Rassegna stampa 16 dicembre

 

Giustizia: carceri italiane mostrano uno scenario sconfortante

di Donatella Ferranti (Parlamentare Partito Democratico)

 

www.socialnews.it, 16 dicembre 2009

 

L’analisi dello stato giuridico della popolazione detenuta evidenzia che circa il 50% del totale è costituito da imputati in attesa di giudizio. Un dato sicuramente da tener presente nella valutazione della corretta applicazione delle misure di custodia cautelare e da porre al centro del dibattito sul ricorso a nuove pene alternative.

Una corretta e virtuosa riforma della giustizia impone la centralità del cittadino, delle imprese e dei loro bisogni. Per realizzarla, occorre che il Governo e la maggioranza capovolgano l’agenda politica e la gerarchia dei problemi e delle scelte in materia giudiziaria. Non più l’attenzione a temi particolari o, addirittura, ad interessi particolari. Non più attacchi ed offese sconsiderati e gravissimi alla magistratura e a singoli magistrati, attacchi che minano la fiducia e la credibilità delle istituzioni di fronte al Paese.

Non più la sovrapposizione tra gli interessi personali dell’onorevole Silvio Berlusconi e i reali problemi della giustizia. In questo primo anno e mezzo di legislatura, il Governo si è mosso con interventi legislativi particolari, disorganici e settoriali, lasciando da parte i temi reali. Il tanto annunciato piano carceri è un caso emblematico, la cartina di tornasole dell’inattività dell’esecutivo. Ancora oggi, il Governo non si è mosso, nonostante i detenuti ospitati nelle strutture carcerarie italiane saranno, entro la fine del 2009, oltre 70.000. Si tratta di un primato mai raggiunto nella storia repubblicana, che pone problemi molto rilevanti a cui il Governo dovrebbe fornire risposte efficaci, rapide, esaurienti.

Le carceri italiane non sono in grado di sostenere tali presenze. I 206 istituti di pena possono "tollerare" 64.237 detenuti nonostante, da regolamento, non potrebbero ospitarne più di 43.087. Siamo ampiamente oltre la soglia massima di tolleranza, che prefigura una situazione di emergenza per il Paese, come confermano le dichiarazioni del direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta: in una recente audizione in commissione Giustizia alla Camera, egli ha parlato di "situazione in grado di compromettere la sicurezza del Paese".

L’assenza di un Piano carceri e i recenti tagli alle risorse destinate alla giustizia effettuati dall’attuale Governo stanno causando esiziali difficoltà di gestione ed efficienza amministrativa negli istituti penitenziari sull’intero territorio nazionale. Difficoltà che, in taluni casi, raggiungono punte di vera e propria "emergenza umanitaria", in palese contraddizione con i diritti costituzionalmente garantiti. Diverse associazioni hanno lanciato l’allarme sulle condizioni delle carceri: l’Unione camere penali, l’Associazione dei dirigenti dell’amministrazione carceraria, il Sappe (sindacato della polizia penitenziaria), il Garante dei detenuti della regione Lazio.

Tutti concordi nell’affermare che le condizioni attuali di vita carceraria sono spesso lontane dai normali livelli di civiltà e di rispetto della dignità del detenuto. Per non parlare del sempre più consistente numero di morti e suicidi in carcere e dei fenomeni di autolesionismo e di violenza in genere. Il caso Cucchi non è, purtroppo, un caso isolato. Il tema del sovraffollamento degli istituti di pena è all’ordine del giorno in tutto il Paese, con punte molto preoccupanti in alcune realtà regionali (Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Puglia, Sicilia, Toscana, Veneto). È poi paradossale come l’aumento della popolazione carceraria risulti essere inversamente proporzionale alla presenza del personale di polizia penitenziaria. I dati fotografano chiaramente questa tendenza: nel 2001 erano presenti 41.608 agenti penitenziari a fronte di 53.165 detenuti; nel 2009 gli agenti sono 39.000 e i detenuti 64.859. La pianta organica della polizia penitenziaria è fissata per legge in 41.121 unità.

Ci troviamo, pertanto, con circa 6.000 agenti in meno, a cui devono essere sommate le carenze di personale amministrativo, assistenti sociali, psicologi ed educatori delle carceri. L’analisi dello stato giuridico della popolazione detenuta evidenzia, inoltre, che circa il 50% del totale dei detenuti è costituito da imputati in attesa di giudizio. Un dato da tenere sicuramente presente nella valutazione della corretta applicazione delle misure di custodia cautelare e da porre al centro del dibattito sul ricorso a nuove pene alternative. In questo scenario, è davvero sconfortante vedere il Governo annunciare e smentire, ormai quotidianamente, interventi di riforma. Non si tratta di schizofrenia politica, ma della smania di sfornare trucchetti processuali e cavilli legislativi unicamente per affossare i processi di Berlusconi e, al contempo, attutire i malumori di quella parte più avveduta della maggioranza che non riesce a digerire ulteriormente le leggi ad personam.

L’odiosa riforma sul cosiddetto processo breve va in questo senso. Non risponde ai problemi dei cittadini, ma nasce esclusivamente per interrompere i due processi che tolgono il sonno al Presidente del Consiglio. Che poi sia un attentato ai diritti di tutti, poco importa a questa maggioranza. Per snellire i tempi della giustizia servirebbe, invece, un massiccio investimento per dotare tutti i tribunali dei più elementari mezzi organizzativi. Parliamo di personale, di computer, di stampanti, di carta, che i tagli di questo Governo non permettono più di acquistare. E l’ultima Finanziaria non fa ben sperare: di nuovi stanziamenti non v’è traccia.

Giustizia: proposta di legge per l'abolizione delle Case di lavoro

 

Ansa, 16 dicembre 2009

 

Una proposta di legge alle Camere per abolire le case di lavoro, definite “case di dolorosi paradossi, strutture anacronistiche che provocano una situazione insostenibile”. È stata depositata in commissione regionale Politiche per la salute dai consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna del Pd Matteo Richetti e Gianluca Borghi.

I due esponenti del Partito Democratico hanno di recente visitato la casa lavoro di Saliceta San Giuliano, alle porte di Modena. Vi sono attualmente ospitate 96 persone, a fronte delle 45 di capienza massima teorica. “Si tratta di internati - specifica Richetti - ovvero di persone che già hanno scontato la loro condanna dopo aver commesso reati, ma che ugualmente sono stati giudicati pericolosi socialmente. Molti di loro sono costretti a un vero e proprio "ergastolo bianco", se è vero che viene reiterata a tempo indeterminato la misura di prevenzione nei loro confronti. E si tratta di una detenzione a tutti gli effetti. C’è chi da 13 o 14 anni è rinchiuso nella casa e, beninteso, non ha mai lavorato un giorno”.

Il progetto di proposta di legge, che dovrà passare il voto in commissione e poi in consiglio in Regione prima di essere presentato al Parlamento, auspica l’abrogazione dell’istituto della casa di lavoro ai sensi dell’articolo 121 della Costituzione. ‘Noi riteniamo che queste strutture creino condizioni in contrasto con la Costituzione - precisa Borghi - attraverso pene mascherate e a tempo indeterminato. D’altra parte, l’istituzione delle case di lavoro stabilita dal Codice Rocco è antecedente alla Carta Costituzionale. Ancora aggi si da adito a una sostanziale illegalità che non risulta più tollerabile. Auspichiamo una presa di responsabilità parlamentare sull’argomento, che vada oltre gli schieramenti politici. Purtroppo in passato iniziative analoghe non hanno dato esito”.

Il progetto è già stato sottoscritto anche da Marco Monari, capogruppo in consiglio regionale del Pd, Carlo Monaco, capogruppo di Per l’Emilia-Romagna, Roberto Piva, presidente della Commissione Politiche sociali, e Sergio Alberti, capogruppo Socialisti.

“La rieducazione è prevista nella condanna detentiva vera e propria, non ha senso che, espiata quest’ultima, alcune centinaia di persone in Italia debbano subire un’ulteriore misura restrittiva - ribadisce Richetti - una riabilitazione sociale può essere affidata ai servizi sociali, mantenendo la libertà di chi ha scontato la propria condanna. E si libererebbero così anche strutture già adatte ad ospitare detenuti veri e propri, evitando il drammatico sovraffollamento delle carceri”.

Sono attualmente quattro le case di lavoro in Italia: oltre a quella di Saliceta San Giuliano, quella di Castelfranco Emilia, sempre nel Modenese, a Sulmona in Abruzzo e a Favignana in Sicilia. Domani sarà ospite per un’audizione sul tema, in commissione Politiche per la Salute della Regione Emilia-Romagna, il presidente del Tribunale di Sorveglianza regionale Francesco Maisto.

Giustizia: il Garante dei detenuti, tra denuncia e "mediazione"

di Elena Romanello

 

www.nuovasocieta.it, 16 dicembre 2009

 

In seguito al convegno di novembre sulla figura del Garante dei detenuti, è stato utile incontrare due personalità che si sono occupate di problematiche relative l’istituzione carceraria nel nostro Paese per capire come può essere intesa nell’attuale situazione italiana.

Pietro Buffa, direttore della Casa Circondariale di Torino dice: "Innanzitutto c’è da dire che ai convegni io vedo sempre le stesse facce, restano per addetti ai lavori, quando sarebbe interessante un maggior coinvolgimento della società civile. Credo in una utilità del garante, ma penso anche che sia i direttori che i magistrati di sorveglianza, così come peraltro tutti gli operatori penitenziari devono essere garanti dei diritti che le norme riconoscono alle persone in stato di detenzione".

"Ora come ora direi che ci sono due linee sui garanti", continua Buffa, "o come qualcuno che denuncia una determinata situazione o come chi si occupa dei diritti negati dei detenuti. Chi si trova in prigione vede negati alcuni suoi diritti, e il carcere dovrebbe essere un momento anche propedeutico per dopo, per rimettere a posto varie cose. Ma d’altro canto non si può pensare che tutti i problemi siano risolvibili dal garante, che dovrebbe essere un organismo nazionale, con ramificazioni regionali. Ci va un’apertura del carcere al mondo esterno, con progetti di studio e lavoro per la reintegrazione, ma quando i detenuti sono per lo più stranieri clandestini il loro destino è l’espulsione, non il reinserimento".

Francesco Gianfrotta, gip di Torino, direttore dell’ufficio dei detenuti dal 1999 al 2001 ricorda invece: "In quegli anni cominciava a proporsi la figura di un garante dei detenuti, e c’erano delle sperimentazioni in questo senso. Direi che l’istituto del garante andrebbe concepito più nell’ottica del rapporto tra detenuto e autorità amministrativa, il carcere. L’amministrazione penitenziaria ha grosse vischiosità burocratiche, che possono pregiudicare i diritti dei cittadini detenuti".

"Credo sia importante confrontare le proprie esperienze come nel caso del convegno", conclude Gianfrotta, "Il garante dei detenuti può per esempio intervenire sui criteri di trasferimento da un carcere all’altro, in caso di sovraffollamento e pericolosità, o su altre questioni amministrative. Ma deve conquistarsi uno spazio, non è ancora un interlocutore obbligatorio, anche perché è una figura ancora in corso di auto definizione".

Giustizia: Bianzino morì per “cause naturali”, caso archiviato

 

www.linkontro.info, 16 dicembre 2009

 

Aldo Bianzino è morto in carcere due anni fa. Nessuno è responsabile. È stata archiviata dal gip del tribunale di Perugia l’inchiesta per omicidio a carico di ignoti per la morte nel carcere umbro, avvenuta nell’ottobre del 2007, di Aldo Bianzino, il falegname che era stato arrestato per la coltivazione di alcune piante di canapa indiana. Il giorno dopo fu trovato cadavere in cella.

Secondo il giudice, il decesso avvenne per cause naturali in seguito ad un aneurisma cerebrale. Eppure l’autopsia evidenziava la presenza di “lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e una vasta soffusione emorragica subpiale ritenuta di origine parimenti traumatica”.

Il giudice ha accolto la seconda richiesta di archiviazione del fascicolo avanzata dal pm Giuseppe Petrazzini. A entrambe le istanze si erano invece opposti i familiari di Bianzino, o meglio il figlio, visto che dopo Aldo anche la compagna era morta. Secondo il giudice la lesione riscontrata al fegato del falegname era legata alle manovre di rianimazione dopo l’aneurisma.

Chissà se anche i magistrati umbri fanno parte di quella schiera di giudici invisi a Berlusconi. Ora si attendono gli sviluppi del caso Cucchi. Non pensiamo sia umanamente e tecnicamente possibile che il giudice possa credere al povero Stefano il quale, impaurito, affermò di essere caduto dalle scale. Se fosse così sarebbero proprio ingenui questi magistrati.

Giustizia: il Dap introduce professione del mediatore culturale

 

Comunicato stampa, 16 dicembre 2009

 

Sottoscritto ieri sera, nella Sala Livatino del Ministero della Giustizia, uno stralcio del nuovo contratto integrativo del Comparto ministeri dell’Amministrazione Penitenziaria. Diverse sono le novità introdotte dal nuovo contratto rispetto all’ordinamento del personale, prima tra tutte l’introduzione del profilo professionale del mediatore culturale, una figura di cui si sentiva la mancanza nell’ordinamento delle professioni dell’Amministrazione Penitenziaria. La presenza numerosa di detenuti extracomunitari nelle carceri italiane, infatti, impone attenzione per il trattamento di persone detenute per le quali, prima di tutto, occorre agevolare l’integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, a partire dal superamento degli ostacoli imposti dalla diversità linguistica e culturale.

Il nuovo contratto innova anche nella semplificazione dei profili professionali e riavvia le procedure dei percorsi di riqualificazione dei profili amministrativi e tecnici del Comparto Ministeri, che interesseranno circa 2.500 lavoratori del Dap. I contenuti del nuovo contratto integrativo sono stati apprezzati dalle Organizzazioni Sindacali presenti che hanno contribuito in maniera proficua al raggiungimento dell’intesa tra parte pubblica e parte sindacale. Per la parte pubblica erano presenti il Sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, il Vice Capo vicario del Dap Emilio di Somma e il direttore generale del personale e della formazione Massimo De Pascalis.

Giustizia: blog per la valorizzazione della Polizia penitenziaria

 

Comunicato Sappe, 16 dicembre 2009

 

Nasce www.poliziapenitenziaria.net, il blog del Sappe per la valorizzazione sociale e d’immagine della Polizia Penitenziaria. Interagire con tutto il Personale di Polizia Penitenziaria e soprattutto con l’opinione pubblica per la valorizzazione sociale e d’immagine del Corpo.

È quanto si propone il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria, che presenta oggi lo sbarco sul Web all’indirizzo internet www.poliziapenitenziaria.net del Blog della propria Rivista "Polizia Penitenziaria - Società, Giustizia & Sicurezza".

Con questo nostro ulteriore strumento di comunicazione, intendiamo portare un concreto contributo alla realizzazione di un progetto nato nel 2004 - fortemente sollecitato dal Sappe ma inspiegabilmente accantonato per tutti questi anni dall’Amministrazione penitenziaria - che aveva iniziato ad affrontare seriamente e con l’aiuto di professionisti del settore, il delicato tema della valorizzazione dell’immagine della Polizia Penitenziaria.

Noi vogliamo dare, con questo blog accessibile all’indirizzo www.poliziapenitenziaria.net , il nostro fattivo contributo di valorizzazione della nostra dura e difficile professione nell’interesse delle migliaia di colleghi che non hanno ancora il giusto riconoscimento per il lavoro che svolgono 24 ore su 24, 365 giorni l’anno e che invece, come nelle ultime settimane, sono tirati in ballo solo quando vi è il presunto sospetto che non abbiano compiuto il proprio dovere.

È nell’interesse stesso della Società conoscere le attività, i compiti e i sacrifici di una della cinque Forze di Polizia dello Stato quale è la Polizia Penitenziaria. Valorizzare e riconoscere alla Polizia Penitenziaria il ruolo di primo avamposto dello Stato negli oltre 200 Istituti penitenziari italiani dovrebbe anche essere uno degli impegni sempre in evidenza di parlamentari, associazioni varie e "opinionisti" in genere che sanno solo alzare polveroni mediatici al solo fine di cavalcare e generare onde di proteste mediatiche, senza poi riuscire a risolvere nemmeno uno dei problemi reali di cui soffre l’istituzione penitenziaria e di cui invece ne fanno le spese migliaia di poliziotti e migliaia di persone detenute.

È tempo che il Corpo di Polizia Penitenziaria venga fatto conoscere all’opinione pubblica per l’alto merito sociale che svolge quotidianamente nelle carceri italiane, garantendo la sicurezza delle persone recluse e quella della società. Ed è quello che si propone il primo Sindacato del Corpo, il Sappe, con il blog raggiungibile all’indirizzo internet www.poliziapenitenziaria.net.

Sardegna: un’interrogazione, su passaggio competenze Sanità

 

Agi, 16 dicembre 2009

 

Il consigliere regionale dei Riformatori Michele Cossa ha presentato un’interrogazione al presidente della Giunta regionale sui ritardi del passaggio delle competenze, in materia di sanità per la popolazione detenuta dallo Stato, agli enti di competenza della sanità pubblica.

La prevista commissione paritetica Stato-Regione, necessaria per completare l’iter, non si è ancora insediata "a causa del ritardo del Ministero degli Affari regionali, il quale, pur reiteratamente sollecitato dalla Regione, non ha ancora provveduto alla nomina dei propri rappresentanti", rileva Cossa, denunciando i gravi problemi arrecati "non solo alla popolazione detenuta ma anche agli operatori sanitari e di polizia penitenziaria negli istituti penitenziari e centri e servizi per la giustizia minorile, i quali svolgono il loro servizio con abnegazione e serietà ma con carichi di lavoro divenuti ormai insostenibili per poter garantire il diritto alla salute e in condizioni ormai non accettabili per un Paese civile". Cossa sollecita la Regione a intervenire sul governo perché il ministro per gli Affari regionali nomini con urgenza i propri rappresentanti

In Sardegna "in molti istituti non affatto è garantita la presenza di un medico o un infermiere durante molte ore della giornata (così accade a Iglesias, Oristano, Isili, Is Arenas, Macomer, Tempio, Lanusei, Minorile Quartucciu)", osserva il firmatario dell’interrogazione, ricordando che "in molti istituti dove è presente un elevatissimo numero di persone detenute sofferenti di gravi patologie o che necessitano di particolare assistenza sanitaria (tossicodipendenti, patologie psichiatriche anche in doppia diagnosi, hiv positivi, epatopatici cronici, cardiopatici, donne in stato di gravidanza e talvolta pure bambini figli di detenute) non vengono corrisposti gli emolumenti al personale sanitario perché risultano esauriti già dal mese di settembre gli esigui fondi a disposizione provvisoriamente del Ministero della Giustizia in attesa del transito definitivo delle competenze in materia di sanità penitenziaria alla Regione Sardegna (Istituti di Cagliari, Sassari, Alghero)".

"L’assessore della Sanità", precisa Cossa "nelle more del passaggio delle competenze ha stanziato un milione di euro per il residuo fabbisogno del 2009, ma detti fondi, necessari per garantire perlomeno il già carente status quo, non sono ancora utilizzabili a causa della situazione descritta".

Pianosa: sbarre vietate nella prigione-modello più soft d’Italia

 

Corriere della Sera, 16 dicembre 2009

 

Sono le otto del mattino. Silenzio assoluto, brezza di grecale, solo il rumore della risacca nel paese disabitato in mezzo al mare. Rosario Rapicavoli, catanese cresciuto a Milano, ha 34 anni. Fra tre mesi uscirà dal carcere, ha finito di scontare 17 anni ("ridotti a 11 con l’indulto e perché è caduta l’accusa di associazione di stampo mafioso"). Sta montando un’impalcatura davanti a una vecchia casa. Con lui Mustafà, 45 anni, marocchino; Hugo, 47 anni, sudamericano grande e grosso. Dirige i lavori il senegalese Ndiaje, 47 anni, fisico asciutto e due bambine ("Una in Senegal, l’altra in Francia"). Quella casa la ristruttureranno loro, quattro dei sette detenuti che vivono liberi nel paradiso terrestre di Pianosa.

A trecento metri, nel bar-ristorante della cooperativa "San Giacomo", l’unico dell’isola, Luca, 40 anni viareggino, è dietro ai fornelli. Deve scontare tre anni. È il cuoco, sta preparando il pranzo. Angelo, 34 anni pugliese, apparecchia i tavoli: fa il cameriere e serve al bar. Lui deve scontare quattro anni. Alle 11 arriverà la barca dei turisti per la visita a uno dei sette gioielli del parco dell’arcipelago toscano. Massimo 250 persone, dalle 11 alle 17, sempre accompagnate dalle guide. Quest’isola è parco assoluto: divieto di pesca, immersione, ancoraggio, sosta, accesso e navigazione. Non si può fare il bagno (eccetto che a Cala San Giovanni, vicina al porto: duecento metri di spiaggia bianca e acqua trasparente).

Non si può pernottare se non autorizzati, inesistenti le strutture alberghiere. Il macedone Miki, 47 anni, (17 dei quali passati nel carcere di Porto Azzurro) è in silenzio davanti al mare. Sta seguendo gli archeologi della Sovrintendenza della Toscana che stanno riportando alla luce due scheletri: un adulto e un bambino ("Forse romani, ce lo dirà l’esame al carbonio" dice una ricercatrice dell’Università di Pisa). Miki li aiuta, quando non è con le briglie in mano a portare in giro per l’isola i turisti con la carrozza trainata dai cavalli.

"Sono i bambini che ti ammazzano" dice lui che a febbraio tornerà uomo libero. "Ti fanno delle domande dure come pugni. I grandi girano intorno, non ti chiedono mai cosa hai fatto. Una bambina di 5 anni mi ha detto: ‘Perché sei in prigione?’. Le ho risposto: ‘Ho fatto cose gravi’. E lei: "Gravi gravi?’. Sono rimasto in silenzio. ‘Amore mio, cosa vuoi sapere? Sì, molto gravi. Non puoi immaginarti quanto. Rispetta gli altri e cerca di non sbagliare nella vita, come ho fatto io".

Miki, Rosario, Luca, Angelo, Mustafà, Hugo e Ndiaje sono i sette detenuti del carcere aperto di Pianosa. Un luogo fuori dal mondo. Un paese fantasma dove il tempo è scandito dai rintocchi della campana della chiesa di San Gaudenzio, affrescata agli inizi del ‘900 da un ergastolano che disegnò gli angeli con i volti dei bambini del paese. "I detenuti di Pianosa sono un caso unico in Italia - dice Sandro, assistente capo, 41 anni, uno dei due agenti dell’isola - sono in regime di articolo 21, una sorta di semilibertà: lavorano per 7 ore, poi possono tornare al Sembolello (vi fu rinchiuso anche Sandro Pertini il 13 novembre 1931). Si fanno da mangiare, hanno il cellulare. La sera devono rientrare entro le 22.00.

Vivono senza sbarre in camere singole ". Il Sembolello è una prigione che non c’è: la chiave è nella toppa della porta d’ingresso. Cucina grande, sale comuni, stanze aperte con bagno: più un albergo che un carcere. Chi arriva qui è stato scelto dalla direzione del penitenziario di Porto Azzurro dell’Elba per "ottimo comportamento e attitudine al lavoro" dice il direttore Carlo Mazzerbo.

"Io credo al progetto del carcere aperto. Il nostro obiettivo è aumentare il numero dei detenuti sull’isola. Ci sono da ristrutturare immobili, gestire le strutture esistenti, lavorare la terra. Potremmo aprirla al turismo tutto l’anno. Potremmo sistemare 50-60 posti letto a costo zero". Idee condivise del direttore del parco, Mario Tozzi: "Sono d’accordo: 50-60 detenuti in articolo 21 sarebbero un numero ottimale. Quello cui sono fortemente contrario è il ritorno del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi ndr). Sarebbe come mettere un penitenziario dentro gli Uffizi. Sono pronto a incatenarmi per questo".

Tozzi si stava incatenando il 5 novembre scorso. Per una notte il supercarcere è tornato a Pianosa. Il ministro della Giustizia Alfano e quello dell’Interno Maroni annunciarono: "Riporteremo i mafiosi a Pianosa e l’Asinara". Immediate le repliche del ministro dei Trasporti, il toscano Matteoli, e dell’Ambiente Prestigiacomo: "Assolutamente contrari. Sono due gioielli della natura da valorizzare". Si è rischiato lo scontro. Dopo il direttore del parco, si mobilitarono in tanti: i comuni dell’Elba, la regione Toscana, Wwf e Legambiente. Il giorno dopo la retromarcia di Alfano: "Non riaprirà il supercarcere". Ma l’ombra del 41bis continua a minacciare l’isola.

Il carcere dà e toglie la vita a Pianosa. Era il 1858 quando Leopoldo II d’Austria, granduca di Toscana, fondò la prima "colonia agricola-penale". Dopo gli uomini delle caverne del Neolitico, dopo i romani (nella villa di Agrippa ci sono i resti dell’anfiteatro da 200 posti sul mare), dopo i primi cristiani in fuga intorno al III-IV secolo dalle persecuzioni di Diocleziano (sull’isola c’è un sistema di catacombe su due livelli, con 700 sepolture già scavate), dopo i pirati del feroce Dragut (1553) e dopo Napoleone, arrivarono i condannati destinati al lavoro dei campi. Colonia modello, auto-sussistente: animali, frutteto, orto, agricoltura e pastorizia. "Negli anni 1960-70 eravamo duemila tra detenuti e civili, un’economia perfetta - dice Carlo Barellini, l’unico residente dell’isola, nato qui con cinque fratelli 59 anni fa, nonno e padre agenti penitenziari - Poi arrivò il terremoto".

Il terremoto fu il supercarcere: prima verso la fine degli anni 70 vi vennero trasferiti i brigatisti, poi i mafiosi in regime di carcere duro (tra i tanti, Pippo Calò, Nitto Santapaola, Michele Greco, Giovanni Brusca, Nino Mangano e i fratelli Graviano). Fu creato un muro di un chilometro alto oltre dieci metri per dividere la zona dei carcerati da quella dei civili. L’isola si riempì di mafiosi (circa 800) e di poliziotti, carabinieri, pilotine ed elicotteri che presidiavano 24 ore su 24. Il supercarcere fu chiuso nell’agosto del 1998 (c’è chi dice perché gestirlo costava troppo, chi perché era stato creato il parco e chi invece per le pressioni della mafia). L’isola si svuotò.

Nel 1996 intanto era stato istituito il parco. Pianosa cambiò pelle: le case rimasero in piedi ma disabitate. Chiuse tutto: ufficio postale, biglietteria dei traghetti, negozio di alimentari. Via tutti, animali compresi: oggi anche i cani e i gatti sono scomparsi.

L’obiettivo del Parco è di valorizzare la natura e preservare Pianosa da ogni insediamento. "Chi vuole riaprirla - dice Tozzi - nasconde speculazioni. Sa in quanti hanno provato a farci complessi turistici? Siamo noi ad aver riaperto l’isola: ogni giorno 250 turisti per i tre mesi estivi. Se poi ci sono cento residenti di Campo dell’Elba che vengono ad abitare qui che problema c’è?". Sembra lo stesso sogno dell’Associazione per la difesa dell’isola di Pianosa onlus (650 iscritti). Ovvero "rivedere un giorno i panni stesi, i gerani nei vasi e i bambini che giocano in strada.

Pianosa è sempre stata abitata e deve tornare a esserlo" dice Giuseppe Mazzei Braschi, il presidente. Tutti vogliono avere l’ultima parola sull’isola. Il ministero della Giustizia (da cui dipendono le strutture carcerarie), il ministero dell’Ambiente (da cui dipende l’Ente Parco), l’agenzia del Demanio (proprietaria degli edifici dell’isola), la regione Toscana, la provincia di Livorno, il comune di Campo dell’Elba (di cui Pianosa è una frazione) e anche il Vaticano (che ha giurisdizione, oltre che sulla chiesa, sulle catacombe di cui Barellini è il custode).

In attesa di decisioni, il microcosmo di Pianosa va avanti nella quotidianità sonnolenta e irreale dell’isola che non c’è: nei due-tre mesi estivi gli orari della giornata sono scanditi dai turisti. Quando arriva il freddo le presenze umane si diradano. Sono rimasti anche in tre d’inverno su un’isola di 10 km quadrati: due detenuti e una guardia. "Per l’ultimo dell’anno - dice Sandro, l’agente penitenziario - ho fatto un dolce a casa e l’ho mangiato con i detenuti al Sembolello. Abbiamo brindato insieme al nuovo anno".

Torino: in mostra Collezione Invernale prodotti delle detenute

 

Redattore Sociale - Dire, 16 dicembre 2009

 

Visitabile fino al 6 gennaio negli spazi di Eventa a Torino. Tra gli oggetti esposti le sedie del progetto “Arte Sedute”, recuperate alle carceri Nuove e restaurate.

“Stare in carcere è come camminare sui sassi freddi ed appuntiti a piedi nudi, noi stiamo cercando di rendere questa passeggiata un po’ più morbida” : è la scritta che accompagna un tappeto in lana grigia fatto a forma di sassi, appeso al muro della mostra “C.C.”, inaugurata la settimana scorsa negli spazi di Eventa, in via dei Mille, 42. Esposti e in vendita, gli accessori e la collezione invernale: creazioni artistiche prodotte dalle donne della sezione femminile, dove C.C. sta per Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino e le “noi” di cui parla la scritta, sono le detenute del laboratorio La Casa di Pinocchio, che purtroppo non sanno come la mostra è stata allestita, perché non possono essere presenti.

 A rappresentarle in qualche modo, e con loro nel cuore, c’è Monica Gallo, la responsabile e testa creativa dell’associazione culturale La Casa di Pinocchio e del laboratorio, che accompagna i visitatori attraverso i locali della mostra e illustra con passione i manufatti. Il suo orgoglio è una culla, prodotta da una parte in plastica delle vecchie cabine telefoniche a muro: da pezzi di plastica da buttare, sono rinati dei lettini, ornati da stoffe e decorazioni colori crema. Poi ci sono borse e scialli, le sedie del progetto Arte Sedute, dove sulle “storiche” sedie da cinema recuperate alle carceri Nuove c’è un bel cartello “Pregasi cortesemente di non sedersi”. Ci sono magliette con un logo di un famoso stilista contraffatto: che non sarebbe tanto legale, verrebbe da dire, ma alla fine, queste donne dietro le sbarre, ci sono già! C’è una collezione speciale di vini con etichette in tessuto patchwork realizzata sempre dalle detenute in collaborazione con l’Azienda Agricola Fabrizio Battaglino. Ci sono ciabattine personalizzate: con una cartolina si sceglie il colore e la fantasia. Chi è fuori sceglie, chi è dentro esegue, e chi ha visto le detenute all’opera, sa che consegnare i manufatti in tempo è un impegno importante da rispettare. Insomma, c’è creatività e un modo per insegnare un mestiere alle donne del carcere, tenere impegnate le loro menti e rendere feconde le loro giornate. L’esposizione rimarrà nei locali di via Dei Mille 42 fino al 6 gennaio. Stores permanenti dove trovare i prodotti della Casa di Pinocchio: Animaglia più via San Massimo 53/A - Circolo dei Lettori, via Bogino 9 - Torino.

 

L’attività delle detenute nei laboratori del carcere

 

I laboratori della sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno sono tre. Il più vecchio è Arione: nato nel 1999, si è costituito prima su base volontaria, successivamente è diventato associazione. Produce oggetti in legno, e piccola sartoria: coperte di pile, portachiavi, decori natalizi, sciarpe, pupazzetti e le famose bambole Pigotte che ogni anno vende all’Unicef.

La Casa di Pinocchio, il laboratorio più recente, una bottega di lavoro che confeziona borse, scialli accessori, elementi di arredo e design. utilizza materiali vergini considerati di scarto o restituisce nuova vita e funzioni a tessuti, metalli, plastica, legno.

Il terzo è Pàpili, che prende il suo nome dai papilioni, una famiglia di farfalle: è una cooperativa che fornisce regolari contratti di lavoro con l’obiettivo del reinserimento. Crea oggetti originali con materiali di recupero: sacchi di farina che diventano eco borse (la più famosa quella distribuita dopo l’accordo per l’abolizione dei sacchetti di plastica grazie alla volontà del Comune di Torino), borse dai sacchi di caffè (venduti da Slow Food e Eataly).

 “Usiamo materiali naturali. Da niente si usa il recuperabile - racconta Monica Gallo, responsabile de La Casa di Pinocchio, che arriva negli uffici del carcere con una borsa enorme piena di oggetti colorati -. E niente processi industriali di riconversione che comporterebbero, ad esempio, uso di agenti chimici”. Ci lavorano le detenute “incolumi”, coloro che hanno problemi appunto di incolumità: per avere ad esempio fatto qualche nome, potrebbero essere oggetto di rappresaglia, sono quindi separate dalle altre. Fanno borse, scialli accessori, elementi di arredo e design. “Il progetto si propone di ridare alle donne in stato di reclusione la possibilità di mantenere e sviluppare la propria femminilità - racconta Gallo - e questo in una condizione assai difficile, che spesso vanifica il significato della pena carceraria. Infatti l’annullamento della personalità rende il reinserimento assai più problematico, esasperando atteggiamenti comportamentali e a rischio di peggioramento”. “Un importante segnale di essere nella direzione giusta ci è stato dato dalle donne coinvolte nel laboratorio: dimostrano devozione e l’entusiasmo, e necessitano inevitabilmente il riconoscimento della società civile, attraverso l’apprezzamento dei manufatti da loro progettati e confezionati”.

Pàpili invece è “un’impresa”: finanziata dall’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, è una cooperativa con contratti regolari di lavoro. Al momento vi lavorano quattro detenute - spiega la presidentessa Sonia Braga - e punta sul reinserimento. Gli oggetti prodotti vengono venduti e l’obiettivo è il riciclo: sacchi di caffè e di farina, carta e tessuti: da tela di materassi si producono delle borse, dalle coperte cappotti, da giornali arrotolati puf ergonomici. Ha un laboratorio esterno in Strada Traforo del Pino.

Arione ha una quindicina di detenute che vi lavorano. Hanno due spazi: di pittura e di cucito Si autofinanziano con la vendita degli oggetti e le donne che vi partecipano sono coinvolte in tutti i passaggi: dall’acquisto del materiale alla produzione, ecc. “Il laboratorio continua anche in cella - racconta Laura Bevilacqua, responsabile del laboratorio - impegnano la testa da pensieri tristi, da chi hanno lasciato a casa. è anche un modo per collaborare, uno scambio culturale. Molte di loro non avevano mai visto una macchina da cucire, mentre ora sono molto brave”. Partecipano, stanno insieme, e negli uffici del carcere organizzano ogni anno un mercatino, dove la creatività e i colori si mescolano.

 

Le detenute confezionano sciarpe e cappotti per le signore torinesi

 

Le note di Nino D’angelo coprono il silenzio. Nella stanza della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, otto detenute lavorano tranquille: è il laboratorio di cucito, e le donne sono molto impegnate nel confezionare le babbucce ordinate dai clienti del Circolo dei Lettori. Alla parete le fotocopie di due articoli de La Stampa che parlano di loro, del loro lavoro. Sono molto fiere di quello che stanno realizzando, e se i giornalisti non concedono lo spazio promesso, ci rimangono male. Il contatto con l’esterno avviene solo così: confezionano oggetti per signore che le sfoggeranno nel mondo libero. Lavorano in silenzio, sono di età diverse, i tratti somatici e gli accenti rivelano differenti provenienze. Molte di loro un tempo non sapevano tenere un ago in mano, mentre ora hanno imparato un mestiere o perlomeno un’arte che permetterà loro di essere più curate: sapranno farsi un orlo o attaccarsi un bottone. Mostrano con orgoglio le Pigotte, le bambole che vendono all’Onu, fatte a mano, ma anche gnomi piccolissimi confezionati per il mercatino di Natale interno al carcere o per la vendita in alcuni negozi della città. Non usciranno per vedere chi comprerà le loro creazioni, ma almeno avranno uno spazio, fisico e mentale, alternativo alla cella.

 “Lavoriamo 6 ore al giorno - racconta una giovane detenuta dalla pelle scura del laboratorio Papili - quattro al mattino, 2 al pomeriggio”. È un modo per stare fuori dalla cella e imparare un mestiere, e loro ne sono fiere. Anche se lo sconforto su qualche viso è evidente: una donna piange e chiede conforto al personale della casa: non il giorno giusto per la tristezza. Nella piccola stanza , tre donne lavorano davanti ad una macchina da cucire: confezionano manici per eco borse ricavate da sacchi di farina o tracolle di varie dimensioni da sacchi di caffè. Attorno, stoffe e carta, quotidiani arrotolati per diventare comodi puf o coperte che diventeranno cappotti.

Da La Casa di Pinocchio arrivano oggetti inconsueti e di grande creatività: un tappeto di sassi di lana, coperte composte con pon pon colorati (dall’estro delle zingare), e sedie. Sono le poltrone in legno di Arte Seduta, un progetto che recupera le sedie cinematografiche del Teatro del Carcere delle Nuove. Sedie di legno come nei cinema “di una volta”, e le detenute del padiglione femminile della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno lavorano per trasformarle in opere artistiche. Già 10 file di sedute sono state “restaurate”, e ancora ne restano da ultimare una quarantina. Le vediamo ricoperte da fili di lana colorati, mentre da una valigia appoggiata a terra emergono i colori della Casa di Pinocchio: collane di peltro, sciarponi, borsette, tutto in materiale naturale.

Negli uffici, il laboratorio Arione espone le proprie creazioni: da oggetti in legno al cucito. Il mercatino di Natale è un mezzo anche per esprimere la creatività. Babbi Natale boteriani o filiformi, collane di lana, gnomi piccolissimi che serviranno come segnaposti, presepi in legno, presine, grembiuli. Sono prodotti dalla fantasia di artiste e sono quasi sempre oggetti utili: non solo vestiario, ma anche casalinghi. Un modo insomma per riciclare materiale, insegnare un mestiere, reinserire delle donne nella società. E, almeno nell’immediato, offrire un’alternativa a lunghe giornate inutili, permettendo, almeno alla mente, di evadere.

 

Signore di buona famiglia e detenute: due mondi solo apparentemente lontani

 

Viene presentata domani alle 14, presso la sala stampa degli uffici della direzione del carcere Lorusso e Cutugno di Torino la nuova edizione del libro tutto torinese Le Piere. Madame e signorine di Torino di Rosita Ferrato, giornalista e corrispondente per l’agenzia di stampa Redattore Sociale. Ma può una “Piera”, signora di buona famiglia, educata e compita, con i suoi pregiudizi e i suoi cliché, andare in prigione? Vera Schiavazzi, giornalista di Repubblica lo chiederà all’autrice e a Pietro Buffa, direttore del carcere torinese, chiamati a spiegare le ragioni dell’accostamento tra un libro apparentemente frivolo e il carcere.

Insomma che c’entra un volume dall’aspetto così leggero e dai toni scanzonati con la casa circondariale? “Portare un libriccino apparentemente frivolo come le Piere in galera sembra una contraddizione. In realtà - spiega l’autrice che, come giornalista conosce da vicino la realtà del carcere - penso che un filo invisibile leghi le detenute con le “madame” di Torino”. E anche per questo che ha deciso di devolvere parte del diritto d’autore dei ricavi di questo libro alla sezione femminile del carcere.

 La presentazione del libro assume allora i contorni del “dono natalizio” e il pomeriggio in carcere diventa occasione per riflettere sulla vita delle detenute, che non sono presenti, ma evocate. Il legame tra madame e galeotte si delinea via via più chiaramente nelle parole della Ferrato che aggiunge: “Credo che i manufatti confezionati nei laboratori del carcere siano spesso destinati a signore eleganti, e che questo chi li crea lo sa. Ritengo anche che il giorno in cui la pena detentiva finirà, le donne del femminile si troveranno a fare i conti con la realtà di Torino, e con delle loro simili, magari più fortunate. Quando si parla di carcere, inoltre, si parla sempre di detenuti maschi, mentre sembra che delle donne ci si sia dimenticati. Questa può essere una buona occasione per ricordarsene”.

Anche il direttore del carcere sottolinea l’importanza di appuntamenti come questo per portare l’attenzione sulla detenzione femminile: “Una realtà nell’ombra - scrive infatti Buffa nell’introduzione del libro, riferendosi alla sezione del carcere - di cui poco si parla”.

Ma la “Pieritudine” esiste in carcere? “Forse non se ne è immuni neppure qui, anche se poi, il contesto e la provenienza hanno colore e sfaccettature diverse”. “A Torino, a fronte di circa 1600 reclusi, le detenute sono poco più di un centinaio, e sono più sole - scrive ancora Pietro Buffa -. Molte sono straniere (quasi il 50%) e tra le italiane, metà sono nate in regione. È raro che ricevano visite dall’esterno di mariti, conviventi, fidanzati, mentre generalmente i detenuti hanno sempre una donna che arriva a colloquio, non fosse altro che per il cambio della biancheria”.

La “frivolezza” delle Piere serve allora, inaspettatamente, per dare voce a tante altre donne, forse poco Piere, poco madame, ma a modo loro legate ad altre frivolezze, come quelle che confezionano nei tre laboratori di artigianato della sezione femminile. E tra donne, di fronte a monili e vestiti, ci si capisce sempre. L’uscita della seconda edizione delle Piere, Seneca Edizioni, è prevista per fine anno, con nuovi capitoli e introduzione di Pietro Buffa.

Milano: l'Ass. Vivai ProNatura cerca volontari per San Vittore

 

Ansa, 16 dicembre 2009

 

L’associazione "Vivai ProNatura", iscritta al Registro del Volontariato, è un’associazione ambientalista che opera per salvaguardare la biodiversità della flora autoctona lombarda. L’Associazione gestisce a San Giuliano Milanese un vivaio di piante autoctone di origine regionale e conduce una serra-laboratorio nel carcere di Milano San Vittore, dove i detenuti sono coinvolti nella vivaistica ambientale in vista del reinserimento nel mondo del lavoro. Ora l’associazione cerca volontari per portare avanti l’attività nel carcere di San Vittore.

L’Associazione gestisce una piccola serra dentro le mura del carcere di San Vittore, dove un gruppo di detenute impara il mestiere del vivaista. I volontari dovranno assistere le stagiste mentre seminano e rinvasano le piantine. L’attività si svolge 5 pomeriggi a settimana, dalle 14 alle 17. Ai volontari si chiede di uniformarsi agli scopi dell’attività che sono quelli di fornire alle detenute nozioni pratiche sul verde, in modo da indicare loro un possibile mezzo per reinserirsi nel mondo del lavoro. In mancanza di esperienze nel campo del giardinaggio, occorre partecipare ad alcune dimostrazioni del lavoro presso il vivaio ProNatura di San Giuliano Milanese. L’impegno richiesto è un pomeriggio fisso ogni settimana, o ogni quindici giorni, osservando scrupolosamente la puntualità. Prima di iniziare l’attività sarà richiesto di fornire i propri dati personali; è tassativo essere esenti da procedimenti giudiziari passati o in corso, per poter ottenere l’autorizzazione a entrare in carcere. Info: tel. 02.9839022 - 333.4583868

Rossano (Cs): confronto detenuti-studenti su tema della legalità

 

Ansa, 16 dicembre 2009

 

Nel Teatro Polivalente della Casa di Reclusione di Rossano venerdì scorso è andata in scena la proiezione del film "È tempo di cambiare" del regista lametino Fernando Muraca, con la collaborazione della Genius Management sas di Eugenio Piovosa e il Patrocinio dell’amministrazione comunale di Rossano.

Sono stati invitati a partecipare gli studenti di alcuni Istituti superiori di Rossano e di San Demetrio Corone, i detenuti frequentanti il corso I.T.I.S. intramurario unitamente ai docenti e agli operatori interni, il Sindaco di Rossano Franco Filareto, il regista, il produttore ed alcuni attori del film.

Questo incontro rientra nei percorsi curriculari di educazione alla legalità, previsti dal Ministero dell’Istruzione, e di quanto programmato dal Progetto Pedagogico 2009 della stessa Direzione. Il coinvolgimento delle scolaresche locali e dei detenuti studenti intramurari nel progetto si prefigge lo scopo di indurli alla riflessione, al dialogo ed al confronto sul valore della legalità, invitandoli a porsi i giusti interrogativi riguardo al fenomeno della criminalità organizzata e a quanto questa influisca negativamente sulle nostre esistenze e, infine, far prendere consapevolezza in merito alla necessità di mettersi in gioco, in prima persona, per poter sconfiggere tale fenomeno.

I temi affrontati dalla pellicola sono la mafia la ‘ndrangheta, o meglio la guerra civile che sta dilaniando la Calabria. Ma non è la solita pellicola che antimafia, bensì ha voluto mettere in risalto i temi dell’amore, dell’amicizia e della famiglia, in una chiave che potesse far capire ai giovani quanto una vita agiata possa avere un prezzo.

Inoltre, il film mette in luce come le forze dell’ordine e le forze politiche, non presenti nelle scene, non si preoccupino di fronteggiare il problema, abbandonando la terra calabra a se stessa. L’iniziativa è servita anche a raccogliere fondi per Riccardino Pio, un bimbo affetto dalla Sindrome di West. Al termine dell’incontro sono stati consegnati i diplomi a tre detenuti che hanno frequentato i corsi dell’I.T.I.S.

Roma: Garante; un detenuto trasferito a Cuneo, senza motivo

 

Agi, 16 dicembre 2009

 

Detenuto nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso - con un fine pena fissato a novembre 2010 - alla vigilia dell’udienza per la semilibertà aveva chiesto di essere trasferito, come suo diritto, fra i reclusi in comunità ma è stato trasferito a Fossano, in provincia di Cuneo, nonostante la disponibilità di posti nelle altre carceri del Lazio. A segnalare il caso ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.

Protagonista della vicenda, risalente allo scorso mese di settembre, un detenuto di 42 anni originario di Roma, Marco A. recluso, al momento del trasferimento, nella sezione riservata ai detenuti che, per motivi diversi, sono tenuti isolati dal resto della popolazione carceraria. "L’uomo - denuncia Marroni - si trova da tre mesi nel carcere di Fossano e, per colmo di sfortuna, fino a pochi giorni fa anche senza indumenti adeguati a proteggersi dal freddo visto che, al momento del trasferimento, il pacco con il vestiario è stato inviato a Rossano Calabro: in novanta giorni solo pochi effetti hanno raggiunto il legittimo proprietario al punto che la madre ha dovuto acquistare altri capi di abbigliamento". A quanto risulta al Garante, per effetto di questo trasferimento Marco ha saltato anche l’udienza per la concessione della semilibertà, "una misura quanto mai opportuna visto anche che l’uomo è ammalato di hiv e per questo è stato curato all’ospedale Spallanzani di Roma".

"Ho segnalato questa vicenda al Dap perché se il racconto del detenuto e dei suoi familiari fosse vero saremmo in presenza di una gravissima lesione dei diritti personali - continua Marroni - Il trasferimento ha, infatti, causato l’interruzione di tutti i rapporti fra Marco e la sua famiglia, impossibilitata per motivi economici a raggiungerlo in Piemonte.

La cosa che più ci rende perplessi è l’interruzione del trattamento terapeutico seguito da Marco, che evidenzia anche tratti di fragilità psichiatrica, e soprattutto l’assenza di motivazioni che possano giustificare il trasferimento a centinaia di chilometri di casa di un uomo che fra pochi mesi avrà comunque pagato il suo debito con la giustizia e la società".

Padova: “Nessuno Tocchi Caino” si occupa di carcere e lavoro

 

Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2009

 

IV Congresso di “Nessuno Tocchi Caino” presso la Casa di Reclusione di Padova: venerdì 18 dicembre, ore 12, finestra congressuale su “Carcere e lavoro, perché reinserimento e sicurezza non rimangano parole”. partecipano gli industriali veneti.

Nel corso dei lavori del IV Congresso di Nessuno tocchi Caino, che quest’anno si svolgerà nella Casa di Reclusione di Padova, si aprirà una “finestra” sul tema “Carcere e lavoro, perché reinserimento e sicurezza non rimangano parole”, venerdì 18 dicembre alle ore 12.

L’incontro, cui prenderanno parte diversi imprenditori veneti, verterà, tra l’altro, sulle possibilità offerte dalla legge Smuraglia - che regola molti aspetti del lavoro in carcere - e sulla necessità di estenderle anche alle imprese all’interno del tessuto confindustriale e artigianale del Paese.

Di seguito il programma. Introduce i lavori: Michele Bortoluzzi, imprenditore e membro della Giunta di Radicali Italiani. Dibattono: Francesco Peghin (Presidente Industriali Padova), Massimo Calearo Ciman (Imprenditore, Past President Federmeccanica, Deputato), Luigi Rossi Luciani (Presidente Veneto Nanotech e Parco Tecnologico Venezia e Padova, Past President Confindustria Veneto), Stefano Perale (Direttore Confindustria Belluno), Roberto Caccin (Direttore Logistica Morellato Spa). Conclude: Sergio D’Elia, Segretario Nessuno Tocchi Caino.

Volterra (Si): sartoria del carcere allo "Spazio libero e solidale"

 

Il Tirreno, 16 dicembre 2009

 

Da nove anni lavora in sartoria, ha preso il diploma di taglio e cucito e fa conoscere i lavori fatti dai ragazzi del carcere alla città. A chi viene da fuori. Al mondo. Lui è Gaetano La Rosa e rappresenta allo Spazio libero e solidale, la Casa di reclusione di Volterra che dentro al Centro ha un suo spazio. "Sono piuttosto al taglio". Grazie all’articolo 21 può uscire e tastare con mano l’entusiasmo delle persone di fronte ai patchwork e alle borse realizzate dai suoi compagni. C’era anche lui al compleanno del centro. In mostra tanti lavori artigianali. Appena li vedi non puoi fare a meno di immaginarli sopra al proprio letto.

"I ragazzi - continua - si sentono gratificati da questo lavoro. Per loro, che non erano buoni a far niente, produrre degli oggetti che vengono apprezzati è appagante anche se non economicamente a livello personale è una bella soddisfazione, è come un attore che riesce a emozionare il pubblico e dice ce l’ho fatta".

Tante le persone intervenute allo Spazio, luogo di incontro, di informazione e di promozione di attività sociali e produttive del territorio. L’obiettivo, infatti, è proprio quello di far emergere le realtà sociali e produttive più piccole e meno conosciute come i lavori della sartoria del carcere di Volterra. "Il progetto - racconta Mirella Venturi, presidente di Spazio Libero, l’associazione di volontariato che opera all’interno del carcere - nasce da una sinergia di idee nate dalle realtà presenti sul territorio".

La sartoria della Fortezza è un’attività consolidata che coinvolge più di 30 detenuti. Le produzioni sono state esposte a Firenze all’interno della mostra internazionale di arte tessile e a Volterra a palazzo Minucci Solaini, ma è la prima volta che vengono esposti per un arco di tempo così lungo. "Vorremmo - conclude Venturi - organizzare uno spazio fisso dove esporre i lavori".

Roma: visita guidata dei detenuti di Rebibbia, a Villa Torlonia

 

Dire, 16 dicembre 2009

 

"Un percorso didattico lungo sei mesi per un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia, che è sfociato in una giornata davvero eccezionale: la visita guidata all’interno di Villa Torlonia dove poter toccare con mano quello che per mesi hanno carezzato con la fantasia e tramite le parole dei due docenti".

Tutto questo è stato possibili grazie al progetto L’arte dentro promosso da Zetema Progetto Cultura e accolto positivamente dal ministero di Grazia e Giustizia, dalla direzione carceraria e dall’area trattamentale. È quanto si legge in una nota.

"Da aprile a novembre un archeologo e un botanico hanno tenuto all’interno della struttura carceraria lezioni settimanali di archeobotanica di due ore a un gruppo di circa 30 ospiti della Casa di reclusione di Rebibbia, con proiezioni di immagini, letture e dibattiti. L’Amministrazione comunale della Città di Roma è l’unica in Europa - anche grazie al progetto di Zetema - che organizza dal 2007 incontri didattici di storia dell’arte, archeologia e botanica negli istituti di detenzione".

Secondo quanto comunica Zetema questa è "senza dubbio una dimostrazione tangibile dell’elevato senso civico e civile che ha sempre contraddistinto la Capitale nel corso del tempo. ‘L’arte dentro’, un modo sano, vitale e intelligente per offrire un’ulteriore occasione di crescita civico culturale e favorire - ottimizzandolo - il futuro reinserimento sociale dei detenuti a fine pena. L’esperienza della Casa di reclusione di Rebibbia - conclude la nota- rimane una forte testimonianza di come il rapporto di fiducia e di investimento affettivo cognitivo con i suoi ospiti crei le condizioni migliori per un ripensamento del proprio vissuto e una propensione al cambiamento".

Stati Uniti: detenuti di Guantanamo saranno trasferiti in Illinois

 

Ansa, 16 dicembre 2009

 

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha ordinato l’acquisizione governativa di un carcere dell’Illinois nel quale trasferire un consistente numero di prigionieri attualmente detenuti nel carcere di Guantanamo. Dopo le rivelazioni della stampa, l’amministrazione Obama ha reso noto il contenuto della lettera con cui si formalizza la richiesta al governatore dell’Illinois Pat Quinn.

Nella lettera si specifica che nella prigione, costruita 8 anni fa in una zona rurale poco abitata e praticamente mai usata dallo stato, verrà in parte utilizzata come una normale prigione federale di massima sicurezza, ed una parte destinata ad "un numero limitato" di prigionieri ora rinchiusi nel controverso campo di prigionia nella base militare americana a Cuba che l’amministrazione Obama intende chiudere. Le due parti del penitenziario saranno gestite separatamente ed i detenuti federali non avranno occasione di incontrare i detenuti di Guantanamo.

Argentina: detenuto impicca moglie, durante la visita in carcere

 

Adnkronos, 16 dicembre 2009

 

Un detenuto che sta scontando una condanna a 20 anni per rapine e sequestri in Argentina ha impiccato sua moglie che era andata a trovarlo. Il corpo della donna è stato rinvenuto senza vita in bagno nel carcere di Marcos Paz, alle porte della capitale Buenos Aires, secondo quanto riferito da fonti dell’Spf, il servizio penitenziario federale. È stata aperta un’inchiesta per accertare il movente dell’omicidio della donna, madre di una bimba di appena 45 giorni, nel bagno della sala visite.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva