Rassegna stampa 12 febbraio

 

Giustizia: la crisi economica e la violenza diffusa che aumenta

di Andrea Riccardi

 

La Stampa, 12 febbraio 2009

 

Si comincia a avvertire forte il vento gelido della crisi. Lo si percepisce nella vita quotidiana, nelle restrizioni dei consumi, nella precarietà del lavoro e in conseguenze ancora peggiori che toccano tanti. È un fenomeno europeo e mondiale. La gente vive le difficoltà, il ridimensionamento del livello di vita, la nuova povertà, con comprensibile frustrazione. Non bastano i discorsi sui flussi dell’economia mondiale o le spiegazioni macroeconomiche. Chi sono i responsabili? L’economia globalizzata non ha volto.

Il suo centro direzionale è lontano, anonimo, avvolto nelle nebbie. Non è un palazzo raggiungibile dalla protesta della gente. Frustrazione e protesta non diventano politica, ma rabbia che vuole sfogarsi. Con un meccanismo facile, ce la prendiamo con chi è vicino e raggiungibile, anche se non responsabile delle difficoltà. La grande crisi economica del 1929 insegna. Allora ci fu una crescita di antisemitismo. L’ebreo si presta a rappresentare il colpevole d’una crisi mondiale. I dati sulla diffusione del pregiudizio antisemita in Italia sono preoccupanti. Non lo sono di meno quelli in Germania. Secondo uno studio dell’Università di Lipsia il 18% degl’interrogati crede gli ebrei troppo influenti, il 15% pensa che perseguano i loro obiettivi "con loschi trucchi". In Catalogna si segnalano episodi antisemiti in modo insistente. Nel Venezuela, accogliente dall’epoca delle persecuzioni naziste, gli ebrei sono fatti segno di gravissimi attacchi. In Ungheria, Cechia, Slovacchia, ci sono consolidate aree di antisemitismo. In quest’ultimo Paese non mancano espressioni di nostalgia per il regime collaborazionista di mons. Tiso (che coinvolgono anche il mondo cattolico). L’antisemitismo è una storia dalle radici antiche, ma che si sviluppa in un clima incandescente. Si accompagna all’anti-gitanismo che attraversa tutte le società europee. Troppo si sono incolpati gli zingari del malessere di alcune situazioni urbane.

C’è poi il capitolo degli immigrati. Il pregiudizio è facile: vengono a rubarci il lavoro, la casa e, alla fine, il nostro Paese. Le accuse s’intrecciano con la violenza sulle persone. In Cechia le aggressioni razziste sono compiute da persone poco scolarizzate. In Russia aggressioni e omicidi dei non russi sono cresciuti in modo impressionante nel corso del 2008. I giovani sono spesso i protagonisti di queste violenze: vogliono esistere e far sentire la loro rabbia. Spesso sono esterni a ogni rete sociale e vivono in un vuoto di ideali. Un giovane della periferia di Parigi, nel cuore della rivolta della banlieue, diceva dopo aver incendiato le macchine: "Brucio dunque sono".

I giovani, che non sanno chi sono e trovano la loro identità nella pratica aggressiva. Le violenze dei giovani ad Atene, in dicembre, sono un esempio. La protesta fu contro la polizia. Picchiare è un modo di protestare ed esistere. Soprattutto contro gli stranieri. È una storia vecchia. Nel 1979, nel cuore di Roma, un gruppo di ragazzi bene dette fuoco a un barbone somalo. Si fece sentire la voce forte di Giovanni Paolo II, che condannò il fatto. Oggi si ripetono con preoccupante frequenza episodi simili. Poco importa se l’aggressione del "branco" dei giovani all’indiano di Nettuno sia effetto dello sballo o del razzismo. Sono due volti dello stesso fenomeno, molto grave, rivelatore del vuoto delle menti, ma anche della crisi del senso comune di umanità. C’è allora un grande problema educativo, ma anche di senso di irrilevanza da combattere e d’identità da trasmettere.

Non si tratta però solo di giovani. La violenza diffusa crescerà con la crisi economica, con la rabbia di una vita quotidiana difficile, con la ricerca di colpevoli introvabili, all’origine di questa situazione. La Stampa (lunedì 2) pubblicava una mappa europea del disagio e si chiedeva: "Sarà l’inverno dello scontento?".

Credo che avremo un inverno molto lungo, ben al di là della stagione climatica. Libererà sentimenti di rabbia, scontento, aggressività contro i bersagli più vicini, perché non c’è un palazzo del potere da assaltare, ma tanto malessere da sfogare. Bisogna vivere responsabilmente questo lungo inverno. Prima di tutto, è necessario evitare la semina del disprezzo e dell’odio verso gruppi etnici o sociali. I semi del disprezzo sfuggono dalla mano di chi li getta e fruttificano presto in un clima frustrato e incandescente. Non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma di richiamare alla responsabilità micidiale delle parole, specie se si ricoprono cariche pubbliche.

Già il dibattito sulla sicurezza non è stato un grande esempio di correttezza. Ha conosciuto, a uso elettorale, accuse a stranieri e zingari da destra e sinistra alternativamente. Poi, al governo, tutti hanno avuto gli stessi problemi. L’idea è che urlando sulla sicurezza si guadagna consenso e magari si vincono le elezioni. Ma si sa che non siamo un Paese così insicuro. Il problema dei toni, delle accuse a gruppi di persone, degli allarmi, delle parole roventi non è qualcosa di accessorio in una situazione di grande tensione sociale come la nostra. È un problema di responsabilità.

Mi chiedo se non sia necessario un "patto" tra forze politiche e sociali in una stagione di grandi sofferenze e di emergenza, non per imbrigliare il dibattito, ma per mantenere una soglia di responsabilità nel linguaggio. Ci sono grandi questioni, come gli immigrati, la trattazione di taluni fatti dolorosi e di sangue, che richiedono un approccio condiviso e responsabile. Le difficoltà di tanti impongono che si dica la verità sulla crisi che stiamo passando, anche se spiegarla responsabilmente può apparire complesso. Potrà sembrare "buonista", ma per me rappresenta una soglia di dignità nel trattare gli interessi del Paese. Democrazia è condividere alcuni grandi interessi comuni.

Giustizia: la sicurezza che vorremmo e quella che ci viene data

di Giorgio Rebuschi

 

Gazzetta di Mantova, 12 febbraio 2009

 

Il governo Berlusconi, attraverso il pacchetto sicurezza recentemente approvato, ha deciso di stilare l’anagrafe dei clochard attraverso la loro schedatura. Ora, qualcuno mi spieghi cosa centri il clochard con la sicurezza; tutti sappiamo infatti che si tratta di persone in difficoltà che a hanno poco a che fare con quel tanto inflazionato termine che è "sicurezza".

Schedarli è una misura dannosa, un metodo per stigmatizzare una condizione sociale provocata dalla povertà. Sembra un modo per farli emergere dall’invisibilità, ma è un pericoloso peso imposto a chi già soffre. Mi pare che tutte le decisioni prese ultimamente dal governo sul tema sicurezza, come per esempio la possibilità dei medici di denunciare i clandestini, siano intrise di demagogia.

Per tornare al tema iniziale, nessuno ha ancora capito come saranno gestiti i clandestini che verranno a galla, visto che non ci sono carceri sufficienti per assicurare alla giustizia nemmeno i delinquenti già condannati. Credo che ormai sia chiaro a tutti: la posizione del governo è di essere forte con i deboli, soprattutto quelli che visivamente disturbano le nostre città e paesi, considerato che queste posizioni portano a un consenso immediato.

Diversamente non trovo nel governo altrettanta determinazione nei confronti, ad esempio, della mafia, metastasi che ci perseguita da sempre sia dal punto di vista della sicurezza sociale, sia per quanto riguarda la corruzione: qui il cittadino auspicherebbe interventi legislativi chiari e netti.

Un altro provvedimento che indebolisce la capacità di perseguire chi commette reati è inoltre la legge proposta sulla riduzione delle intercettazioni e i reati ad esse annessi, come ad esempio la corruzione o le turbative degli appalti, non certo commesse da extracomunitari, ma sicuramente da persone in giacca e cravatta.

Un cittadino comune pretenderebbe pene severe, ad esempio, per chi falsifica i bilanci (certo non sono i clochard); oppure un artigiano, che non riesce ad essere pagato per il lavoro svolto, auspicherebbe che si intervenisse su quelle persone che, conoscendo la lentezza della nostra legislazione, ne approfittano causando danni economici gravi a chi ha lavorato.

Ho citato solo alcuni esempi, per concludere che i problemi della sicurezza si risolvono con il potenziamento delle forze dell’ordine, che versano in condizioni di esercizio difficili essendo privi di risorse (si pensi alle Punto usate per gli inseguimenti...).

L’Italia necessita di una legislazione più snella che punisca attraverso la certezza della pena le persone, al di là della provenienza geografica, che veramente delinquono.

Giustizia: Csm contro Alfano; le sentenze non uccidono nessuno

 

La Repubblica, 12 febbraio 2009

 

Le sentenze si possono criticare, discutere "ma non uccidono nessuno". È la dura risposta dell’Anm all’accusa di Angelino Alfano: "Eluana è morta di sentenza". Alfano è il ministro della Giustizia e quindi, lo scontro è particolarmente aspro. E non è solo il sindacato dei giudici a bacchettare il Guardasigilli, anche una parte del Csm dà l’altolà. Nell’organo di autogoverno della magistratura se ne discute nella mattina di ieri, e i toni si accendono: "Sono dichiarazioni barbare che dimostrano il venire meno del rispetto delle regole".

A lanciare le prime bordate contro il ministro Alfano sono i consiglieri laici di sinistra: "Sul caso Englaro c’è stata una corsa da parte degli uomini politici a dichiarazioni barbare, un fatto ancora più grave se a parlare è il ministro Guardasigilli", denuncia Mario Volpi che poi esprime l’apprezzamento per il presidente della Camera, Gianfranco Fini.

E il togato di Magistratura democratica Livio Pepino attacca: "Sono arrivate dal ministro dichiarazioni che si commentano da sole, in questo caso il problema non è stato l’effetto di una sentenza ma capire se è lecita la costrizione invasiva e crudele a una condizione di stato vegetativo". A difesa del ministro si schiera il Pdl. Giuseppe Gargani, responsabile giustizia forzista, parla di "ipocrisia inquietante, senza la sentenza il tutore non avrebbe potuto interrompere l’alimentazione, il ministro ha detto una cosa limpida e serena".

Torna sul decreto mancato, Maurizio Sacconi, il ministro che pure nel governo sul caso Englaro aveva avuto la linea più oltranzista, e a Radio vaticana dichiara: "La sua morte ci ha cambiato tutti, purtroppo non è stato possibile adottare il decreto legge e non siamo riusciti a salvare la vita a Eluana".

E mentre in Senato, in commissione Sanità, è cominciato in un clima infuocato di polemiche tra laici e cattolici la discussione sul testamento di fine-vita, piovono le dichiarazioni, i "distinguo" e le raccomandazioni ad abbassare i toni. Antonio Di Pietro da Bruxelles invita: "Mai come in questo momento, dopo la polemica e l’attrito tra capo del governo e capo dello Stato c’è la necessità che tutti ritornino all’interno dell’alveo del rispetto delle regole". Sul suo blog però rincara: "Governo e Pdl si vergognino, politicanti in cerca di autore hanno offerto a Palazzo Madama uno spettacolo fuori da ogni decenza".

Ribadisce solidarietà al padre Beppino, Walter Veltroni in una lettera al Corriere: "Berlusconi mi ha indignato, di fronte al pudore all’amore di un padre la politica non ha il diritto di polemizzare, urlare, inveire". Dentro il Pd ha marcare il profilo laico sul testamento di fine-vita è Massimo D’Alema che torna sul caso Eluana: "Abbiamo assistito a un dibattito folle, da Berlusconi c’è stata una violazione volgare del privato quando ha detto che quel povero essere in coma da 17 anni avrebbe potuto partorire".

Giustizia: rifiuti, calcio e sanità; dove la corruzione è più diffusa

di Roberto Petrini

 

La Repubblica, 12 febbraio 2009

 

La Mala-Italia è ancora tutta lì, con le sue magagne fatte di truffe e tangenti a danno della cosa pubblica. "Siamo tra i peggiori al mondo per corruzione", ha ammonito ieri il presidente della Corte dei Conti Tullio Lazzaro, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano e delle massime autorità della Repubblica. "Bisogna irrobustire i controlli", ha chiesto Lazzaro ed ha aggiunto che è necessaria la "massima trasparenza in ogni agire della pubblica amministrazione" per evitare che si propaghi una sfiducia che può costituire un "rischio mortale per la democrazia".

L’elenco dei casi di corruzione e cattiva gestione che provocano danni alle casse dello Stato, e che sono stati oggetto delle indagini e dei processi della Corte dei Conti è impressionante. Nel solo 2008 come ha resocontato il procuratore generale Furio Pasqualucci - sono state poste in essere citazioni in giudizio per 1,7 miliardi corrispondenti a 561 condanne in primo grado. In prima linea c’è l’emergenza rifiuti in Campania: la magistratura contabile ha chiesto ai responsabili 45 milioni di danni.

A seguire c’è Calciopoli, dove arbitri, dirigenti federali ed altri soggetti implicati dovranno risarcire 240 milioni per i danni provocati al Coni. Quindi la vicenda della "clinica degli orrori" milanese dove si praticavano interventi inutili e dannosi al solo scopo di far soldi: anche in questo caso la sanzione vale 8 milioni anche per il danno d’immagine, dice la Corte, provocato al sistema sanitario italiano definito un "terreno fertile per le truffe".Un capitolo a parte è quello delle consulenze della pubblica amministrazione. Su questo tema è calata "una cappa di silenzio", ha denunciato Pasqualucci, che ha definito "discutibili" i limiti posti alla pubblicazione delle retribuzioni. Nello scorrere la relazione emergono statistiche precise dei danni provocati allo Stato ed individuati dalla Corte dei Conti: in prima linea ci sono indennità e consulenze indebite (16,2 per cento), al secondo posto la corruzione (8,6 per cento), al terzo posto i fondi comunitari (8 per cento).

La magistratura contabile ha anche realizzato un certo successo nel riscuotere i risarcimenti: nel 2008 ha registrato un aumento del 62 per cento degli incassi e sono molti i "colpevoli" che decidono di "patteggiare" e mettere mano al portafoglio piuttosto che sottostare ad un processo. L’altra spina nel fianco del paese è naturalmente la crisi economica. Lazzaro ha invitato in questa fase a ridurre gli sprechi per lasciare spazio alle risorse per investimenti.

Ma lo tsunami finanziario ha lasciato sul terreno anche in Italia la mina dei derivati: "Un meccanismo diabolico di cui si vede solo la coda", ha detto il presidente della Corte che non ha fatto nuove quantificazioni del fenomeno che resta ancorato alla stima di 35 miliardi di operazioni in capo agli enti locali. "È un rischio finanziari grave", ha detto Lazzaro osservando che si tratta di uno "squilibrio che ricadrà sulle generazioni future".

Giustizia: Csm; testo su intercettazioni è pericoloso e irrazionale

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 12 febbraio 2009

 

Il Csm riduce a coriandoli il ddl Alfano sulle intercettazioni che, di fatto limiterà il ricorso a questo mezzo di ricerca della prova e allungherà il divieto di pubblicazione degli atti giudiziari (anche per riassunto) fino al termine delle indagini preliminari. La motivazione del Csm definisce il Ddl "pericoloso, irrazionale, incongruo, incoerente, eccentrico". In altre parole "non condivisibile".

Il parere, votato dalla VI commissione sarà oggi in plenum del Csm proprio mentre ieri è continuato il dibattito in commissione Giustizia della Camera riunitasi per votare gli emendamenti al Ddl 1415. Il Csm non lo scrive nel parere ma il concetto che è largamente condiviso a Palazzo dei Marescialli e che per spuntare le unghia a una decina di Pm che hanno esagerato con le intercettazioni, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Infatti vengono citati "i reati di criminalità comune" per i quali oggi le intercettazioni sono fondamentali.

Il Csm boccia poi la norma che si presta a "pericolose strumentalizzazioni", secondo la quale il pm indagato per violazione del segreto può essere rimosso dal capo ufficio. Infine ad essere bocciate sono la previsione dei "gravi indizi di colpevolezza" necessari per effettuare l’intercettazione e il vaglio ex post del giudice collegiale. Il deputato Niccolò Ghedini parla di "ingerenza" che avrà riflesso sul dialogo in Parlamento, di "continua interferenza del Csm sulle decisioni del Parlamento da parte di un organismo previsto dalla Costituzione". Per Ghedini "oggi il Csm è la fotocopia dell’Anm perché trasfonde in sé le correnti della magistratura sindacale". Per questo occorrono "due Csm per garantire la vera indipendenza della magistratura".

Giustizia: stalking; un ddl che non è all’altezza delle intenzioni

di Sergio Vinciguerra

 

Italia Oggi, 12 febbraio 2009

 

Nel disegno di legge approvato dalla Camera e trasmesso al Senato il 30 gennaio u.s., recante misure contro gli "atti persecutori", questi consistono nel fatto di "chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita".

Questo testo non è all’altezza delle intenzioni lodevoli che lo ispirano e che condivido, sia per qualche imprecisione nella struttura del fatto sia perché scoordinato, anche sotto il profilo sanzionatorio, con altre previsioni orientate alla tutela della libertà personale presenti nel codice penale. Si tratta dei delitti di violenza privata (art. 610 c.p.) e di minaccia (art. 611 c.p.) e della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.). Lo scoordinamento è evidente se confrontiamo la nuova norma con la violenza privata di cui si rende colpevole "chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa".

La violenza manca nella previsione del nuovo delitto con la conseguenza che, se taluno viene costretto con violenza ad alterare le proprie abitudini di vita, il colpevole risponde di violenza privata, la cui pena massima coincide con quella del nuovo delitto ma che è punita con una pena minima più bassa, sebbene la violenza sia più grave della minaccia e della molestia costituenti la condotta del nuovo delitto. Circa la sua struttura, la formulazione adoperata ("in modo da cagionare o costringere") lascia nel dubbio se trattasi di un delitto di evento oppure di un delitto di condotta.

In altre parole, la minaccia e la molestia debbono cagionare ansia, paura, ecc. o costringere a mutare vita (delitto di evento) oppure basta che siano idonee a cagionare ciò (delitto di condotta e di pericolo)? In ogni caso, la correlazione fra gli stati d’animo e la condotta deve essere valutata con riferimento a criteri di normalità oppure tenendo conto della personalità del soggetto passivo? La differenza non è trascurabile, perché, se come suggerisce la penalistica moderna che privilegia le valutazioni personalistiche, si propende per la seconda alternativa, il rischio è che per stabilire la responsabilità dell’imputato sia determinante quanto la vittima racconta di sé e che sia minima l’incidenza dei riscontri obiettivi. Inoltre, come potrà essere dimostrato che il colpevole era a conoscenza dell’intensità offensiva richiesta nella sua condotta, conoscenza necessaria per l’esistenza del dolo, elemento essenziale di questo delitto?

Ritorna allora alla mente il monito del penalista tedesco Feuerbach che all’alba del diritto penale moderno scolpì le esigenze di completezza e tassatività della norma penale ed il suo collegamento indissolubile con il regime della prova scrivendo: "ciò che nessun giudice può provare non può neppure essere oggetto della legge" (1800).

Alla fine del Novecento gli ha fatto eco un altro criminalista tedesco, Zipf, quando scrisse che "ogni problematica va meditata anche sotto l’aspetto dell’attuazione processuale; una soluzione che non sia realizzabile processualmente è inutilizzabile sotto il profilo politico-criminale e inoltre corre sempre il pericolo di essere manipolata all’interno del processo".

Nel sottoporre questa norma alla necessaria ortopedia, è, dunque, opportuno che i nostri legislatori abbiano anche presente che, sebbene difficile da calcolare, il costo di una controversia interpretativa può essere molto alto in termini di tempo, di energie distolte da altri compiti, per non dire del discredito che investe il servizio giustizia quando la medesima questione è decisa con esiti differenti.

Giustizia: sulla pedo-pornografia l’Ue si muove in ordine sparso

di Paolo Bozzacchi

 

Italia Oggi, 12 febbraio 2009

 

Europa in ordine sparso nella lotta allo sfruttamento sessuale dei bambini e contro la pedopornografia. Il Parlamento di Strasburgo ha rivolto in settimana una serie di raccomandazioni al Consiglio per coordinare meglio gli sforzi e far sì che l’Unione europea operi in modo più efficace e coordinato. Approvando con 591 voti favorevoli, 2 contrari e 6 astensioni la relazione di Roberta Angelilli (UEN, IT), il Parlamento ha chiesto anzitutto di incoraggiare gli Stati membri che non lo hanno ancora fatto a sottoscrivere, ratificare e attuare tutte le convenzioni internazionali pertinenti, in particolare quella del Consiglio d’Europa (firmata dall’Italia nel novembre 2007, ndr), e ad aiutarli a migliorare la loro legislazione, anche sancendo che i reati a sfondo sessuale nei confronti delle persone di età inferiore a 18 anni "siano sempre classificati in tutta l’Unione europea come abuso di minori" e penalizzando tutte le forme di abuso sessuale nei confronti dei minori.

Il Parlamento ha chiesto poi al Consiglio di assistere gli Stati membri che non hanno ancora completamente attuato la decisione quadro relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile a farlo "nel più breve tempo possibile. In tale contesto, l’accento dovrà essere posto sull’adozione di testi legislativi relativi alla definizione di pornografia infantile, prevedendo meccanismi per la protezione delle vittime e applicando le disposizioni sulla giurisdizione extraterritoriale.

A quest’ultimo proposito, affinché i bambini siano tutelati efficacemente dallo sfruttamento sessuale, tutti gli Stati membri dovrebbero classificare come reato il turismo sessuale infantile e far sì che tutti i cittadini dell’Unione europea che compiono un reato a sfondo sessuale nei confronti dei bambini in uno Stato membro dell’Unione europea o in un paese terzo "siano assoggettati a un diritto penale extraterritoriale uniforme, applicabile in tutta l’Unione europea".

Ma i deputati chiedono anche di rivedere la decisione quadro in modo da elevare il livello di protezione almeno sino a quello previsto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa e da concentrare l’attenzione sugli abusi connessi a Internet e ad altre tecnologie della comunicazione. Più in particolare, chiedono di punire la partecipazione ad attività sessuali con una persona di età inferiore a 18 anni ricorrendo a coercizione, forza o minaccia, oppure abusando di una posizione riconosciuta di fiducia, autorità o influenza, o di una disabilità mentale o fisica del minore, o ancora dando in pagamento denaro o altre forme di compenso in cambio del coinvolgimento del bambino in attività sessuali.

La nuova decisione quadro dovrebbe anche penalizzare il matrimonio forzato di un bambino nonché la partecipazione intenzionale a esibizioni di carattere pornografico che coinvolgano bambini e li costringano intenzionalmente ad assistere ad abusi o attività sessuali. Il Parlamento chiede poi che la nuova decisione quadro penalizzi il "grooming" (ossia l’adescamento online dei minori a scopo sessuale) e la gestione di chat room pedofile o di forum di pedofili su Internet.

Raccomanda agli Stati membri di adottare anche misure volte a ritirare da Internet qualsiasi materiale illegale legato allo sfruttamento dei bambini, e ad agire di concerto con i gestori di Internet per disattivare i siti web utilizzati per commettere, o per pubblicizzare la possibilità di commettere i reati contemplati dalla decisione quadro. Ma anche di esaminare la possibilità di chiudere o ostacolare i sistemi di pagamento online per i siti web coinvolti nella vendita in rete di materiale pedopornografico.

Giustizia: le vittime, Sofri, i collaboratori... e la sentenza Pinelli

 

La Repubblica, 12 febbraio 2009

 

Tre osservazioni riguardo all’articolo di Adriano Sofri (5 febbraio 2009), che ci è parso sgradevole nel tono e privo di consequenzialità nelle argomentazioni.

1) "È la morale dei bambini cui si insegna a non fare la spia, o del pescatore di De André". Meno di un mese fa abbiamo ricordato con emozione la scomparsa di De André. Il Pescatore è un testo bellissimo in cui l’artista lascia un’apertura, un’ambiguità finale, dopo l’arrivo dei gendarmi: il pescatore assopito è ancora vivo? Parla o tacerà? Il cuore del testo è l’immagine di un uomo quasi figura del cristo, che spezza il pane e dà conforto persino agli assassini. Un inno all’amore per il prossimo, non all’omertà.

2) "Preferirei perdere la mia libertà e la stessa vita pur di non mandare in galera qualcuno". Non è così facile per un privato cittadino misurare la "minaccia attuale" rappresentata da qualcuno. Vorremmo ricordare che senza il contributo fondamentale e purtroppo tardivo di alcuni collaboratori di giustizia, magistrati tenaci non avrebbero mai potuto istruire i più recenti processi per la strage di Piazza Fontana (che ha dato importanti contributi alla verità) né quello ancora in corso per la strage di piazza della Loggia. Se qualche persona in più, oltre a Rossa, prima e dopo di lui, avesse avuto il coraggio di denunciare quel che sapeva, tanti uomini oggi sarebbero vivi.

3) La morte di Pinelli, trattenuto, innocente, in Questura oltre lo scadere del fermo di Polizia, è ben presente a tanti cittadini; è doveroso ricordarla e renderle omaggio, ma il linguaggio confuso dell’invettiva e delle contrapposizioni non è quello appropriato. È stata oggetto di indagini lunghe e ripetute, e le sentenze sono pubbliche. Non è nel libro pubblicato dalla Presidenza della Repubblica perché non è un atto di terrorismo (chi afferma il contrario è pregato di esplicitare la propria definizione del fenomeno). Il che non toglie il fatto che sia una vicenda tragicamente collegata a piazza Fontana e una ferita per tutto lo Stato democratico.

 

Francesca Dendena, Silvia Giralucci

Manlio Milani, Benedetta Tobagi

 

Ho lealmente espresso la mia personale ripugnanza per la delazione, quando non sia tesa a impedire un male fatto ad altri. Ne abbiamo appena avuto un odioso esempio nel voto che autorizza (e di fatto istiga) i medici a denunciare i malati senza carte in regola. Voi mi offendete chiamandola omertà, che mi ripugna quanto a voi. Non so se il pescatore con la sua specie di sorriso sia ancora vivo: so che non parlerà. Ha dato pane e vino a un suo simile in fuga.

Nella citazione "preferirei perdere la mia libertà..." (l’ho perduta, del resto) avete omesso la riserva: "Salvo che si tratti di sventare una minaccia attuale contro altre persone, come seppe fare Guido Rossa". Questo toglie senso alla vostra conclusione: "tanti uomini oggi sarebbero vivi".

Infatti. La verità sulla strage di piazza Fontana era a disposizione fin da allora, se uomini e apparati dello Stato non l’avessero sequestrata. Ho detto che Pinelli non figura in quel libro della Presidenza, e non figura neanche in altri libri. Ho detto nel modo più netto che cosa sia per me terrorismo, e l’ho argomentato nel modo più esauriente nel libro. Vi chiederei di leggerlo. La sentenza finale su Pinelli è un oggetto precipuo del mio studio, che ne mostra l’assurdità. Per me, rispettare le sentenze vuol dire accettarne gli effetti, non certo giurare nella loro fondatezza. Non troverete presso di me alcun cedimento all’invettiva.

Infine: questo è uno scambio ineguale. Io non vi conosco, voi non conoscete me. Il mio cognome basta al vostro giudizio, o al vostro pregiudizio, a me ostile. I vostri cognomi bastano a un mio giudizio di forte simpatia e solidarietà. Se, insieme o singolarmente, privatamente o pubblicamente, voleste discutere con me di questo e di qualunque altro argomento, io ne sarei lieto.

 

Adriano Sofri

Giustizia: il dottor Brega Massone, mago del bisturi o macellaio?

 

Corriere della Sera, 12 febbraio 2009

 

"Ci sono delinquenti che basta che confessino e sono fuori, mentre mio marito è in carcere da 8 mesi e 2 giorni". La moglie di Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica della clinica Santa Rita non ha dubbi: suo marito è innocente. Di più. Ha sempre agito "secondo scienza e coscienza" come ha precisato lui stesso nella scorsa udienza.

Ma per Tiziana Siciliano e Grazia Pradella, i pubblici ministeri che hanno svolto l’indagine sulla "clinica degli orrori", l’ex primario si è macchiato di colpe gravissime: interventi inutili, operazioni dolorosissime senza alcuno scopo medico, finte diagnosi. E tutto per ottenere rimborsi da capogiro dal sistema sanitario nazionale. Insomma, come diceva lui stesso al telefono "qui (nella clinica di via Jommelli, ndr) non si viene a fare il primario, qui vieni a fare Drg". E ancora: "Investire sul tumore al seno frutta 5mila euro".

Lui, "l’Arsenio Lupin della chirurgia" come si era autodefinito in un sms inviato col cellulare, dallo scorso 9 giugno vive dietro le sbarre di San Vittore. Lontano dalla figlioletta di soli 6 anni. "Sono provato dal carcere" aveva detto la scorsa settimana ai giudici dalla gabbia riservata ai detenuti. Ma anche da dietro le sbarre il dottor Brega non ha rinunciato a proclamare la sua innocenza, nonostante le testimonianze di 40 pazienti (ed ex pazienti) che nel processo si sono dichiarati vittime. E la scorsa settimana il suo legale Massimo Pellicciotta aveva addirittura chiesto "un ulteriore perizia" sulle cartelle cliniche, perché quella disposta dalla Procura era stata eseguita da "un semplice medico di base". E non da un esperto. D’altronde "sulla professionalità di Brega Massone - aveva sostenuto tempo fa l’avvocato - non ci sono dubbi. È un medico esperto e stimato".

Ma le parole dell’avvocato proprio non sono piaciute ai pubblici ministeri, che ieri in Aula hanno espresso dubbi sulla "validità" e sulla "regolarità" di un lavoro scientifico del chirurgo Pier Paolo Brega Massone. Il pm Siciliano ha chiesto infatti di ascoltare come testimoni il direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Tumori Natale Cascinelli ed altri due medici in merito a "un lavoro scientifico" sul mesotelioma presentato nel 2001 da Brega Massone quando lavorava in via Venezian. Per il pm si tratta di un lavoro di cui "soggetti della comunità scientifica dell’istituto dei tumori ebbero a contestare non solo la validità ma anche la regolarità dell’acquisizione dei dati, perché si parlava di casi che forse Brega Massone non aveva mai visto e che certamente non aveva mai operato".

Si sono difesi presentando documenti che ridimensionerebbero le accuse i cinque indagati tra dirigenti e medici dell’Istituto ortopedico Galeazzi interrogati dal gip Vincenzo Tutinelli. È quanto trapela in merito alla convocazione disposta dal gip per decidere se disporre o meno nei loro confronti l’interdizione dalle cariche sociali o dalla professione medica.

I cinque sono indagati con altre 27 persone con l’ipotesi di truffa al Sistema sanitario nazionale e falso. La documentazione presentata al gip era già a conoscenza dei pm Letizia Mannella e Sandro Raimondi, che nei confronti dell’amministratore delegato, del sovrintendente all’organizzazione sanitaria, del direttore sanitario, del responsabile dell’ambulatorio di dermosifilopatia e del responsabile dell’Unità operativa accreditata di chirurgia plastica avevano chiesto l’applicazione di una misura cautelare che non era stata accolta.

Oggi, al termine dell’ultimo interrogatorio a carico del responsabile dell’Unità operativa, Franz Wilhelm Baruffaldi Preis, il gip si è riservato sull’applicazione delle misure interdittive. La riserva potrebbe essere sciolta lunedì prossimo.

Giustizia: prove d’ampliamento delle carceri, l'impresa è difficile

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 12 febbraio 2009

 

Nuovi padiglioni detentivi da duecento posti da costruire all’interno delle strutture penitenziarie già esistenti, ognuno dei quali costerebbe circa 10 milioni di euro. Questa è la proposta dell’Ufficio Tecnico per l’edilizia penitenziaria e residenziale del Ministero della Giustizia per affrontare la questione annosa del sovraffollamento.

Un istituto penitenziario da costruire del tutto ex novo, in aree dove non vi sono carceri pre-esistenti, che possa ospitare un numero analogo di detenuti costerebbe invece circa 45 milioni di euro. Posto che oggi vi sono 59 mila detenuti, ossia 16 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari, una proposta del genere diretta alla realizzazione di almeno ottanta padiglioni richiederebbe 800 milioni di euro.

Si tratta di iniziative già sperimentate qua e là in giro per l’Italia. Alla fine del 2008 la realizzazione di nuovi plessi in aree penitenziarie già esistenti ha prodotto nuovi 1.610 posti letto. Con i fondi disponibili, nel prossimo triennio, si prevedono nuovi 2.100 posti. Costruire, però, all’interno delle mura di cinta di un carcere, in molti casi, significa togliere spazio ad aree destinate ad altro, ad esempio alle caserme degli agenti di polizia penitenziaria o alle attività sportive dei detenuti.

L’edilizia penitenziaria è un capitolo dolente. I fondi sono pochi e non sempre utilizzati al meglio. Molte delle risorse a disposizione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vengono utilizzate per la ristrutturazione di carceri antichissime. Si pensi che una su cinque delle prigioni italiane risale a un periodo che va dal 1200 al 1500 ed è sottoposta a rigorosi vincoli architettonici.

Da tempo si parla di costruzione di nuove carceri. Nel 2000 furono stanziati 410 milioni di euro e previsti ventuno istituti da costruire in sostituzione di altrettante carceri obsolete da dismettere. In più fu previsto che quattro carceri fossero da realizzare ex novo: Nola, Mistretta, Catania e Lucca. I fondi furono messi a disposizione del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.

Nella relazione dell’Ufficio Tecnico per l’edilizia penitenziaria e residenziale del Ministero della Giustizia si legge espressamente che le risorse non sono sufficienti e che da allora ben poco è successo. Delle venticinque opere programmate dopo quasi nove anni sono stati finanziati solamente i lavori del primo lotto di otto carceri: Rieti (250 posti; il carcere è in corso di collaudo); Cagliari (550 posti; la scadenza contrattuale è prevista per novembre 2009 ma si è lontani dalla meta; mancano ben 29 milioni e 300 mila euro); Sassari (430 posti; la fine dei lavori è prevista per marzo 2010; mancano all’appello 31 milioni e 180 mila euro); Tempio Pausania (150 posti; il termine dei lavori è formalmente previsto per l’agosto del 2009 ma mancano 20 milioni di euro); Oristano (250 posti; il carcere dovrebbe essere completato entro settembre 2009 ma ci vogliono ancora 17 milioni e 800 mila euro); Forlì (225 posti, qui i tempi sono più dilatati; dovrebbe essere consegnato nel 2012 se sopraggiungono 22 milioni e 800 mila euro); Rovigo (200 posti; la consegna è prevista per il 2011 ma mancano 16 milioni e 700 mila euro); Trento (220 posti; i lavori solo quasi giunti al termine nei tempi previsti; il finanziamento è a carico della provincia autonoma di Trento). Posto che altrettanti istituti (quelli da dismettere) verranno chiusi, l’incremento complessivo della capienza sarà di soli 1.386 posti, sempre che si trovino le centinaia di milioni mancanti.

A Marsala, Reggio Calabria e Savona tutto è bloccato per contenziosi di varia natura. La lentezza dei tempi di costruzione è tale che un istituto una volta consegnato ha già bisogno di risorse finanziarie per essere ristrutturato o per essere adattato alle richieste provenienti da nuove norme tecniche approvate nel frattempo.

Nella Relazione si descrive come hanno finora funzionato a stento i tentativi di coinvolgimento dei privati. Lo strumento della permuta degli istituti vecchi con aree ove costruirne di nuovi non ha dato risultati: le strutture da dismettere sono state infatti stimate un valore inferiore al 15% del costo della struttura nuova da realizzare.

Il restante 85% sarebbe rimasto a carico del bilancio pubblico. Ugualmente, nonostante siano giunte proposte da imprese private per la realizzazione di istituti in project financing, alla fine costavano troppo allo Stato. Nella finanza di progetto l’investitore privato è disponibile a finanziare la costruzione di un’opera se poi può ricavarne guadagni dalla gestione.

Nel caso delle carceri i servizi appaltabili al privato sono, stante la legge in vigore, marginali e quindi insufficienti a produrre redditi significativi. Lo Stato sarebbe comunque costretto a coprire il 60-70% dei costi di costruzione più a investire 4-5 milioni annui per la gestione per almeno trent’anni. Il tutto mentre il bilancio di molti istituti penitenziari è vicino al collasso finanziario. Il totale dell’esposizione debitoria verso fornitori di beni e servizi supera i 110 milioni di euro e cresce di 50 milioni l’anno.

Lazio: taglio al budget della Giustizia Minorile, fra il 40 e il 60%

 

Comunicato stampa, 12 febbraio 2009

 

A grave rischio l’esperienza della Giustizia Minorile nel Lazio. Per il 2009 previsti tagli al budget fra il 40 e il 60%. L’allarme del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.

"Con tagli indiscriminati come questo, il governo mette fine a una esperienza presa ad esempio dall’Ue". Le decisioni del governo stanno seriamente rischiando di compromettere la funzionalità della giustizia minorile, l’unico settore del sistema giudiziario italiano che funziona cos’ bene da essere preso ad esempio dall’Unione Europea.

La denuncia è del Garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni secondo cui, dopo l’intenzione manifestata nei mesi scorsi di voler accorpare il settore nell’organizzazione del Ministero della Giustizia, "oggi il Governo passa decisamente alle vie di fatto, con tagli al bilancio 2009 del Centro per la Giustizia Minorile del Lazio che vanno dal 30% al 60% del budget 2008, già per altro insufficiente a soddisfare tutte le necessità".

Una situazione che a Roma e nel Lazio risulta essere particolarmente problematica soprattutto se si considera che anche i bilanci dei comuni, che contribuiscono alle spese, sono in sofferenza per effetto delle decisioni della Finanziaria.

Per il Centro per la Giustizia Minorile del Lazio i tagli sono drammatici. Per le spese per i minori in carico ai Servizi minorili il budget 2009 ha subito una riduzione di oltre il 49% (da € 879.000 nel 2008 a € 434.000). Una somma che, secondo il Garante, non riesce a coprire neanche 531.000 euro di spese previste dai contratti in essere: (il vitto per l’Istituto di Casal del Marmo e per i Centri di Prima accoglienza e la sorveglianza nel Centro di Prima accoglienza femminile) cui vanno aggiunti € 60.000 di spese per l’igiene personale e il vestiario dei minori non riducibili.

In tale situazione non verranno rinnovati i contratti di Casal del Marmo con la Caritas, con la cooperativa la Sponda per il servizio di educatori e quello con l’Unione Italiana Sport per tutti (Uisp). Il budget per le spese di funzionamento e gestione cala del 67% (da € 572.000 a € 187.200,00). Considerando che solo i contratti per le pulizie ammontano ad € 249.000, in questa area di costo è preventivabile una situazione debitoria che si aggiungerà a quelle del 2007 e del 2008.

Fra le altre voci di spesa, il budget per i collocamenti in comunità è stato ridotto del 55% (da € 497.000 a € 224.000). Una somma che, rileva Marroni, "deve considerarsi alla luce della crescita del 38% del numero dei collocamenti registrata nel 2008. Le risorse stanziate sono, dunque, insufficienti a coprire i costi dei collocamenti disposti dalla Magistratura e sarà tutta da verificare la volontà degli enti locali di compartecipare a queste spese".

Le spese per le Missioni della polizia penitenziaria (traduzioni e accompagnamento minori, visite domiciliari e nelle comunità, formazione) sono state decurtate del 60% (da € 17.500 a € 7.000). Le somme per la Manutenzione ordinaria fabbricati calano del 71% (da € 106.000 a € 30.800) mentre il budget assegnato per le spese telefoniche (nel 2009 circa € 55.000 con un taglio del 37%) servirà esclusivamente a ripianare i debiti del 2008.

"Dopo aver seriamente pensato di comprometterne la sua autonomia - ha detto il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - oggi il Governo torna alla carica smontando, nei fatti, un pezzo pregiato del nostro sistema di esecuzione penale preso ad esempio in tutta l’Europa".

Secondo il Garante, tagli di questa natura al budget 2009 "decretano la fine di un’esperienza positiva e l’umiliazione di competenze professionali che si sono dimostrate all’altezza della volontà dei cambiamenti che si registrano negli ambiti giovanili. Io credo che siano altri i centri di spesa da razionalizzare. Per questi motivi spero che il Ministero della Giustizia faccia un passo indietro e riveda questa decisione. Un gesto di buon senso che non farebbe disperdere il patrimonio accumulato in questi anni".

Cagliari: un’interrogazione del Pd sul carcere di Buoncammino

di Amalia Schirru (Deputato del Partito Democratico)

 

Comunicato stampa, 12 febbraio 2009

 

C’è stata la risposta all’interrogazione a risposta in Commissione 5-00837 presentata da Amalia Schirru il mercoledì 14 gennaio 2009, seduta n. 114, sul carcere di Buoncammino.

La soluzione del sottosegretario al fenomeno del sovraffollamento è all’attenzione del dipartimento con un’analisi e uno studio per trovare le opportune soluzioni e la creazione di un gruppo di lavoro per la complessiva soluzione del turn-over dei detenuti. Per Cagliari si confermano i dati di carenza del personale che interessano la maggior parte degli istituti penitenziari e che hanno portato alla sospensione dei trasferimenti dei detenuti presso Buoncammino.

Tenuto conto che l’istituto non rientra tra quelli maggiormente in difficoltà operativa, gli unici interventi possibili, secondo il Ministero, sono costituiti da una redistribuzione del personale operante in Sardegna e bisogna aspettare il bando di mobilità che prevede l’assegnazione di ulteriori 13 unità di polizia penitenziaria. Quanto poi alla presenza di giovani donne con figli, come nel caso di poche settimane fa, il sottosegretario ha sottolineato che l’istituto è dotato di una sezione dedicata ad ospitare detenute con i propri bambini e che sono assicurati adeguati standard di assistenza sanitaria essendo centro clinico e risultando attive, in convenzione, numerose specialità, tra cui quella di ginecologia.

Il commento dell’on Schirru: "Pur apprezzando il fatto che si sta studiando il fenomeno carcerario cagliaritano al fine di trovare soluzioni al sovraffollamento, ho dovuto esprimere la mia insoddisfazione per le risposte avute. La criticità del carcere di Buoncammino non è dovuta ad una semplice difficoltà di gestione e non può essere affrontata mediante una semplice redistribuzione del personale, anche perché la situazione è la stessa per tutti gli istituti dell’isola.

Resta poi il fatto gravissimo che la struttura di Buoncammino è inadeguata ad ospitare detenuti malati ed in particolare donne con minori, senza contare poi che tale circostanza è vietata dalla legge 40. Ho chiesto, infine, di convenzionare e/o realizzare più strutture di accoglienza per donne e minori e varare misure straordinarie per alleggerire il carico di lavoro del personale."

Venezia: denuncia della Cgil; in carcere 10 agenti e 300 detenuti

 

La Nuova Venezia, 12 febbraio 2009

 

Si parla spesso del sovraffollamento e del degrado edilizio a cui sono costretti nelle carceri i detenuti, ma non vivono certo meglio gli agenti della Polizia penitenziaria, che tra l’altro, non godono dell’attenzione mediatica dei primi.

A Santa Maria Maggiore c’è anche il problema dell’organico: "Da Roma ci rispondono che noi siamo a posto, che l’organico è coperto, ma sanno bene che dei 167 presenti sulla carta, in realtà sono poco meno di un centinaio quelli in servizio". Così accade che nella casa di reclusione lagunare, che adesso ospita ben 300 reclusi, ci siano turni con una decina di agenti o addirittura meno all’interno.

"Il governo Berlusconi - afferma Teresa Dal Borgo della segreteria Funzione pubblica Cgil - fa propaganda politica ed elettorale sulla sicurezza, mentre nei fatti taglia risorse e così la sicurezza si va a benedire". "A Santa Maria Maggiore - spiega un agente, delegato Cgil - l’organico stabilito nel 2001 è di 167 uomini e formalmente è coperto. Però ci sono 29 persone impegnate nel Servizio navale, quello che trasporta i detenuti sui motoscafi, 11 nel Nucleo traduzioni che accompagna i detenuti ai processi e agli interrogatori, una decina nei servizi amministrativi e ben 29 distaccati in altri uffici esterni. Alla fine restiamo in meno di cento".

"In questo modo - aggiunge un altro agente - la sicurezza non è certamente tenuta in considerazione e si vive sempre in emergenza e quindi viene completamente annullato l’aspetto educativo della pena". "Il direttore Gabriella Straffi - sostiene Dal Borgo - ha sicuramente fatto presente alla Direzione di Roma la situazione veneziana, ma non è arrivata alcuna risposta". Gli agenti sono spesso costretti a turni massacranti: lunedì, ad esempio, c’erano solo tre agenti disponibili per accompagnare gli arrestati da Santa Maria Maggiore al Tribunale di Rialto, ma i detenuti da trasportare per l’interrogatorio di garanzia erano quattro, quindi quei tre poliziotti hanno fatto per ben quattro volte avanti e indietro.

"Posso scommettere che l’attenzione all’ultimo viaggio non era certo al massimo, ma se accade qualcosa a pagare siamo noi" raccontano. Alla Giudecca non va certo meglio, anche se le detenute sono "solo" 80: l’organico sulla carta dovrebbe essere di 112 agenti, mentre in realtà sono una settantina. Nel conto, ad esempio, ci sono 11 agenti che in realtà sono atlete delle Fiamme azzurre, tra loro anche la pattinatrice Carolina Kostner, ma non sono certo nel carcere di Venezia. Per portare avanti le loro richieste gli agenti hanno chiesto un incontro con il prefetto di Venezia. - Giorgio Cecchetti

Livorno: detenuto 30enne tenta di uccidersi bevendo varechina

 

Il Tirreno, 12 febbraio 2009

 

Tenta il suicidio alle Sughere bevendo varechina. Allarme ieri in carcere per un giovane detenuto che avrebbe ingerito volontariamente un bel po’ della pericolosissima sostanza. L’uomo, 30 anni, A.I., magrebino, ora è ricoverato in serie condizioni in ospedale, nel reparto di Medicina d’urgenza. Il fatto è successo ieri alle 13.50 circa. Il giovane si è sentito male e ha dato l’allarme.

È stato prima assistito dal personale del carcere. Poi però, poiché le sue condizioni apparivano piuttosto preoccupanti, si è deciso di far intervenire l’ambulanza. I soccorritori sono arrivati sul posto e gli hanno prestato le prime cure. Quindi, l’hanno caricato sull’ambulanza e trasportato all’ospedale. Qui, dapprima è stato visitato in pronto soccorso, poi ricoverato in Medicina d’urgenza, dove è stato sottoposto a vari esami per vedere se la sostanza avesse causato dei danni.

Non sono comunque emerse gravi ustioni. Oggi il magrebino sarà sottoposto ad altri accertamenti per capire cosa esattamente gli sia successo: il quadro clinico, infatti, non risulta chiarissimo. Il giovane, che abita nella zona di piazza Giovine Italia, ai medici ha dichiarato di aver bevuto della sostanza da un flacone di un litro. Non è chiaro in che punto il giovane abbia ingerito la sostanza e dove l’ abbia trovata. Su questo sono in corso accertamenti

Padova: un sondaggio la elegge "città meno sicura del Nordest"

 

Adnkronos, 12 febbraio 2009

 

Padova è la città meno sicura del Nordest. È il risultato di un sondaggio indetto dal sito web de "Il Gazzettino", che ha domandato ai suoi lettori quale fosse la città meno sicura. Sette lettori su dieci del quotidiano on-line (il 68,6 percento) indicano la città del Santo, riporta il giornale, come capitale nordestina dell’insicurezza a seguire, ma con percentuali irrisorie Verona (10 percento) e Treviso (5,7 percento).

L’ultimo episodio, nonostante il giro di vite sulla sicurezza avviato dal Sindaco la scorsa settimana e nonostante l’ordinanza antidroga che prevede multe di 500 euro per gli assuntori, sabato sera quando una coppia di fidanzati è stata aggredita e malmenata in pieno centro da un branco di immigrati presumibilmente ubriachi.

Il gruppo circonda i due ragazzi, molesta, senza aggredirla, la ragazza mentre a farne le spese è il ragazzo che viene picchiato con un casco da moto e poi rapinato. Sul posto i passanti non intervengono finché non vedono il ragazzo a terra. La Polizia, intervenuta, cerca un gruppo di rumeni o comunque dell’Est Europa.

Genova: teatro; i detenuti di Marassi in scena con "Mahagonny"

 

Secolo XIX, 12 febbraio 2009

 

Reclusi, ma liberi di esprimere e comunicare al pubblico emozioni, idee e creatività artistica dal palco della Tosse. Sono dieci detenuti del carcere di Marassi, allievi dei corsi interni del Vittorio Emanuele II - Ruffini, che insieme a tre studenti del Dams imperiese dell’Università di Genova interpretano e danno vita corale allo spettacolo Mahagonny, liberamente tratto da uno dei pilastri della drammaturgia brechtiana (Ascesa e rovina della città di Mahagonny) nel progetto di laboratorio teatrale sostenuto dalla Provincia con Regione, Comune e Fondazione Carige e realizzato, con la collaborazione del Dams e dei Teatri della Tosse e Stabile, dall’Istituto scolastico superiore Vittorio Emanuele II - Ruffini e dalla Casa Circondariale di Marassi nella cui sede l’edizione 2009 è stata presentata dalla vice direttrice del penitenziario Cristina Marrè con l’assessora provinciale alle carceri Milò Bertolotto, i presidi del Dams e del Vittorio Emanuele II -Ruffini, Roberto Trovato e Nicola Scialfa, il regista Sandro Baldacci, l’insegnante coordinatrice del laboratorio Mirella Cannata e Daniele Bello per la Regione.

"È molto importante che le istituzioni sostengano progetti come questo - ha detto Milò Bertolotto - perché mettono in luce il fatto che il carcere non è un’isola chiusa rispetto alla società e che al suo interno ci sono persone che hanno commesso errori, ma hanno diritto di avere prospettive per il futuro e di poter esprimere la propria voce, i propri sentimenti e passioni. La Provincia è da tempo impegnata a sostenere azioni e interventi per il mondo del carcere e il reinserimento delle persone recluse, aprendo nuove opportunità e canali di dialogo con la società che possono arricchire la nostra umanità in un mondo in cui si moltiplicano la solitudine e gli esclusi.

"Il laboratorio teatrale (che coinvolge tutti i detenuti iscritti ai corsi scolastici di grafica interni al carcere del Vittorio Emanuele-Ruffini, dalla progettazione del manifesto alla costruzione delle scene ) "è la quarta edizione di un progetto estremamente positivo - ha detto Cristina Marrè - sul piano artistico e sociale, scolastico e formativo nel quale la Casa Circondariale crede con molta convinzione e che è stato possibile realizzare nelle sue rappresentazioni all’esterno del carcere anche grazie all’impegno e alla grande professionalità della Polizia Penitenziaria.

"Mahagonny, dura e provocatoria metafora di una città in cui tutto, ma proprio tutto, è lecito se si possiede denaro mentre chi è colpevole di non averne viene messo a morte e dove il clima di disordini sociali viene rasserenato per legge dall’intervento militare, andrà in scena al Teatro della Tosse il 13 e 14 febbraio, alle 11 per le scuole e alle 21 per il pubblico (biglietti interi a 13 euro e per gli studenti a 7, informazioni e botteghino allo 010.2470793 e, per le scuole, allo 010.2487011) ed è diretto da Sandro Baldacci.

"Per gli spettacoli delle scorse edizioni avevamo elaborato testi e sceneggiature con i detenuti del laboratorio, quest’anno invece abbiamo scelto un classico del teatro del novecento, rivisitando un dramma di stampo anticapitalistico di Brecht: sappiamo di esserci assunti un rischio nei confronti della compagnia e del pubblico perché quest’opera, suddivisa in quadri, è molto dura e potente e ci aspettiamo, dal dibattito che seguirà gli spettacoli con gli studenti, che faccia molto riflettere. " Un laboratorio che sale sul palcoscenico "con una visione del carcere che cozza con altre che avanzano - dice il preside Scialfa - e che vuole parlare soprattutto ai giovani perché comprendano la realtà vera del carcere e non i suoi luoghi comuni più triti e ottusi, espressione di una società che spesso non tende all’inclusione ma ad escludere il diverso o lo straniero.

"Il Dams vuole dare risposte al teatro sociale" - dice il preside Roberto Trovato - partecipando a un progetto che si misura con la creatività e il rispetto della dignità di chi ha commesso errori ed è fondamentale per la loro crescita e per quella dei nostri studenti con i quali, dopo un’iniziale diffidenza, i detenuti hanno instaurato ottimi rapporti e anche amicizia. Il sogno, aggiunge il regista Baldacci, sarebbe che da tutto questo nascessero, con il sostegno delle istituzioni, opportunità permanenti di formare professionalità teatrali anche per le persone detenute, per esempio nel settore dei tecnici di scena.

Immigrazione: stretta dell’Unione europea, sul sistema dei visti

di Paolo Bozzacchi

 

Italia Oggi, 12 febbraio 2009

 

Regole più severe sul sistema d’informazione visti (Vis) a norma del codice frontiere Schengen. Il Parlamento europeo e il Consiglio hanno infatti approvato in settimana il Regolamento 81/2009 che modifica il regolamento della Commissione (562/2006).

La novità più importante riguarda i cittadini di un paese terzo rispetto all’Ue in possesso di un regolare di visto, per i quali il controllo approfondito presso la frontiera esterna d’ingresso nel territorio dell’Unione comprenderà anche l’accertamento dell’identità del titolare del visto e dell’autenticità del visto, tramite consultazione del sistema d’informazione visti (Vis).

Sarà possibile inoltre, nel rispetto della normativa vigente, anche lo scambio di dati tra Stati membri sui visti per soggiorni di breve durata. Il nuovo regolamento concede altresì alcune deroghe, nel caso di intensità di traffico tale da rendere eccessivi i tempi di attesa al valico di frontiera, o il pieno sfruttamento delle risorse in termini di personale a disposizione (organizzazione e mezzi compresi).

Tale deroga rimane possibile esclusivamente nei casi in cui venga effettuata una valutazione preliminare secondo cui non vi sono rischi connessi con la sicurezza interna e l’immigrazione illegale. In questo caso il Vis può essere consultato utilizzando il numero di vignetta visto in tutti i casi, e, su base aleatoria, il numero di vignetta visto in combinazione con la verifica delle impronte digitali. Ad ogni modo in tutti i casi in cui sussista un dubbio rispetto all’identità del titolare del visto o all’autenticità del visto stesso, il Vis è consultato sistematicamente utilizzando il numero di vignetta visto in combinazione con la verifica delle impronte digitali.

In ogni caso quest’ultima deroga può essere applicata esclusivamente al valico di frontiera interessato, fino a quando sono soddisfatte le condizioni di cui sopra. La decisione ultima viene comunque presa a livello della guardia di frontiera che esercita il comando presso il valico di frontiera, o al livello più alto. Lo Stato membro interessato notifica immediatamente la propria decisione agli altri Stati membri e alla Commissione.

Ogni Stato membro trasmette annualmente al Parlamento europeo e alla Commissione una relazione sull’applicazione delle modifiche approvate, che comprenda il numero di cittadini di paesi terzi sottoposti a verifica tramite il Vis, utilizzando esclusivamente il numero di vignetta visto e la durata dei tempi di attesa. Tali provvedimenti si applicano per una durata massima di tre anni, che inizia tre anni dopo l’entrata in funzionamento del Vis.

Prima del termine del secondo anno di applicazione delle modifiche, la Commissione trasmette al Parlamento europeo e al Consiglio una valutazione della loro applicazione. Sulla base di tale valutazione il Parlamento europeo o il Consiglio possono invitare la Commissione a proporre opportune nuove modifiche. Obiettivo di fondo di queste modifiche al Regolamento 562/2006 il miglioramento dell’attuazione della politica comune in materia di visti.

Tra gli obiettivi specifici del Vis figurano la semplificazione delle verifiche ai valichi di frontiera esterna e la facilitazione della lotta antifrode. Il regolamento 767/2008 definisce i criteri di ricerca e le condizioni per l’accesso ai dati da parte delle autorità competenti, per l’esecuzione dei controlli ai valichi di frontiera esterni, allo scopo di verificare l’identità dei titolari del visto, nonché il rispetto delle condizioni d’ingresso e per consentire l’identificazione di qualsiasi persona che non soddisfi o non soddisfi più le condizioni d’ingresso, soggiorno o residenza nel territorio degli Stati membri. Soltanto una verifica delle impronte digitali consente di confermare con certezza che la persona che intende entrare nello Spazio di Schengen sia la stessa a cui il visto è stato rilasciato.

Immigrazione: la rabbia dei romeni; i criminali fuori dall’Italia!

di Ario Gervasutti

 

Il Gazzettino, 12 febbraio 2009

 

Lettera delle comunità del Nordest al Parlamento di Bucarest: "In galera in Romania i delinquenti e con pene più severe".

Rivolta a Nordest: i romeni onesti, la stragrande maggioranza che vive e lavora costruendosi il futuro, si sono arrabbiati. Hanno scritto una lettera al senatore Viorel Badea, eletto al Parlamento della Romania in rappresentanza dei cittadini romeni all’estero, e sono andati giù pesante: "Adesso basta. Tenetevi i delinquenti nelle carceri romene, e aggiungete alla loro pena un supplemento per aver danneggiato l’immagine del nostro Paese", uno dei punti del documento.

Hanno proseguito sottolineando di essere stanchi di far di tutto per integrarsi e poi, per colpa di pochi delinquenti fuori controllo, ritrovarsi costretti a giustificarsi, a scusarsi. "Qui hanno la percezione di farla franca così i nostri connazionali, che commettono reati gravi in Italia, devono scontare la loro pena esclusivamente nelle carceri romene".

"Adesso basta. Tenetevi i delinquenti nelle carceri rumene, e aggiungete alla loro pena un supplemento per aver danneggiato l’immagine della Romania". Il solito leghista? Macché. A parlare sono loro, i romeni per bene, la stragrande maggioranza che vive e lavora costruendosi il futuro in Italia, in quel Nordest che alcuni loro connazionali senza tetto né legge hanno scambiato per una prateria da depredare.

Sono stanchi di far di tutto per integrarsi, e poi per colpa di un pugno di delinquenti fuori controllo ritrovarsi costretti a giustificarsi, a scusarsi quasi: perfino a essere guardati di traverso. Così hanno rotto gli indugi e hanno fatto qualcosa che, se l’avesse fatta un italiano, probabilmente si sarebbe preso del "razzista". Hanno scritto una lettera al senatore eletto al Parlamento della Romania in rappresentanza dei cittadini romeni all’estero, e sono andati giù pesante.

Gli autori della lettera, inviata una settimana fa, sono i responsabili di alcune delle principali istituzioni culturali romene del Nordest, sparse tra Treviso e Padova, Venezia e Udine. Si rivolgono al senatore Viorel Badea, elencando 5 richieste precise. La prima: "I cittadini romeni che commettono reati gravi in Italia scontino la loro pena esclusivamente nelle carceri romene". Il perché lo spiega una dei firmatari, presidente dell’associazione socio-culturale romeno-moldava di Treviso: "Perché in Romania c’è la certezza della pena - dice Florentina Rosioru -.

Non so se le carceri sono più dure, ma credo che per un delinquente sia sufficiente sapere che se deve fare un anno o dieci anni di galera, li fa per davvero. I malviventi, non solo in Romania, hanno la percezione che in Italia la possono fare franca. Alcuni giorni fa in Ungheria è stato ucciso un famoso sportivo romeno: indovini dove sono scappati i due assassini ungheresi? In Italia. Si chieda il perché".

La risposta è scontata. Ma se gli italiani si sentono vittime, i romeni onesti non sono da meno. Perciò aggiungono un secondo punto alle richieste inviate a Bucarest: "Alla pena da scontare si aggiunga un periodo supplementare in carcere, sulla base dell’introduzione nel codice penale del reato di "diffamazione e gravi danni recati all’immagine della Romania e dei suoi cittadini all’estero". Richieste che farebbero felici i leghisti...

"Non lo so e non ci interessa - spiega la Rosaiu, laurea in psicologia e assistenza sociale -; non mi intendo di politica. Posso solo dire che non tutti i leghisti sono uguali: con il sindaco di Treviso Gobbo, per esempio, abbiamo un buon rapporto".

A Padova lavora Raduca Lazarovici, presidente dell’associazione MigraMente-Centro per il dialogo interculturale, che ha aggiunto altri tre punti alle richieste inviate alle autorità romene: "Le istituzioni della Presidenza, del Governo e del Parlamento della Romania, sia direttamente che attraverso le rappresentanze consolari, si attivino nei momenti di crisi e diano vita ad ampie, efficienti e immediate iniziative diplomatiche di protezione e riabilitazione dell’immagine delle comunità romene in Italia.

Il Governo assicuri poi una rappresentanza consolare efficiente, attraverso misure di verifica e sorveglianza costante dei servizi consolari e delle competenze del personale assunto. Infine, si devolvano dei fondi alle associazioni di romeni d’Italia destinati a controbilanciare gli effetti negativi di tali momenti di crisi e a promuovere un’immagine positiva del Paese e dei suoi cittadini che vivono e lavorano onestamente in Italia".

In calce, sono aggiunte le firme di Dumitru Ilinca, presidente di Ad Cultura Fisica di Camposampiero, Danut Saboanu, presidente dell’Associazione Culturale Romena Decebal-Traian di San Donà di Piave e Iorgu Iordache dell’Associazione Socio-Culturale Romeno-Italiana "Europa" di Cervignano del Friuli.

Cinque comunità autorevoli nel panorama dell’immigrazione romena, per cinque richieste chiare e precise. Che partono da considerazioni inoppugnabili: "È risaputo il fatto che periodicamente in Italia accadono incidenti incresciosi - scrivono i firmatari - i cui protagonisti sono cittadini romeni. Dopo quasi un anno e mezzo dalla tragedia di Tor di Quinto (il caso Mailat, ndr), situazioni simili si ripropongono in concomitanza nelle province del Lazio, di Padova e di Treviso. I cittadini italiani si sentono invasi e aggrediti dai romeni nella propria casa e rispondono di conseguenza.

Perciò le associazioni di romeni dell’Italia di Nordest La sollecitano a proporre al Parlamento della Romania un pacchetto di misure legislative e diplomatiche, che vengano a proteggere direttamente i cittadini romeni residenti in Italia. I romeni che lavorano onestamente in Italia non devono diventare vulnerabili e debitori per gli atti biasimevoli commessi da connazionali delinquenti".

Nessuna indulgenza, nemmeno per le autorità di Bucarest neanche troppo velatamente accusate di costituire all’estero rappresentanze consolari inadeguate. "In Romania la violenza sessuale è un reato rarissimo - spiega Raduca Lazarovici - e viene punito con pene durissime.

Allora perché qui si scatenano? Soggetti provenienti da società fortemente patriarcali quando vengono qui si sentono inadeguati e "umiliati". Per reazione istintiva, si sentono legittimati a umiliare a loro volta: e colpiscono ovviamente il più debole, la donna.

La donna di questi "padroni che si credono tanto forti". A casa loro quello che l’uomo dice, si fa: qui questa prepotenza viene meno, perché non sono più a casa loro. E poiché la giustizia italiana sta passando una crisi di efficienza, vogliamo che paghino le loro colpe nelle carceri del loro Paese, in modo che capiscano che le regole sono le stesse ovunque".

Droghe: minorenne internato da quattro mesi, per uno spinello

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 12 febbraio 2009

 

Di questi tempi si raccontano grandi favole sulle scarcerazioni facili. A sentire certi telegiornali della sera, a leggere alcuni quotidiani che sembrano stampati nei retrobottega delle questure, ad ascoltare i discorsi forcaioli e giustizialisti dei politici della maggioranza, come dell’opposizione che non c’è, l’Italia sarebbe una specie di bengodi del malaffare.

Assassini, stupratori, ladri, soprattutto se migranti in situazione amministrativa irregolare, cosiddetti "clandestini", ancora di più se Romeni, scorazzerebbero impunemente per il paese protetti da leggi compiacenti, al punto che i militari sono finiti a presidiare i crocicchi delle strade, "cittadini onesti" hanno dovuto organizzarsi in ronde, formare delle "squadrette di vigilanza" per far regnare ordine e tranquillità.

Poi però quando si squarcia il velo dell’informazione costruita, spiattellata bella e pronta dalle agenzie che affogano le redazioni dove un giornalismo sempre più pigro ha ridotto la propria professione al copia e incolla, si precipita nel gorgo del paese reale.

Ci si imbatte così in una giungla di storie che fanno fatica ad emergere e diventare notizia come quella di Simone, un ragazzo romano diciassettenne arrestato lo scorso 8 ottobre all’uscita di una fermata della metropolitana perché trovato in possesso di un pezzetto di hashish, che le successive perizie hanno poi quantificato in 0,368 mg di sostanza attiva. Una percentuale irrisoria, nemmeno due spinelli, ammessa anche dalle draconiane norme vigenti (la legge Fini-Giovanardi) come uso personale.

Quella che doveva essere una banale vicenda, una di quelle piccole disavventure che spesso animano le biografie adolescenziali e si chiudono velocemente con un rimbrotto e il perdono giudiziale (Simone è incensurato), si è via via trasformata in una odissea.

Non sarebbe stato così se Simone avesse avuto alle spalle una tranquilla famiglia borghese, se invece di vivere in una di quelle lande sperdute della periferia della capitale, costellata di palazzoni dormitorio, avesse avuto casa in un quartiere residenziale. Ma Simone non ha avuto questa fortuna, alle spalle ha una situazione familiare complicata. Ha perso la mamma da bambino e il padre è in una condizione psicologica critica, per questo era conosciuto dai servizi sociali che in passato si erano dovuti occupare di lui a causa di seri problemi di convivenza con il genitore (al punto da dover sporgere delle denuncie perché veniva picchiato).

A Simone la vita non ha mai sorriso. È diventato grande molto presto, ha dovuto arrangiarsi e trovare famiglia fuori dalla famiglia, nella cerchia di amici e compagni del quartiere che animano un centro sociale, il Laboratorio Tana libera tutti, ed ora lo stanno sostenendo. Forse agli occhi di chi lo ha prima arrestato e poi avviato in detenzione domiciliare nel girone dei centri di accoglienza e in una comunità terapeutica in provincia di Catanzaro a 600 chilometri di distanza dal suo mondo, questo contesto "ambientale" non piaceva.

"In casi del genere, dove sono presenti minori incensurati - spiega l’avvocato Francesco Romeo che segue il ragazzo - la prassi comunemente seguita è quella di chiudere la vicenda senza alcuna conseguenza, facendo ricorso alla formula giuridica della "irrilevanza penale del fatto"". Simone invece viene prima messo ai domiciliari in casa del padre, senza tenere conto della manifesta incompatibilità col genitore e della disponibilità ad ospitarlo che in alternativa avevano offerto altre famiglie del quartiere. Ovviamente quella convivenza forzata non dura e Simone se ne va.

I servizi sociali leggono l’episodio come un segno di refrattarietà del giovane. La provenienza sociale e il contesto ambientale si trasformano in segni stigmatizzanti della sua personalità, facendolo apparire come un potenziale deviante in età adulta, se non debitamente corretto. Viene così collocato in un centro di prima accoglienza, lo stesso dove si trova il sedicenne accusato di aver picchiato e bruciato l’Indiano di Nettuno. Niente male come ambiente rieducativo per un giovane cresciuto al contrario nel rispetto della tolleranza e dell’accoglienza.

Finisce poi in un Cpm (centro di prima accoglienza per minori) e da qui viene spedito in una comunità terapeutica nei pressi di Catanzaro, dove è sottoposto a terapia farmacologica psichiatrica. Il ragazzo è naturalmente ansioso è nervoso per quello che gli sta accadendo. È solo e lontano dai suoi punti di riferimento, ma chi si occupa di lui lo ritiene instabile, drogato, malato. Simone dovrà resistere e dare fondo a tutte le sue energie se vorrà uscire integro da questa storia.

Intanto all’udienza del tribunale dei minori, il pm ha chiesto una condanna a 5 mesi e 10 giorni, di cui 4 già scontati. Non soddisfatto, il presidente ha rinviato ogni decisione disponendo una perizia psichiatrica. Il perito ha chiesto 90 giorni per il deposito.

A quel punto Simone avrà di gran lunga superato i 5 mesi di condanna richiesti, sempre che il tribunale non decida di internarlo per ragioni psichiatriche. Quella "maggioranza morale" che ha avuto tanto a cuore il corpo inerte di Eluana non ha nulla da dire per quello pieno d’energia vitale di Simone?

Somalia: carcere galleggiante Usa per i pirati del Corno d’Africa

 

Asca, 12 febbraio 2009

 

Una piccola Guantanamo in navigazione nel Golfo di Aden dove imprigionare i cittadini somali sospettati di atti di pirateria. È l’aberrazione giuridica creata dalla Marina militare Usa impegnata nella caccia ai sequestratori di petroliere e mercantili nelle acque del Corno d’Africa. L’unità navale Usns Lewis and Clark, normalmente utilizzata per il trasporto di equipaggiamenti e come deposito munizioni, è stata trasformata in un supercarcere dove detenere "in via temporanea" coloro che saranno catturati perché sospettati di prendere parte ad atti di pirateria nelle acque somale.

Per svolgere questa nuova missione che riproduce le famigerate "extraordinary renditions" della Cia e del Dipartimento della Difesa post 11 settembre, nella nave militare sono state realizzate alcune celle per "ospitare" sino a 26 presunti pirati. Secondo quanto dichiarato dal Comando della V Flotta Usa di stanza in Bahrein, l’equipaggio della Lewis and Clark è stato ridotto da 158 a 118 marinai, e "nella parte della nave trasformata in area di detenzione, sono state deposte stuoie e coperte e sono state accantonate grandi quantità di cibo come riso e fagioli".

Le premesse di una carcerazione ben al di là dell’umana sopportazione ci sono tutte. Ma la Marina Usa tranquillizza: i detenuti non permarranno a lungo nella prigione galleggiante. In base ad un accordo il cui contenuto è "top secret", sottoscritto a fine gennaio dal Dipartimento di Stato Usa e il governo di Nairobi, i prigionieri verranno trasferiti in alcuni centri di detenzione del Kenya in attesa di essere giudicati da un tribunale nazionale.

Analoghi accordi di deportazione di cittadini sospettati di pirateria o terrorismo internazionale starebbero per essere firmati da Washington con Tanzania e Gibuti. Anche i Paesi dell’Unione europea starebbero ricorrendo alla formula delle Guantanamo flottanti e della consegna dei prigionieri somali a paesi terzi. Secondo quanto rivelato dal portavoce del Pentagono, Bryan Whitman, la Gran Bretagna avrebbe già sottoscritto con il Kenya un accordo analogo a quello firmato dagli Stati Uniti.

La ministra della difesa spagnola, Carme Chacòn, nel confermare i contatti dell’Unione europea con alcuni paesi del continente africano per ottenere l’autorizzazione a trasferire in loco le persone catturate, ha dichiarato che il suo ministero sta valutando la possibilità d’imbarcare poliziotti di paesi africani sulle navi da guerra spagnole che pattugliano le coste somale. Madrid guiderà dal prossimo mese di maggio la task force navale Ue anti-pirateria.

La Lewis and Clark è giunta nelle acque mediorientali da quasi un anno e attualmente fa parte della "Combined Task Force 151", la forza multinazionale a guida USA che conduce le operazioni di pattugliamento in un’area estesissima comprendente il Golfo di Aden, il Mar Rosso, l’Oceano Indiano e il Mare Arabico.

Varata nel 2006, l’unità pesa 41.000 tonnellate ed è lunga 210 metri, ed è stata realizzata nell’ambito del "T-Ake Program" del Military Sealift Command, un programma dal costo di 4 miliardi di dollari che ha dotate l’US Navy di navi di supporto per i pronti interventi in qualsiasi scacchiere di guerra. La nuova Guantanamo mobile manterrà tuttavia inalterato il suo assetto di nave da combattimento, grazie ai due elicotteri SH-60 Seahawk ospitati. Il Seahawk è un velivolo utilizzato nella guerra anti-sottomarini e anti-nave ed è armato con missili Agm-114 Hellfire e siluri Mk 46, Mk 50 ed Mk 54.

Di navi galleggianti USA in giro per il mondo destinate alla detenzione illegale di cittadini stranieri sospettati di terrorismo, se n’era parlato in passato come variante del sistema creato dall’amministrazione Bush per la deportazione dei prigionieri delle guerre in Afghanistan ed Iraq. Lo scorso anno, il quotidiano inglese The Guardian aveva pubblicato gli stralci di un rapporto dell’organizzazione non governativa "Reprieve", impegnata nella difesa dei diritti umani.

Secondo il rapporto, ben 17 navi militari - prigione sarebbero state usate dal governo americano a partire dal 2001 per "detenere, interrogare, con metodi vicini alla tortura, e trasferire da un paese all’altro i prigionieri catturati". Reprieve avrebbe pure documentato 200 casi di trasferimenti in prigioni segrete dislocate in paesi noti per violare sistematicamente i diritti umani; le "renditions" si sarebbero verificate tutte a partire dal 2006, anno in cui il presidente George W. Bush aveva assicurato la fine di operazioni simili.

"Hanno scelto le navi per tenere le loro malefatte lontano dagli occhi dei media e degli avvocati delle associazioni umanitarie", dichiarava a The Guardian l’avvocato Clive Stafford Smith, responsabile legale di Reprieve. "Nelle navi statunitensi non ci sono prigionieri", era stata la secca risposta dell’US Navy. Oggi - presidente il democratico Barck Obama - la stessa marina è orgogliosa di annunciare l’allestimento del deposito munizioni - carcere flottante, emblema di nuove e vecchie barbarie.

 

 

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