Rassegna stampa 2 dicembre

 

Giustizia: la protesta nelle carceri e l’indifferenza del "Palazzo"

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 2 dicembre 2009

 

È stata questa una settimana di proteste nelle carceri italiane. Una settimana di proteste pacifiche, non violente. Hanno urlato e sbattuto contro le sbarre delle celle i detenuti delle carceri di: Genova, Lucca, Pescara, Vibo Valentia, Potenza, Pistoia, Verona, Vicenza, Vasto, Saliceta San Giuliano, Reggio Emilia, Poggioreale di Napoli, Bologna, San Vittore di Milano e Regina Coeli di Roma.

Proteste non violente determinate principalmente dal sovraffollamento presente nelle carceri italiane. Sono infatti 65.711 i detenuti rinchiusi nelle italiche prigioni, a fronte di una capienza di circa 42 mila posti. Un sovraffollamento che tramuta la detenzione in un trattamento disumano e degradante, quindi in tortura. Un paio di esempi possono rendere più chiaro il livello di inciviltà e di illegalità presente nelle patrie galere.

Nel carcere San Vittore di Milano, uno di quelli dove i detenuti hanno protestato, ci sono 1.400 detenuti, mentre ce ne potrebbero stare di fatto solo 500. La conseguenza è che nel carcere di San Vittore i detenuti stanno in 11 dentro una cella buia e sporca. E questi sono i più fortunati. Altri infatti sono costretti a dormire per terra nelle sale d’attesa perché in cella non c’è posto. Ed ancora, nel carcere di Bologna, che potrebbe contenere solo 480 detenuti, ce ne sono 1.200. Ed anche lì ovviamente i detenuti sono costretti a dormire per terra in luoghi non destinati alla detenzione.

Non giriamoci intorno. La situazione è grave. Le persone detenute oggi vengono trattate come bestie e non come persone. Un trattamento disumano, non a caso definito "tortura" nella recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Una tortura, un trattamento disumano e degradante che può indurre al suicidio. Sono 66 le persone che nel 2009 l’hanno fatta finita in carcere. Un numero da non sottovalutare. Esistenze da non sottovalutare. 66 persone che hanno preferito la morte a quella non vita. 66 persone che si sono uccise vista l’impossibilità di vivere ancora in quella cella sovraffollata.

Ora i detenuti, esasperati da tali condizioni di vita, protestano pacificamente. Cercano di far sentire le loro giuste ragioni. Una protesta che è un evento eccezionale in carcere. Esemplificativo del fatto che la misura è ormai colma. Una protesta non violenta che però resta ignorata. Silenziata. La maggior parte dei giornali e delle televisioni, non hanno raccolto il grido d’allarme proveniente dalle carceri. Tace il Ministro Alfano, che non pare interessato alla questione. Tacciono i giudici e gli avvocati, come se la cosa non li riguardasse. Tacciono i parlamentari della maggioranza e gran parte di quelli dell’opposizione, troppo impegnati a commentare le vicende giudiziarie del Premier. Un panorama desolante. Solo un gruppo di Radicali, in primis Rita Bernardini, sono da 14 giorni in sciopero della fame per chiedere un intervento che affronti il disastro carcerario. Solo loro.

La domanda è: fino a che punto volgiamo arrivare? Cosa deve succedere perché si apra una discussione seria sulla situazione presente nelle carceri? È evidente infatti che occorre prima di tutto gestire un’emergenza. Occorre intervenire con urgenza per arginare il crescente sovraffollamento. Occorre trovare degli strumenti che riportino il numero dei detenuti a livelli fisiologici. Per far ciò potrebbe essere utile fissare un tetto massimo di capienza nelle carceri e, una volta superato questo, pensare a meccanismi che facciano uscire dalle carceri i detenuti più meritevoli. Insomma, pensare ad interventi che consentano di mandare in detenzione domiciliare o in misura alternativa chi non è pericoloso o chi ha scontato gran parte della pena. Per finire due raccomandazioni. Ai detenuti: continuate protestando in modo non violento. Al Governo: fate presto, prima che la situazione degeneri.

Giustizia: il carcere deve dare speranza, altrimenti fa solo danni

di Alessandra Sallemi

 

La Nuova Sardegna, 2 dicembre 2009

 

Un detenuto costa allo Stato 200 euro al giorno, ma le sue condizioni di vita non somigliano a quelle di un cliente di albergo a tre stelle pensione completa. Con quei 200 euro lo Stato non riesce neanche a garantire il rispetto dei suoi diritti, come il fatto di stare in una cella in 2 e non in 3 o più. La coperta è corta nella sanità, nella scuola, nelle pensioni: ecco che la condizione degli istituti di pena non riesce a essere una priorità nell’agenda politico-amministrativa.

Sull’emergenza-carceri accetta di parlare Michela Cangiano, la comandante del Corpo di polizia penitenziaria insediata a Cagliari da un mese, in arrivo da Busto Arsizio e felice di stare "in un posto bello come la Sardegna". Michela Cangiano ha 35 anni. Laureata in Giurisprudenza a Bologna (110 e lode), si è specializzata in diritto penitenziario e della sicurezza (con un master di 2° livello).

Entrare nel Corpo penitenziario è stata una scelta (è anche avvocato) di cui col tempo è diventata orgogliosa. Perché si rende un servizio alla società, ma soprattutto a quell’"umanità complessa, problematica, sofferente che deve trovare un senso alla pena, unico modo perché il carcere non sia uno spazio di vita vuoto, ma un’opportunità per il detenuto affinché possa compiere, poi, scelte diverse da quelle criminali".

Uscita dal manuale del perfetto poliziotto. "I principi bisogna affermarli continuamente. Ogni volta che succede qualcosa dentro un carcere, l’emozione collettiva va di volta in volta verso il detenuto o verso la vittima del reato. E se prevale quest’ultima ecco che sale l’onda giustizialista del gettare la chiave. Così i detenuti restano soli. Noi restiamo soli.

Il maggiore problema del carcere è il pregiudizio, contro questo noi operatori lavoriamo per far capire chi è che arriva in carcere e cosa è il carcere". Dunque lei è arrivata con un messaggio. "Il messaggio di ogni poliziotto penitenziario. Per noi è importante sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni locali perché attorno al carcere è necessario un lavoro di rete, bisogna stabilire contatti con gli imprenditori, approfondire quelli col sistema scolastico e sociale. Il nostro obbiettivo è nel nostro motto: dare speranza".

Da manuale. Un po’ in salita, viste le condizioni degli istituti. "Non c’è dubbio, ma non ci possiamo tirare indietro. Noi, a differenza di altri, che se non c’è la benzina non fanno uscire le macchine, non possiamo non fare ciò che serve. Possiamo forse non mandare i detenuti ai processi? Nel carcere bisogna dare risposte a prescindere dalle risposte che riceviamo noi". Il sovraffollamento è insostenibile.

"Il sovraffollamento è la negazione di un diritto del detenuto. Ma credo sia ancora più determinante l’esiguità delle risorse umane. Molte attività non si fanno perché mancano le unità. Qui ci sono 40 detenuti che vanno a scuola, un reparto rimane con una sola unità che svolge vari servizi assieme. È una cosa che si fa tutti i giorni perché il Corpo di polizia penitenziaria non vuole che si chiuda l’attività scolastica. Quando si conosce meglio la vita in carcere si comprende che, per esempio curando i tossicodipendenti, si dà un’immagine dello Stato non solo punitiva e, soprattutto per gli stranieri, l’entrata in un istituto di pena rappresenta il primo momento in cui loro vedono una reale presa in carico da parte delle istituzioni dei loro problemi.

Lo Stato si presenta attraverso tutto lo staff del carcere. E devo dire che qui a Buoncammino gli agenti lavorano con molta professionalità e umanità. Il problema è capire a chi attribuire il fallimento, a volte, di tutto questo lavoro. Noi siamo sicuri che non sia dell’operatore che sta qui notte, giorno, feriali e festivi, una condizione che non emerge negli organi di informazione con la stessa forza che si ha quando si parla di presunte mele marce fra noi operatori. Ci sono come, credo, in tutte le categorie e secondo la legge dei grandi numeri. Ma il garante dei diritti dei detenuti è prima di tutto l’agente penitenziario".

Guai chiamarvi guardie. "Il mio nome è Michela, se mi chiama Eleonora io capisco che lei non mi conosce. Se io mi presento e lei dopo due anni continua a chiamarmi Eleonora, io penso che lei sia indifferente... Guardia non è offensivo di per sé, è un’altra cosa rispetto a ciò che siamo noi oggi". Quando andrete a Uta le cose miglioreranno. "Senz’altro. Ma il carcere in centro città è molto importante per le famiglie dei detenuti che lo possono raggiungere agevolmente perché è ben collegato. E poi quest’edificio di fronte al quale si passa continuamente serve per toccare le coscienze, per creare un legame". Il buon poliziotto penitenziario? "È quello che non si abitua mai a vedere qualcuno che entra in carcere".

Giustizia: i Radicali, l’amnistia e la riforma che non arriva mai

di Dimitri Buffa

 

L’Opinione, 2 dicembre 2009

 

Da quasi due settimane la deputata radicale Rita Bernardini è in sciopero della fame perché venga calendarizzata una mozione, già sottoscritta da 78 suoi colleghi a Montecitorio, affinché si discuta del sovraffollamento delle carceri e di una "grande e generalizzata amnistia". Che, nelle intenzioni di Marco Pannella, dovrebbe essere la "conditio sine qua non" per decongestionare l’arretrato dei processi.

Il problema stavolta non è solo quello di svuotare carceri che sono tornate a quota 66 mila detenuti, contro i 43 mila che rappresentano la normalità, ma anche di chiudere quelle inutili centinaia di migliaia di processi che si accumulano per piccole violazioni della legge sulla droga o della normativa sull’immigrazione. Cioè le due leggi "criminogene" che hanno creato il problema. Ogni giorno che Dio manda in terra, si prescrivono più di 500 processi.

E questa è comunque un’amnistia, che, contrariamente a quella proposta da Pannella e dal segretario dei Radicali italiani Mario Staderini, non è subordinata all’eventuale risarcimento della vittima del reato. In reati come la bancarotta Parmalat, o quella di Cirio, solo per fare due esempi molto altisonanti, la concessione dell’amnistia verrebbe subordinata al risarcimento delle vittime.

Anche per il Cav la "trovata" pannelliana potrebbe essere d’aiuto. Proprio ieri inoltre abbiamo dovuto subire la reprimenda di Jean Paul Costa, presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha dichiarato che "il fatto che l’Italia sia, tra i 47 del Consiglio d’Europa, il Paese che ha più volte violato la Convenzione europea dei diritti umani, dipende dal problema della lunghezza dei processi".

Circostanza più volte sottolineata anche dalla vicepresidente del Senato Emma Bonino. Tutto ciò, unito alla disastrosa situazione delle patrie galere, prima o poi convincerà anche il Pd che la prima vera riforma bipartisan da fare con il Pdl è proprio quella della giustizia. Passando, però dall’amnistia. Che, tanto, il più volte evocato "piano carceri" si sa in partenza che non potrà funzionare, visto che se si realizzasse, e il "se" è grosso come una casa, al massimo libererebbe 20 mila posti in tre anni. E ne servono 30 mila entro poche settimane.

Giustizia: i medici potranno dare notizie ai parenti dei detenuti

 

Agi, 2 dicembre 2009

 

I medici della struttura detentiva all’interno dell’ospedale Pertini potranno dare informazioni ai parenti dei detenuti ricoverati. In questa direzione è stato modificato, con un ordine di servizio firmato il 27 novembre scorso da Carmelo Cantone, responsabile del servizio sanitario all’interno del carcere di Rebibbia e Regina Coeli, l’accordo tra il ministero della Giustizia e la struttura ospedaliera. È quanto è emerso dall’audizione di questa mattina al Senato, presso la commissione presieduta da Ignazio marino, dello stesso Cattone.

Tutto ruota intorno alla morte di Stefano Cucchi e al fatto che ai suoi genitori non vennero date informazioni sullo stato di salute del giovane poi deceduto. I medici si sono appellati all’accordo ora modificato. In pratica, se i parenti di un detenuto vogliono notizie del loro congiunto devono chiedere agli agenti di custodia che inoltrano la richiesta ai medici. Questi, sulla base delle condizioni di salute del detenuto ricoverato, decidono se incontrare i parenti per fornire loro le informazioni.

Per Ignazio Marino si tratta di "un primo passo concreto che rimuove regole né utili né comprensibili". "L’obiettivo - ha aggiunto - è quello di garantire il diritto alla salute a tutti, anche ad un paziente in stato di detenzione.

 

Carapella (Pd): ordine servizio atto di civiltà

 

"L’ordine di servizio emesso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - che consente ai familiari dei detenuti ricoverati di poter incontrare i medici che hanno in cura i propri congiunti, anche senza un’autorizzazione del magistrato preposto - è certamente un decisivo passo in avanti ed un importante atto di civiltà". È quanto dichiara il consigliere regionale del Pd, Giovanni Carapella.

"Vicende come quelle di Stefano Cucchi - prosegue Carapella - non devono più ripetersi e se il sistema che preordina situazioni analoghe a quella in cui si trovarono il giovane deceduto ed i suoi familiari necessita di essere rivisto e modificato, che lo si faccia senza esitazioni".

"Legalità, civiltà e trasparenza - conclude il consigliere regionale del Pd - devono poter camminare insieme, senza intralciarsi l’una con l’altra e sono certo che il lavoro che sta svolgendo la commissione d’inchiesta sul Sistema Sanitario Nazionale, presieduta dal senatore Ignazio Marino, servirà ad impedire che nel nostro Paese possano verificarsi nuovamente altri casi Cucchi".

 

Radicali: ci voleva un morto per avere la modifica

 

"Ci voleva il morto per modificare una disposizione disumana". Lo hanno detto la senatrice Donatella Poretti dei Radicali-Pd e Irene Testa, segretaria dell’associazione "Il Detenuto Ignoto". Poretti e Testa, in un comunicato, hanno spiegato che "è stata modificata la disposizione che impedisce ai familiari di incontrare, senza autorizzazione del magistrato, i medici che in ospedale hanno in cura un congiunto quando è detenuto-paziente.

Per farlo c’è voluto un morto, Stefano Cucchi. Un provvedimento che non aveva senso da un punto di vista della sicurezza, mentre da quello sanitario non permetteva al medico di acquisire dai familiari informazioni utili sul paziente".

Il provvedimento, hanno aggiunto Poretti e Testa, da un punto di vista umanitario lasciava molto a desiderare abbandonando i familiari all’arbitrarietà della decisione di medici e agenti penitenziari. I medici solitamente non rifiutano i colloqui con i parenti, ma nel caso Cucchi l’applicazione rigorosa del regolamento ha suscitato quelle critiche che hanno poi portato alla modifica. Testa è al quattordicesimo giorno di sciopero della fame per chiedere che il Parlamento calendarizzi la mozione sulle carceri dei deputati Radicali, mozione sottoscritta anche da 81 parlamentari di diversi schieramenti.

Giustizia: Caritas; sostituire le pene detentive con le alternative

 

Asca, 2 dicembre 2009

 

"Pensiamo sia urgente sostituire la pena detentiva, per coloro che hanno ricevuto condanne inferiori ai tre anni, con altri percorsi obbligati ma di carattere fortemente riabilitativo ed inclusivo; anzitutto attraverso una convinta applicazione delle previste misure alternative e lì dove necessario, con la creazione di apposite comunità penali-educative". Lo sostengono le Caritas del Nordest, in un documento sulla situazione carceraria, condivisa con i vescovi.

"Ciò, ne siamo ben consapevoli, nonostante l’opinione pubblica chieda il contrario - scrivono le Caritas -. Non solo la nostra fede ci spinge a ciò, ma siamo altrettanto convinti che la stessa pubblica opinione, se adeguatamente informata piuttosto che fomentata per interessi di parte, ben comprenderebbe gli indubbi vantaggi etici, sociali, rieducativi, giudiziari, trattamentali ed economici".

Giustizia: Bernardini (Ri); Capece sbaglia giocando allo sfascio

 

Il Velino, 2 dicembre 2009

 

"Donato Capece si chiede dove fossi io quando "potevo fare le riforme", aggiungendo che lui gira le carceri dal Nord al Sud (isole comprese) non solo a Ferragosto. Io sono alla mia prima legislatura, sto all’opposizione e nell’arco di un anno e mezzo ho visitato oltre 50 istituti penitenziari. Se consideriamo tutta la delegazione radicale all’interno dei gruppi Parlamentari Pd di Camera e Senato (in tutto siamo sei deputati e tre senatori), le visite di sindacato ispettivo sono oltre cento". Lo dichiara Rita Bernardini, deputata gruppo Radicali-Pd.

"Sulle carceri - continua Bernardini - abbiamo presentato centinaia di dettagliate interrogazioni parlamentari al ministro della Giustizia, molte delle quali riguardanti le pietose condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti di polizia penitenziaria; abbiamo fatto approvare un ordine del giorno sulla Cassa delle Ammende e a gennaio 2009, se pur dall’opposizione, convinto l’aula di Montecitorio ad approvare una risoluzione che impegna il governo a presentare "una riforma strutturale e organica del sistema della giustizia". Mi auguro che il segretario del Sappe sia in grado di comprendere che il carcere è l’ultimo anello dove si scarica il peso di una giustizia che in Italia non funziona da decenni. Ma questa è solo la storia recente dell’impegno radicale sul sistema carcerario italiano".

"La lotta nonviolenta per la smilitarizzazione di quelli che allora (1976) venivano chiamati ‘agenti di custodià - spiega la deputata - fu condotta dai radicali con in prima fila Adelaide Aglietta. Capece non lo sa, ma se oggi può fare il sindacalista, il merito è proprio dell’impegno radicale che, con quell’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame, chiedeva: primo, un decreto legge per l’aumento dell’organico degli agenti di custodia, l’aumento delle retribuzioni, la smilitarizzazione e la sindacalizzazione del corpo; secondo, l’avvio immediato dell’iter parlamentare del progetto di legge radicale sull’amnistia.

E in questi oltre trent’anni, con in prima fila Marco Pannella, non abbiamo mai spesso di occuparci del problema penitenziario e della giustizia. Oggi, assieme ai miei compagni radicali, tre dei quali giovanissimi, sto conducendo uno sciopero della fame da 13 giorni per la calendarizzazione di una mozione parlamentare che impegni il governo a "una riforma davvero radicale in materia di custodia cautelare preventiva, di tutela dei diritti dei detenuti, di esecuzione pena e, più in generale, di trattamenti sanzionatori e rieducativi".

Se Capece si prendesse la briga di leggere la mozione, si renderebbe conto degli impegni che chiediamo al governo sull’organico e le condizioni di vita degli agenti e di tutto il personale penitenziario".

"Quanto all’indulto - prosegue l’esponente dei Radicali -, ci prendiamo la responsabilità di averlo promosso e voluto, ma assieme all’amnistia che avrebbe sgravato soprattutto la magistratura dalla mole dei milioni dei processi arretrati, 170mila dei quali cadono in prescrizione ogni anno. La marcia per l’amnistia la facemmo noi radicali assieme a Giorgio Napolitano che, nel dicembre 2005, ancora non era presidente della Repubblica. Se non ci fosse stato l’indulto, che oggi da soli rivendichiamo di aver voluto, in carcere oggi ci sarebbero 100mila detenuti, altro che 66mila. È disarmante - conclude Bernardini -: Capece, anziché trarre forza dalla nostra lotta, gioca allo sfascio".

Giustizia: Dap; no a gogna mediatica sulla polizia penitenziaria

 

Ansa, 2 dicembre 2009

 

"Per uno o due episodi tutto quello che sembrava fosse stato costruito non solo sul piano dell’immagine ma anche della concretezza sembra svanito. C’è un modo di trattare il corpo e l’amministrazione penitenziaria che porta a un massacro mediatico perché sono state dette parole terribili nei nostri confronti". Lo ha detto il vicecapo vicario del Dap Emilio Di Somma, intervenendo al congresso dell’Ugl Polizia Penitenziaria, a proposito delle polemiche seguite alla morte in carcere di Stefano Cucchi.

"Nel ricordare che la responsabilità penale è personale - ha detto Di Somma - sul caso Cucchi è in piedi un’inchiesta anche amministrativa. Si conferma la fiducia in coloro che stanno svolgendo le indagini e siamo sicuri che verranno svolte nel modo migliore. Ovviamente ci atterremo alle conclusioni di entrambe le inchieste e se venissero fuori comportamenti censurabili sia dal punto di vista penale sia amministrativo interverremo. Ma non può essere che tutto quello che si è fatto fino ad oggi venga vanificato".

Il vice capo del Dap ha sottolineato l’esigenza di maggiori fondi per riorganizzare le carceri in Italia ma anche la necessità di un incremento dell’organico delle forze di polizia penitenziaria perché, ha osservato, "dovremmo essere in 45 mila ma siamo carenti di quasi cinquemila unita". Occorre poi, "trovare il modo di presentarsi in modo diverso all’opinione pubblica continuando a lavorare e a fare egregiamente il proprio dovere come finora è stato fatto senza farsi condizionare dalle campagne mediatiche".

Giustizia: Osapp; siamo il capro espiatorio, per morte Cucchi

di Massimiliano Bordignon

 

Corriere della Sera, 2 dicembre 2009

 

Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, uno degli otto sindacati a cui fanno riferimento le "guardie carcerarie") non ci sta. Troppo facile prendersela con la polizia penitenziaria in questo momento di polemiche, peraltro giustificate, relative a tutto il mondo delle carceri.

Polemiche rinfocolate dal "Caso Cucchi", che ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema delle condizioni di vita dei reclusi. "Il caso Cucchi c’entra poco con il problema penitenziario di per sé" sottolinea Beneduci. "In carcere noi viviamo una situazione di gravissimo sovraffollamento, con oltre 41mila posti disponibili a fronte di 65mila carcerati e con un personale che è sempre di meno su un organico stimato nel 1992. Così, mentre i detenuti aumentano, il nostro organico, già sotto di 5mila unità a quello che dovrebbe, continua a diminuire, in quanto le leggi vigenti consentono di spendere solo il dieci per cento circa delle somme previste per il personale. Ovvero se ci sono 100 unità di personale che scelgono di andare via, noi ne possiamo prendere solo 15. Pertanto aumenta anche l’età media delle persone che rimangono in servizio (ora attorno ai 40 anni), aumenta il loro logorio, aumenta il numero di ore che sono costretti a fare".

In che senso il caso Cucchi non tocca direttamente questo argomento? "Il caso Cucchi è avvenuto all’interno di un reparto penitenziario ospedaliero, ma non è in relazione al sovraffollamento carcerario. Dopo quanto è avvenuto abbiamo potuto constatare da un lato che c’è una forte attenzione da parte dell’opinione pubblica concentrata sul carcere, anche colpevolizzando i poliziotti penitenziari. Di conseguenza si sono create delle problematiche con il personale in servizio all’istituto di Regina Coeli, dove sempre più spesso arrivano telefonate, minacce e lettere minatorie. Pochi giorni fa una navetta che trasportava il personale del carcere è stata presa a sassate e insulti lungo la strada.

Il caso Cucchi ha scatenato una sorta di criminalizzazione della polizia penitenziaria ingiustificata, anche perché, in tutti questi casi di morti definite "sospette" sono sempre state condotte delle inchieste, e l’autorità giudiziaria segue tutti i casi, nessuno escluso. E a me non risulta che al di là della campagna mediatica, si siano mai verificati dei riscontri relativi ai poliziotti penitenziari, a parte i tre, che però saranno i fatti a doverlo dimostrare, sono coinvolti nella vicenda.

Non ci sono mai stati colleghi indagati, incriminati e condannati per reati legati alla violenza. Inoltre vorrei dire un’altra cosa: quando c’è così poco personale e tanto sovraffollamento non può essere certo la violenza a permetterti di tenere le cose sotto controllo, sarebbe assurdo. Pensate, capita sempre più spesso che ci sia un solo agente per 100-150 detenuti durante i turni festivi. E credete che possa usare la violenza contro 150 persone per mantenere l’ordine?".

Giustizia: morte Cucchi; la Tac conferma risultati dell’autopsia

 

Ansa, 2 dicembre 2009

 

Una vertebra fratturata ed una lesione del coccige. La tac compiuta sul cadavere di Stefano Cucchi, il detenuto morto nell’ospedale Sandro Pertini di Roma il 22 ottobre scorso ha confermato, secondo quanto si è appreso, i risultati dell’autopsia. La conclusione degli accertamenti radiologici saranno ora elaborati da un esperto il quale stenderà la relazione conclusiva da consegnare ai pm Vincenzo Barba e Francesca Loy. Confermato, quindi, che non c’è alcuna lesione della mandibola.

I magistrati sono in attesa anche dell’esito degli esami sulle macchie di sangue trovate sui pantaloni di Cucchi. Gli accertamenti compiuti dall’ematologa Carlo Vecchiotti avrebbero evidenziato che si tratta del sangue di Cucchi e questo risultato, se confermato ai pm, avvalorerebbe la parte di testimonianza del detenuto gambiano che il 16 ottobre era, insieme con Cucchi, in una cella di sicurezza del tribunale. Il teste, nel sostenere di aver sentito rumori di botte e visto trascinare Stefano in cella, ha anche aggiunto che il giovane aveva dolore ad una gamba e gli indicò la parte che gli faceva male.

Prossimamente i pm sentiranno il detenuto marocchino che, in una lettera arrivata nelle mani del senatore Stefano Pedica (Idv), ha chiamato in causa i carabinieri a proposito del presunto pestaggio subito da Cucchi. Al riguardo l’avvocato Diego Perugini, difensore di Nicola Minichini, uno dei tre agenti di polizia penitenziaria indagati per omicidio preterintenzionale, chiederà che il teste sia sentito anche tramite incidente probatorio.

"Sono sconcertata da questa notizia: parliamo di tre persone per le quali ci sono degli avvisi di garanzia e verso le quali si profilano dei possibili reati penali che poi ovviamente saranno da dimostrare da parte della magistratura, però la giudico una decisione affrettata quantomeno". Così a Cnrmedia Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, sulla decisione di reintegrare in servizio al reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma, i tre medici indagati per la morte del geometra 31enne avvenuta il 22 ottobre scorso, pochi giorni dopo il suo arresto e dopo una serie di ricoveri poco chiari. "Aldilà di questo - ha aggiunto Ilaria Cucchi - vorrei sottolineare quanto sia ancora più grave l’aspetto deontologico della situazione: Stefano, da quanto risulta dalle cartelle cliniche, rifiutava di alimentarsi finché non avesse parlato con il proprio legale e non mi risulta che sia stato contattato, quindi mi sembra che sia una scelta azzardata".

Intanto si attendono i risultati della seconda autopsia e prosegue l’inchiesta, volta a chiarire i responsabili del pestaggio di Stefano Cucchi: si è parlato di tre agenti penitenziari, ma spunta anche una versione che vede come colpevoli alcuni carabinieri: "Non mi voglio pronunciare e mi affido alla magistratura. Su Stefano ho aperto un blog: conterrà tutta la documentazione sul caso di mio fratello, l’annuncio ufficiale oggi. Si chiamerà Per Stefano Cucchi".

Roma: da 5 mesi un detenuto attende intervento per papilloma

 

Il Velino, 2 dicembre 2009

 

Da cinque mesi un detenuto del carcere di Regina Coeli attende, invano, che undici grandi ospedali di Roma accolgano la richiesta della direzione sanitaria del carcere di operarlo per asportare un probabile papilloma vescicale. La vicenda è stata denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. "Quest’uomo - ha detto - da mesi attende inutilmente una risposta, ed intanto le sue condizioni di salute stanno peggiorando. Credo che questa vicenda abbia poco a che fare con il carcere e molto, invece, con i problemi che gravano sul sistema sanitario". Giuseppe M., questo il nome del detenuto, è entrato in carcere il 22 maggio scorso. Pochi giorni dopo gli viene diagnosticato, con una ecografia renale e vescicale, un probabile papilla vescicale di circa 15 mm. A seguito di ciò, il 5 giugno la direzione sanitaria di Regina Coeli chiede una Tac addominale e una visita urologica in vista di una resezione vescicale, una sorta di biopsia per verificare la natura del papilloma. La richiesta viene inviata agli ospedali "S. Pertini", "S. Camillo - Forlanini", "S. Filippo Neri", "S. Giovanni", "S. Spirito", "FatebeneFratelli" e "Umberto I". Giuseppe effettua la visita urologica propedeutica all’intervento al "San Camillo" e, il 3 luglio, una Tac al Cto da cui si evidenzia che la formazione è di 18 x 11 mm. Il 22 luglio la Direzione sanitaria di Regina Coeli invia una richiesta di intervento al "S. Camillo - Forlanini". Il 31 luglio e il 5 agosto l’ospedale risponde che non c’è disponibilità di posti. Contestualmente il magistrato di sorveglianza chiede copia della cartella clinica. Il 2 settembre viene inviata una richiesta di posto letto a 11 ospedali romani (oltre a quelli precedenti vengono aggiunti l’Ifo e il "Cristo Re").

Le risposte sono una sequenza di rifiuti: il 4 settembre non disponibilità di posto letto dalla Asl Rmc e dagli Ifo; il 5 non disponibilità dal S. Camillo; l’8 non disponibilità dal Policlinico "Umberto I"; il 10 si dichiarano indisponibili il "Policlinico Umberto I" e altri due ospedali. Il 14 settembre il "Fatebenefratelli" fissa una nuova visita per confermare la diagnosi e programmare le visite preoperatorie. Ma, dopo la visita ematica e quella cardiologia, Giuseppe attende ancora di sostenere gli altri esami necessari e una risposta per l’intervento, nonostante che la direzione sanitaria del carcere rinnovi, ogni settimana, la richiesta agli ospedali. "La cosa più sconcertante - ha sottolineato Marroni - è che gli ospedali spesso hanno ritenuto di non rispondere e quando lo hanno fatto, hanno inviano fax con su scritto non disponibile posto letto o solo no. A volte non si legge il nome del medico o del reparto, a volte si capiva il nome dell’ospedale solo dal fax. Un comportamento inaccettabile. Purtroppo quello di Giuseppe non è un caso isolato ma è l’emblema di come non funziona per i detenuti l’accesso alle cure al di fuori del carcere. Un sistema che non è assolutamente migliorato con il trasferimento alle Asl delle competenze della medicina penitenziaria".

Bologna: la direttrice; stranieri come fossero detenuti due volte

di Luigi Spezia

 

La Repubblica, 2 dicembre 2009

 

L’appello di Ione Toccafondi sulla difficile situazione del carcere. Gli immigrati sono il 64%. La direttrice della Dozza: sono poverissimi, hanno bisogno di lavorare. Nel 2009 ci sono stati 93 casi di autolesionismo, sono quasi sempre loro, per attirare l’attenzione sulle condizioni disperate.

"I detenuti stranieri è come se fossero detenuti due volte. Vivono in condizioni poco rispettose della dignità umana e dell’ordinamento carcerario, ma non posso andare fuori della porta, come mi ha detto di fare uno di loro l’altro giorno, e fermare i nuovi venuti" Nella frase della direttrice della Dozza Ione Toccafondi c’è tutta la sofferenza che subisce la maggior parte dei 1178 ospiti forzati del carcere bolognese, per il 64,8 per cento stranieri di oltre cinquanta nazionalità diverse. I dati sono del 26 novembre: quel giorno erano rappresentate 52 nazionalità diverse. "La maggior parte sono tossicodipendenti, seguiti dal nostro Sert interno, ma impossibilitati ad andare in comunità di recupero all’esterno perché clandestini". Stranieri che spesso non parlano la lingua italiana, spesso tossicodipendenti, parecchi con problemi psichiatrici e poverissimi: un’umanità disperata che sembra impossibile possa trovarsi, seppure separata da solide mura, all’interno dell’ancora benestante Bologna.

Le condizioni economiche dei detenuti stranieri, per la gran parte arrestati per il piccolo spaccio di droga diretto soprattutto a consumatori italiani, sono da Quarto Mondo. "Non hanno nemmeno di che vestirsi - racconta la direttrice - e nemmeno soldi per comprarsi le cose più essenziali. Non hanno parenti che li vengano a trovare. Chiedono continuamente vestiti, cibo che non sia sempre quello della mensa e un lavoro. Sono anche loro che per attirare l’attenzione compiono atti di autolesionismo: nel 2009 la polizia penitenziaria è intervenuta in 93 casi". Alla Dozza solo cento detenuti lavorano all’interno e solo 3 sono i semiliberi stranieri su quaranta.

I più numerosi alla Dozza sono i marocchini (178 uomini, nessuna donna), seguiti da tunisini (136), albanesi (83), romeni (68), algerini (64), nigeriani (30), senegalesi (16). "Abbiamo quattro mediatori culturali, ma sono insufficienti e non in grado di avere rapporti con detenuti di tutte le lingue. Rimane solo la possibilità, quando per esempio serve per eseguire interrogatori, di far arrivare dal Comune altri mediatori". In un calderone come la Dozza, ci sono difficoltà per situazioni elementari come il cibo. Non è certamente prevista, nei capitolati del Ministero, una cucina etnica. "Non possiamo mandare a compare carne macellata secondo il rito islamico, per esempio.

Così non mangiamo carne di manzo. Quest’anno per la fine del Ramadan abbiamo acquistato a spese loro dei dolci tipici e al termine del periodo di astinenza è venuto in visita il console del Marocco portando altre pietanze. Ma più di così non possiamo fare". Altra emergenza è l’abuso di alcol: "Scambiano l’alcol consentito, mezzo litro al giorno, con altre cose e alla fine c’è chi ne accumula fino a stordirsi. Così molte volte diventano aggressivi e litigano. Quest’estate per stemperare la tensione abbiamo costituito dei gruppi di auto-aiuto e hanno funzionato. Ma così è dura andare avanti".

Napoli: interrogazione su rigetto dei domiciliari a 17enne rom

 

Il Giornale di Napoli, 2 dicembre 2009

 

Rita Bernardini, deputata radicale-Pd, componente della Commissione Giustizia, ha presentato un’interrogazione al Guardasigilli per avere chiarimenti in merito alle motivazioni con le quali il Tribunale dei Minori di Napoli ha deciso di respingere in sede di appello la richiesta degli arresti domiciliari per la rom 17enne accusata del tentato rapimento di un neonato. Per la deputata quelle motivazioni sono infatti sorprendenti. "Questa ordinanza rischia di alimentare, contrariamente a quanto previsto e stabilito dal nostro ordinamento giuridico, l’esistenza di due distinte giurisdizioni: una applicabile ai cittadini e l’altra, più restrittiva, valida solo per gli stranieri".

Questa la ragione che ha spinto la deputata a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere se, "in seguito alla verifica del contenuto dell’ordinanza emessa dal Tribunale, non ravvisi la sussistenza di elementi tali da giustificare l’avvio di un procedimento disciplinare". La minorenne si trova rinchiusa da circa un anno e mezzo nel carcere minorile di Nisida in stato di custodia cautelare.

L’avvocato Cristian Valle ha deciso di presentare, prima dell’estate, una documentata istanza volta a far ottenere alla sua assistita gli arresti domiciliari. Ma il tribunale dei minorenni l’ha rigettata con una motivazione a detta dell’avvocato sconcertante in quanto improntata ad un pregiudizio razziale. Nel provvedimento di rigetto, infatti, si legge che: "L’essere assolutamente integrata in schemi di vita rom, rende concreto il pericolo di recidiva".

Rimini: "Rinnovamento nello Spirito Santo", riflette sul carcere

 

Asca, 2 dicembre 2009

 

Da sabato 5 a martedì 8 dicembre, a Rimini, si terrà la XXXIII Conferenza nazionale animatori del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), movimento ecclesiale che in Italia conta oltre 200mila aderenti, raggruppati in più di 1.900 gruppi e comunità. I 4 mila partecipanti si confronteranno sul tema "Rafforzatevi nella potenza del Signore e indossate l’armatura di Dio". Tra i relatori, oltre al presidente nazionale RnS, Salvatore Martinez, mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, Ronald W. Nikkel, presidente internazionale Prison Felloship International, Sebastiano Ardita, direttore generale del Dipartimento amministrazione penitenziaria ed Edoardo Patriarca, segretario del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici italiani.

Nel corso dei lavori sarà presentato il Progetto Sicomoro per la redenzione del mondo carcerario connesso alla nascita in Italia della Prison Felloship International.

Teatro: "7:3, il dramma proibito", dramma sulle carceri svedesi

di Giuliana Manganelli

 

Secolo XIX, 2 dicembre 2009

 

"7:3" è il paragrafo del codice penitenziario svedese relativo ai detenuti responsabili di crimini violenti e ritenuti pericolosi, potenziali recidivi con condanne superiori ai quattro anni che possono beneficiare solo di permessi sotto sorveglianza di 4 ore ogni sei mesi.

È anche il titolo di una pièce di Lars Norén, il più grande drammaturgo svedese vivente, che non sarà mai pubblicata né rappresentata perché è al centro di una storia che in Svezia ha coinvolto le istituzioni penitenziarie e ha suscitato un dibattito infuocato.

Norén, nato a Stoccolma nel 1944, anche poeta e regista, ha diretto tra il 1999 e il 2007 il Riksteatern, una compagnia che aveva come obiettivo esaminare gli spazi nascosti dentro e intorno agli esseri umani, esplorare il mondo fuori dal teatro e oltre la scena, coinvolgendo attori che erano detenuti, oppure portando spettacoli in carcere o trattando temi sul lavoro teatrale svolto in prigione, luogo chiuso e "nascosto" per eccellenza.

Il drammaturgo, oggi direttore artistico del Folkteatern di Göteborg, viene tradotto e rappresentato in tutto il mondo e suscita sempre entusiasmi e polemiche, adesioni e prese di distanza. "Kyla" (Freddo), una storia di cieca violenza razzista di tre naziskin contro un coetaneo svedese ma coreano di nascita, nel 2003 ha turbato e commosso Volterrateatro dove Norén era ospite d’onore di Carte Blanche, il progetto di Armando Punzo che dirige la Compagnia di attori-detenuti della Fortezza vista recitare anche a Genova.

Al controverso autore, il Piccolo di Milano dedicherà a febbraio due novità assolute per l’Italia. Dal 5 al 28 febbraio al teatro Strehler il monologo "20 novembre", per la regia e l’interpretazione di Fausto Russo Alesi, ispirato ai tragici episodi accaduti in un liceo tedesco, a partire dal diario online di un adolescente assassino che nel 2006 a Emsdetten ferì trenta persone tra compagni e professori prima di suicidarsi. Dall’8 febbraio al 2 marzo, al Teatro Studio, "Dettagli" per la regia di Carmelo Rifici, uno spettacolo che a Ronconi sarebbe piaciuto dirigere, un quartetto di colti professionisti e artisti di successo diabolici nel torturarsi a vicenda.

Nella primavera 1998 Norén riceve una telefonata dalla direzione del carcere di massima sicurezza di Tidaholm. L’attrice Birgitta Palme aveva iniziato a lavorare con un gruppo teatrale di quattro detenuti conosciuti nel mondo carcerario come "7:3", "Sju tre" in svedese, nell’ambito di un progetto statale di riabilitazione, ma è a un punto morto per la ricerca del testo. I giovani carcerati, tra cui due violenti naziskin di White Power, vogliono un testo per quattro uomini e uno di loro, che aveva trovato i drammi di Norén alla televisione molto toccanti e forti, gli scrive una lettera per invitarlo a discutere sulla scelta di un suo testo. Norén, ossessionato dal fenomeno crescente, per lui inspiegabile, del neonazismo in un paese civile, democratico e multiculturale come la Svezia, - nel 1998 si contano oltre 2.000 crimini razzisti - addirittura dispiaciuto di non essere ebreo, accetta. Per lui è un’occasione imperdibile anche per attingere materiale di prima mano sulla condizione carceraria e i sistemi correttivi. Anche per l’istituzione penitenziaria sembra vantaggioso, date le scarse disponibilità economiche, avvalersi del massimo drammaturgo nazionale per di più finanziato dallo Stato.

Il primo incontro avviene il 26 marzo. Dopo qualche discussione Norén propone di accantonare copioni già realizzati e offre di scriverne uno nuovo, basato sulle esperienze personali dei detenuti. Inizia il lavoro, una serie di lunghe interviste ai quattro ragazzi. In autunno fanno 30 giorni filati di prove a Tidaholm con i carcerati e un attore professionista che interpreta John, l’alter ego di Norén. A dicembre i detenuti vengono trasferiti nella prigione di Österåker dove proseguono le prove che da metà gennaio 1999 continuano nella sede di Riksteatern. La prima va in scena il 6 febbraio, seguita da tre repliche. Inizia un tour di 23 rappresentazioni, senza sorveglianza per i detenuti, cui assistono circa 1.600 spettatori. Il 27 maggio a Stoccolma si tiene l’ultima replica. Quella sera il detenuto Tony Olsson non rientra dopo un permesso. Di lì a breve parteciperà a una rapina in banca a mano armata a Malexander durante la quale uno dei suoi complici esterni ucciderà a sangue freddo due poliziotti. Nel 2000 Olsson viene condannato all’ergastolo. Un altro detenuto del cast viene incarcerato perché trovato in possesso della refurtiva.

Scoppia la bufera su Norén e sulla dirigenza del carcere di massima sicurezza ritenuti responsabili di quelle due morti, ma perplessità e malumori avevano accompagnato già le prime rappresentazioni. I critici avevano obiettato che il dramma rafforzava l’identità nazista dei due detenuti dal momento che lo spettacolo consentiva loro di esprimere liberamente le proprie opinioni di fronte a un pubblico, trovarono opinabile che parti del dramma contenessero riferimenti espliciti sulla vita dei detenuti sia fuori che dentro la prigione e che fossero loro stessi gli interpreti. Alle accuse di ingenuità, contro Norén si sono aggiunte poi quelle di insensibilità per aver "mollato" il suo cast subito dopo la sera della prima per buttarsi a capofitto in un nuovo progetto.

A distanza di 10 anni da quel tragico epilogo, la giornalista svedese Elisabeth Åsbrink tenta ora con un libro di fare chiarezza, pur lasciando molti punti interrogativi, su quello che è stato un malinteso di fondo. Per l’amministrazione carceraria "7:3" era un progetto di riabilitazione, per Norén un progetto artistico. Comunque in seguito ai fatti, umanamente molto addolorato, diede le dimissioni dal progetto teatro in carcere. "7:3" in Svezia è diventato quindi "irrappresentabile". Norén ha appena pubblicato un ponderoso diario di lavoro e di vita di 1700 pagine in cui spiega la sua poetica e le ragioni delle sue scelte, sia come drammaturgo che come regista.

E il 5 dicembre a Upssala andrà in scena "7:3 Revisited", un dramma di Dennis Magnusson sul lavoro svolto da Norén con i carcerati. "Non è un documentario" spiega il regista "piuttosto una interpretazione fantastica di quei mesi passati a costruire "7:3," il dramma proibito".

Immigrazione: i Radicali nei Centri identificazione e espulsione

di Matteo Mascia

 

Secolo d’Italia, 2 dicembre 2009

 

Le carceri e il problema del sovraffollamento sono ufficialmente entrate nell’agenda europea grazie al lavoro svolto dal governo italiano negli ultimi mesi. L’annuncio è del ministro della Giustizia Angelino Alfano durante la conferenza stampa al Consiglio europeo giustizia e affari interni.

"Voglio sottolineare - ha aggiunto - il successo dell’Italia sulla questione delle carceri, che sino a pochi mesi fa era considerata come una problematica "estranea" all’Ue, e che ora invece è diventata ufficialmente europea". Un impegno che ha visto i radicali italiani in prima linea. Dopo il successo del "Ferragosto in carcere", che ha visto impegnati 165 parlamentari di tutti gli schieramenti politici nelle visite agli oltre 200 istituti di pena presenti in Italia, intanto il partito di Pannella ha deciso di replicare con un ponte dell’Immacolata all’insegna dell’impegno sociale.

Dalle carceri l’attenzione si sposterà però ai Centri di identificazione ed espulsione, ai Centri d’accoglienza e alle strutture per richiedenti asilo. Una realtà pressoché ignorata anche dai mezzi d’informazione, che spesso si occupano dei Cie solo quando questi diventano teatro di rivolte organizzate dagli immigrati costretti a permanervi.

Ultima in ordine di tempo quella del centro nel quartiere San Paolo di Bari. Se il funzionamento di queste strutture è sicuramente necessario per il contrasto dell’immigrazione clandestina, la loro operatività non deve essere legata alla violazione di alcuni diritti. Il più importante è sicuramente quello legato all’informazione sulle modalità per presentare richiesta d’asilo.

Numerose Ong - tra le quali Amnesty International - hanno infatti più volte denunciato l’inadeguatezza dell’assistenza fornita nei centri. Lamentele a cui hanno fatto eco quelle di alcuni avvocati che spesso non riescono ad incontrare i propri assistiti. Talvolta non esistono ambienti separati per gli ospiti richiedenti asilo che vengono quindi trattati alla stregua di ex detenuti. In occasione delle visite nei Centri presenti su tutto il territorio nazionale saranno compilati dei questionari utili per fare una radiografia completa di quelle che sono le effettive condizioni delle strutture.

I dati raccolti permetteranno di conoscere sia il numero esatto di immigrati attualmente presenti che le loro nazionalità. Inoltre, sarà stilata una cronistoria di quelli che nel gergo dell’Amministrazione vengono definiti "eventi critici": suicidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo. Le informazioni saranno utili per lo stesso Viminale, dicastero cui è attribuita la responsabilità della gestione degli istituti per stranieri.

La conoscenza approfondita delle criticità potrebbe favorire la richiesta di nuove risorse da inserire nella legge Finanziaria, articolato che sarà discusso dal 9 dicembre a Montecitorio. La strada per l’integrazione degli immigrati passa anche dai Cie. Mantenere una situazione precaria non serve a nessuno.

Droghe: don Ciotti; servono risorse certe e anche più coraggio

 

Asca, 2 dicembre 2009

 

"Quando parliamo di dipendenze, le politiche che si mettono in campo devono toccare diversi piani che, a partire dalla formazione dei giovani, arrivano fino alla lotta al narcotraffico e alla cooperazione internazionale e che includono la prevenzione, la cura e le sue articolazioni, il reinserimento sociale e lavorativo, la riduzione dei rischi e dei danni, la sicurezza intesa non solo come ordine pubblico".

Con queste parole, don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele, è intervenuto oggi alla Conferenza delle regioni sulla governance nel settore delle dipendenze in corso a Torino. In questi anni i decessi per droga non si sono fermati.

"È giusto chiedersi: quanti morti ci sono stati? Quanti ne potevamo evitare?", ha detto don Ciotti. "Quelle morti interrogano la nostra coscienza e la nostra responsabilità, ci chiedono di fare di più e meglio". "L’Europa ha mostrato di cogliere bene la complessità del problema individuando "la politica dei quattro pilastri": lotta al narcotraffico, prevenzione, cura e riduzione del danno - ha spiegato il presidente del Gruppo Abele. "Solo costruendo una politica che faccia riferimento contemporaneamente a questi elementi potremmo essere più efficaci".

Per portarla avanti, ha aggiunto, sono necessarie almeno tre cose: "Poter puntare su risorse certe, poterle distribuire in modo equo sui quattro pilastri, compresi il reinserimento sociale e lavorativo e la riduzione del danno, e poter contare su un sistema che consenta a chi a vario titolo si occupa delle dipendenze di lavorare meglio insieme". Un processo non scontato che "pur essendo un prerequisito, è un punto di arrivo e non di partenza e che richiede impegno e a volte anche coraggio perché alcune scelte che tutelano i diritti delle persone, e di quelle più svantaggiate in particolare, sono spesso impopolari e difficili da far comprendere. Ma - ha sottolineato don Ciotti - sono scelte doverose".

La capacità di governare le dipendenze chiede agli amministratori un’attenzione particolare per "tenere insieme l’aspetto sociale con quello sanitario, contrastare le semplificazioni e lo stigma nei confronti delle persone tossicodipendenti e non lasciare soli i servizi del pubblico e del privato sociale su cui rischia di gravare una delega nella ricerca di soluzioni, mentre è necessario creare un consenso nella società civile di cui il volontariato, o meglio i cittadini responsabili, sono un’espressione significativa". Ma per don Ciotti oggi, di fronte a un fenomeno in continua evoluzione che richiede aggiornamento e ricerca, è anche determinante "difendere la capacità di sperimentare nuovi interventi, soprattutto se sono già stati oggetto di una valutazione scientifica".

In questa fase la sfida più impegnativa proviene dalle carceri, che, svanito l’effetto indulto, sono di nuovo piene di persone tossicodipendenti (circa un terzo del totale dei detenuti) e in cui rimane alto il numero dei suicidi: "Se vogliamo riflettere sulla nostra capacità di governare il sistema, dobbiamo ripartire da qui e chiederci tutti, con umiltà, dove abbiamo sbagliato. Dobbiamo domandarci perché abbiamo teorizzato, e sperato, di passare dal penale al sociale e ci ritroviamo invece fra le mani l’esito opposto".

E dunque anche perché la normativa sulle droghe, che intendeva "fare del carcere solo un momento di passaggio per motivare la persona dipendente alla riabilitazione, estendendo la possibilità di fruire delle misure alternative fino a un cumulo di sei anni di pena, non abbia funzionato e non stia funzionando". "È importante - ha concluso il presidente del Gruppo Abele - che governo, comuni, regioni, associazioni e servizi discutano insieme per trovare soluzioni più efficaci".

 

 

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