Rassegna stampa 3 dicembre

 

Giustizia: su questi morti tentativi di calunnia e coltri di nebbia

di Alessandro Leogrande

 

www.innocentievasioni.net, 3 dicembre 2009

 

Come in molti, in queste settimane, mi sono trovato a confrontare la morte di Stefano Cucchi con quella di Federico Aldrovandi. Non solo perché erano entrambi giovani, e in fondo a essere stata uccisa è stata innanzitutto la loro giovinezza. Non solo perché sono morti allo stesso modo, e al modo di Franco Serantini, pestati a sangue, massacrati, da uomini in divisa che in quel preciso momento incarnavano e rappresentavano lo Stato. Non solo perché identico è stato, in entrambi i casi, il tentativo di calunniare la vittima dopo l’omicidio, e quello speculare di erigere una coltre di nebbia intorno alla vicenda.

I due casi sono stranamente simili soprattutto per un altro particolare. Entrambe le volte, l’unico testimone che ha ammesso di aver assistito al pestaggio, l’unica persona che ha avuto il coraggio (o la profonda dignità) di dire chiaramente ciò che i suoi occhi avevano visto, non era nata in Italia. In entrambi i casi, erano immigrati. Nel caso di Aldrovandi, ucciso a Ferrara nel 2005, si tratta di Anna Marie Tsangue, una donna camerunese di 35 anni. "Anne Marie Tsague", ha scritto in uno dei suoi articoli dedicati al caso Cinzia Gubbini, "quella mattina alle sei era sul balcone del suo appartamento al primo piano di via dell’Ippodromo. Era stata svegliata da strani rumori, e dai lampeggianti delle volanti. Si è affacciata alla finestra e, sconvolta, ha assistito all’ultima parte di una strana "colluttazione" in cui un ragazzo solo viene manganellato da quattro poliziotti, che lo atterrano con facilità e continuano a prenderlo a calci anche quando ormai è completamente immobilizzato."

Nel caso di Cucchi, quattro anni dopo, si tratta invece di un ragazzo gambiano. Ha udito le urla e poi, dallo spioncino della sua cella, avrebbe assistito al pestaggio di Stefano negli interrati del tribunale. Ora vive sotto protezione, in luogo segreto, perché si teme fortemente che venga costretto a ritrattare. Il suo nome non è stato reso noto.

Entrambe le volte, dei giovani africani hanno riferito semplicemente ciò che avevano visto, al contrario del lungo rosario di omissioni, silenzi, tentennamenti, connivenze, ripensamenti messo in campo da tutti gli altri potenziali osservatori o ascoltatori. E che con ogni probabilità ci sono stati. Quanto costa dire di aver assistito a un pestaggio finito in morte? Che prezzo hanno quelle parole? E perché abbiamo infinitamente bisogno degli occhi di Alì (si potrebbe dire, parafrasando Pasolini), degli occhi di Anne Marie Tsangue, per aggrapparci a un brandello di giustizia?

Parrebbe una costruzione letteraria. In entrambi i casi - nell’Italia xenofoba del pacchetto sicurezza, nell’Italia dell’identità bianca e cristiana, nell’Italia in cui un ragazzo che muore "di sicuro se l’è andata a cercare" - a vedere e a dire sono stati due di coloro che si vorrebbe segregare, allontanare, respingere in mare, detenere a lungo nelle prigioni o - quando va bene, quando vince il buonismo - ridurre all’unico rango di forza-lavoro mansueta da spremere finché serve.

Parrebbe una costruzione letteraria, ma non lo è. È andata davvero così. Senza la dignità, l’umanità, e soprattutto l’immediata propensione a dire la verità, di un ragazzo e di una ragazza africani, diversissimi tra loro, che per motivi diversissimi si sono trovati, l’uno e l’altra, casualmente sul luogo del pestaggio, le coltri di nebbia sarebbero ancora lì a nascondere, celare, violare ogni minimo senso del diritto.

P.S. Il 21 novembre è spuntato un secondo testimone, nel caso Cucchi. Si tratta di un altro detenuto che, sempre, nelle celle del Palazzo di giustizia a piazzale Clodio, lo avrebbe sentito urlare e lamentarsi. Qualora le sue parole venissero giudicate attendibili, sarebbe lui il primo italiano ad avallare l’accaduto. Non ha visto nulla, pare, ha solo ascoltato quanto stava accadendo. E forse non ne avrebbe mai fatto parola, se a fare il primo passo non fosse stato un ragazzo dell’Africa occidentale.

Giustizia: Caritas; il carcere come luogo rimozione marginalità

 

Redattore Sociale, 3 dicembre 2009

 

Mons. Luigi Bressan, vescovo delegato Caritas per la Conferenza episcopale triveneto, si scaglia contro "l’assurdo sovraffollamento degli istituti, la promiscuità dei detenuti e l’inadeguatezza delle politiche di lotta all’esclusione sociale".

Il carcere in Italia non è un vero luogo di reinserimento, ma di "rimozione collettiva" delle marginalità. È questa l’immagine dipinta da monsignor Luigi Bressan, vescovo delegato Caritas per la Conferenza episcopale triveneta e le Caritas diocesane del Triveneto. In un documento diffuso oggi, il vescovo si scaglia contro "l’assurdo sovraffollamento degli istituti di pena, la promiscuità dei detenuti con tendenze criminologiche ed esperienze diverse e l’inadeguatezza delle politiche di lotta all’esclusione sociale". Ed è per questo che chiede un cambiamento radicale di prospettiva, poiché "il carcere non deve essere l’unica risposta a ogni forma di emarginazione". La via da seguire? Secondo Bressan, sostituire la pena detentiva per condanne inferiori ai tre anni con altri percorsi obbligati ma di carattere riabilitativo ed inclusivo. In una parola: misure alternative.

La condizione attuale di disagio nelle carceri fa registrare, secondo il vescovo, una sconfitta dell’ordinamento civile, poiché "la funzione rieducativa, primaria finalità che la nostra Costituzione affida agli istituti di pena, è per lo più svuotata". A testimoniarne il fallimento ci sono i dati: 70% di recidiva per chi sconta la pena in carcere, che si dimezza per quanti usufruiscono di misure alternative.

E sono sempre i dati a dimostrare che in carcere finiscono perlopiù persone in condizioni di marginalità: nel 2008 l’89% dei detenuti aveva un’istruzione pari o inferiore alla licenza media, oltre il 30% aveva problemi di tossicodipendenza. I reclusi per reati contro il patrimonio e per reati contro la legge sulla droga erano il 44,3%. I detenuti di origine meridionale erano il 40,6% dell’intera popolazione detenuta, che sommati agli stranieri reclusi, compongono il 77,7% del totale. Situazione analoga negli istituti per minori: nel 2008 la presenza dei minori di nazionalità straniera ha costituito il 45%. Per quel che riguarda, invece, i minori collocati in comunità, sono gli italiani a beneficiarne maggiormente. Sono inoltre circa 1.200 le persone detenute nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Infine, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria delle 53 detenute madri nel 2008, la maggior parte erano persone tossicodipendenti o di origine nomade.

"Come Caritas diocesane del Nord Est di fronte alla diffusa tendenza a considerare il carcere come luogo della sicurezza, a perseguire politiche che mirano all’aumento delle pene e alla criminalizzazione di fatti sub criminali ribadiamo l’urgenza di percorrere la strada proposta dal papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000: la pena, la prigione hanno senso se, mentre affermano le esigenze della giustizia e scoraggiano il crimine, offrono a chi ha sbagliato una possibilità per reinserirsi a pieno titolo nella società".

Giustizia: Castellano; misure alternative contro l’affollamento

 

Redattore Sociale - Dire, 3 dicembre 2009

 

Lucia Castellano a CNRmedia: "La recidiva di chi usufruisce delle misure alternative è del 19%, per chi sta in carcere fino all’ultimo giorno è del 65%. Inutile costruire nuove strutture".

Proteste pacifiche, non violente, nelle carceri italiane per le pessime condizioni negli istituti di pena. Prima causa: il sovraffollamento. Hanno urlato e sbattuto contro le sbarre delle celle i detenuti delle carceri di tutto il Paese.

Nel carcere San Vittore di Milano, ad esempio, i detenuti sono 1.400, mentre ce ne potrebbero stare di fatto solo 500, Risultato: sono in 11 dentro una cella. "Il nostro istituto, per avendo 1.030 detenuti, non è sovraffollato, anzi è al di sotto della soglia di capienza, che è di 1.370, ma abbiamo il problema di un enorme affollamento a fronte dell’esiguità degli operatori: noi andiamo avanti con 380 poliziotti e c’è una sproporzione esorbitante fra il numero degli agenti e quello dei detenuti" così a CNRmedia Lucia Castellano, direttrice della Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate.

Quali sono le soluzioni più giuste da prendere per combattere i problemi delle carceri italiane? "Il trend in salita e l’aumento della popolazione dei detenuti è talmente alto che anche se si costruissero istituti a tambur battente, cosa impossibile comunque per la mancanza di risorse, non servirebbe a nulla. Bisogna andare alla causa del sovraffollamento e andare ad investire sulle misure alternative per creare uno sbocco a queste situazioni, come la Costituzione prevede. È inutile costruire nuovi contenitori perché il trend di crescita è troppo alto. I numeri parlano: la recidiva di chi sta in carcere fino all’ultimo giorno è del 65%, a fronte di chi usufruisce delle misure alternative, la cui recidiva è del 19%".

Giustizia: Ionta (Dap); gli agenti operano in condizioni difficili

 

Corriere della Sera, 3 dicembre 2009

 

Soffiano venti pesanti sulla polizia penitenziaria di questi tempi. La morte di Stefano Cucchi e i continui decessi che si verificano all’interno degli istituti carcerari, hanno messo la struttura che dovrebbe essere di riabilitazione al centro dell’attenzione dei media e della legittima pretesa di chiarezza da parte della gente.

Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Capo della Polizia Penitenziaria Franco Ionta non si nasconde dietro a un dito: "In questo momento il nostro è un corpo di polizia che consta di 40mila persone, tutte prevalentemente all’interno delle 206 strutture penitenziarie italiane". E prosegue: "Di fronte abbiamo una popolazione detenuta che supera le 65mila unità". Almeno sui numeri tutti gli intervistati, nell’inchiesta condotta dal Corriere Canadese sul mondo delle carceri, sono d’accordo.

 

E sulle condizioni di vita all’interno delle strutture?

"Diciamo che sono condizioni difficili, perché la nostra Costituzione prevede come compito principale della polizia penitenziaria non solo quello di custodire le persone. Ma anche di fare in modo che, a pena espiata, possano essere reinserite nella società. Il nostro è quindi un corpo che assolve a una duplice funzione".

 

Le principali divergenze fra i vertici della struttura e gli organi sindacali riguardano le possibili soluzioni al problema.

"La prima è quella di ampliare le strutture penitenziarie, e per questo, a febbraio è stata approvata una legge che mi permette di avere dei poteri straordinari per costruire nuovi penitenziari, ma anche per ampliare gli organici da 40 a 45mila unità. Sono due cose che devono camminare necessariamente insieme".

 

Da più parti arrivano però richieste per creare una maniera alternativa di fare scontare le pene a coloro che commettono reati minori, in modo da aiutare lo sfoltimento carcerario. Voi avete recepito questo genere di domande?

"Sono allo studio anche delle misure per verificare che chi abbia una pena molto breve da scontare, la possa trascorrere in una situazione di detenzione domiciliare. Certo si deve trattare di detenuti non pericolosi e con una pena da scontare molto bassa".

 

Possiamo dire che la violenza all’interno delle carceri è un dato comunque all’ordine del giorno, sia compiuta che subita dalla polizia penitenziaria?

"Naturalmente bisognerebbe scendere nel dettaglio di ciascuna singola situazione. È difficile dare un giudizio complessivo e unitario. Sicuramente sono all’ordine del giorno atti di aggressione verso la polizia, ma ci sono anche episodi in cui si possono ritrovare delle responsabilità. Certo poi molta informazione ha un atteggiamento più suggestivo che realistico. È vero che il nostro affollamento ha raggiunto dei livelli di guardia, e questo genera delle problematiche, però posso dire questo, ovvero che il problema penitenziario in Italia è all’agenda del governo e viene ritenuto prioritario".

 

Cosa può dire, in conclusione, in qualità di responsabile ufficiale della polizia penitenziaria?

"Dico che sono orgoglioso di essere il capo della polizia penitenziaria, perché è un corpo encomiabile per lo sforzo quotidiano che profonde all’interno delle strutture e svolge un lavoro insostituibile all’interno delle carceri, contribuendo anche al reinserimento delle persone nella società, contribuendo contemporaneamente allo sicurezza e all’ordine pubblico.

Giustizia: caso Cucchi; dopo i medici "assolti" anche gli agenti

 

Corriere della Sera, 3 dicembre 2009

 

Non c’è nessuna responsabilità da parte della polizia penitenziaria sulla morte di Stefano Cucchi. È il risultato, al momento, dell’inchiesta amministrativa avviata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulla vicenda di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto in ospedale sei giorni dopo l’arresto per possesso di droga, a Roma. Una conclusione che lascia incredulo l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: "Questa tragedia ha preso dei toni grotteschi. Mica Stefano Cucchi sarà morto in sei giorni di vecchiaia?".

Ma gli accertamenti amministrativi del Dap di fatto non cambiano per ora il quadro indiziario a carico dei tre agenti accusati di omicidio preterintenzionale. Ad annunciare il risultato dell’inchiesta che "assolve" gli agenti penitenziari è lo stesso capo del Dap Franco Ionta che spiega: "Gli esiti sono stati trasmessi al procuratore della Repubblica di Roma".

L’esito dell’inchiesta del Dap è una notizia "importante e confortante" per il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe). L’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) si dice fiduciosa che la Procura concluda l’inchiesta "con esiti altrettanto favorevoli per l’intera categoria".

Chiedono ancora una volta la verità su quanto accaduto a Cucchi il presidente dell’associazione "A Buon Diritto" Luigi Manconi e Rita Bernardini, deputata Radicale-Pd. Ieri è stato ascoltato il detenuto arabo che ha detto di non aver scritto lui la lettera che raccontava che Cucchi avrebbe detto di essere stato picchiato dai carabinieri.

È prevista per la prossima settimana, invece, l’audizione del primo medico che visitò Cucchi nel carcere di Regina Coeli, una settimana dopo il suo arresto. La prossima settimana, inoltre, potrebbe già essere ascoltato il professor Vincenzo Pascali, consulente indicato dalla commissione per gli esami autoptici sul cadavere di Cucchi, disposti dalla Procura di Roma.

Intanto, d’ora in avanti i famigliari dei detenuti ricoverati nella struttura protetta dell’ospedale romano Sandro Pertini, la stessa dove Cucchi è morto il 22 ottobre scorso, potranno parlare con i medici. A stabilirlo un ordine di servizio del Dap, diramato dall’amministrazione penitenziaria il 27 novembre scorso e reso noto ieri dal presidente della commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario Ignazio Marino.

Giustizia: il Dap "assolve" agenti, com’è morto allora Stefano?

di Pino Ciociola

 

Avvenire, 3 dicembre 2009

 

Il Dap va all’attacco dopo che la sua inchiesta interna ha scagionato i tre uomini della Polizia penitenziaria. In Procura però si frena seccamente e le indagini proseguono. Intanto continuano le proteste nelle carceri italiane, almeno una quindicina nell’ultima settimana, e tutto lascia prevedere un Natale all’insegna dei forti dissensi da parte di chi è nei penitenziari. Comincia però timidamente il nuovo corso sui "rapporti" tra sanità e carcere, visto che un ordine di servizio di una settimana fa ha stabilito come, d’ora in poi, i medici "potranno" dare notizie sullo stato di salute dei detenuti ai loro familiari.

"Gli accertamenti hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della Polizia penitenziaria", dice il capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, sulla base dell’inchiesta amministrativa che lui stesso aveva disposto sulla morte di Stefano Cucchi: "Gli esiti - va avanti - sono stati trasmessi al Procuratore di Roma".

Poi avvisa che, sulla gestione delle persone arrestate in flagranza di reato, "sto valutando di ritirare il personale di Polizia penitenziaria dalle celle del Tribunale dove tali persone vengono custodite". Infine ha spazio per un’ultima annotazione: "Provvederò altresì a rivedere - conclude il capo del Dap - il protocollo che declina le modalità di gestione dei detenuti ricoverati presso le sezioni ospedaliere di medicina protetta".

Ma dagli uffici giudiziari la replica arriva nel giro di qualche ora. Gli esiti dell’inchiesta amministrativa del Dap che "assolve" gli agenti della Polizia penitenziaria accusati del pestaggio di Cucchi non sono ancora giunti a Piazzale Clodio. E stando ad fonti giudiziarie, comunque gli esiti dell’indagine amministrativa del Dipartimento amministrazione penitenziaria non muterebbero per ora il quadro indiziario a carico dei tre agenti accusati di omicidio preterintenzionale. Come neppure per adesso non cambia nulla l’inchiesta della Asl e la decisione del reintegro dei medici, tra cui il responsabile del reparto detenuti dell’ospedale Pertini, indagati per omicidio colposo.

Fra l’altro non avrebbe convinto i pm, Vincenzo Barba e Maria Francesca Loi, la testimonianza resa proprio ieri mattina dal testimone marocchino Tarek, che nei giorni scorsi in una lettera diffusa dallo studio legale Anselmo che assiste i familiari di Stefano Cucchi, aveva in sostanza rivolto ai carabinieri accuse circa il pestaggio subito da Stefano.

C’è poi una grossa novità a proposito di ospedali e carcere. I medici della struttura detentiva all’interno dell’ospedale Pertini potranno infatti dare informazioni ai parenti dei detenuti ricoverati, dopo che in questo senso è stato modificato l’accordo tra il ministero della Giustizia e la struttura ospedaliera, con un ordine di servizio firmato il 27 novembre scorso da Carmelo Catone, responsabile del servizio sanitario delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli.

Una modifica di cui si è venuti a sapere ieri mattina, durante l’audizione al Senato dello stesso Catone in Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario . Tutto ruota intorno alla morte di Cucchi e al fatto che ai suoi genitori non vennero date notizie sullo stato di salute del giovane poi morto. I medici si sono appellati all’accordo adesso modificato, poiché in pratica se i parenti di un detenuto ne volevano notizie, dovevano chiedere agli agenti di custodia che inoltravano la richiesta ai medici. E questi ultimi, sulla base delle condizioni del detenuto ricoverato, decidevano se fornire informazioni ai parenti.

Secondo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, "sembra un grande passo avanti per il futuro. Mi auguro che nessuna famiglia debba passare più quello che abbiamo passato noi". Per quanto "se ci fosse stato prima sarebbe stato molto meglio. E nel caso di Stefano la burocrazia doveva passare in secondo piano rispetto agli aspetti umani".

Ma il legale della famiglia ha parole dure verso il Dap: "Prendiamo atto di quanto è stato comunicato, ma è chiaro che questa tragedia ha preso dei toni grotteschi. Mica Stefano Cucchi sarà morto in sei giorni di vecchiaia?", si è chiesto l’avvocato Fabio Anselmo.

Giustizia: per il ministro Alfano Stefano è "caduto dalle scale"

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 3 dicembre 2009

 

Per il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Stefano Cucchi è caduto dalle scale. Per Carlo Giovanardi è morto di droga. Siccome era un tossicodipendente e spacciava, la sua vita non doveva valere nulla. Se l’era cercata. Per questi signori, Stefano Cucchi sarebbe morto di freddo. Anzi, come ha scritto su queste pagine Erri De Luca, "perché ostinatamente aveva smesso di respirare". Da allora la lista delle facce di bronzo non ha terminato di crescere. L’inchiesta interna condotta dall’amministrazione penitenziaria ha escluso l’esistenza di qualsiasi responsabilità della polizia penitenziaria nelle brutali percosse subite da Stefano Cucchi. È quanto sottoscritto ieri, ultimo in ordine di tempo, dal capo del Dap, il magistrato Franco Ionta, la cui funzione è nobilitata dall’appellativo di Presidente.

Su questo terribile episodio di violenza istituzionale, la macchina della contro verità marcia a velocità folle. Appena pochi giorni prima un’altra commissione interna aveva assolto i medici del reparto penitenziario dell’ospedale dove, invece delle cure, al giovane era stata somministrata cinica indifferenza e sprezzante incuria. In compagnia solo del suo dolore e dell’umiliazione di un corpo bastonato, di membra lacerate, Stefano Cucchi è morto.

Delle uniformi di Stato lo avevano arrestato quando era in perfette condizioni fisiche, delle uniformi di Stato lo hanno interrogato, delle uniformi di Stato lo hanno incarcerato, in tribunale un magistrato ha finto di non vedere, l’avvocato d’ufficio ha girato la testa, poi dei camici pubblici lo hanno abbandonato. Da settimane, le varie componenti istituzionali coinvolte in questa vicenda rispondono opponendo omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio, di una visione completamente autoreferenziale della legalità e della morale. Ma come canta De André: "anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti".

Giustizia: sorella di Stefano; esami in corso ma pestaggio certo

 

Dire, 3 dicembre 2009

 

Non mi risulta che siano a disposizione gli esiti della Tac e degli altri esami in corso". Lo ha affermato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il detenuto di 31 anni morto al Pertini per cause ancora da chiarire sei giorni dopo l’arresto per droga. Il riferimento è ad alcune indiscrezioni diffuse sull’esito della Tac sul corpo del ragazzo, secondo cui non sarebbero state riscontrate lesioni al cranio e alla mandibola. "Stando a quanto ci dicono i nostri medici - ha aggiunto Ilaria in alcune dichiarazioni rilasciate al Tg56, telegiornale di Teleroma56 - nutro perplessità su questi risultati resi noti ieri. Di certo c’è il pestaggio: si tratta di capire dove e come è avvenuto e per opera di chi, su questo sta indagando la magistratura, ma sul pestaggio non ci sono dubbi. Stefano, quando è uscito di casa la notte dell’arresto accompagnato dai carabinieri, era in perfette condizioni di salute".

Ilaria Cucchi è poi tornata sulla presunta responsabilità dei medici che hanno avuto in cura Stefano al Pertini. "C’è stato abbandono terapeutico, lo vediamo dalle cartelle cliniche, lo capiamo dalle condizioni di Stefano. C’è una grande responsabilità dei medici del Pertini dal punto di vista deontologico: Stefano è stato abbandonato. Nonostante stesse digiunando per vedere l’avvocato di fiducia,- ha aggiunto- nessuno ha provveduto a contattarlo. Al di là della responsabilità penale che si profila, c’è un’indiscutibile responsabilità deontologica".

In conclusione, l’appello suo e di tutta la famiglia Cucchi: "Vogliamo una risposta chiara e rapida, senza mezze verità. Noi dallo stato pretendiamo risposte: è doveroso che ci diano una risposta chiara su come è morto Stefano, in quali circostanze si è procurato quelle lesioni. Stefano, prima dell’arresto, stava bene: per questo pretendiamo chiarezza. Ho comunque fiducia nella magistratura, una fiducia prudente: mi auguro che le indagini siano fatte con rapidità e chiarezza".

Giustizia: Antigone; per Cucchi tutti assolti prima del processo

 

Ansa, 3 dicembre 2009

 

"I soggetti coinvolti nella vicenda Cucchi sono stati tutti assolti prima del processò. Lo dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. "La Unity Risk Management della Asl Roma B ha assolto i medici prima che fosse conclusa l’indagine della magistratura - rileva Gonnella - Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha anch’essa assolto gli agenti di polizia penitenziaria prima di conoscere gli esiti del processo penale. Medici e poliziotti penitenziari sarebbero quindi per la Asl e il Dap non responsabili". "E allora chi è stato a pestare Cucchi? Chi lo ha tenuto in sostanziale isolamento sanitario?", chiede Gonnella.

"Di solito - aggiunge - non si usa tanta celerità nei procedimenti amministrativi. Si usa aspettare per motivi di opportunità il processo. Evidentemente ha prevalso lo spirito di corpo. Speriamo - conclude il presidente di Antigone - che i giudici dicano presto la loro e che la verità venga a galla. Va fatto nel rispetto della famiglia, dell’habeas corpus e dello stato di diritto".

Giustizia: D’Amato (Pd); speriamo ora non parlino di suicidio

 

Il Velino, 3 dicembre 2009

 

"Dopo la conclusione dell’indagine interna sul caso Cucchi della Asl Rm B, che parla di evento inatteso ed imprevedibile escludendo responsabilità mediche, aspetto sul quale ho presentato un’interrogazione urgente al vicepresidente Esterino Montino, arriva l’esito dell’autorevole accertamento amministrativo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che a sua volta esclude responsabilità dirette sul decesso.

Speriamo che ora non ci dicano che il povero Cucchi si è suicidato! A questo punto auspichiamo che la magistratura faccia chiarezza e, attraverso le indagini, possa far luce sulle cause che hanno portato alla morte di Cucchi". Lo afferma il consigliere regionale del Lazio del Pd Alessio D’Amato.

Giustizia: Comunità Papa Giovanni per abolizione di ergastolo

 

9Colonne, 3 dicembre 2009

 

La Comunità Papa Giovanni XXIII, guidata dal successore di don Oreste Benzi, Giovanni Paolo Ramonda, aderisce all’appello degli ergastolani al Papa Benedetto XVI alla quale chiunque può aderire tramite il sito www.apg23.org.

"Molti di noi sono in carcere da 20, 30 anni, altri di più, senza mai essere usciti un solo giorno, senza mai un giorno di permesso con la propria famiglia", "entrati da ragazzi adolescenti e ora quarantenni destinati ad invecchiare in carcere, altri "giovani padri ora nonni con i capelli bianchi" chiedono che il Papa interceda perché venga abolita questa pena "che si sconta senza vita" in cui "è come essere morti, ma sentirsi vivi, "una pena del diavolo perché ti ammazza lasciandoti vivo" e "mangia l’amore, il cuore, e a volte anche l’anima".

"A che serve vendicarsi in questo modo?" si chiedono: "Non vediamo giustizia nella pena dell’ergastolo, ma solo una grande ingiustizia perché si reagisce al male con altro male aumentando il male complessivo. Non è giustizia far soffrire e togliere la speranza per sempre per riparare al male che ha fatto una persona". Gli ergastolani ricordano l’appello rivolto al presidente della Repubblica, lo sciopero della fame del 2007, il ricordo alla Corte europea inoltrato da 800 di loro nel 2008 e lo sciopero della fame nelle stesso anno svoltosi a staffetta nelle diverse carceri. E concludono: "Santo Padre ci sentiamo abbandonati da tutti, dagli uomini, dalla Chiesa e a volte persino da Dio, perché non si può essere contro la guerra, contro l’eutanasia, contro l’aborto e non essere contro la pena dell’ergastolo. Santo Padre, non abbiamo voce: ci dia la Sua per fare sapere che in Italia esiste l’ergastolo ostativo, una pena disumana che non avrà mai termine".

Giustizia: Radicali; Provenzano sia trasferito in un centro clinico

 

Il Velino, 3 dicembre 2009

 

La deputata radicale Elisabetta Zamparutti ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia sulle condizioni di salute e di detenzione di Bernardo Provenzano, già operato di cancro e in regime di 41 bis e isolamento ininterrotto dal momento del suo arresto avvenuto l’11 aprile del 2006.

Nell’interrogazione, Zamparutti segnala "un anomalo comportamento del Dap che di fatto impedisce il ricovero di Provenzano in una struttura idonea al suo grave stato di salute lasciandolo in uno stato di isolamento assoluto". Al ministro della Giustizia la parlamentare radicale chiede "quali siano i presupposti di legge, regolamentari e soggettivi di un trattamento che pare superare le normali e ragionevoli esigenze di sicurezza per risolversi in atti di mero accanimento penitenziario come nel caso, ad esempio, del divieto a ricevere cibo dai familiari e dell’applicazione di un isolamento così assoluto e protratto nel tempo durante il quale è stato privato anche di televisione, radio portatile, fornellino e libri".

L’interrogante chiede inoltre "come si concilia un tale trattamento, oltre che con il senso di umanità che in base alla Costituzione non deve mai venire meno nella esecuzione della pena, anche con precise pronunce della Corte costituzionale che ribadiscono il diritto anche dei detenuti in 41 bis a usufruire di un minimo di socialità".

Elisabetta Zamparutti si augura che il ministro della Giustizia condivida il giudizio "sull’allarmante situazione psico-fisica di Bernardo Provenzano" e faccia quanto in suo potere perché "sia tempestivamente ricoverato in un centro clinico dell’amministrazione o in altro adeguato centro diagnostico-terapeutico per le analisi cliniche e le terapie del caso".

Lettere: cresce la fame di giustizia, dentro e fuori dalle carceri

 

Terra, 3 dicembre 2009

 

Caro lettore, se anche tu ritieni, come molti tra i "benpensanti" e onesti della società civile, che lo stato delle prigioni del tuo Paese non ti riguardi, ti chiediamo di riconsiderare questa posizione. E di riflettere sul significato e le conseguenze - spesso pratiche per la vita di ogni cittadino, italiano e straniero, colpevole e "innocente fino a prova contraria" - delle condizioni del nostro sistema penale, messe in luce da notizie allarmanti che ora dopo ora descrivono una situazione insostenibile. Noi Radicali non aspettavamo certo che il ministro della Giustizia dichiarasse, come ha fatto, che le carceri italiane sono "incostituzionali", per giungere alla stessa conclusione. Non può che ritenerle tali, infatti, chiunque si prenda la briga di affacciarsi su quel mondo opaco, celato ai più dalle sbarre e dalla burocrazia.

Chiunque si interroghi sul rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, che vuole dignità e rieducazione per il detenuto. Oltre 65mila persone oggi affollano spazi che ne potrebbero contenere solo 43mila. Mancano all’appello 8.000 agenti di custodia rispetto all’organico regolamentare. Risulta carente il numero delle altre figure professionali: dagli educatori agli psicologi, ai medici e agli infermieri, ai magistrati di sorveglianza, cui è affidata la cura dei detenuti. La metà di loro è in attesa di giudizio e, di questi, il 40 per cento viene riconosciuto innocente, spesso dopo anni di limbo giudiziario. Se non si può non essere d’accordo con il ministro Alfano sullo stato delle prigioni italiane, bisogna altresì rilevare come lui stesso stia, fino ad ora, ricalcando le orme di troppi suoi predecessori, di qualsiasi colore politico, che non hanno voluto o saputo occuparsi di questo universo.

Dalle dichiarazioni di Alfano sono trascorse ben 44 sedute del Consiglio dei ministri. Eppure l’impegno suo e del governo non è andato al di là dei periodici annunci di un "piano carceri", che pare inattuabile perché privo di coperture finanziarie, e che comunque richiederebbe tempi del tutto incompatibili con l’emergenza in corso. Non sarebbe giusto, però, rassegnarsi all’inerzia di uno Stato che persevera in situazioni di illegalità conclamata e che determina per molti - quand’anche colpevoli - una pena supplementare, degradante e incostituzionale, oltre a quella cui qualsiasi tribunale possa aver mai condannato.

Non può rassegnarsi a questo stato di cose soprattutto chi è titolare dei mezzi costituzionali preposti a indirizzare l’azione del governo verso le sue responsabilità, ossia il Parlamento. Con la deputata radicale Rita Bernardini, promotrice di una mozione parlamentare che raccoglie riforme urgenti e provvedimenti veramente praticabili per superare l’emergenza carceri, stiamo conducendo dal 18 novembre un’azione di lotta nonviolenta di sciopero della fame. Con questa iniziativa, che continua a raccogliere adesioni, chiediamo che venga calendarizzata quella mozione e che il Parlamento apra un grande dibattito per discutere proposte decisive e farsi finalmente carico della richiesta di attenzione che viene dai luoghi di pena. Ti chiediamo di unirti a noi in questo sforzo di ricerca del dialogo con le istituzioni, rendendoti protagonista di un atto di Rivolta con le sole armi davvero efficaci della nonviolenza.

Affinché possa fiorire in seno alle istituzioni una speranza di cambiamento e di reale riforma: una gemma del Grande Satyagraha mondiale per la Pace, la Legalità e la Giustizia per il quale, come Radicali, siamo mobilitati. La tua adesione simbolica, anche per pochi giorni, al nostro digiuno è un prezioso sostegno a questa lotta, che è soprattutto la tua e di ognuno. Per essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, al più presto in Italia e anche nel suo sistema penitenziario. Solo tu puoi decidere se, quando e come, ma facciamolo insieme! Datti e dacci forza!

 

Lettera firmata

Lettere: silenzio assurdo sulla giornata contro la pena di morte

di Marcello Buttazzo

 

Secolo d’Italia, 3 dicembre 2009

 

Qualcuno sostiene che, in Italia, la stampa sia sotto scacco e che la libertà d’informazione sia minacciata. Importanti quotidiani della sinistra libertaria, avvezzi a raccogliere firme contro la "vergogna" d’una editoria "nelle mani d’un uomo solo al comando", dimenticano di enfatizzare l’unica, vera notizia: certa stampa è "drogata", parziale, latitante, esclusiva (nel senso che esclude). Lunedì scorso, Giornata mondiale contro la pena di morte, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, nessun quotidiano ha avuto il buon senso di riportare due, tre righe su questa questione di risalto internazionale e della meritoria lotta decennale delle associazioni abolizioniste e del Parlamento italiano contro l’inumana pena capitale. La stampa deve essere libera, autonoma, plurale. Nell’ultimo anno, i quotidiani italiani a più alta tiratura non si sono mai ricordati di scrivere che una giovane donna appassionata di grande sensibilità e valore, Antonella Casu, era la segretaria dei Radicali italiani. Basta questo precedente emblematico per affermare incontrovertibilmente che subiamo una informazione incompleta e "drogata".

Lettere: stranieri non possono più avere la sospensione di pena

 

La Repubblica, 3 dicembre 2009

 

"Il nuovo decreto sicurezza ha abolito per gli stranieri la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena. Questo è uno dei motivi per i quali i detenuti stranieri in carcere stanno aumentando. È un fatto che non tutti conoscono". Francesco Maisto, il presidente del Tribunale di Sorveglianza che è l’organo deputato alla concessione della semilibertà e delle altre misure in alternativa alla detenzione, esprime questa osservazione e spiega che, secondo una giurisprudenza consolidata, anche gli stranieri possono usufruire delle misure alternative una volta in carcere, ma gli ostacoli sono molti.

"Ci sono delle situazioni che ci precludono questa possibilità, nonostante la nostra volontà di farlo. È molto difficile che uno straniero possa offrire condizioni abitative o contesti adeguati per il suo recupero sociale". Ma l’Emilia Romagna è migliore di altre zone d’Italia: "Strutture che possano accogliere stranieri in questo territorio esistono, qualche affidamento l’abbiamo concesso. La rete di volontariato che esiste qui è meglio del nulla che c’è altrove, anche se ancora troppi non riescono ad usufruirne".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 3 dicembre 2009

 

Io straniero, senza euro per l’espulsione. Caro Arena, sono un cittadino moldavo e sono stato arrestato a maggio di quest’anno per un tentativo di furto. Pena da scontare: 1 anni e 4 mesi, di conseguenza il mio fine pena sarà il 22 settembre 2010. Siccome devo scontare una pena inferiore ai 2 anni, secondo la legge italiana ora io dovrei essere rimpatriato. Ed infatti il 7 agosto del 2009 il magistrato di sorveglianza di Padova ha emesso il mio ordine di espulsione. Sembrava tutto pronto quanto è sorto un problema. Il biglietto aereo per la Moldavia costa 300 euro, somma di cui io non dispongo, e quelli della Questura mi hanno detto che se io avessi avuto quella somma sarei partito subito. Mi hanno anche spiegato che loro non hanno 300 euro da spendere e di conseguenza sarei rimasto in carcere a scontare la mia breve pena. La mia è solo una delle tante storie assurde di stranieri detenuti che non riescono ad essere espulsi dall’Italia.

Ora visto che io da detenuto costo allo Stato italiano ben 200 euro al giorno non capisco come mai abbiano deciso di non pagare 300 euro per mandarmi via. Infatti se mi faranno scontare la pena per interno lo Stato Italiano pagherà, per mantenermi in carcere, ben 74 mila euro e non certo solo 300 euro! Ti saluto con tanta stima.

 

Jon dal carcere 2 Palazzi di Padova

 

A Cagliari si muore così. Caro Riccardo, vivo in una cella non più grande di 3 mq con un altro detenuto. Siamo tutte e due cardiopatici. Qui caro Riccardo siamo isolati dal mondo. Pur essendo malati non veniamo curati in modo adeguato. Ti dico solo che qualche giorno fa qui è morto un detenuto che aveva 73 anni. Era un povero cristo detenuto nella cella 76 del secondo piano del braccio sinistro. Quel vecchietto si è sentito male alle ore 12. Alle ore 16 era lì morto, solo come un cane e.. neppure un lenzuolo gli hanno messo per coprirlo.

In questo modo io l’ho visto, guardando dallo spioncino della mia cella. Quel vecchietto aveva addosso solo le mutande e con quel corpicino smagrito, sembrava un uccellino caduto dal nido. Infarto: dicono che sia morto così. Ma nessuno qui dentro si chiede se qual vecchietto sia stato soccorso. Nessuno si chiede perché quel vecchietto stava in carcere. Ma non solo. Devi sapere che un mese fa ho assistito a un vero pestaggio. Un detenuto infatti è stato prelevato dalla sua cella ed è stato malmenato da 5 agenti e da un ispettore. Io vedendo quanto accadeva ho gridato tanto dicendo che un detenuto non si picchia. Beh di tutta risposta sono stato azzittito dicendomi: fatti i cazzi tuoi! Ti saluto con tanta stima.

 

Domenico, dal carcere Buon Cammino di Cagliari

Roma: Farina (Pdl); nuova protesta di detenuti a Regina Coeli

 

Ansa, 3 dicembre 2009

 

I detenuti di due sezioni del carcere di Regina Coeli hanno protestato pacificamente battendo grate e padelle nel pomeriggio contro le condizioni di vita nel penitenziario, in particolare contro la situazione sanitaria, il sovraffollamento e le misure alle quali sono sottoposte i carcerati per reati sessuali. Lo ha reso noto il parlamentare del Pdl Renato Farina che oggi ha visitato il penitenziario.

La battitura è partita dall’ottava sezione, dove ci sono i detenuti per reati sessuali, secondo i quali, ha detto Farina, "le misure del pacchetto sicurezza sono interpretate dai giudici come obbligatorietà meccanica del carcere a prescindere da qualsiasi valutazione soggettiva dell’indagato". La protesta si è poi estesa alla seconda sezione, quella dei detenuti comuni.

Oggi a Regina Coeli, ha spiegato Farina, "ci sono 1.050 detenuti quando la capienza massima sarebbe di 900. Gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico di cento unità. Il pacchetto sicurezza votato la scorsa primavera prevede l’indurimento delle misure anche di custodia cautelare per i presunti autori di delitti sessuali, e questo è stato applicato anche a prescindere da qualsiasi considerazione individuale". "La stessa legge - ha concluso l’esponente del Pdl - prevederebbe anche un anno di osservazione da parte dello psicologo. Ma a Regina Coeli, ad esempio, sono solo due con 90 persone da seguire. La legge in questa caso è inapplicata per mancanza di risorse e non si intravede soluzione".

Taranto: un detenuto aggredisce tre agenti, protesta della Cisl

 

Ansa, 3 dicembre 2009

 

Nella notte tra sabato e domenica scorsi tre agenti di Polizia penitenziaria sono stati aggrediti da un detenuto nella casa circondariale di Taranto. Ne dà notizia uno degli agenti coinvolti, Erasmo Stasolla, che è anche segretario generale della Federazione nazionale della Sicurezza (Fns) della Cisl territoriale.

Il detenuto, secondo la denuncia di Stasolla, era in stato di forte agitazione e, dopo aver devastato la cella, ha raccolto alcuni vetri caduti da una finestra e un manico di scopa scagliandosi contro i tre agenti intervenuti per bloccarlo. La Fns Cisl evidenzia in una nota la carenza di organico a dispetto della costante crescita numerica della popolazione detenuta e contesta la decisione dell’amministrazione penitenziaria di trasferire nella struttura di Taranto detenuti con particolare disagio carcerario e con problemi psichici.

"Occorrerebbe - scrive la Fns Cisl - elevare i livelli di sicurezza anche rivedendo la capienza detentiva in questo carcere ormai al limite del sovraffollamento, oltretutto garantendo al personale ambienti decorosi e serenità operativa nei luoghi di lavoro".

Padova: il direttore; più lavoro, per aprire strada del recupero

 

Avvenire, 3 dicembre 2009

 

Il Due Palazzi era stato progettato per ospitare 350 detenuti. Appena divenuto operativo, nel 1989, ne ha accolti 700. Oggi sono 810. Il direttore Salvatore Pirruccio non si scompone: "È quanto accade in molti altri penitenziari. Il sovraffollamento è un problema endemico".

 

Cosa si deve fare per ridurlo?

Incentivare le misure alternative: detenzione domiciliare a chi ha pene brevi o è arrivato vicino al "fine pena", per reati che non siano di grande allarme sociale; affidamento in prova ai servizi sociali; percorsi di studio e di lavoro che offrono chance per il "dopo" e riducono la recidiva. Ma soprattutto si deve modificare il sistema processuale: in carcere vivono oltre 32mila persone (quasi la metà del totale) in attesa di giudizio. Inoltre si dovrebbe incentivare la possibilità di scontare la pena nei Paesi di origine, qui abbiamo il 40 % di stranieri.

 

Per mettere in pratica l’articolo 27 della Costituzione e promuovere dinamiche di riabilitazione della persona è importante avere a disposizione degli educatori. Quanti sono qui?

Cinque, presto dovrebbero arrivarne altri 4. Vuol dire che ciascuno si dovrebbe occupare di circa 90 detenuti. Troppo pochi, il numero ideale per poter fare un buon lavoro sarebbe 50. Per l’osservazione scientifica della personalità del detenuto che porta poi alla redazione del programma di trattamento anche ai fini di un programma di riabilitazione, l’ordinamento penitenziario prevede 9 mesi: col personale che abbiamo a disposizione ne impieghiamo 13. Tutto ciò si ripercuote pesantemente sui tempi della riabilitazione.

 

Questo carcere è un’anomalia: 100 detenuti che seguono corsi scolastici, 20 iscritti all’università, una percentuale che lavora per aziende esterne (10%) ampiamente superiore alla media nazionale. Siete bravi o fortunati?

È il frutto di una sinergia con varie realtà presenti sul territorio: la cooperativa Giotto che promuove possibilità di lavoro dentro e fuori dal carcere in accordo con varie aziende, gli enti locali, la Asl, i magistrati di sorveglianza. Chi lavora percepisce un reddito e acquisisce un metodo che è fatto di professionalità, passione e rispetto delle regole, ingredienti essenziali per quando si esce dal carcere. È un lavoro di rete che si dovrebbe esportare in altre realtà. Il carcere deve dare a tutti almeno una possibilità per ripartire.

Padova: con la coop. Giotto la vita in carcere diventa migliore

di Giorgio Paolucci

 

Avvenire, 3 dicembre 2009

 

Franco monta selle, manubri e cerchioni sulle biciclette, Bledar assembla valigie, Angelo risponde alle telefonate di chi vuole prenotare una visita medica alla Asl di Padova. Lavoratori infaticabili e fieri del mestiere che hanno imparato nel luogo dove meno se lo aspettavano: la prigione. Hanno in comune la stessa condanna: ergastolo. O, come si dice in gergo carcerario, fine pena mai. Nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova sono 80 i detenuti-lavoratori, il 10 per cento del totale, un record nel panorama penitenziario italiano. Altri venti lavorano all’esterno curando il verde pubblico, i lavori cimiteriali e la pulizia delle strade. Tutto grazie all’inventiva e all’impegno degli operatori della cooperativa Giotto, che dal 1991 ha portato qui dentro una "rivoluzione culturale": il lavoro come strumento di riscatto. E così, quello che solitamente è un periodo di abbrutimento e di degrado, per molti è diventato l’occasione per cominciare una nuova vita.

"Quando sono entrato avevo la nebbia nel cervello e il cuore carico di rancore - racconta Angelo, ergastolano, condanne per omicidio e rapina a mano armata -. Non volevo neppure riconoscere di avere sbagliato, da 12 anni non andavo a messa, al frate che mi confessava dicevo che non ero stato io a uccidere, mentivo persino con mia moglie. Qui ho incontrato gente che non mi ha chiesto conto del mio passato, mi ha aiutato ad alzare lo sguardo e a mettermi in azione. Ho fatto il corso per operatore di call center, lavoro sette ore al giorno al servizio di prenotazione delle visite mediche per conto dell’Asl di Padova e per Fastweb. Ma soprattutto ho imparato a riconoscere i miei errori e a fare pace con me stesso. E ho capito che Dio perdona e ti dà sempre un’altra possibilità. Proprio come hanno fatto con me quelli di Giotto, che mi hanno offerto lavoro e amicizia". Come tutto il popolo delle carceri, anche Angelo è turbato dalla moltiplicazione dei suicidi di cui si ha notizia in questo periodo. "Certamente il sovraffollamento e il degrado in cui vivono tanti detenuti può spingere verso gesti estremi. In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa. Per farcela devi avere qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare anche quando guardi i muri della tua cella. Io questo "qualcosa" l’ho incontrato proprio quando avevo toccato il fondo".

È successo anche a Bledar, albanese di 36 anni, ergastolano pure lui, uno col coltello facile, che per questo è finito dentro sia al suo Paese, sia dopo essere emigrato in Italia, alla ricerca di un Eldorado che non ha mai trovato. Furti, rapine, spaccio, sfruttamento della prostituzione, fino all’omicidio. Quando la polizia lo ha fermato stava correndo a 150 all’ora, imbottito di alcol e droga. "Quei poliziotti sono stati la mano di Dio che mi ha raggiunto prima che facessi la fine dei miei amici. Nella nostra banda eravamo in 12, gli altri 11 sono tutti morti in risse con bande rivali o incidenti stradali. Quando sono arrivato al Due Palazzi mi hanno messo nello stesso braccio di Franco, che mi ha fatto conoscere quelli di Giotto. Grazie a loro ho cominciato a lavorare e soprattutto a sperare". Madre cristiana e padre musulmano, Bledar aveva sempre considerato la religione come un soprammobile, come tutti i giovani cresciuti nell’Albania dell’ateismo di stato. In carcere ha conosciuto gente cambiata dall’incontro con Gesù, e anche lui ha cominciato a cambiare. "Ho chiesto il battesimo perché voglio vivere come loro, non posso fare a meno di amici così".

Padre Luigi Caria, cappellano del carcere, conferma che "anche nei luoghi più duri possono cominciare percorsi di rinascita. I detenuti sono persone come noi, anche se nella mentalità comune si pensa che chi varca le porte del carcere diventa automaticamente una persona di serie B, un’entità irrecuperabile. Buttiamo via la chiave delle loro celle e li dimentichiamo. Peccato che dopo un po’ questa gente esce, cerca casa e lavoro, cerca una normalità che le viene negata, e così molti tornano a delinquere".

Le cifre parlano chiaro: il 70% degli ex detenuti, una volta usciti commette altri reati. Ma la percentuale si abbassa al 20 per cento tra coloro che hanno usufruito di misure alternative e scende a meno dell’1 per cento tra quanti hanno iniziato a lavorare in carcere. "Lavoro vero, però, non lavoro assistito - tiene a precisare Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus e pioniere dell’esperienza al Due Palazzi con la cooperativa Giotto -. In Italia i detenuti occupati all’interno delle carceri sono 13mila su 66mila, ma solo 750 lavorano in cooperative sociali come la nostra che si muovono secondo logiche di mercato, accettando la concorrenza e cercando di realizzare profitti che poi vengono reinvestiti per creare nuova occupazione". È la scommessa del "privato sociale", che fa i conti con difficoltà burocratiche e diffidenze radicate, ma conta sull’aiuto di aziende che hanno visto ricambiata la loro fiducia in termini di qualità e affidabilità. I detenuti-dipendenti sono inquadrati nel contratto delle cooperative sociali, 900 euro al mese, con cui riescono anche ad aiutare le famiglie: una molla in più per "muovere" il cuore e la mente.

La cooperativa, oltre a gestire la ristorazione interna e un laboratorio di cartotecnica e ceramica, ha portato tra le mura del Due Palazzi nomi importanti: assembla le valigie Roncato, i gioielli di Morellato, le biciclette del gruppo Esperia con i marchi Torpado, Bottecchia e Fondriest, ha allestito un call center per l’Asl di Padova e per Fastweb, mentre per Infocert mette a punto le pen-drive col software per la firma digitale e cura la digitalizzazione di migliaia di documenti cartacei. Il fiore all’occhiello sono i "dolci di Giotto", che hanno acquisito notorietà a livello nazionale approdando persino nell’appartamento pontificio e sulla tavola dei grandi del G8 a L’Aquila.

Qui dentro Giotto non è solo un nome, è una presenza: nei laboratori si fabbricano scatole, oggetti di cancelleria e piastrelle in ceramica ispirati agli affreschi della Cappella degli Scrovegni, il tesoro artistico della città. Riproduzioni dei dipinti campeggiano sulle pareti dei laboratori, e persino nella mensa è stata riprodotta una copia delle Nozze di Cana del pittore fiorentino. Commenta Angelo, l’ergastolano addetto al call center: "La Bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tutti, perché non dovrebbe esserlo anche per noi?".

Agrigento: manca l’acqua calda, c’è malcontento tra i detenuti

 

Ansa, 3 dicembre 2009

 

Sorgono disagi per i detenuti della casa circondariale di Agrigento, in contrada Petrusa. Da giorni, infatti, non viene erogata l’acqua calda per un guasto alla centrale termica, e i reclusi sono costretti a lavarsi con l’acqua fredda o riscaldata sui fornelli a gas. Gli agenti di polizia penitenziaria sono costretti a fronteggiare il malumore dei carcerati, oltre ai pericoli sanitari dovuti alla scarsa igiene cui si va incontro. L’amministrazione comunale non riesce a trovare una soluzione al problema.

Televisione: "Il carcere della vergogna" di Luisella Costamagna

 

Il Velino, 3 dicembre 2009

 

"Il carcere della vergogna" è il tema della nona puntata di "Così stanno le cose" in onda oggi su La7, condotto da Luisella Costamagna in diretta dagli studi di Via Novaro a Roma dalle 16 alle 17. Nei 206 edifici carcerari sparsi in Italia ogni giorno entrano tra i 700 e i 1.000 detenuti. E nel solo carcere napoletano di Poggioreale, a fronte di una disponibilità di 1.300 posti, sono costretti a vivere in quasi 2.300.

"Diventiamo come degli animali: in otto in cella con il letto simile a una cuccia", è il drammatico racconto di un ergastolano nel reportage di Flavia Fratello. Il risultato è che le carceri italiane si stanno trasformando in enormi polveriere mentre aumenta in modo esponenziale il numero dei suicidi sia tra i detenuti che tra gli agenti di custodia, come testimonia il racconto di un commissario di polizia penitenziaria.

Da Roma gli ospiti in studio discuteranno con gli studenti collegati in diretta dall’Università di Catania. La puntata si concluderà con le 15 domande di "Così stanno le cose", per scoprire il carattere nascosto di personaggi dello spettacolo, della politica, del giornalismo. Ospite, Antonio Di Pietro. Un pomeriggio senza gossip, alla ricerca del volto inedito dell’attualità.

Immigrazione: Giudici di pace in sciopero; espulsioni a rischio

 

Agi, 3 dicembre 2009

 

Sospensione di 300mila procedimenti penali, civili ed amministrativi e, in particolare, "blocco della trattazione dei reati di immigrazione clandestina a carico di cittadini extracomunitari, con relativa impossibilità di espulsione immediata di stranieri pregiudicati e socialmente pericolosi". È il prevedibile effetto dello sciopero nazionale proclamato dal 14 al 18 dicembre prossimi dall’Unione nazionale dei giudici di pace.

"La protesta - premettono il presidente nazionale, Gabriele Longo, e il segretario generale, Alberto Rossi - è l’inevitabile conseguenza del contraddittorio comportamento del ministro della Giustizia Alfano, il quale, dopo essersi formalmente impegnato, nel settembre dello scorso anno, a superare l’attuale stato di precariato della categoria, negli ultimi mesi, per voce del sottosegretario Caliendo, ha escluso ogni forma di continuità del rapporto dei giudici di pace, preannunciando una riforma addirittura peggiorativa dell’attuale status giuridico dei giudici di pace, senza tutela previdenziale, con riduzione del numero dei mandati quadriennali (da tre a due) e le retribuzioni, peraltro bloccate al valore monetario del ‘99, con incompatibilità professionali ed oneri lavorativi del tutto inconciliabili con l’accentuazione della precarietà del rapporto".

"È doveroso rammentare al ministro Alfano ed al sottosegretario Caliendo - proseguono i due - che il processo breve già esiste da quasi 15 anni e quotidianamente viene trattato dai giudici di pace, dinanzi ai quali le espulsioni vengono eseguite immediatamente ed i processi penali e civili durano mediamente un anno. Svilendo la giustizia di pace il ministro Alfano si contrappone all’unico organo della magistratura ossequioso del diritto inviolabile di tutti i cittadini alla ragionevole durata del processo".

Immigrazione: il Viminale; i medici non denuncino i clandestini

 

Il Messaggero, 3 dicembre 2009

 

I medici italiani non saranno obbligati a segnalare i clandestini che si rivolgono a loro per essere curati. "Sussiste il divieto di segnalazione da parte dei medici e di tutto il personale del servizio sanitario nazionale degli stranieri non in regola con le norme sul soggiorno che si rivolgono alle strutture sanitarie".

Questo è quanto si legge in una circolare del ministero dell’Interno emanata alcuni giorni fa. "Si è scritta la parola fine su una vicenda a cui l’intera categoria dei medici del sistema sanitario ha dedicato mesi di proteste a colpi dì comunicati e manifestazioni" è il commento del sindacato dei medici ospedalieri Anaao Assomed.

Per i camici bianchi, dunque, resta valido il divieto di segnalare stranieri non in regola col permesso di soggiorno che chiedano aiuto alle strutture del servizio sanitario nazionale. A chiarirlo è. dunque, una circolare del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno inviata ai prefetti ricordando che per le prestazioni sanitarie non è richiesto allo straniero di esibire il permesso di soggiorno.

Il divieto di segnalazione. spiega la circolare, è previsto da un articolo della legge Bossi-Fini del 1998 che non è stato modificato dal decreto sulla sicurezza approvato lo scorso 15 luglio. "Conseguentemente - si legge - continua a trovare applicazione, per i medici e per il personale che opera presso le strutture sanitarie, il divieto di segnalare alle autorità lo straniero irregolarmente presente nel territorio dello Stato che chiede accesso alle prestazioni sanitarie", salvo il caso, espressamente previsto dalla Bossi-Fini, "in cui il personale sìa tenuto all’obbligo del referto, ai sensi dell’articolo 365 del codice penale, a parità di condizioni con il cittadino italiano". Si tratta, in questo caso, di delitti per i quali si deve procedere d’ufficio. Quest’obbligo, però, sottolinea la circolare, "non sussiste per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, attesa la sua natura di contravvenzione e non di delitto".

"Non siamo spie, dicevamo qualche giorno fa - commenta Carlo Lusenti, segretario nazionale Anaao-Assomed - durante il nostro impegno quotidiano cerchiamo di garantire a tutte le persone che a noi si rivolgono, indipendentemente dal sesso, dal censo, dal colore della pelle e dalla lingua la migliore salute".

Droghe: a Salone Giustizia San Patrignano e la sua alternativa

 

Ansa, 3 dicembre 2009

 

La comunità di recupero di San Patrignano presenterà, al Salone della giustizia di Rimini in programma da oggi, il suo impegno per offrire un’opportunità di cambiamento ai detenuti per reati connessi alla droga.

Dal 1986 ad oggi San Patrignano ha accolto in comunità 4.000 giovani in regime di arresti domiciliari e di affidamento in prova ai servizi sociali, sostituendo 4.503 anni di carcere (oltre 45 secoli) con percorsi riabilitativi orientati al pieno recupero e al reinserimento sociale e lavorativo. Per la maggior parte di questi ragazzi - almeno il 70% come verificato in diversi studi universitari sull’esito del trattamento offerto dalla comunità - uscire dal carcere, ricorda la comunità, ha significato cambiare radicalmente la loro esistenza. Hanno avuto l’opportunità di lasciarsi definitivamente alle spalle la tossicodipendenza e tornare a fare parte, a pieno titolo, della società.

Stati Uniti: pena di morte; giustiziato 29 anni dopo gli omicidi

 

Apcom, 3 dicembre 2009

 

Cecil Johnson, un nero di 53 anni, è stato giustiziato stanotte con un’iniezione mortale nello stato del Tennessee 29 anni dopo un triplice omicidio di cui l’uomo si è sempre detto innocente. Lo riferisce il Centro informazioni sulla pena di morte. Poco prima dell’esecuzione, il condannato aveva causato una vivissima discussione in seno alla Corte suprema degli Stati Uniti quanto alla possibilità di giustiziare qualcuno dopo tanto tempo dalla sua condanna.

Nel suo insieme, la più alta giurisdizione degli Stati Uniti ha rifiutato di occuparsi dell’ultimo ricorso del condannato, decisione che implica l’approvazione di almeno quattro dei nove giudici. Ma il decano dell’istituzione, per la seconda volta in tre settimane, ha preso la penna per denunciare la procedura.

"Il rinvio stesso sottomette i detenuti nel braccio della morte a decenni di reclusione in condizioni particolarmente dure e disumanizzanti" scrive il giudice John Paul Stevens, uno dei più progressisti della Corte suprema. Il giudice ha ricordato l’assenza di "prove materiali che collegano Cecil Johnson ai crimini" e il fatto che lo Stato del Tennessee ha impiegato dodici anni per dargli accesso agli elementi che avrebbero potuto giocare a suo favore.

In un parere separato e piccato, in forma di risposta, uno dei giudici più conservatori della corte, Clarence Thomas, ha ricordato che Stevens aveva già protestato il 10 novembre, stavolta contro lo Stato di Virginia, perché aveva programmato l’esecuzione di un condannato troppo presto. E in effetti in quel caso non erano stati esauriti tutti i suoi ricorsi. "La visione del giudice Stevens è, a quanto pare, che gli Stati non agiscono mai a tempo" ironizza il giudice Thomas per cui Cecil Johnson, che ha moltiplicato gli appelli, è il solo responsabile del lungo rinvio. In media negli Stati Uniti un condannato a morte passa dodici anni nel braccio della morte prima di essere giustiziato. Cecil Johnson è il 49esimo uomo messo a morte negli Stati Uniti nel 2009, il sesto nel Tennessee da quando questo stato ha ristabilito la pena di morte nel 1974.

India: due italiani assolti in appello da accuse di traffico di droga

 

Agi, 3 dicembre 2009

 

Un tribunale indiano ha assolto gli italiani Angelo Falcone e Simone Nobili dall’accusa di traffico internazionale di droga e ne ha ordinato l’immediato rilascio dalla prigione di Nahan. Ne danno notizia i Radicali italiani. A emettere la sentenza è stata l’Alta Corte di Shimla, composta dai giudici Surinder Singh e Surjit Singh.

I due furono arrestati il 9 marzo 2007, al loro primo viaggio all’estero nella località di Mandi dalla polizia locale, che sosteneva fossero in possesso di 18 chili di hashish e per questo condannati a dieci anni di carcere in primo grado. Giovanni Falcone, padre di Angelo, ed Elisabetta Zamparutti, la deputata Radicale che ha seguito il caso anche recandosi in visita alla prigione indiana dove era detenuto Angelo e gli altri connazionali, hanno così commentato la notizia: "Siamo sempre stati certi dell’innocenza di Angelo e di Simone Nobili. L’esito positivo della vicenda è stato anche il frutto di iniziative nonviolente, tra cui un lungo sciopero della fame, e di dialogo con le autorità italiane che ringraziamo per quanto hanno fatto. Certo è che l’attenzione che ha avuto Angelo deve essere non un’eccezione ma la regola per tutti i nostri connazionali detenuti all’estero e troppo spesso dimenticati".

Cina: cinque le condanne a morte per i disordini nello Xinjiang

 

Agi, 3 dicembre 2009

 

Cinque persone sono state condannate a morte per i disordini del luglio scorso nello Xinjiang. Con l’accusa di omicidio e partecipazione alle rivolte nella capitale Urumqi contro la minoranza Han, altre due persone sono state condannate all’ergastolo dal locale tribunale di secondo grado. Le cinque condanne a morte si sommano alle nove già eseguite per diversi reati comunque collegati ai disordini in cui persero la vita 200 persone e più di 1.600 rimasero ferite. Fino ad ora sono state comminate 21 condanne e tra queste tre pene capitali che, in caso di buona condotta dei detenuti nei prossimi due anni, potrebbero essere commutate in ergastolo.

 

 

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