Rassegna stampa 5 dicembre

 

Giustizia: lo scandalo dell’ergastolo, contro la dignità dell’uomo

di Stefano Anastasia e Franco Corleone

 

La Nuova Ferrara, 5 dicembre 2009

 

"Privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte".

Così parlava Aldo Moro ai suoi studenti, nella Facoltà di Scienze politiche, a Roma, solo due anni prima di essere sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Nell’Italia di oggi, invece, la pena dell’ergastolo non sembra fare più scandalo, stretti come siamo tra ossessione per la sicurezza e risposte giustizialiste. E anzi sembra troppo poco, al punto da chiedere che il massimo della pena (Mosconi) non abbia più solo dimensioni quantitative (temporali) diverse, ma anche qualitative, di particolare afflittività, come lascia intendere la diffusa invocazione (e la frequente pratica) del 41-bis non più solo come misura estrema ed eccezionale di isolamento dal mondo esterno di particolari detenuti affiliati a organizzazioni criminali, ma come loro ordinaria forma di punizione.

Può apparire stravagante allora che, in una stagione segnata dal predominio dell’ossessione securitaria, il primo dei volumi pubblicati dalla Casa editrice Ediesse in collaborazione con la Società della ragione sia dedicato al tema dell’ergastolo e alle buone ragioni per la sua abolizione. Non intende essere un segno di snobismo o di un facile andare controcorrente, ma indica un impegno coerente e intransigente su battaglie difficili, ma che sole possono segnare la differenza.

Vogliamo partecipare al compito ineludibile di ricostruire una cultura smarrita. È una responsabilità grave e ingiustificata non avere messo come priorità assoluta, dopo la Liberazione, la riforma del codice penale del 1930, opera del grande giurista Alfredo Rocco, ma un testo simbolo del regime fascista e coerente con la sua concezione dello stato etico. Si è perduta la grande occasione di riscrivere il patto della convivenza sociale e si è atteso fino a farsi travolgere da un’ondata giustizialista che ha seppellito i principi fondamentali di un diritto penale liberale e garantista che pure in Italia ha avuto padri e maestri, a partire dalla grande tradizione dell’illuminismo penale.

Come ricordano alcuni dei contributi pubblicati nel volume (Calvi e Gonnella, principalmente), durante il primo governo Prodi, nel 1998, il Senato approvò un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo, ma troppe prudenze impedirono la conclusione di una proposta che aveva ottenuto un ampio consenso politico. Salvatore Senese, nella relazione che presentò all’Assemblea di Palazzo Madama a nome della Commissione giustizia (e che, con il consenso dell’Autore, ripubblichiamo integralmente), denunciò il prevalere di elementi di "scissione e lacerazione) ricordando i no all’abolizione motivati in nome della crisi della giustizia. "Insistere per il mantenimento dell’ergastolo significa quasi offrire una sorta di offa ingannevole all’opinione pubblica: l’ergastolo, insomma, come strumento di mascheramento, come strumento di pacificazione momentanea, come placebo".

Quella scelta di civiltà fu sommersa nella palude delle titubanze, dei pregiudizi e della ipocrita distinzione - ancora una volta - fra una riforma accolta e condivisa in via di principio e poi negata per ragioni di opportunità politica. Per altro, nel progetto di nuovo codice penale elaborato in quegli anni dalla Commissione ministeriale presieduta dal professor Carlo Federico Grosso l’abolizione dell’ergastolo era scritta a chiare lettere, essendovi sottolineato che "l’ergastolo è una pena di morte distillata.

È sbagliato dire che è l’equivalente della pena di morte, perché si perderebbe la distinzione definitiva tra l’essere vivi e il non esserlo più. Però, al tempo stesso, sarebbe sbagliato non cogliere la vicinanza estrema tra la brutalità della pena di morte e la brutalità dell’ergastolo".

Nella legislatura successiva si insediò una nuova commissione per la riforma del Codice penale presieduta dal magistrato Carlo Nordio e nella scorsa legislatura la successiva "Commissione Pisapia" confermò la scelta abolizionista, con il sostegno degli stessi ergastolani, impegnatisi in tutta Italia in una inedita forma di mobilitazione civile, di cui danno conto - in questo libro - Boccia e Gonnella. Lo scioglimento anticipato del Parlamento chiuse anche questa prospettiva e ora sembra abbandonata finanche la strada delle buone intenzioni e delle promesse congeniali alla falsa coscienza.

Giustizia: Lo Moro (Pd); no a ottica custodiale, sì a rieducativa

 

Ansa, 5 dicembre 2009

 

"Per affrontare il problema carcerario non servono superpoteri centralizzati. Serve dismettere la politica dei tagli e dare fiducia ai livelli regionali". È quanto afferma, in una nota, la parlamentare del Pd, Doris Lo Moro, dopo avere visitato le carceri di Palmi e di Laureana di Borrello, nel reggino.

"Ho sentito il dovere di capire - prosegue Lo Moro - quale fosse la situazione di Palmi, dove nel mese di novembre, a distanza di una settimana, si è verificato prima il suicidio di un detenuto e poi la tentata evasione di due ergastolani con ferimento di due agenti di custodia che, unitamente ad altri tre colleghi, hanno prontamente reagito e bloccato i due detenuti, senza neanche fare uso delle armi".

"Certo sarà la magistratura a ricostruire la verità - prosegue Lo Moro - ma non si può non sottolineare che occorre più trasparenza su quanto succede nelle carceri italiane, dove il disagio vero dei detenuti è spesso sottovalutato e, al tempo stesso, si verifica che detenuti particolarmente pericolosi vengano in possesso di armi!.

"In realtà - conclude Lo Moro - per affrontare il problema carcerario serve innanzitutto un progetto e serve scegliere se ci si muove in un’ottica custodiale, continuando a smistare i detenuti senza tener conto della loro storia personale e sottovalutando ogni espressione di disagio, o se ci si muove in un’ottica concretamente rieducativa. Questa strada, che è l’unica coerente con i valori costituzionali, richiede uno sforzo in più e richiede risorse e competenze. Il Governo invece sembra muoversi in direzione contraria, con continui tagli e con una tendenza all’accentramento delle scelte anche di natura economica che si dimostra sbagliata e inefficace".

Giustizia: i reati diminuiscono ma aumentano arresti e denunce

 

Avvenire, 5 dicembre 2009

 

Negli ultimi cinque anni (dal 2004 al 2008) si è registrato in Italia un costante incremento degli arresti e delle denunce. E i dati relativi ai primi dieci mesi dell’anno ancora in corso confermano la tendenza positiva. È quanto emerge dalla Relazione sull’attività delle forze di polizia inviata al Parlamento dal ministero dell’Interno.

Questo l’andamento delle denunce illustrato nel documento: più 3,29% nel 2005, più 4,26 nel 2006, più 6,38 nel 2007, più 3,58% nel 2008. Ecco, invece, le percentuali riguardanti gli arresti: più 18,1% nel 2005, più 16,36% nel 2006, più 9,99% nel 2007, più 3,47% nel 2008.

L’anno scorso sono state denunciate 691.819 persone (di cui 205.188 stranieri e 25.686 minori) e arrestati 197.974 soggetti (di cui 97.423 stranieri e 6.140 minori). Per quanto riguarda i delitti, c’è stato un incremento fino al 2007, mentre nel 2008, si è registrato un calo (2.933.146 delitti, meno 7,61% rispetto all’anno precedente).

La flessione ha riguardato in particolare i furti (meno 14,9%), gli scippi (meno 18,5), le rapine (meno 10,8%), le truffe e le frodi informatiche (meno 13,7%)". Il governo intende andare avanti - afferma il ministro dell’Interno Roberto Maroni nell’introduzione della Relazione trasmessa alle Camere - lungo la strada intrapresa e i risultati dell’azione delle forze di polizia, nei primi dieci mesi di quest’anno, confermano l’efficacia delle misure adottate. Per questo motivo ringrazio ancora una volte le donne e gli uomini impegnati quotidianamente nel sistema di sicurezza".

 

Tutti i reati sono diminuiti mediamente dell’8,2%

 

Maroni al convegno dell’Associazione Bancaria Italiana (Abi): "Le iniziative prese dal sistema delle banche e dalle forze dell’ordine stanno funzionando". Diminuiscono del 20% le rapine in banca, quelle a danno di esercizi commerciali, come tabaccherie o farmacie, scendono del 25%. I dati raccolti nell’indagine condotta dall’Ossif, il centro di ricerca dell’Associazione Bancaria Italiana (Abi), sono stati illustrati dal presidente Corrado Fissola nel corso del convegno "La sicurezza in banca: scenario e prospettive", che si è svolto alla presenza del ministro dell’Interno Roberto Maroni questa mattina presso Palazzo Altieri a Roma, sul tema: "La collaborazione tra il sistema bancario e le Forze dell’Ordine".

Tra gennaio e agosto 2009, secondo quanto riferito dal ministro dell’Interno, tutti i reati sono diminuiti dell’8,2% rispetto allo stesso periodo del 2008. In dettaglio, si registra un calo del 19,6% per le rapine in banca e un calo del 24,8% per le rapine negli esercizi commerciali. Diminuisce anche il bottino complessivo: 19,9 milioni di euro, il 18,7% in meno dell’anno precedente.

"Qualcuno - ha commentato Maroni - aveva ipotizzato che con la crisi economica sarebbero aumentati i fenomeni criminosi, ma i dati dei reati, tutti con il segno meno, dimostrano che il lavoro delle forze dell’ordine è stato straordinario su tutto il territorio". Il presidente Fissola, inoltre, ha ricordato che nel 2008 il sistema bancario ha investito quasi 800 milioni nella sicurezza: un più 8% rispetto al 2007. "Le iniziative prese dal sistema delle banche e dalle forze dell’ordine - ha osservato Maroni - stanno funzionando".

Un altro fattore che ha concorso al raggiungimento dei risultati, secondo il ministro dell’Interno, è quello dell’"ottima" collaborazione tra Polizia e Carabinieri. Inoltre, Maroni ha sottolineato la crescente importanza del ruolo che assumerà la polizia locale sul territorio.

L’obiettivo di Maroni, però, non è solo individuare gli autori dei crimini, ma anche rafforzare le attività di prevenzione. "Voglio potenziare - ha detto - i sistemi di videosorveglianza nelle città". Per questo, come il ministro dell’Interno ha riferito anche durante i recenti incontri con gli amministratori di Varese e di Como, "sono stati stanziati cento milioni di euro per finanziare progetti per la sicurezza di comuni".

Giustizia: 168 detenuti morti nel 2009, 17 soltanto in novembre

 

Agi, 5 dicembre 2009

 

Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane sono morti 168 detenuti, di cui 66 per suicidio. Nel solo mese di novembre i decessi sono stati 17, di cui 5 per suicidio, 6 per malattia e 6 per cause ancora da accertare.

Sono gli ultimi dati aggiornati forniti dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui fanno parte i Radicali Italiani, le associazioni Il Detenuto Ignoto, Antigone e A Buon Diritto, con Radiocarcere e Ristretti Orizzonti. Tra le morti accadute a novembre alcune in particolare hanno suscitato vivaci polemiche: da quella di Giuseppe Saladino, arrestato per aver scassinato dei parchimetri e morto il giorno seguente nel carcere di Parma (sembra per infarto), a quella di Yassine El Baghdadi, di soli 17 anni, suicida nell’Ipm di Firenze dove si trovava da mesi attendendo il processo per il tentato furto di alcuni orologi.

Ma anche altri suicidi, ricorda l’Osservatorio, hanno dato luogo a discussioni sulle motivazioni e le dinamiche dell’atto: da quello di Giovanni Lorusso, nel carcere di Palmi (Reggio Calabria), dove sembra fosse stato trasferito dopo un litigio con degli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Ariano Irpino (Avellino), a quello di Bruno Vidali nel carcere di Tolmezzo (Udine), che è morto proclamando la sua innocenza, dopo mesi di battaglie legali che non avevano sortito alcun effetto (anche lui era in attesa di processo), per finire con il caso di Massimo Gallo, morto impiccato in un sottoscala di transito verso il cortile per l’ora d’aria nel carcere di Vercelli.

Tra le morti per cause naturali, l’Osservatorio segnala quella di Simone La Penna, ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli, con problemi di tossicodipendenza e anoressico, che in carcere aveva perso 30 chili di peso, fino a morire.

Nei giorni scorsi, grazie alle segnalazioni di diverse persone, l’Osservatorio è riuscito a "far emergere" 4 casi accaduti a novembre (3 a Napoli Secondigliano e 1 a Cagliari), che non erano stati rilevati da nessun organo di informazione. Su questi, si stanno raccogliendo altre notizie, "che verranno integrate nel dossier - si legge nella nota dell’Osservatorio - appena le avremo verificate".

Giustizia: morte di Cucchi; possibile che nessuno abbia colpe?

di Pierluigi Battista

 

Corriere della Sera, 5 dicembre 2009

 

Tra un po’ la vicenda terrificante di Stefano Cucchi sarà dimenticata. La sua morte sarà derubricata a fatale incidente, e le tumefazioni a evento inspiegabile. La famiglia che si è battuta con dignità e coraggio sarà inghiottita nella solitudine di un lutto privato. E l’opinione pubblica non si domanderà più allarmata se nelle carceri italiane accadono cose indegne di un Paese civile.

È uno scenario ipotetico e pessimistico. Speriamo che non si traduca in realtà ma molti, troppi indizi fanno pensare che anche stavolta potrebbe andare a finire così. La Direzione generale delle carceri, il cui documento è stato descritto da Giovanni Bianconi ieri sul nostro giornale, parla certo di una "morte disumana e degradante" e di una "incredibile, continuativa mancata risposta all’effettiva tutela dei diritti, in tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici".

Ma sembra escludere, in questa catena di incivili inadempienze, una responsabilità specifica degli agenti penitenziari sotto indagine presso la Procura di Roma. Negli stessi giorni le autorità sanitarie hanno reintegrato i medici del "Sandro Pertini" dove Cucchi è stato ricoverato e nascosto alla famiglia e dove è morto in circostanze ancora misteriose. Si profila già un deplorevole balletto tra carabinieri e agenti penitenziari in un gioco che Ilaria Cucchi definisce tristemente di "scaricabarile". Sembrano sbiadirsi i contorni di ciò che è realmente accaduto in quei giorni e in quelle notti, tra il carcere e l’ospedale.

La famiglia Cucchi si è comportata sinora nel migliore dei modi. Chiede con insistenza la verità, con fermezza ma senza indulgenze per chi prende a pretesto l’allucinante vicenda che l’ha travolta per inscenare processi allo Stato e alle istituzioni. Ma non cede sul punto fondamentale. Vuole sapere tutto sulle lesioni, sulle ecchimosi che hanno devastato Stefano, sulle ragioni che hanno indotto i sanitari dell’ospedale a non permettere alla famiglia di visitare il loro congiunto, sulle cause di una morte così improvvisa, sulle condizioni mostruose in cui era ridotto il corpo di Stefano ripreso dalle fotografie dopo l’autopsia.

Vuole che i colpevoli siano identificati: quelli veri. Non il capro espiatorio. Non un nome qualunque per appagare un’astratta fame di giustizia. Ma il rischio è che anche questo mistero produca un’assuefazione nell’opinione pubblica. Che l’attenzione pubblica scemi attorno a un caso che ha turbato gli italiani consapevoli che non è tollerabile l’inciviltà nelle carceri, il sospetto che si inscenino pestaggi, sopraffazioni, forme di violenza e di pressione nei confronti di chi, debole tra i deboli, non ha modo di difendersi. Il pericolo è che ci si rassegni. Che la morte di Stefano resti avvolta per sempre nella nebbia dell’indifferenza.

Che prenda piede una dinamica auto assolutoria, tra chi si è occupato della detenzione in carcere di Stefano Cucchi e chi in ospedale avrebbe dovuto prendere in custodia un corpo malato di un giovane che dopo qualche giorno è morto senza che i familiari sapessero in quali condizioni si trovasse.

Il garantismo è un principio sacro. Ma anche la verità lo è. Anche la civiltà delle carceri italiane dovrebbe essere una cornice irrinunciabile. Perché la ricerca di ciò che è veramente accaduto non sia solo l’ossessione di una famiglia lasciata in solitudine, ma un dovere per l’intera comunità che non tollera percosse, botte, incuria verso i malati.

Giustizia: morte Stefano Cucchi; spuntano altri due testimoni

di Marino Bisso e Carlo Picozza

 

La Repubblica, 5 dicembre 2009

 

A due settimane dall’incidente probatorio con il detenuto africano che ha fissato il primo punto fermo sulle responsabilità della polizia penitenziaria nel pestaggio di Stefano Cucchi nel sotterraneo del tribunale, spuntano due nuovi testimoni. E additano altre responsabilità. Due albanesi depongono contro i carabinieri, come ha fatto il tunisino che incontrò Cucchi nella medicheria del carcere Regina Coeli.

Ai due detenuti dell’Est, Cucchi avrebbe consegnato il suo sfogo, appena arrivato nel bunker del tribunale: "Sono stato pestato dai carabinieri". E con le nuove testimonianze, l’indagine riapre una finestra sull’ipotesi di un’aggressione a più riprese sul trentunenne arrestato il 15 ottobre alle 23.30 con pochi grammi di droga e morto denutrito, disidratato, con la schiena rotta e il corpo segnato da sospette bruciature di sigaretta, all’alba del 22 nel padiglione carcerario dell’ospedale Sandro Pertini.

Le nuove testimonianze ripropongono l’ipotesi, accreditata subito dall’Amministrazione penitenziaria, che le violenze su Cucchi potrebbero essersi consumate almeno in due tempi: in caserma, nelle ore immediatamente successive all’arresto, e nel sotterraneo del tribunale mentre il giovane aspettava di essere chiamato per il processo. Gli inquirenti, però, non nascondono difficoltà e perplessità. Dalle dichiarazioni dei due albanesi emergerebbero alcuni dubbi: per la procura i detenuti albanesi non avrebbero avuto modo né tempo di incrociare Cucchi prima di essere rinchiusi nelle celle.

I pm Francesca Loi e Vincenzo Barba hanno già ascoltato i due carabinieri che il 16 ottobre alle 9.20 accompagnarono il giovane dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso parte della notte, in tribunale. Presto sarà la volta di altri due loro colleghi, accompagnatori degli albanesi: si tratta degli stessi militari che arrestarono Cucchi nelle ultime ore del 15 ottobre. Ad alimentare interrogativi e rischi di invalidare le testimonianze ci sarebbero anche i registri con i movimenti da e per le camere di sicurezza: persone e tempi non sosterrebbero i riscontri.

Ancora più fitto è il mistero del detenuto tunisino che rischia un’incriminazione per calunnia. Per gli inquirenti la sua lettera potrebbe essere stata ispirata dagli agenti penitenziari. Comunque, trovare riscontri alle sue parole sarà impresa ardua: quella notte nella cella di sicurezza di Tor Sapienza Cucchi era solo. I magistrati, poi, hanno trovato nella lettera una dovizia di particolari non raccontati nella deposizione a verbale fatta dal detenuto qualche giorno prima. La stessa circostanza che non sarebbe stata scritta di pugno dell’africano, perché poco pratico della lingua italiana, insospettisce gli inquirenti.

Che ora, però, hanno a disposizione anche un altro atto indiretto di accusa ai carabinieri che tennero in custodia Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 nella caserma Appio prima e poi in quella di Tor Sapienza.

L’indagine va avanti. Dopo aver ascoltato il tunisino, condannato per droga al carcere fino al 2014, sarà presto convocato il detenuto italiano che scrisse materialmente le tre pagine. Ieri è stato sentito dai pm anche il senatore Stefano Pedica (Idv) al quale il tunisino aveva affidato la lettera per farla consegnare alla famiglia Cucchi e ai magistrati.

"Chiederò", ha annunciato Pedica dopo la deposizione, "che vengano installate le telecamere nelle celle del tribunale e nelle camere di sicurezza di commissariati e uffici dei carabinieri per conoscere cosa accade lì dentro". "E le persone arrestate", continua, "siano fotografate prima e dopo il loro ingresso".

Giustizia: omicidio Meredith; condanne ad Amanda e Raffaele 

 

Corriere della Sera, 5 dicembre 2009

 

"Colpevoli" dell’omicidio di Meredith Kercher. Ventisei anni di reclusione per Amanda Knox, 25 per Raffaele Sollecito. La ragazza americana è stata condannata anche per il reato di calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, finito in carcere nella prima fase delle indagini e poi dichiarato estraneo alla vicenda: per questo reato Amanda dovrà risarcire il musicista congolese con 40mila euro. Il risarcimento per la proprietaria della casa di via della Pergola è stato fissato in 25mila euro.

Questa la sentenza emessa dalla Corte d’assise di Perugia (audio) per i due giovani accusati dell’omicidio della studentessa inglese. I due imputati hanno evitato l’ergastolo, che era stato chiesto dai pubblici ministeri, perché la corte ha ritenuto di escludere le aggravanti contestate e di concedere le attenuanti generiche. I reati, inoltre, sono stati dichiarati unificati dal vincolo della continuazione e da quello di violenza sessuale assorbito nel reato di omicidio volontario. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e interdetti per sempre dai pubblici uffici. Dovranno, inoltre, risarcire i famigliari di Meredith.

La Knox è esplosa in lacrime dopo aver ascoltato la sentenza. "No, no...", ha mormorato abbracciata al suo avvocato Luciano Ghirga, mentre il presidente della corte Massei leggeva il lungo dispositivo. Sollecito è rimasto impassibile. Quando ha lasciato l’aula, la sorella gli ha urlato: "Forza, forza Raffaele!". "Combatteremo fino all’ultimo, non è finita qua" ha detto la compagna del padre di Amanda Curt Knox.

La compagna del padre di Sollecito ha detto tra le lacrime, riferendosi ai giudici: "Non hanno fatto fino in fondo il loro dovere. Dovevano assolverlo, Raffaele è innocente". Quando il ragazzo è stato portato via dall’aula, la donna ha urlato "forza Raffaele" prima di scoppiare in un pianto a dirotto. Visibilmente contrariati gli avvocati delle due difese.

Alla lettura del verdetto ha assistito anche Lumumba, frastornato: "Non ho capito bene la sentenza - ha detto ai giornalisti -. Non posso dire niente ora". Fuori dal tribunale di Perugia si era radunata una folla di passanti e curiosi: molti si sono accalcati tentando di entrare nell’aula mescolandosi ai 200 giornalisti accreditati.

Per Amanda, l’Amélie di Seattle come l’hanno definita i suoi legali, e Raffaele Sollecito, lo studente d’informatica laureatosi ingegnere in prigione, è arrivato dunque il giorno della verità, dopo due anni di carcere e 11 mesi di udienze. E la verità è stata dura. Amanda e Raffaele non sono, secondo la corte d’Assise, i ragazzi acqua e sapone al loro primo amore, travolti da uno "tsunami mediatico" e da un’accusa pesantissima ma "incompiuta", perché "senza movente e senza riscontri certi".

Al contrario, la corte d’Assise, entrata venerdì mattina in camera di consiglio e uscita dopo mezzanotte, ha affermando che sono stati loro ad aver ucciso il 2 novembre di due anni fa la studentessa inglese Meredith Kercher. Assieme a Rudy Guede, l’ivoriano che ha scelto il rito abbreviato e che è già stato condannato a 30 anni di carcere. Una "sentenza contraddittoria", secondo Giulia Bongiorno legale di Sollecito, tanto che in appello non potrà che arrivare un’assoluzione: "Credo che avere fiducia nella giustizia significhi prendere atto delle sentenze anche quando ci danno torto - dice l’avvocato -. Io prendo questa sentenza di condanna come un rinvio della sentenza di assoluzione di Raffaele, anche perché nel dispositivo c’è qualcosa di contraddittorio, in quanto di fronte al tipo di contestazione sono state riconosciute le attenuanti generiche". Questa, conclude Bongiorno, "non è una sentenza di condanna, è un doloroso differimento di sentenza di assoluzione che arriverà. Ora pensiamo all’appello".

Per la giuria popolare non è stata una decisione facile: condannare due ragazzi di 25 e 22 anni all’ergastolo sarebbe stato distruggere per sempre la loro vita; assolverli avrebbe significato sconfessare non solo l’intera inchiesta ma anche i giudici che prima di loro si sono espressi. Ed è arrivata una condanna a metà. E sono proprio le sentenze precedenti uno degli aspetti su cui ha puntato la procura di Perugia per sostenere la colpevolezza dei due, rivendicando le "plurime e costanti conferme" avute dai tribunali.

Assieme alle prove scientifiche "inconfutabili", che collocano i due ex fidanzatini nell’appartamento di via della Pergola la sera in cui Meredith fu uccisa: il Dna di Amanda e di Mez sulle macchie di sangue repertate nel bagno, il profilo genetico della studentessa di Seattle assieme a quello di Mez su un coltello da cucina trovato dagli investigatori nella casa di Raffaele Sollecito, il Dna dello studente barese sul gancetto del reggiseno di Meredith.

La corte ha dunque giudicato valida la dinamica dell’omicidio ricostruita dai pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi. Quella sera i tre arrivarono a casa in via della Pergola, dove c’era già la giovane inglese. "Non sappiamo con certezza che intenzioni avessero - aveva detto Mignini nella sua accusa -, ma è possibile che ci sia stata una discussione, poi degenerata, tra Mez e Amanda per i soldi scomparsi. O forse la studentessa inglese era contrariata per la presenza di Guede".

Fatto sta che "la Knox, Sollecito e l’ivoriano, sotto l’influsso degli stupefacenti e forse dell’alcol, decidono comunque di porre in atto il progetto di coinvolgere Mez in un pesante gioco sessuale". Un’aggressione con un "crescendo incontrollato, inarrestabile di violenza e gioco sessuale" che termina con la morte della ragazza. A sferrare la coltellata mortale, secondo la procura, è Amanda, che "voleva vendicarsi di quella smorfiosa troppo seria e morigerata per i suoi gusti", mentre Raffaele la tiene ferma. È, invece, Rudy a violentarla. "Mez è stata uccisa in maniera impressionante da tre furie scatenate" avevano ribadito i pm. Parole, e prove, che le difese dei due imputati hanno tentato di smontare nel corso di 11 mesi. Senza riuscirvi.

Per la prima notte in carcere dopo la sentenza Amanda e Raffaele sono stati sorvegliati a vista da un agente, per evitare che commettessero gesti violenti. Già nei giorni scorsi, dopo le richieste dell’accusa, la direzione del carcere di Capanne aveva rafforzato i controlli sui due giovani e la scorsa notte, quando è arrivato il cellulare della penitenziaria, sono stati ulteriormente innalzati. Sabato mattina uno degli avvocati di Sollecito, Luca Maori, è andato in carcere per assistere il giovane pugliese.

Giustizia: Finanziaria taglia i rimborsi dei Comuni per le ronde

 

Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2009

 

Saltano i rimborsi alle ronde erogati dai comuni. La novità, introdotta nella versione iniziale del maxi-emendamento nella tarda serata di giovedì, ha sollevato una serie di polemiche ed eccezioni ed è sparita dalla versione finale del maxi emendamento. Così come era stata concepita inizialmente, la disposizione stabiliva che le associazioni di cittadini riunite per garantire la sicurezza, vale a dire le ronde, potevano essere rimborsate "da parte dei Comuni delle spese sostenute" nel rispetto dei vincoli del patto di stabilità. Una novità assoluta rispetto al modello concepito dal ministero dell’Interno: il responsabile, Roberto Maroni, assicurò che le ronde non avrebbero avuto contributi statali né avrebbero gravato in qualche modo sulle casse dello stato.

Varate ufficialmente il 2 luglio con l’ok al decreto sicurezza, le associazioni dei volontari per la sicurezza non sono mai decollate. Proprio un mese fa il ministro dell’Interno, in un convegno dei sindacati di polizia a Roma, aveva invitato coloro che parlavano di "flop" delle ronde per la sicurezza a "usare prudenza prima di dare sentenze anticipate".

La novità proposta giovedì a Montecitorio - ma ora, dunque, cancellata - fa pensare a un tentativo per rilanciare un’iniziativa rimasta al palo. Non a caso il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, dice esplicitamente che "senza un rimborso spese il fenomeno delle ronde è destinato a fallire. Senza questa possibilità, infatti, a febbraio, al termine della fase transitoria del regolamento del ministero, il comune sarebbe costretto a interrompe-

re il servizio dei poliziotti in pensione". Emblematico il caso di Bergamo: a metà ottobre la città lombarda si era candidata a essere tra le prime in Italia a far partire le ronde; oggi però, a distanza di due mesi dal via libera della prefettura al regolamento comunale, nessuna associazione si è ancora iscritta al registro.

"Qualcuno si è fatto avanti - spiega Cristian Invernizzi, assessore alla sicurezza del Comune di Bergamo e segretario provinciale della Lega Nord - certo, questo emendamento alla finanziaria potrebbe servire da incentivo per le associazioni che, fino a oggi, avrebbero dovuto operare a titolo gratuito. Finora - aggiunge - il comune non avrebbe potuto pagare nessuno. I soldi? Dipende da quanto ci chiederanno, ma alla fine li troveremo, perché con la volontà si riesce a fare tutto".

Ma per vedere le ronde a Bergamo ci vorranno comunque ancora delle settimane: a metà ottobre l’assessore Invernizzi aveva ipotizzato l’entrata in vigore del servizio entro novembre, oggi invece non si sbilancia, "partiremo il prima possibile". Nota Claudio Giardullo, segretario generale della Silp-Cgil: "Quella dei rimborsi alle ronde è una scelta grave. A maggior ragione se si pensa che le maggiori risorse per le forze di polizia arrivano dalla vendita dei beni confiscati, una modalità incerta e tutta da verificare".

Sicilia: Fleres; sulla medicina penitenziaria Regione è in ritardo

 

Agi, 5 dicembre 2009

 

Sta per scadere il termine previsto dalla finanziaria nazionale per il recepimento, nelle Regioni a statuto speciale, del decreto che prevede il passaggio della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, ma ancora la Sicilia non si è pronunciata. Lo dice Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti sul recepimento del Dpcm dell’1 aprile 2008.

"Ho interpellato l’assessore alla Sanità - prosegue il senatore del Pdl - per conoscere quali provvedimenti di natura legislativa o amministrativa è suo intendimento porre in essere in vista dell’imminente scadenza fissata per il 31 dicembre. L’assenza di determinazioni da parte dell’assessore potrebbe compromettere la tutela del diritto alla salute espressamente sancito dalla nostra Costituzione, poiché, dal 1 gennaio 2010 si rischia, in assenza di provvedimenti specifici, di non poter più somministrare alcuna cura ai ristretti".

Livorno: mio figlio morto in carcere da sette mesi, voglio verità

 

Il Tirreno, 5 dicembre 2009

 

"Sono passati sette mesi da quando mio figlio è morto nel carcere delle Sughere. E ancora non sappiamo niente, né dell’indagine né del materiale che lui aveva lasciato". Loredana Tabert ha perso un figlio, ma non la speranza di avere giustizia. È convinta che la ragazza che l’ha denunciato abbia detto il falso.

Ion Vasiliu, questo il nome del detenuto che si è ucciso il primo maggio scorso a 21 appena impiccandosi in una cella del penitenziario, era stato arrestato con un’accusa odiosa, quella di violenza sessuale. Per morire ha usato un lenzuolo: un agente di polizia penitenziaria non l’ha visto in cella e l’ha trovato nel bagno, ormai privo di vita. Adesso la sua famiglia chiede che parta il processo, prima di tutto nei confronti della giovane che l’aveva denunciato.

"Di mio figlio - dice la signora Loredana - hanno detto che ha violentato questa ragazza che non aveva mai visto prima. Non è vero: lei era la sua fidanzata, tante volte ha frequentato casa mia. L’accusa di violenza sessuale è falsa, così com’è falso che non si conoscevano". Seguita dall’avvocato Nicola Giribaldi, la famiglia di Ion Vasiliu si è rivolta alla Procura della Repubblica già nei mesi scorsi, anche per avere indietro le lettere che il giovane aveva lasciato. "Ci hanno detto che nel giro di poche settimane tutto si sarebbe risolto - dice ancora la madre del giovane suicida - ma invece non ci hanno dato niente e non si conosce quando la magistratura chiuderà l’indagine".

Napoli: a Poggioreale code fin dall’alba, per visitare i detenuti

di Dario Del Porto

 

La Repubblica, 5 dicembre 2009

 

L’attesa delle 7.30 del mattino in punto, quando il cancello del carcere di Poggioreale si apre e incominciano le procedure per l’accettazione dei familiari dei detenuti in attesa di colloquio con i propri congiunti.

Carmela è arrivata alle cinque del pomeriggio. Ha dormito in auto, si è messa in coda in piena notte. Lei come gli altri. Donne, uomini, anziani, anche bambini. In fila per dodici ore, qualcuno anche di più. Non fa differenza se sotto la pioggia o sotto il sole. Incuranti del freddo, in piedi o appoggiati su sedie di fortuna.

Tutti ad aspettare le 7.30 del mattino in punto, quando il cancello del carcere di Poggioreale si aprirà e potranno iniziare le procedure per l’accettazione dei familiari dei detenuti in attesa di colloquio con i propri congiunti. Le immagini scattate nella notte fra giovedì e venerdì rappresentano forse la risposta migliore a chi ancora pensa che il sovraffollamento degli istituti rappresenti un problema solo per chi, operatore o detenuto, si trova dentro le strutture.

Poggioreale conta una popolazione carceraria che sfiora i 2.700 reclusi. Dal lunedì al venerdì il personale, pur alle prese con gravissime difficoltà e carenze, assicura in media colloqui per oltre 500 detenuti al giorno ai quali possono fare visita fino a tre adulti e due minori. Dunque ogni mattina circa 1500 persone devono essere sottoposte ai controlli di legge prima di poter avere accesso alle sale predisposte per gli incontri. E tanti trascorrono la notte in attesa, pur di poter essere tra i primi a entrare.

L’allarme sul sovraffollamento di Poggioreale e degli altri penitenziari è stato riproposto nel corso del seminario sulla "Affettività in carcere" promosso dal garante regionale per i detenuti Adriana Tocco. E in quella occasione il capo del servizio ispettivo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Cascini, ha elencato i numeri dai quali emerge con chiarezza lo spaccato della situazione: su 66 mila detenuti in tutta Italia, oltre 31 mila sono in attesa di giudizio. Quasi la metà, quindi.

"Nell’estate 2006 - ha sottolineato Cascini, ex pm del pool anticamorra napoletano - sono usciti dal carcere 26 mila persone in tutta Italia. Oggi siamo arrivati a 66 mila, con un incremento degli ingressi che oscilla tra i mille e i 1200 nuovi ingressi al mese". Il turnover aggiornato al 31 ottobre 2009 parla di 79.912 ingressi, 60 mila dei quali di detenuti indicati come "giudicabili". Di questi però più di 22 mila sono destinati a uscire nel giro di una decina di giorni.

Tra i detenuti definitivi (oltre 32 mila) circa 10 mila sono in cella per reati di mafia. "Ma dopo quello delle organizzazioni criminali - ha evidenziato Cascini - il mare magnum dei detenuti è costituito dagli emarginati: tossicodipendenti ed extracomunitari". La maggior parte dei reclusi deve scontare condanne comprese fra i 3 e i 5 anni (7.800 persone) mentre quasi 6.500 sono in cella perché condannati a pene fra i 5 e i 10 anni. E poi c’è il problema delle strutture. Cascini ha citato un esempio per tutti: "Ho visitato il carcere di Madrid 3. Ospita 1.200 detenuti. È grande dieci volte Poggioreale".

Modena: "l’emergenza carcere" senza fine e le false promesse

di Giuliano Barbolini (Senatore Partito Democratico)

 

La Gazzetta di Modena, 5 dicembre 2009

 

Posta di fronte ai problemi veri questa destra, invece di impegnarsi a risolverli, li rimuove o parla d’altro. Prendiamo l’emergenza carceri. Qualche mese fa furono l’on. Bertolini e il presidente della commissione giustizia del Senato, sen. Berselli, a promettere in pompa magna 41 agenti in più e 150 detenuti in meno al carcere di S. Anna. Siamo alla fine dell’anno e quelle promesse si sono rivelate vane, a dimostrazione del fatto che - come affermano i sindacati - il governo non sta facendo nulla. Intanto la situazione si aggrava di giorno in giorno, come hanno potuto constatare di recente il sindaco Pighi, il presidente del consiglio comunale e i consiglieri del Pd.

Ma ancora una volta - stante la sua totale inadeguatezza a risolvere i problemi - la destra accusa di demagogia chi, come il Pd, i sindacati di polizia e i responsabili degli istituti penitenziari, chiede l’unica misura ragionevole: più agenti, meno affollamento delle carceri, e un piano serio di potenziamento delle strutture restrittive. Quanto ai detenuti stranieri, non servono ricette estemporanee ma politiche complessive che prevedano accordi bilaterali con i Paesi d’origine, governo dei flussi migratori, contrasto dell’illegalità, nuovi processi d’integrazione e misure alternative alla detenzione.

 

Nuove videocamere al carcere: il Comune faccia una colletta

 

Al Sant’Anna le videocamere fanno scappar da ridere, serve un nuovo ed efficace impianto di videosorveglianza ma non ci sono i soldi. Allora, visto che qualcosa per il carcere bisogna iniziare a fare, è meglio che inizi a pensarci il Comune di Modena che fra l’altro, di soldi, ne ha già promessi alla procura per la sicurezza. Si può tentare con una apposita raccolta di fondi: lo propongono in una interrogazione al sindaco i consiglieri del Pd Giulia Morini, Paolo Trande Trande, Maurizio Dori, Francesco Rocco e Giulio Guerzoni, reduci fra l’altro di una recente visita.. ai locali.

"Preso atto che la gestione del sistema penitenziario non compete all’ente locale ma allo Stato, che il presidio tecnologico è tanto più importante quanto più risulta carente la dotazione di personale, interroghiamo il sindaco per sapere se il Comune possa in maniera diretta (magari in accordo con gli altri enti locali) od indiretta (iniziative di raccolta fondi in accordo con associazioni, fondazioni e altri), andare a sostegno di questa importante necessità, cioè il sistema di videosorveglianza digitale a presidio della sicurezza del personale di vigilanza del carcere, della città e dei detenuti". L’investimento, il potenziamento tecnologico, richiederebbe la spesa di 60mila euro.

Belluno: ieri sera protesta dei detenuti contro sovraffollamento

 

Il Corriere delle Alpi, 5 dicembre 2009

 

Protesta "rumorosa" dei detenuti nel carcere di Baldenich. Ieri sera, poco dopo le 20, alcuni carcerati hanno iniziato a battere pentole e posate contro le sbarre alle finestre e a fischiare. Il rumore è giunto anche nelle case dei bellunesi che abitano vicini all’area, creando allarmismo. Quella messa in atto ieri a Belluno, rientra in un’iniziativa che in questi giorni sta interessando tutte le case circondariali italiane e che mira ad attirare l’attenzione sui problemi purtroppo ormai annosi che affliggono le carceri.

Primo tra tutti il sovraffollamento, a cui si aggiungono condizioni igieniche poco consone, condizioni precarie degli edifici adibiti a carcere, oltre al trattamento che viene riservato ai carcerati. Una simile protesta era stata messa in atto la scorsa estate dagli "ospiti" di Baldenich e all’epoca era stata accompagnata anche da uno sciopero della fame. In quell’occasione le manifestazioni di malcontento erano durate qualche giorno. Intanto nella Finanziaria dovrebbero essere stati stanziate risorse per nuove assunzioni.

Roma: Natale a Rebibbia, a 64 anni, per furto energia elettrica

 

Apcom, 5 dicembre 2009

 

A 64 anni trascorrerà il Natale in carcere a Rebibbia per scontare quattro mesi per un furto di corrente elettrica risalente al 2004. Protagonista di questa vicenda, segnalata dal garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni, Carlo Z., residente a Bellegra.

L’uomo, a quanto appreso dai collaboratori del Garante, cinque anni fa era stato condannato a quattro mesi di reclusione perché giudicato colpevole di aver rubato corrente elettrica per la propria abitazione collegando un filo volante ad un palo dell’illuminazione pubblica.

Arrestato lo scorso 3 settembre e con un fine pena al 3 gennaio 2010, Carlo è stato trasferito a Rebibbia dove, quasi da subito, ha dovuto fare i conti con le sue precarie condizioni di salute, con gravi problemi alle gambe e ai reni. Ieri ha dovuto disertare l’incontro con i collaboratori del Garante perché i forti dolori gli impedivano di camminare.

"In poche settimane questo è il terzo caso surreale di cui siamo costretti ad occuparci - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - Prima il barbone arrestato in ospedale perché doveva scontare tre mesi di carcere per il furto di un pezzo di pane da un supermercato, poi l’anziano ultrasettantenne di Anzio accusato di occupazione abusiva di spiaggia con gli ombrelloni, infine questo furto di corrente. Tutte storie che hanno due denominatori comuni: l’età elevata di chi finisce in carcere e la sproporzione fra reato commesso e pena comminata.

Non credo - conclude - che questi anziani fossero pericolosi per la società. Credo, invece, che il sistema abbiamo imboccato una china pericolosa in cui, a fronte di ogni condotta contraria alla legge vi è una sola risposta: il carcere. Ritenuto opportuno segnalare questi casi al vice presidente del Csm Nicola Mancino, affinché l’organo di autogoverno dei giudici possa rendersi conto di quanto certe sentenze possano minare i diritti delle persone".

Enna: i detenuti stranieri presentano un libro di ricette etniche

 

La Sicilia, 5 dicembre 2009

 

Ci sono i piatti del Magreb, quelli polacchi, della Romania, del Gambia, del Senagal e di tutte le etnie presenti al carcere di Enna; ci sono i disegni fatti a mano di Kefir, Kemo, Laslo, e tanti altri ancora, nel volume "Incontriamoci a tavola" realizzato dagli extracomunitari ospiti della Casa Circondariale di Enna assieme alle insegnanti della scuola elementare I° circolo De Amicis.

Il libro edito dalla casa editrice palermitana "Pietro Vittorietti Edizioni", sarà presentato ad Enna, nel corso di una conferenza stampa, giovedì prossimo 10 dicembre alle ore 11 alla Galleria Civica di Palazzo Chiaramonte. Il ricavato della vendita sarà interamente destinato alla creazione di un fondo per i detenuti del carcere.

Sapori, odori e ricordi per testimoniare l’appartenenza a mondi lontani che dentro il carcere finiscono per convivere e contaminarsi. La presentazione è inserita nell’ambito della apertura al pubblico di una mostra, mercato dei manufatti delle detenute e dei detenuti del carcere di Enna e delle realtà cooperative che operano con e nelle carceri italiane. Tra i lavori il feltro delle detenute di Enna realizzato con la lana, quella grezza, quella della pecora, impastata con sapone di Marsiglia e acqua e rollata a mano e con bastoni di legno.

In mostra anche le foto tratte dal calendario, realizzato nella casa circondariale di Enna con i detenuti, dal titolo "L’arte di Arrangiarsi. Tasselli di vita quotidiana in carcere" del fotografo Paolo Andolina e con i testi di Pierelisa Rizzo. L’evento fa parte del progetto sul Natale ennese finanziato dal Comune, e organizzato, dall’Agesci, Gruppo Scout Enna, dall’Inner Whel,in collaborazione con l’Anfe regionale, Sicilia Ambiente, La Casa Circondariale e i Vigili del Fuoco. Gli addobbi natalizi del capoluogo, realizzati con materiale riciclato, sono stati creati dai detenuti del carcere di Enna.

Immigrazione: Oliverio (Pd); al Cie di Crotone situazione grave

 

Agi, 5 dicembre 2009

 

I parlamentari del Partito democratico Nicodemo Oliverio, capogruppo in Commissione Agricoltura alla Camera, e Franco Laratta, componente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera, accompagnati dal sindaco di Crotone, Peppino Vallone, e dal vice sindaco di Isola Capo Rizzuto, Anselmo Rizzo, oggi hanno visitato il centro per richiedenti asilo (Cara) ed il centro di identificazione ed espulsione (Cie) per immigrati in località Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, alle porte di Crotone.

La visita rientra nel programma nazionale che in questi giorni vede diversi parlamentari occuparsi della tematiche dell’immigrazione, e che segue quello di alcuni mesi fa dedicato alla situazione dei detenuti e delle carceri. "Si è trattato di una visita molto proficua - spiega Oliverio - che ci ha consentito di verificare a fondo la situazione dei centri di Isola Capo Rizzuto. Le problematiche legate all’immigrazione ed all’integrazione continuano ad essere al centro del dibattito politico e sociale nel nostro Paese, e proprio in questo contesto riteniamo che vanno seriamente affrontate tutte le criticità che riguardano i centri Cara e Cie di Isola Capo Rizzuto. Al Cara diverse cose sono state fatte, ma non bastano.

Lì abbiamo incontrato immigrati che provengono da diverse parti del mondo, ognuno con la propria storia ed il proprio dramma. Ci sono anche sette nuclei familiari, e proprio uno di questi, proveniente dall’Afghanistan, ci ha chiesto di fare qualcosa per la pace nel loro Paese, per fermare una guerra infernale che dura orami da molti anni. In tal senso abbiamo preso un impegno, che porteremo in Parlamento, per una mozione congiunta in favore di un appello, anche di carattere internazionale, per riportare la normalità in Afghanistan".

Oliverio, poi, ha sottolineato la gravissima situazione del Cie, allestito nelle vecchie case che un tempo erano state destinate agli aviatori del campo base di Sant’Anna. "È davvero incredibile - rileva l’esponente del Pd - che una struttura così importante e per molti aspetti delicata, sia stata allestita in fretta e furia in un complesso di abitazioni vecchie, fatiscenti, che avrebbero bisogno di una riqualificazione totale. Mancano addirittura i marmi di gradini e dai pavimento, e spesso sono stati usati per scontri tra gli stessi immigrati irregolari.

C’è poi da tenere sempre in considerazione il grosso problema che riguarda i rapporti tra gli immigrati ed i cittadini di Isola Capo Rizzuto residenti nei quartieri ubicati nei pressi dei centri. Come Pd abbiamo più volte denunciato la mancanza di politiche incisive per un sano e concreto sviluppo dell’integrazione, per la sicurezza dei cittadini, delle loro abitazioni, delle loro cose.

Per fare questo, ovviamente, c’è bisogno di mettere le forze i polizia, che comunque stanno già svolgendo un eccezionale ed apprezzato lavoro, la prefettura, le istituzioni locali e gli operatori e volontari impegnati con spirito di servizio nei due centri, nelle condizioni di lavorare al meglio, con più strumenti e risorse, e soprattutto con un adeguato organico di personale. Ed in ogni caso - conclude Nicodemo Oliverio - certo non guasterebbe una visita del ministro dell’Interno, per passare, finalmente, dalle parole ai fatti in tema di politiche dell’immigrazione. Gli impegni e le promesse non bastano, qui siamo in attesa degli interventi. Quelli veri".

Immigrazione: chiedeva lo stipendio, ucciso operaio senegalese 

 

Corriere della Sera, 5 dicembre 2009

 

Il suo corpo è stato trovato in un canale di scolo di una risaia, nel vercellese, 35 anni immigrato senegalese, entrato in clandestinità e lavoratore in nero, ucciso dal datore di lavoro dopo una lite per un compenso non pagato per tre mesi di lavoro. L’omicida, artigiano biellese, è stato arrestato reo confesso. Le indagini sono state condotte dal nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Vercelli, che hanno ricostruito la vicenda e spiegano: due giorni fa in un canale tra le risaie del vercellese, nel comune di Arborio, è stato trovato il corpo di un immigrato. Era senza documenti i militari hanno eseguito accertamenti e attraverso le impronte digitali sono arrivati a identificare il corpo: Ibrahim M.B., senegalese di 35 anni.

I carabinieri hanno rintracciato il fratello, che vive a Biella, ed è un sindacalista, il quale - spiegano i militari - ha raccontato di aver messo fuori casa Ibrahim questa estate, stanco di vederlo ubriacarsi e usare droga: non poteva più ospitare il fratello, soprattutto perché in casa ha un figlio piccolo. Poi ha saputo che Ibrahim aveva trovato sistemazione da un artigiano di Biella. Il 35enne senegalese, infatti, si accorda con il suo datore di lavoro: vitto, alloggio, più 500 euro al mese per lavorare con lui. Il senegalese però a ottobre perde il permesso di soggiorno a causa dei suoi precedenti di polizia, quindi lavora in nero.

L’artigiano continua ad ospitarlo e dargli vitto e alloggio, ma il senegalese a un certo punto decide di lasciare l’Italia, dove ormai era un clandestino e lo dice al suo datore: voglio andarmene, dammi i soldi che mi devi. Circa 500 euro per i 50 giorni che aveva lavorato. L’artigiano dice di non essere stato pagato a sua volta e di avere un po’ di pazienza. E continua a temporeggiare, ma l’immigrato una sera non vuole più aspettare e durante una cena scoppi la lite, Ibrahim impugna un coltello, ma l’altro è esperto di arti marziali, lo disarma e a sua volta afferra il coltello e colpisce più volte al torace il senegalese, uccidendolo: così l’artigiano biellese ha raccontato quella notte, il 24 novembre scorso, confessando il delitto ai carabinieri. Dopo ha caricato il corpo del senegalese sul furgoncino del lavoro, da Biella è andato nelle campagne vercellesi e nel buio e nebbia ha gettato non visto il cadavere nel canale. Dove lo hanno trovato i carabinieri di Vercelli due giorni fa. L’artigiano, F.D.O, dopo la confessione è stato arrestato.

"È un omicidio che non può passare sotto silenzio" commentano in una nota unitaria i sindacati Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil di Biella. "A nostro avviso - scrivono le tre sigle - fatti di inaudita gravità come questo rientrano in un clima generale di imbarbarimento dei rapporti sociali, con la possibile aggravante dell’odio razziale. I diritti dei lavoratori sembrano non avere più cittadinanza e se, come in questo caso, il lavoratore è extracomunitario, possono sollecitare le reazioni più estreme". E per mercoledì prossimo i sindacati hanno indetto un presidio di fronte alla prefettura di Biella.

 

 

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