male. Prima di tutto l’assoluta carenza igienica in cui siamo costretti a vivere.

Le nostre celle sono in condizioni pietose, i musi sono gialli dallo sporco e non vengono ripitturati da tantissimo tempo. Noi detenuti abbiamo fatto anche un esposto in merito, ma la direzione del carcere ci ha risposto che non avevano soldi. Strano, perché i soldi per ripitturare gli uffici li hanno trovati e infatti sono tutti belli nuovi.

Inoltre siamo costretti a dormire su cuscini e materassi scaduti nel 2005. Praticamente è come non averli. Per non dire come sono ridotte le docce, che sono piene di muschio e sporcizia. Non a caso molti di noi hanno preso dei funghi sulla pelle, propria a causa delle cattive condizioni delle docce. Ovviamente, per lavare le nostre celle non ci viene dato nulla né detersivo o sapone. Nulla. Parlare con la direttrice e dirle solo queste cose è impossibile. Come è impossibile parlare con l’educatrice che ci fa le relazioni senza neanche incontrarci. Praticamente ci fa le relazioni in contumacia. Una novità assoluta. Con stima.

 

Gaetano, dal carcere di Tolmezzo

 

Io, detenuto a Sanremo. Caro Arena, ho 66 anni e mi trovo in carcere perché, in un momento di follia, ho ucciso, senza volerlo, la mia convivente. Per questo terribile fatto sono stato condannato a 11 anni e 4 mesi di reclusione, ormai è tanto che sono in carcere e mi mancano solo 3 anni per finire la mia pena. Le scrivo perché prima di arrivare qui nel carcere di Sanremo, sono stato a lungo detenuto nel carcere di Chiavari. Un carcere umano, dove ha un senso scontare la propria pena. Poi, senza motivo, mi hanno trasferito qui nel carcere di Sanremo, che è invece un vero e proprio lager. Il vitto è pessimo, c’è tanto sovraffollamento, non c’è lavoro o la minima assistenza per noi detenuti.

Per esempio io dovrei sistemare la mia pensione eppure non ci riesco perché qui nel carcere di San Remo non c’è nessuno che mi aiuta. Così io, senza soldi non so come fare.

Come se non bastasse non riesco neanche ad avere un permesso premio per andare dalla mia compagna che vive a Genova. Io so che ho sbagliato e so che devo pagare la mia pena, ma non credo sia giusto farmela scontare in questo modo. Per queste ragioni, vorrei essere trasferito nel carcere di Rebibbia di Roma, anche perché a Roma vivono i miei figli e potrei così incontrarli. La ringrazio per avermi dato voce.

 

Silvano, dal carcere di Sanremo

 

All’Ucciardone, in 9 dentro una cella. Caro Riccardo, si fa un gran parlare di rieducazione in carcere, ma qui nel carcere dell’Ucciardone di Palermo non c’è nulla per noi detenuti.

Pensa che su circa 700 detenuti solo una ventina possono fare corsi di formazione, mentre gli altri sono costretti a stare chiusi in cella per 20 ore al giorno. Per noi non c’è neanche la possibilità di andare in biblioteca o soltanto di fare attività sportiva, nulla! Inoltre in una cella fatta per tre detenuti ci stiamo in 9. 9 detenuti dentro una piccola cella, un vero e proprio inferno. Per non parlare delle condizioni igieniche e strutturali di questo vecchissimo carcere. Persino gli agenti di polizia penitenziaria hanno denunciato più volte la presenza numerosa di topi nel carcere dell’Ucciardone, eppure ancora nulla è stato fatto.

Viviamo in celle che hanno i muri grezzi, senza intonaco, e ti assicuro che è desolate vivere in ambienti così degradati. Come le docce, che sono piene di muffa da fare schifo. Non a caso in diverse sezioni del carcere dell’Ucciardone si sente parlare di scabbia, una parola che non dovrebbe sentirsi nel 2009!

Poi manca una minima attenzione per quanto riguarda la divisione tra detenuti sani e detenuti malati. Per farti un esempio, in molte celle ci sono ragazzi con l’Aids, insieme a detenuti sani. E questo genera ovviamente problemi per tutti. Spesso che chi si taglia le braccia e urla, insomma un vero e proprio caos, dive si rischia di impazzire.

Qualcuno di noi ha provato a parlare col direttore, ma per tutta risposta è stato trasferito in un carcere lontano dalla propria famiglia, un modo come un altro per dirci che dobbiamo subire in silenzio. Ci sentiamo alla prossima.

 

Tonino, dal carcere dell’Ucciardone di Palermo

Livorno: il Ministro dell’Ambiente, ci aiuti a "salvare" Pianosa

 

Ansa, 13 febbraio 2009

 

"Siamo fortemente contrari" all’ipotesi che Pianosa torni ad essere un carcere di massima sicurezza come prevede "il disegno di legge sulla sicurezza ora all’esame della Camera" e già approvato dal Senato. Lo scrive al ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, il presidente del parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, Mario Tozzi.

"L’apertura di un carcere - aggiunge Tozzi - comporterebbe costi infrastrutturali enormi, considerate le condizioni di fatiscenza delle strutture dell’isola. Dunque nuova cementificazione, sottrazione del territorio alla natura, alla conservazione della biodiversità, al turismo, alla ricerca scientifica, agli studi archeologici e, non ultimo, alla fruizione dei cittadini".

Inoltre, Tozzi invita il ministro Prestigiacomo a un’azione comune per salvaguardare un patrimonio inestimabile sia sotto il profilo storico perché a Pianosa esiste "il secondo complesso catacombale per importanza a nord di Roma, il paese antico, le ville imperiali romane", che ambientale con "i siti di nidificazione del gabbiano corso, dei Maragoni dal ciuffo e delle Berte" e con "gli straordinari fondali marini classificati come zona a protezione speciale". Oggi il presidente del parco nazionale dell’Arcipelago toscano, Mario Tozzi, ha inviato al ministro dell’ambiente una lettera aperta. Va la proponiamo integralmente.

Onorevole Ministro Prestigiacomo, come certamente saprà, il Disegno di Legge sulla Sicurezza, approvato dal Senato, è ora all’esame della Camera e prevede la riapertura di carceri speciali nelle isole per ospitare in detenuti in regime di 41 bis. Temiamo che, in questo quadro, anche Pianosa rischi di essere chiusa di nuovo alla fruizione dei cittadini e siamo fortemente contrari a questa ipotesi.

L’apertura di un carcere, funzionante con un grosso dispiegamento di agenti e di controlli per la sicurezza, comporterebbe costi infrastrutturali enormi, considerate le condizioni di fatiscenza delle strutture dell’Isola. Dunque nuova cementificazione, sottrazione del territorio alla natura, alla conservazione della biodiversità - nostro comune obbligo istituzionale - al turismo, alla ricerca scientifica (Pianosa Lab, Progetti Life) agli studi archeologici ( l’isola è interamente coperta da vincolo archeologico) e, non ultimo, alla fruizione dei cittadini.

Spostare un mattone su una di queste isole costa forse quattro volte di più che non sul continente. Visto lo stato degli edifici, non si tratta di semplici ristrutturazioni o adattamenti, ma di vere e proprie ricostruzioni, che dovrebbero avvenire in barba a ogni valutazione di impatto, contro i vincoli europei (queste isole sono spesso SIC, Siti di Importanza Comunitaria, Direttiva Habitat e ZPS, Zone di Protezione Speciale, Direttiva Uccelli), quelli dei parchi nazionali e contro la volontà dei cittadini che traggono da quelle isole risorse economiche da non sottovalutare in tempi di magra.

Anzi, è presumibile che il turismo del futuro tenderà a privilegiare proprio quelle zone di pregio ambientale rispetto a tutto il resto. E cosa troverà ? Muri di contenimento fuori misura, filo spinato e torrette di avvistamento, otre all’impossibilità di visita. A Pianosa (a meno di un’ora da Marina di Campo, nell’arcipelago toscano) si perderà così la possibilità di visitare il secondo complesso catacombale per importanza a nord di Roma, o il paese antico o, ancora, le ville imperiali romane, per non parlare dei siti di nidificazione del gabbiano corso, dei Maragoni dal ciuffo e delle Berte o degli straordinari fondali anch’essi ZPS.

L’operazione sarebbe quanto meno antieconomica ed equivalente a voler fare degli uffici pubblici dentro il Colosseo per mancanza di spazi altrove. In termini di costi - benefici sembra una valutazione improponibile e squilibrata, se si considera che priverebbe il mondo di un pezzo della nostra storia. A Pianosa perderemmo un pezzo di rarità naturali dopo che faticosamente è stata riaperta al pubblico. Pianosa attualmente è un carcere con un regime leggero che ben si sposa con la tutela dell’ambiente grazie all’impiego delle risorse umane detenute in attività di manutenzione di riqualificazione agricola e di accoglienza.

Sarebbe inoltre impopolare il taglio dell’opportunità economica, a ridosso di una stagione balneare già critica per la pesante crisi in arrivo, per armatori, guide, agenzie, e strutture ricettive, e anche le già esigue entrate del Parco verrebbero ridotte.

Come presidente del Parco, e come studioso ed esperto di ambiente, le chiedo di essere portavoce di una azione alternativa che coordini i Ministeri competenti a decidere sul futuro dell’Isola di Pianosa in un progetto comune e costruttivo che vada oltre l’immediata soluzione di un problema contingente per la Giustizia, per una visione lungimirante e rispettosa dei dettati comunitari sull’ambiente.

Il Ministero delle Finanze, il Ministero di Giustizia, il Ministero dei Beni culturali e quello dell’Ambiente, nel 2000 proposero un protocollo d’intesa per far rivivere l’isola mettendo a tesoro natura, scienza, cultura, e turismo con progetti di valore. Oggi potremmo, con il suo aiuto, rielaborare e riconvertire l’isola, non a carcere duro, ma a gioiello della natura, già riconosciuto come tale e protetto dalla normativa europea.

Il Parco non è mai riuscito, da solo, a ottenere soluzioni a lunga scadenza per la mancanza di un progetto strategico ministeriale di valorizzazione ambientale sull’isola che inquadrasse tutte le intrecciate competenze istituzionali che insistono su Pianosa. La invito pertanto a visitare l’isola per capire e toccare con mano la grande perdita di natura di quiete e di cultura che dovremmo subire e la grande opportunità per il suo Ministero di lanciare un progetto virtuoso di tutela ambientale di cui sono già disponibili tutti gli ingredienti.

Sassari: Alfano; non sarà necessario riaprire carcere di Asinara

 

Agi, 13 febbraio 2009

 

"Non ci sarà la necessità di riaprire l’Asinara". Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano, a Sassari in vista delle elezioni regionali di domenica e lunedì prossimi. "Abbiamo avviato un piano straordinario - ha aggiunto Alfano - per realizzare nuove carceri, approvato nel consigliò dei ministri del 23 gennaio.

È già stato sottoposto all’attenzione del Senato e approvato proprio ieri. Non ci sarà la necessità di riaprire l’Asinara proprio perché puntiamo alla realizzazione di nuove strutture. Il Partito democratico - ha concluso - al Senato mi ha chiesto di riaprire l’Asinara, noi invece stiamo puntando su un altro obiettivo che è quello di realizzare in tutta Italia nuove e moderne strutture".

Cagliari: carcere sovraffollato, il ministero studi una soluzione

 

La Nuova Sardegna, 13 febbraio 2009

 

Buoncammino è un carcere con troppi problemi: logistici, organizzativi, umanitari e questo nonostante il grande sforzo della direzione e del personale. La conferma arriva dalla risposta all’interrogazione presentata dalla deputata cagliaritana Amalia Schirru il 14 gennaio: il ministero sta studiando il problema e basta.

Il tenore della risposta non è certamente quello auspicato perché, comunque, Buoncammino viene considerato un carcere con pochi problemi rispetto ad altri. La parte positiva della risposta: il dipartimento ha all’esame il tema del sovraffollamento carcerario e si è creato un gruppo di lavoro per "la complessiva soluzione del turnover dei detenuti...".

Poi la parte in qualche modo raggelante: "... tenuto conto che Buoncammino non rientra tra gli istituti maggiormente in difficoltà operativa, gli unici interventi possibili secondo il ministero sono costituiti da una redistribuzione del personale operante in Sardegna e bisogna aspettare il bando di mobilità che prevede l’assegnazione di 13 ulteriori unità di polizia penitenziaria". Il problema delle detenute con figli secondo il ministero addirittura non ci sarebbe: l’istituto ha una sezione dedicata a ospitare detenute con i bambini e sono assicurati adeguati standard di assistenza sanitaria.

Ed ecco il commento di Amalia Schirru: "Pur apprezzando il fatto che si sta studiando il fenomeno carcerario cagliaritano al fine di trovare soluzioni al sovraffollamento, ho dovuto esprimere la mia insoddisfazione per le risposte ricevute...". Secondo l’onorevole Schirru, infatti, la situazione è la stessa per tutti gli istituti dell’isola e quindi non basta certo ridistribuire il personale a favore di Buoncammino.

Ma la criticità di Buoncammino non è certo una semplice difficoltà di gestione. Gravissimo (e ignorato dalla risposta del ministro) che Buoncammino è inadeguata per i detenuti ammalati, essendo malati tra l’altro più della metà, e, soprattutto gravissimo che il ministero consideri quello un istituto attrezzato per detenute con figli: "Tale circostanza è vietata dalla legge 40 - ricorda Schirru - e ho chiesto di convenzionare o realizzare strutture di accoglienza per donne e minori". Schirru ha chiesto anche di varare misure straordinarie per alleggerire il carico di lavoro del personale.

Rovereto (Tn): convegno su prevenzione dei suicidi in carcere

 

Il Trentino, 13 febbraio 2009

 

La parola d’ordine è pazienza. Capacità di ascoltare, capire e cercare risposte specifiche per ogni caso. Attenzione e interesse per la "persona detenuta": il suo vissuto, le sue ansie, le sue speranze. Volendo sintetizzare in uno slogan il senso del convegno che ieri si è tenuto nel carcere roveretano, potrebbe essere questo. Il tema era delicatissimo: "Tutela della salute e rischio suicidio in ambito penitenziario.

Prevenzione e possibili interventi sulla persona e sull’ambiente". Una problema serissimo in un sistema che a livello nazionale registra in media un suicidio a settimana. Meno evidente in Trentino: nel 2008 nessun suicidio, e "solo" 19 episodi di autolesionismo. A parlarne esperti di psichiatria e delle dinamiche umane che si sviluppano all’interno di una istituzione come il carcere.

Il direttore dell’unità operativa psichiatrica di Trento Angelo Mercurio; lo psichiatra roveretano Antonio La Torre, consulente proprio della casa circondariale di via Prati; lo psicologo Enrico Betta; il ricercatore Francesco Rapanà; il cappellano del carcere Fabrizio Forti; il comandante Domenico Gorfa.

E i loro interventi, partendo da esperienze concrete, convergevano lì: non esiste una risposta valida per ogni situazione, ma saper capire la specificità di ogni detenuto è in realtà l’unica risposta possibile. Sfruttando poi al massimo la rete di sostegni e risposte specifiche che il territorio è in grado di mettere a disposizione del singolo penitenziario.

Verona: sovraffollamento, problemi per gli agenti ed i detenuti

di Guariente Guarienti (Avvocato penalista)

 

Il Verona, 13 febbraio 2009

 

Gli agenti della Casa Circondariale di Verona hanno proclamato lo stato di agitazione. Per proteggersi dal freddo devono acquistare stufette, d’estate ventilatori per sopportare il caldo afoso; per comunicare all’interno del carcere utilizzano cordless comprati a proprie spese.

Quando sono in servizio di sorveglianza dei cortili-passeggi devono camminare sotto le intemperie perché non ci sono ripari. Al piano terra quando piove si forma un acquitrino mentre il secondo piano è stato evacuato per le infiltrazioni d’acqua.

La mensa del personale è stata dichiarata inagibile e più volte la qualità del cibo è stata contestata. Risposta: mancano i fondi. Peggiore, ovviamente, la situazione dei detenuti. Un carcere costruito per 220 persone, una per cella, dopo pochi mesi è divenuto un carcere per 440. Oggi lo abitano stabilmente oltre 800 detenuti.

Provate a pensare quattro uomini che passano chiusi la gran parte della giornata in una stanzetta di dimensioni inferiori ai dodici metri quadrati. Quattro letti a castello occupano quasi interamente lo spazio; i detenuti devono alternarsi, due a due, tra il letto e il pavimento.

In uno zoo gli animali hanno spazi ben maggiori; solo i polli d’allevamento vivono in una costrizione peggiore. L’affollamento oggi è il problema più drammatico delle carceri italiane, quello che prima o poi, soprattutto negli istituti di vecchia costruzione, determinerà rivolte.

È incredibile come da sempre il mondo politico si disinteressi delle carceri, vergognosa discarica delle categorie sociali più deboli, che incorrono in violazioni di legge molto spesso meno gravi d quelle dei colletti bianchi ma pagano, a differenza di questi ultimi, con la detenzione le loro colpe, prima e dopo la condanna.

Ma, si sa, i detenuti non portano voti, la legge non è uguale per tutti e l pene solo nella carta costituzionale tendono alla rieducazione del condannato. La violazione sistematica dell’articolo 27 della Costituzione é i fatto più grave.

L’affollamento, oggi drammatico, non è stato sempre un problema ed è risolvibile con nuove carceri, con una maggior depenalizzazione e con le espulsioni dei condannati stranieri, ma il recupero ad una vita ordinaria richiede un profondo, non prevedibile, rinnovamento della visione della pena.

Milano: uccise un rapinatore in fuga, condannato a venti mesi

di Emilio Randacio

 

La Repubblica, 13 febbraio 2009

 

Stava subendo una rapina, la terza in pochi mesi. Ha visto puntarsi un’arma contro per consegnare senza far problemi i mille e trecento euro di incasso della giornata. Poi, è stato anche schiaffeggiato insieme alla moglie da due malviventi armati e, a questo punto, ha reagito, impugnando la sua pistola, inseguendo i banditi prima all’interno della sua tabaccheria, fino in strada, dove uno dei due è morto poco dopo per un colpo sparato alla schiena, mentre tentava di fuggire a bordo di uno scooter.

Quello che si consumò il 17 maggio del 2003 in piazzale Baracca, a pochi passi dal centro di Milano, non fu un "omicidio volontario". Semmai, fu una "reazione colposa", come ha deciso ieri pomeriggio la prima Corte d’assise presieduta da Luigi Cerqua. E quel gesto che costò la vita ad Alfredo Merlino, 30 anni, con una sfilza di precedenti alle spalle, va punito con una condanna a un anno e otto mesi per l’imputato settantaquattrenne Giovanni Petrali.

Un anno per l’omicidio, 8 mesi per la detenzione illegale fuori dal suo locale dell’arma, l’esatto calcolo. Pena sospesa. Non ha retto la tesi del pubblico ministero Laura Barbaini che, al termine della sua requisitoria, pur riconoscendo tutte le attenuanti all’incensurato Petrali, aveva invece chiesto per lui nove anni di carcere.

Contro la ricostruzione della procura hanno pesato soprattutto le conclusioni della perizia presentata dall’avvocato Marco Martini e quelle che la Corte ha ottenuto da due periti nominati durante il dibattimento. La Barbaini sosteneva che il tabaccaio avesse voluto farsi giustizia da sé, vendicandosi sui due banditi, inseguendoli fino a diversi metri fuori dal suo locale, dove Merlino è caduto senza vita e il suo complice è rimasto ferito in maniera non grave.

Ovvero, quando ormai i coniugi Petrali non correvano più alcun pericolo. Il perito della Corte, invece, ha accertato che il colpo mortale è stato sparato all’interno del negozio, dove i due malviventi erano entrati brandendo una pistola. Una sentenza attesa anche per la sua potenziale valenza politica tanto che l’europarlamentare della Lega, Matteo Salvini, aveva organizzato dal mattino un presidio per invocare l’assoluzione dell’imputato.

E, durante l’ultima udienza, in fondo all’aula rumoreggiava una nutrita schiera di simpatizzanti leghisti. Il verdetto li ha lasciati con un po’ di amaro in bocca. Il più contrariato è sembrato proprio lo stesso Salvini, che l’ha definito "un’ingiustizia". "Avrei voluto vedere come si sarebbero comportati certi soloni che pontificano in quelle circostanze. Mi sembra la solita soluzione all’italiana: non volevano assolverlo, condanniamolo un po’.

Il sindaco Letizia Moratti - ha concluso Salvini - faccia almeno questa scelta politica partecipando alle spese sostenute da un proprio concittadino che lavora da 40 anni e che ora si trova persino costretto a dover sborsare una cifra considerevole tra gli oneri legali e i risarcimenti per i suoi "poveri" rapinatori".

Tra sessanta giorni, i giudici depositeranno le motivazioni e si capirà con più particolari cosa ha spinto la Corte a giungere a questo verdetto. Sia l’accusa che la difesa intendono ricorrere in appello. Nel frattempo, contro l’imputato potranno ricorrere in sede civile i legali dei due rapinatori.

Cremona: per un "colpo" da 30 euro, è condannato a sei anni

 

Ansa, 13 febbraio 2009

 

È stato condannato a sei anni di carcere per una rapina che gli aveva fruttato 30 euro di bottino, Bruno Bernardi, di 35 anni. L’uomo, originario di Valle di Casalmaggiore (Cremona) ha precedenti penali e è attualmente detenuto. Il processo è stato celebrato con rito abbreviato. Secondo l’accusa, l’8 dicembre del 2006 aveva messo a segno il colpo ai danni di un negozio a Viadana (Mantova): era entrato armato di taglierino e con quello aveva minacciato la commessa.

Roma: convegno sulla "Carta della Qualità" degli Uepe del Lazio

 

Comunicato stampa, 13 febbraio 2009

 

L’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria del Lazio, Ministero della Giustizia, organizza un convegno per la presentazione della "Carta della Qualità degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna del Lazio" che si terrà il 12 marzo 2009 a Roma, presso "Aula Marconi" del C.N.R., piazzale Aldo Moro n 7.

Oltre all’illustrazione della Carta della Qualità, dei suoi contenuti e del metodo utilizzato il convegno sarà anche occasione di incontro e dibattito tra i portatori d’interesse istituzionali e non degli U.E.P.E.. Si parlerà, quindi, di misure alternative alla detenzione, di inclusione sociale, di valutazione, di qualità e di miglioramento.

Immigrazione: dall’Ue sanzioni per chi fa lavorare i clandestini

 

Ansa, 13 febbraio 2009

 

Inizia la crociata europea alla clandestinità. È infatti imminente la votazione al Parlamento europeo sull’introduzione di sanzioni ai datori di lavoro che impieghino personale clandestino. Le pene previste sono commisurate alla gravità delle violazioni ed in particolare saranno introdotte sanzioni: pecuniarie (con l’inclusione dei costi dell’eventuale rimpatrio); amministrative (ritiro della licenza di esercizio); penali per alcuni casi estremamente gravi.

Il tutto è contenuto in una proposta di direttiva che l’assemblea di Strasburgo è chiamata a votare, sulla base della relazione di Claudio Fava (Pse), negoziatore delle misure con il Consiglio.

Il Parlamento europeo dovrà dunque deliberare su un emendamento alla direttiva vigente che stabilisca su tutto il territorio degli stati membri norme minime comuni per sanzionare i datori di lavoro che impiegano personale privo del permesso di soggiorno. Questo, anzi, dovrà essere sempre richiesto al momento dell’assunzione di personale extra comunitario, così come la presenza del neo assunto dovrà essere notificata alle autorità di ogni singolo stato membro.

In forza alla direttiva, si legge nella relazione dibattuta a Strasburgo, gli Stati membri dovranno adottare le misure necessarie affinché i datori di lavoro che impiegano manodopera extra-comunitaria illegale "siano passibili di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive". Si va dalle sanzioni finanziarie che aumentano a seconda del numero di cittadini di paesi terzi impiegati illegalmente fino al pagamento dei relativi costi di rimpatrio. La "multa" potrebbe poi essere aggravata dall’obbligo di dover pagare la retribuzione arretrata e un importo pari alle tasse e i contributi previdenziali che si sarebbero dovuti versare.

Il datore di lavoro "colpevole" di aver dato lavoro a immigrati clandestini può poi essere vittima anche di sanzioni amministrative, come l’esclusione dal beneficio di sovvenzioni o aiuti pubblici, fino ad arrivare alla chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti in cui ha avuto luogo la violazione, o il ritiro temporaneo o permanente della licenza d’esercizio dell’attività economica in questione.

Resta salva la possibilità degli stati membri di esonerare da queste sanzioni il datore di lavoro che sia una persona fisica che ha assunto a fini privati. In casi particolarmente gravi (sfruttamento, alto numero di impiegati illegali, reiterazione del comportamento, casi di tratta di esseri umani o impiego di minori) le sanzioni potranno essere anche di natura penale che, per gli eurodeputati dovrà essere "effettiva, proporzionata e dissuasiva".

La direttiva rivista però impone alcuni obblighi anche in capo ai singoli stati membri, a partire dal rendere disponibili meccanismi efficaci per consentire ai cittadini di paesi terzi impiegati illegalmente di presentare denuncia contro i loro datori di lavoro o dall’effettuare "ispezioni efficaci ed adeguate sul loro territorio" per controllare l’impiego di cittadini di paesi terzi in posizione irregolare.

Immigrazione: se Maroni non fa sconti ai… "leghisti razzisti"!

di Gianluigi Paragone

 

Libero, 13 febbraio 2009

 

Il ministro Maroni affiancherà Gad Lerner in una causa che il giornalista ha intentato contro il leghista Leo Siegel. La notizia nuda e cruda è questa, ma siccome molti di voi non sanno giustamente chi sia Leo Siegel e cosa abbia detto a Lerner, facciamo un passo indietro.

Siegel, noto per essere il mister della nazionale padana, conduce anche una trasmissione su Radio Padania. In una vecchia puntata prese di mira Gad Lerner ma anziché attaccarlo politicamente sciorinò una serie di frasi delle quali ora deve rispondere davanti a un giudice. L’accusa è pesantuccia: istigazione per odio razziale.

Di fronte a certe accuse ho l’abitudine di fermarmi non cinque ma cinquanta minuti a capire bene, non fosse altro perché "razzista" è ormai un cerotto buono per zittire chi la pensa diversamente. Ci torneremo. Nel caso di Siegel, però, temo anch’io che il ragazzo abbia nettamente esagerato. Finendo con insultare pesantemente non solo il conduttore dell’Infedele ma la dignità di comunità straniere. Rispetto a molti temi io e Lerner la pensiamo all’opposto e ce lo diciamo, gli riconosco però la buona abitudine di non intasare i tribunali con querele per diffamazione. Forse è la prima volta che lo fa, il che la dice lunga sulla fondatezza dell’offesa.

Torniamo però ai fatti. L’altro giorno Lerner e il ministro Maroni si sono trovati a un convegno sulle leggi razziali promosso dall’Unione delle comunità ebraiche. Nel corso di questo contesto, Lerner ha consegnato al ministro leghista la trascrizione delle dichiarazioni di Siegel, con l’invito di fare un po’ di pulizia dentro il Carroccio "per poi fare dell’Italia un Paese con meno episodi di violenza e di razzismo".

Un autentico colpo di teatro da parte di Gad che avrebbe potuto mandare ko l’interlocutore. Maroni, evidentemente all’oscuro del contenuto della trasmissione in onda su Radio Padania, invece non si è scomposto. Ha preso, ha letto e poi ha dichiarato: "Ci costituiremo parte civile contro questo signore". Chapeau.

In politica i gesti valgono quanto gli atti. E questo gesto è la risposta a chi continua a etichettare come razzisti i provvedimenti del governo e di Maroni in particolare. Maroni avrebbe potuto uscire con frasi di circostanza dalla imbarazzante situazione che Lerner gli aveva sottoposto; il ministro è ormai un politico navigato: sarebbe bastata una presa di distanza teorica e tanti saluti. Una roba del genere: è un compagno padano che sbaglia, gli tireremo le orecchie. Le frasi si fanno e si disfano con grande agilità.

No, Maroni è andato oltre. Si costituirà parte civile contro un leghista, perché la moglie di Cesare deve essere al di sopra di qualsiasi sospetto. Il ministro ha deciso di adottare la linea dura al Viminale, per questo si ritrova con le accuse di chi è abituato ai toni morbidi del buonismo. Non ultime quelle di Famiglia Cristiana, che ha tentato un azzardo storico con le leggi razziali del fascismo.

Immigrazione: a Roma lo "stop" alle scuole con troppi stranieri

di Clarida Salvatori

 

Il Corriere della Sera, 13 febbraio 2009

 

Alla Pisacane l’80% degli iscritti sono stranieri. L’accordo prevede che siano le scuole a mantenere l’equilibrio.

Il primo tassello, verso la soluzione del caso della Pisacane, si chiama "accordo di rete tra le scuole del VI Municipio". Per evitare cioè, come è già accaduto nell’istituto di via dell’Acqua Bulicante (nel quale su 180 alunni solo 15 sono italiani), l’assessorato capitolino alla Scuola, il VI Municipio e l’ufficio scolastico regionale hanno firmato un accordo. Che ieri è stato presentato alla commissione Cultura della Camera.

Pochi punti, ma chiari, che dovrebbero mettere la parola fine sulla fuga degli alunni italiani. I genitori dovranno infatti, per prima cosa, iscrivere i figli nelle scuole più vicine, e non in quelle fuori zona (che accoglieranno le iscrizioni con riserva). Saranno poi gli istituti ad impegnarsi a mantenere e ristabilire un equilibrio tra italiani e stranieri.

Se alla Pisacane ci sarà l’80 per cento degli iscritti stranieri mentre alla Trilussa solo l’i per cento o alla Belli l’11, alcune famiglie non italiane potranno essere indirizzate negli istituti dove la concentrazione è minore.

"Sono semplici mosse, per altro condivise dalle scuole e dai genitori, dall’amministrazione comunale e da quella municipale che possono far sì che l’integrazione scolastica non sia vissuta come una problematica ma come un arricchimento", ha spiegato l’assessore comunale alla Scuola, Laura Marsilio. La quale, se necessario (come è già accaduto a Vicenza), si riserva "di introdurre successivamente un tetto con una percentuale precisa".

Un accordo che piace ovviamente ai genitori che hanno sollevato il problema ma che mette d’accordo anche molti mamme e papà stranieri. "Condividono questa soluzione - ha spiegato Flora Arcangeli, del Comitato della Pisacane.

Per i loro figli si aspettavano una scuola italiana che li integrasse e gli facesse conoscere lingua e cultura del Paese in cui vivono". Il rimpianto di Fabio Rampelli (Pdl, membro della commissione Cultura della Camera) "è che sì, siamo riusciti a non avere la prima scuola mono-etnica a Roma, ma non possiamo evitare che le classi della Pisacane, dalla seconda alla quinta, si impoveriscano ancor più di bambini italiani".

Stati Uniti: Maroni; "no" ai detenuti di Guantanamo in Italia

 

Apcom, 13 febbraio 2009

 

"Non voglio i detenuti di Guantanamo. Gli Stati Uniti sono grandi, possono spostarli altrove". È una delle prese di posizione che Roberto Maroni anticipa nel numero di "Panorama" in edicola. Nell’intervista, il ministro dell’Interno annuncia di voler rinforzare i controlli dei clandestini dalla Libia e di voler risolvere il problema di Lampedusa. E sui minorenni, accusati di gravi reati, compresi gli stupri, dice: "Preferisco la prevenzione. A titolo personale sono favorevole a colpire duramente chi commette certi reati anche se minorenne".

Stati Uniti: La Russa; "sì" a detenuti di Guantanamo in Italia

 

Apcom, 13 febbraio 2009

 

Il reggente di Alleanza Nazionale e ministro della Difesa, Ignazio La Russa, intervistato dal quotidiano online Affari Italiani, non è contrario alla ipotesi di detenere i prigionieri di Guantanamo in Italia. "Non conosco le ragioni dell’avversione del ministro Maroni - afferma - io per la verità non mi sono posto il problema, anche perché è una decisione che appartiene al governo e semmai in particolare al ministro Alfano".

"Capisco che possa sembrare strano che l’America voglia dividere in vari Stati i detenuti di Guantanamo - spiega il ministro di An - ma non credo che sia per un problema di spazio, bensì per una questione di condivisione e di coinvolgimento nella lotta al terrorismo internazionale. Se il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri avessero preso un impegno di questo genere, io non mi sentirei di contraddirli. Anche se capisco la preoccupazione. D’altronde l’Italia è abituata a fare la sua parte nella lotta contro il terrorismo".

Brasile: i famigliari di Battisti denunciano; torturato in carcere

di Maurizio Piccirilli

 

Il Tempo, 13 febbraio 2009

 

In Brasile Cesare Battisti torturato dalla polizia e aggredito in carcere. Lo racconta il fratello Vincenzo in un’intervista al settimanale Panorama in edicola oggi. Per questo la famiglia del terrorista condannato a due ergastoli per omicidio ha intenzione di chiedere la grazia al presidente della Repubblica.

A rivelare le torture è stato lo stesso Battisti alla moglie che quando è andato a trovarlo nel carcere brasiliano lo ha trovato con gli occhi pesti e il viso gonfio. Ma un altro fratello di Battisti, Domenico, ha smentito le dichiarazioni rese al settimanale. I fatti si riferiscono al 2007 all’indomani dell’arresto.

Il racconto di Vincenzo Battisti è dettagliato. "Cesare è convinto che lo abbiano fatto per motivi politici - dice Vincenzo Battisti nell’intervista - Nel 2004 una parte dell’opinione pubblica francese era contraria alla sua estradizione in Italia. Per questo lo hanno aiutato: per non perdere voti nelle successive elezioni. Poi però gli 007 l’hanno consegnato alla polizia brasiliana che lo teneva nascosto in un appartamento.

Mi ha raccontato di essere stato drogato e che minacciavano di ucciderlo. Gli hanno puntato una pistola alla tempia. Cesare mi ha detto: "ho capito di essere stato usato e che dopo le elezioni presidenziali mi avrebbero eliminato". Per questo si è fatto arrestare".

Dopo il suo arresto, avrebbe subito violenze in carcere: "lo picchiavano in continuazione, gli rasavano i capelli per umiliarlo, gli spegnevano addosso le sigarette - racconta a Panorama Vincenzo Battisti - Prima di incontrarlo la moglie e la figlia più piccola hanno dovuto aspettare due giorni. Ma al colloquio era ancora gonfio, con gli occhi pesti. La ragazzina è rimasta scioccata".

Il primo impatto con il Brasile, che accusa l’Italia di persecuzione, non è stato quindi dei migliori; soprattutto quanto a garanzie dei detenuti. E così Vincenzo Battisti rivela a Panorama che è sua intenzione a nome di tutta la famiglia di Cesare di chiedere al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano "la grazia per mio fratello". Cosa che sarebbe possibile se Cesare Battisti tornasse in Italia.

Il terrorista detenuto nel penitenziario di Papuda cella numero 5, è depresso tanto da andare dallo psicologo del carcere e sarebbe anche malato di epatite. E questa potrebbe essere la scappatoia per il governo Lula che potrebbe rilasciare Battisti ed estradarlo in Italia per motivi di salute.

 

 

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