Rassegna stampa 16 aprile

 

Giustizia: il grande imbroglio leghista sul tema della sicurezza

di Luigi Calesso (Presidente di Un’Altra Treviso)

 

La Tribuna di Treviso, 16 aprile 2009

 

L’onorevole Luciano Dussin della Lega Nord accusa gli alleati del Pdl di ingannare i cittadini dando grande importanza nei propri programmi alla questione della sicurezza per poi votare in Parlamento in modo incoerente rispetto alle promesse elettorali.

In realtà, a mio avviso, è proprio la Lega la responsabile del più grande imbroglio consumato ai danni dei cittadini proprio sui problemi della sicurezza, della lotta alla criminalità, del contrasto all’immigrazione clandestina. Come ha efficacemente scritto Renzo Guolo, la Lega è "l’imprenditore politico della paura": suscita, amplifica, enfatizza le preoccupazioni dei cittadini rispetto ai problemi della sicurezza, della delinquenza, della microcriminalità, promette di occuparsene, schiamazza ad ogni piè sospinto, ma in realtà fa poco o nulla per raggiungere gli obiettivi che dichiara di essersi posta.

Lo dimostra anche un’analisi poco meno che superficiale degli elementi principali intorno a cui ruotano le accuse dell’On. Dussin agli alleati del Popolo della Libertà. Il primo attacco è contro i parlamentati dell’allora Forza Italia per aver votato a favore dell’indulto. Tralasciamo il fatto che, con ogni probabilità, la percentuale di beneficiari dell’indulto che sono rientrati in carcere è inferiore a quella di chi, nello stesso lasso di tempo, torna in penitenziario dopo aver scontato interamente una precedente pena detentiva, a dimostrazione che in Italia, purtroppo, le carceri sono la migliore "università del crimine" e più a lungo vi si rimane più è probabile che la propensione a delinquere aumenti.

Occupiamoci, invece, di quei 140.000 processi che, ogni anno, nel nostro Paese non giungono al termine per intervenuta prescrizione del reato a cui si riferiscono. Se i colpevoli fossero anche solo il 10% dei processati, ciò significa che, ogni anno, circa 14.000 delinquenti non vengono condannati e non finiscono in prigione. 14.000 significa il doppio dei beneficiari dell’indulto che sono rientrati in carcere, significa che ogni due anni questo "indulto di fatto" mantiene in libertà più colpevoli di quelli che sono stati liberati dall’indulto del 2006. Che cosa ha fatto la Lega per l’accelerazione dei processi, per ridurre il numero delle prescrizioni?

Nulla, perché nel campo della giustizia i leghisti si sono limitati a sostenere e votare in Parlamento le misure volute da Berlusconi: limiti alle rogatorie internazionali, tempi di prescrizione più rapidi per i processi che interessavano il premier, eliminazione del reato di falso in bilancio, lodo Alfano, riorganizzazione della magistratura per limitarne l’ambito d’azione... Da parte loro i leghisti hanno aggiunto la proposta di "elezione" dei pubblici ministeri che nessuno ha mai seriamente preso in considerazione.

Un’altra accusa riguarda il mancato voto di alcuni parlamentari Pdl a favore dell’aumento del periodo di permanenza degli immigrati clandestini nei centri di identificazione. Invece di occuparsi solo dei centri di identificazione, perché i leghisti non ci spiegano come mai continuano ad arrivare sulle nostre coste barche piene di disperati provenienti dalla Libia?

Non è stato forse solennemente firmato (a caro prezzo per l’Italia) un accordo con il dittatore libico Gheddafi proprio per fermare il traffico di esseri umani attraverso il deserto e lungo le coste della Libia? Ma Berlusconi e i leghisti non sono consapevoli che gli immigrati clandestini vengono taglieggiati dai poliziotti libici e che in un Paese come la Libia ciò non può sfuggire al regime che, chiaramente, è coinvolto nella tratta?

Tra le accuse dell’On. Dussin non poteva mancare quella sui "rumeni" che in questi mesi sono i "colpevoli per eccellenza", come in passato lo sono stati prima i maghrebini e poi gli albanesi. La Lega lamenta l’apertura delle frontiere ai rumeni a seguito dell’ingresso della Romania nell’Unione Europea, dimenticando gli anni non lontani in cui erano proprio i "padani" ad auspicare la rapida entrata del Paese balcanico nell’Unione e a sperare in un flusso di immigrati "bianchi e cristiani" da quelle terre al posto degli immigrati "scuri e islamici".

Ancora nel 2004, il senatore leghista Stefani, allora sottosegretario nell’esecutivo Berlusconi, rivendicava con orgoglio i meriti del governo italiano nell’aver contribuito ai programmi rumeni propedeutici all’ingresso nell’Unione Europea. Ma non si può neppure dimenticare la buffonata leghista delle ronde o quella delle ordinanze dei sindaci "per la sicurezza": le une e le altre si sono rivelate ormai per quello che sono: strumenti propagandistici con sui si specula sull’insicurezza dei cittadini per portare consenso alla Lega, ma che non hanno nessuna utilità nel contrasto alla microcriminalità: la vera e propria apoteosi dell’imbroglio leghista sulla sicurezza.

Giustizia: documento di giuristi e medici contro il dl Sicurezza

 

Redattore Sociale, 16 aprile 2009

 

In 66 hanno siglano il documento per denunciare la preoccupazione che vengano negati alcuni diritti fondamentali dei cittadini italiani e stranieri.

Tre secchi no al disegno di legge in materia di sicurezza pubblica arrivano da un nutrito gruppo di esperti che ha deciso di mettere nero su bianco le proprie perplessità e spedire il tutto al presidente della Camera Gianfranco Fini e ai membri delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera.

In 66 tra giuristi, medici ed esperti hanno firmato il documento, tra cui il presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione Lorenzo Trucco e il presidente della Società italiana di medicina delle migrazioni Salvatore Geraci. Oltre all’obbligo di segnalazione degli irregolari da più parti contestato, viene condannato anche l"obbligo di esibizione del titolo di soggiorno per gli atti di stato civile e per poter contrarre matrimonio.

In sostanza, l’immigrato irregolare non potrebbe né sposarsi né tanto meno riconoscere il proprio figlio. Sul primo punto, il divieto di segnalazione, molto è già stato detto, ma i firmatari tengono comunque a ribadire che "si esporrebbe l"immigrato illegale ad altissimo rischio di denuncia. E questo in base agli articoli 361 e 362 del codice penale che obbligano il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio a denunciare qualsiasi reato perseguibile d’ufficio di cui essi vengano a conoscenza".

Meno clamore si è scatenato intorno alle altre due novità che incontrano il parere negativo degli esperti. Di fatto, sancendo l’impossibilità di perfezionamento degli atti di stato civile senza permesso di soggiorno all’immigrato irregolare viene preclusa la registrazione della nascita e della morte, il riconoscimento del figlio naturale e il matrimonio.

"Le conseguenze sarebbero gravissime - sottolineano i firmatari -. Gli immigrati irregolari potrebbero trovarsi nell’impossibilità di registrare la nascita del figlio che rischierebbe di essere dichiarato in stato di abbandono e, quindi, adottabile". Un’alternativa potrebbe essere la richiesta di un permesso di soggiorno temporaneo da parte della madre e del marito ma solo se in possesso di passaporto. In ogni caso sarebbe "una violazione del diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli e di quello speculare dei figli di essere mantenuti, istruiti ed educati dai genitori".

Un ulteriore problema nasce dall’impossibilità di celebrare il matrimonio in Italia senza la presentazione di un documento che attesti la regolarità del soggiorno. "Obiettivo implicito è evidentemente quello di impedire che lo straniero irregolare possa guadagnare una condizione di soggiorno legale dal matrimonio", sottolineano i giuristi, che però mettono in guardia: "Attualmente si può diventare regolari sposando un cittadino italiano, dell’Ue o un rifugiato".

Tuttavia anche il matrimonio tra immigrati, di cui uno irregolare, verrebbe ugualmente vietato. Si tratterebbe, dunque, di una "mera lesione di un diritto fondamentale della persona protetto dalle convenzioni internazionali" e di una "intollerabile lesione di quel diritto anche per un soggetto terzo cui l’ordinamento riserva la massima tutela". In sostanza a farne le spese sarebbe non solo l’irregolare, ma anche l’aspirante coniuge.

Giustizia: ogni tre giorni una donna viene uccisa dal partner

 

Adnkronos, 16 aprile 2009

 

Solo nell’8,6% dei casi le violenze e gli abusi sessuali avvengono fuori dalle mura domestiche. Presentato un progetto promosso dal dipartimento Pari Opportunità e Telefono Rosa per formare operatori in prima linea che accolgono le vittime nei pronto soccorso.

Le violenze e gli abusi sessuali contro le donne avvengono soprattutto fra le mura domestiche e l’aguzzino, nella maggior parte dei casi, dorme ogni notte accanto alla propria vittima. Non solo. Ogni tre giorni in Italia una donna viene uccisa per mano del proprio partner. Secondo i dati della Polizia di Stato nel solo 2006 ben 112 donne sono state uccise dal proprio compagno.

Sempre nel nostro Paese, secondo i dati Istat del 2006, una donna su quattro, nell’arco della vita, subisce violenza e negli ultimi 9 anni, secondo il rapporto Eurispes del 2005, il fenomeno è aumentato del 300%. E ancora, sempre secondo un’indagine dell’Istat del 2006, quasi una donna su tre tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Sono solo alcuni dei dati raccolti in un volume al termine del Corso pilota "Strategie di contrasto nei confronti della violenza sessuale e della violenza domestica".

Promosso dal dipartimento per le Pari Opportunità ed elaborato da Telefono Rosa con l’azienda ospedaliera S. Andrea e Università di Roma "La Sapienza" Facoltà di Medicina e Chirurgia, il corso di formazione rivolto a chi svolge attività di prima accoglienza alle donne vittime di stupro e violenza domestica, che da settembre proseguirà in altri ospedali, come spiegato dalla presidente e fondatrice di Telefono Rosa, Gabriella Moscatelli, "ha aperto la strada che dovrebbe portare ad un codice particolare per le vittime di violenza che accedono ai pronto soccorso".

Il progetto, ha quindi fatto eco Isabella Rauti, capo Dipartimento del ministero delle Pari Opportunità, che ha "messo insieme pubblico e privato per formare persone che diventano squadra, ha contribuito a creare un circolo virtuoso che mettendo insieme istituzioni, ospedali, università e associazioni, ha dimostrato che se esiste la volontà e la sensibilità è possibile creare percorsi in grado di realizzare prospettive concrete. Quello che presentiamo oggi - ha aggiunto - non è solo una raccolta di contributi ma un manuale pratico per la formazione di operatori che in prima linea accolgono le vittime di violenza".

Il volume, che raccoglie le esperienze dirette di medici e psicologi, e in cui si esamina il profilo sia della vittima che dell’autore di violenza, è anche una denuncia senza mezzi termini della vastità di un fenomeno contro il quale è necessario "un cambiamento culturale". "Le leggi - ha infatti sottolineato Rauti - sono una condizione necessaria ma non sufficiente. Spetta a noi l’elaborazione di un diverso modello culturale. La violenza, infatti, è un fenomeno sociale e culturale che segna il confine tra civiltà e barbarie, che deve richiamare ognuno alle proprie responsabilità". Secondo Rauti "occorre strutturare questo genere di interventi e affrontare la violenza di genere come responsabilità sociale. Se continuiamo a considerarla un fatto privato - ha concluso - non contribuiamo a quel processo di rivoluzione culturale e di costume necessario per contrastarla".

Ma il rapporto denuncia che solo nell’8,6% dei casi la violenza sessuale viene praticata in un luogo pubblico. Sono infatti le mura domestiche l’ambiente in cui si consumano la maggior parte degli abusi sessuali. I dati Istat del 2007 in tema di molestie e violenze sessuali, evidenzia ancora il volume di Telefono Rosa, mette in luce come in Italia oltre la metà delle donne tra i 14 e 19 anni abbia subito almeno una molestia sessuale, un ricatto sessuale sul lavoro o una violenza, tentata o consumata, nel corso della sua esistenza.

Inoltre, i dati indicano che solo il 18,3% delle vittime di violenze, tentate o consumate, le ha subite da parte di sconosciuti. Gli autori, infatti, hanno nel 23,5% il volto di un amico, nel 15,3% quello di un datore di lavoro, di un collega, di un insegnante o di un compagno di classe. Se poi si considerano nello specifico le aggressioni, fisiche o sessuali consumate, la vittima ha una relazione intima pregressa o ancora in essere con l’aggressore nel 65% dei casi. Gli sconosciuti compaiono in questa black-list solo nel 3,5% dei casi.

Giustizia: più posti letto nelle carceri, il piano entro il 2 maggio

di Patrizio Gonnella (Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 16 aprile 2009

 

Entro il 2 maggio il Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria nonché capo del Dap Franco Ionta dovrà presentare il suo piano per incrementare la capienza dei posti letto disponibili nelle carceri italiane. I detenuti sono a oggi 61.348 mentre i posti letto regolamentari sono 43.102. Mancano quindi 18.246 letti.

Entro il 2010 gli interventi in corso di realizzazione dovrebbero portare, secondo le stime ipotetiche fatte al Ministero, a nuovi 4.907 posti letto così ripartiti: 1.902 posti ricavati da ristrutturazioni di sezioni carcerarie al momento inutilizzate. 1.790 posti dalla realizzazione di sette nuovi padiglioni prefabbricati da collocare all’interno di istituti già esistenti (a Cuneo, Velletri, Carinola, Avellino, Santa Maria Capua Vetere, Catanzaro, Enna), 1.215 posti conseguiti da sei carceri in fase di costruzione avanzata ma non ancora formalmente consegnati al ministero della Giustizia dal ministero delle Infrastrutture (Rieti, Cagliari, Tempo Pausania. Oristano, Sassari, Trento).

Complessivamente il costo di questi 4.907 posti letto è di 205 milioni di euro. Altri 1.935 posti sarebbero ricavati da interventi appena avviati e che dovrebbero concludersi entro il 2012. Il costo complessivo, già coperto finanziariamente, sarebbe pari a ulteriori 189 milioni e 200 mila euro. Dalla ristrutturazione di sezioni inutilizzate si andranno a ricavare 270 posti letto. Dalla realizzazione di padiglioni negli istituti di Frosinone, Pavia, Cremona, Agrigento, Palermo Pagliarelli, Ariano Irpino, Modena, Terni, Livorno, Nuoro si otterranno 1.150 posti e dal completamento delle carceri di Savona, Rovigo e Forlì altri 515. Quindi entro il 2012 se tutto funziona, se le risorse non verranno dirottate verso manutenzioni straordinarie di istituti fatiscenti, si riusciranno a conseguire 6.842 posti letto così raggiungendo una capienza regolamentare di 50 mila posti letto.

Il costo pro-capite di ogni nuovo posto letto supera i 57 mila euro. Nel frattempo se i trend di crescita continueranno a essere quelli attuali - mille nuovi detenuti al mese - alla fine del 2012 i detenuti sfioreranno le centomila unità. Per questo nel piano ministeriale si propongono ulteriori interventi seppur al momento privi di copertura finanziaria. Si pensa di poter ricavare 10.400 posti dalla realizzazione di nuovi 27 padiglioni detentivi e di ben nuove 17 carceri.

La cifra necessaria sarebbe pari a 1 miliardo e 116 milioni di euro. Mancano all’appello ben 660 milioni di euro, pur utilizzando una quota del Fondo Unico per la Giustizia, stanziamenti ad hoc del Ministero e i fondi della Cassa delle Ammende.

Qualora tutto questo dovesse andare regolarmente in porto, in ogni caso l’esperienza dimostra come la velocità con cui si costruiscono carceri e si dotano queste ultime di nuovi posti letto a norma secondo gli standard europei (nove metri quadri per una persona che vive in una cella singola, più 4,5 metri quadri a disposizione a partire dalla seconda persona detenuta nella stessa cella) sarebbe incomparabilmente più lenta rispetto a quella frenetica di ingresso dei detenuti negli istituti penitenziari. Ci sono regioni dove la situazione di affollamento è divenuta insostenibile.

I dati aggiornatissimi allo scorso 5 aprile ci dicono che in Emilia Romagna e in Campania ci sono ben due mila persone in più rispetto ai posti letto a disposizione. In Piemonte e in Puglia circa mille e trecento detenuti oltre la capienza regolamentare. In Toscana e Veneto oltre mille. Il record è in Lombardia dove mancano tre mila posti letto seguita dalla Sicilia con un surplus di due mila trecento persone. Si pensi che nei soli ultimi dieci giorni (fonte Ristretti) i detenuti sono cresciuti di ben 355 unità. In tal modo si va addirittura oltre il tasso di crescita di mille reclusi al mese.

Giustizia: a proposito del caso Banelli e della legge sui pentiti

di Benedetta Tobagi

 

Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2009

 

Meritano alcune riflessioni le posizioni espresse dall’onorevole D’Antona in merito alla scarcerazione della Br Banelli, condannata per l’omicidio del marito. Ne va elogiata la misura: senza entrare nel merito della decisione del Tribunale di Sorveglianza, ha sollevato interrogativi e riserve di tipo giuridico (peraltro sulla scorta di riserve già espresse da magistrati) e attinenti ai fatti: forse non ha detto tutto, si è limitata a confermare fatti già noti. Altrettanto encomiabile la scelta del riserbo mantenuto dalla famiglia di Marco Biagi.

D’Antona ritiene inammissibile la concessione del "rito abbreviato" a imputati macchiatisi di reati di sangue punibili con l’ergastolo. Di fatto, questa soluzione priva le vittime di un pubblico dibattimento davanti a un giudice collegiale, in cui far sentire la propria voce: classico esempio delle distorsioni di una impostazione penal-processuale fortemente reo-centrica, in cui la vittima di reato non viene riconosciuta parte in causa, se non limitatamente al risarcimento civile. Come parlamentare, ha tradotto questa critica in una proposta di legge.

A latere, esprime valutazioni circa la condotta spregiudicata dell’imputata, volta a ottenere il massimo dei benefici. Il pensiero corre agli accesi dibattiti suscitati dalla legislazione premiale varata nell’82, per i "pentiti" del terrorismo. L’uso della parola "pentito", entrata nel lessico comune al posto del più corretto "collaboratore di giustizia", evoca una dimensione spirituale e religiosa che nulla ha a che vedere con il diritto.

La legislazione premiale si basa su principi economicistici, che spesso urtano il senso comune di giustizia ed equità dei cittadini, quando vedono uscire dal carcere assassini o loro complici. Il collaboratore serve allo Stato per contrastare la criminalità, spesso si espone a gravi pericoli per l’incolumità propria e dei familiari: si pensi alla tragica storia di Peci e a tante vicende di "pentiti" di estrema destra e di mafia (da qui le apposite misure di sicurezza previste per legge). Ma è del tutto fuori luogo costruire il mito del "buon pentito" o indulgere sulla retorica di quadretti familiari o conversioni sulla via di Damasco, come spesso è stato fatto.

La verità del cuore degli uomini la conoscono solo gli interessati, o, per chi è credente, Dio: questa dimensione, comunque, non dovrebbe mischiarsi al campo del diritto. All’estremo opposto, altrettanto indebita la posizione di chi definisce i collaboratori "infami", delatori, traditori (come dimenticare gli elogi al mafioso Mangano, "eroe" per non aver parlato ai magistrati: sono questi gli esempi di nuovo civismo?). L’Italia ha sofferto e soffre dei retaggi di logiche pseudo religiose o pre politiche, estranee a una matura cultura della polis.

D’Antona stigmatizza operazioni a effetto della "compagna So", come la scelta di rendere pubblica una lettera a lei indirizzata: "Avevo chiesto che restasse privata, e invece è stata mandata a tutti i giornali. È un comportamento spregiudicato, teso a colpire i sentimenti di una persona già ferita", ha dichiarato. Verissimo. La vicenda della lettera richiama alla mente la sorte di un altro disegno di legge che giace alla Camera.

La deputata Sabina Rossa ha presentato una proposta di modifica dell’articolo 176 C.P., laddove prevede tra le condizioni per la concessione della libertà condizionale il "sicuro ravvedimento". Nozione scivolosa, in odore di catechismo. Come lo si misura? Tra gli indicatori, si menziona "un fattivo instaurarsi di contatti con i familiari delle vittime".

Si rischia il paradosso di penalizzare chi rifiuta atti simili nel timore di urtare la sensibilità delle parti lese. Doveroso valutare che il collaboratore sia divenuto un soggetto rispettoso della legge e del vivere civile, ma quest’onere spetta allo Stato. Coinvolgere le vittime come soggetti passivi, per di più senza debita mediazione, rischia oltre tutto di creare nuove ferite. L’attenzione e il rispetto delle vittime si sostanzia in condotte equilibrate in ambito sociale, culturale, mediatico, ma senza inquinare le categorie giuridiche. Rossa propone di sostituire la formulazione incriminata con un riferimento alla conclusione positiva del percorso rieducativo, previsto dall’articolo 27 della Costituzione.

A prescindere dai giudizi di merito sulle questioni specifiche, in un Paese che indulge nella spettacolarizzazione dei sentimenti, in polemiche gratuite, tra tanti che, superficialmente o in malafede, strumentalizzano le vittime, gli sforzi di queste due deputate - colpite duramente negli affetti - di operare secondo modi e toni istituzionali, è un segnale incoraggiante.

Giustizia: Sabina Rossa si batte per l'uomo che sparò al padre

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 16 aprile 2009

 

Nuovo no alla scarcerazione dell’ex br Guagliardo per l’omicidio dell’operaio del Pci. La figlia deputato del Pd: è un’ingiustizia.

Aveva chiesto di poter uscire definitivamente dal carcere, dopo oltre trent’anni di detenzione, come è stato concesso a quasi tutti gli altri ex terroristi condannati all’ergastolo per le decine di omicidi commessi durante la stagione "di piombo". Lui, Vincenzo Guagliardo, sparò a Guido Rossa, l’operaio iscritto al Pci e alla Cgil assassinato dalle Brigate rosse nel gennaio 1979.

Il pubblico ministero era d’accordo: per la legge l’ex brigatista, già in regime di semilibertà, ha diritto a non rientrare in cella la sera. Ma il tribunale di sorveglianza ha detto no, come nello scorso settembre. E la vittima diretta di Guagliardo - Sabina Rossa, oggi deputato del Partito democratico - commenta: "È una vergogna, una vera ingiustizia.

Lo dico con tutto il rispetto per i giudici, ma mi sembra che quest’uomo sia ormai diventato il capro espiatorio del residuato insoluto delle leggi speciali". È una storia molto particolare, quella dell’assassino di Guido Rossa, fra le tante di ex terroristi ergastolani ai quali, secondo una recente giurisprudenza, viene concessa la liberazione per i crimini di trent’anni fa dopo qualche forma di contatto tra loro e i parenti delle persone uccise, come segno tangibile di contrizione e di "consapevole revisione critica delle pregresse scelte devianti"; anche solo attraverso delle lettere a cui spesso non arrivano nemmeno risposte, ma è quello che i giudici chiedono per misurare il "sicuro ravvedimento" richiesto dal codice per rimettere fuori i condannati a vita.

Guagliardo, che da molti lustri ha abbandonato la lotta armata, non ha mai voluto scrivere niente perché riteneva di non avere il diritto di rivolgersi alle vittime per ottenere un beneficio in cambio; considerando, al contrario, il silenzio "la forma di mediazione più consona alla tragicità di cui mi sono macchiato". Ma quando Sabina Rossa, nel 2005, andò a cercarlo per chiedere spiegazioni e ragioni dell’omicidio di suo padre, lui accettò l’incontro e ci parlò a lungo, come la donna ha raccontato in un libro.

L’ex br non lo disse però ai giudici, affinché quel faccia a faccia non apparisse "merce strumentale ad interessi individuali, simulazione, e perciò ulteriore offesa" alle persone già colpite. Così arrivò il primo no alla liberazione, dopo il quale Sabina Rossa ha voluto rivolgersi direttamente al presidente del tribunale di sorveglianza per testimoniare "il ravvedimento dell’uomo che ha sparato a mio padre; metterlo fuori, oggi, sarebbe un gesto di civiltà".

Dopo questa uscita pubblica Guagliardo ha riproposto la sua istanza, chiarendo ai giudici di essere disponibile a incontrare qualunque altro familiare di persone uccise: "Solo se lo desiderano, se non è un nostro imporci a loro. Trovo infatti legittimo che una vittima non voglia né perdonare né dialogare con chi le ha procurato un dolore dalle conseguenze irreversibili". Nell’udienza della scorsa settimana il pubblico ministero s’è dichiarato favorevole alla liberazione condizionale dell’ex brigatista, ma i giudici hanno ugualmente rigettato la richiesta.

Perché, hanno scritto nell’ordinanza, chiedere che siano le vittime a sollecitare un eventuale contatto significa dare loro "carichi interiori assolutamente incomprensibili o intollerabili"; e l’atteggiamento di Sabina Rossa è "una manifestazione isolata e certamente non rappresentativa delle posizioni delle altre e numerose persone offese". La reazione della figlia del sindacalista ammazzato dalle Br - che da deputato ha presentato un disegno di legge per modificare la norma sulla condizionale, in modo da svincolarla dal rapporto tra assassini e persone colpite - è tanto dura quanto inusuale: "Sono indignata come cittadina e come vittima.

Ci sono brigatisti con molti più delitti a carico liberi da anni, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla. C’è troppa discrezionalità. Io credo nella giustizia, ma anche nel cambiamento degli uomini. Spero che la mia proposta di legge sia esaminata al più presto". L’avvocato Francesco Romeo, difensore di Guagliardo insieme alla collega Caterina Calia, parla di "decisione che sembra scritta in altri secoli, da un giudice dell’Inquisizione" e sta già preparando il ricorso alla Corte di cassazione.

Giustizia: il dilemma del prigioniero, ancora su Cesare Battisti

di Arrigo Cavallina

 

Studi Cattolici, 16 aprile 2009

 

30 anni fa, nel corso di uno sciagurato 1978, la banda Pac (e già il nome associa il grottesco di proletari e comunismo alla tragedia di armati) ha compiuto reati gravissimi. E io mi porto addosso tutta la responsabilità di averla, con altri, fondata e di averne condiviso le azioni fino a quando me ne sono separato. Responsabilità riconosciuta in regolari processi, in sentenze definitive e in una pena interamente scontata. Mi verrebbe da dire: "E adesso basta, lasciate a me decidere se e quando raccontare e ragionare su quegli anni, sulle mie vicende interiori ed esterne che ne sono seguite, sulle attività che sto svolgendo".

Invece ogni tanto appare un fantasma che probabilmente non ha nessuna intenzione di inseguirmi, ma ha la caratteristica di scatenare drappelli di giornalisti a parlare di me per l’ennesima volta (dicendo sempre le stesse cose, già scritte in sentenze o da me in libri e vecchie interviste) e a chiedermi sempre le stesse cose.

Questo fantasma che periodicamente riemerge dal passato si chiama Cesare Battisti. Di suo, era un delinquente di non grande calibro. Con me ha creduto di diventare anche politico, nella banda che ha commesso quattro omicidi; e una sentenza passata in giudicato attribuisce a lui, a diverso titolo, la partecipazione a tutti e quattro, condannandolo all’ergastolo.

La nostra amicizia si è incrinata quando l’ho visto cambiare carattere e comportamenti, quasi rifugiandosi dietro ad una maschera, forse per reggere ai traumi di quello che stavamo facendo, e anche per l’influsso di nuovi entrati o simpatizzanti del gruppo.

Ci siamo rivisti in carcere, per brevi periodi, tra il 1980 e il 1981, anno della sua evasione. Ho riguardato le poche frasi della mia corrispondenza in cui parlo di lui, come di un’affinità ritrovata, e le accosto al preciso ricordo di una persona come me già in netta critica e disaccordo con le scelte precedenti, costretto a convivere in un carcere speciale con altri "combattenti irriducibili", ironico nei loro riguardi e molto preoccupato di non far emergere la sua diversità per paura delle loro aggressioni. Paura che conosco bene e che ha creato anche a noi, già pubblicamente "dissociati", forti tensioni, fino a quando a Rebibbia non siamo stati separati in un’apposita "area omogenea".

Nel 1981 ho accolto con sollievo e a conferma di quanto avevo intuito la notizia che Cesare, che pure era stato fatto evadere da un gruppo di Prima Linea, non era rimasto con questi ultimi fuochi combattenti ma aveva preferito scappare all’estero.

Ricordo quante volte ho sognato anch’io di essere un latitante ricercato, sogni di angoscia insopportabile, in cui ogni gesto poteva tradirmi, ogni persona essere un agente che mi inseguiva ed arrestava, tutta la vita ridotta a continua fuga e spavento. E quando mi svegliavo col cuore impazzito in gola e vedevo la finestra con le sbarre sospiravo di sollievo, meno male, meglio questa desolata sicurezza di quell’incubo.

Stare dentro il carcere e dentro i processi era anche stare dentro le conseguenze del mio passato, assumerne interamente la responsabilità, ricostruirmi un’identità capace di risalire fino alle domande legittime alle quali ho dato risposte illegittime e devastanti, capace anche di dare un senso alla vita che mi aspettava, alla pena, alle nuove relazioni.

Voleva anche dire decidere un comportamento processuale non sul calcolo probabilistico di evitare le condanne, ma su un impegno di verità (finalmente, e liberatorio dopo tanto sgusciare), un altro modo per non sentirmi ancora come un latitante in fuga costretto ad ingannare le persone che mi stavano aiutando, con fiducia, nella fatica della rielaborazione.

Tutt’altro, mi sembra di capire, era il percorso dei rifugiati all’estero, in particolare in Francia dov’erano più numerosi. Per loro la percezione delle responsabilità sembrava attenuarsi rispetto all’esigenza primaria di non essere estradati, quindi di mostrarsi ingiustamente perseguitati da uno Stato del quale si era, e si continuava così ad essere, oppositori politici. E forse a calarsi con tanta insistenza in un ruolo, si finisce per convincersene e ad assumerlo come propria identità.

Non voglio generalizzare, quando la nostra rivolta violenta è sembrata diffondersi e costituire un pericolo, la difesa istituzionale non è rimasta sempre negli argini delle garanzie democratiche. Ricordo bene il regime delle carceri speciali, gli aumenti nella custodia preventiva e nelle pene, istruttorie fabbricate nel disprezzo delle procedure, singoli episodi di indubbia tortura, di "collaboratori" imboccati e di valore probatorio attribuito loro senza riscontri, e ancora ombre inquietanti e mai dissolte su alcuni fatti gravi. Ma devo anche ammettere che, nelle molte storie processuali che conosco, attraverso i vari gradi di giudizio e il tempo trascorso e il clima complessivo meno esasperato, si è generalmente raggiunto un equilibrio o almeno una normalità negli esiti conclusivi.

Ora, la domanda apparentemente centrale che nessuna intervista mi risparmia è se Battisti ha commesso davvero quei reati. E io devo ripetere, constatando la poco professionale delusione del giornalista, che poteva ben aspettarselo, che non intendo rispondere. E spiego i motivi.

Prima di tutto, quello che potrei dire oggi sarebbe assolutamente irrilevante. C’è una sentenza passata in giudicato che stabilisce la "verità processuale", la sola che conta nella richiesta d’estradizione ed eventualmente la sola che può essere contestata nei suoi meccanismi interni di formazione, non certo attribuendo valore di nuova prova alle chiacchiere che chiunque può raccontare ad un giornalista.

C’è poi la scelta di dissociazione, che abbiamo sempre ribadito pubblicamente e in processo, in base alla quale tutto il nostro impegno è rivolto ad evitare che vengano commessi altri reati e a ricostruire ognuno le proprie responsabilità di rilievo penale nel contesto necessario a capire perché è avvenuto quello che non avrebbe dovuto avvenire. Nessun limite, dunque, a denunciare altre persone se questo poteva servire ad interrompere la preparazione o la continuazione di un reato. Ma quando il solo effetto della dichiarazione sarebbe di incidere sulla determinazione delle pene riguardanti altre persone (e, peggio, ottenendo in cambio una riduzione della pena per sé), allora lasciamo all’altro la responsabilità delle sue decisioni e delle conseguenze processuali.

Solo in quanto non marchiati dall’accusa di essere "delatori", tra gli ex compagni nel guado tra prosecuzione e abbandono della lotta armata, abbiamo potuto dare un contributo rilevante a disgregare culturalmente dal suo interno quel fenomeno che conoscevamo bene perché ne eravamo stati parte. E se per qualche tempo alcuni magistrati hanno negato dignità alla nostra scelta, considerandola alla stregua di "una furbata", la sua efficacia è stata invece riconosciuta dalla maggior parte dei giudici, dall’amministrazione penitenziaria ed infine dal legislatore.

C’è un’altra ragione ancora che ci impedisce di interferire nei rapporti processuali che non ci riguardano direttamente. Consideriamo primaria l’esigenza preventiva di interrompere una pericolosità in atto, condividiamo la necessità che dall’accertata commissione di reati derivi un intervento penale anche di grande peso sui colpevoli; ma le finalità e i modi concreti di esecuzione della pena spesso non corrispondono a quanto riteniamo sia bene per la comunità offesa, per le vittime dei reati, per gli autori e per la ricostruzione di relazioni responsabilizzanti e riparative. Ci sarebbe dunque il rischio che le nostre dichiarazioni su altri imputati non producano il bene che vorremmo, ma vadano a supportare un’applicazione prevalentemente retributivo-vendicativa della pena, aggiungendo un male sterile al male fatto.

Ricordo che ci siamo interrogati a lungo, consapevoli della piena legittimità e giustizia dell’intervento punitivo nei nostri confronti, sul senso di una pena che ci costringeva semplicemente a stare chiusi, a non fare nulla malgrado le nostre diverse capacità e competenze. Ci sembrava uno spreco, un impedimento addirittura a rendersi utili, a riparare. Tutte le iniziative che abbiamo comunque attuato dentro il carcere non erano pretese dalla specie di pena, ma dovute all’incontro fortunato di buone volontà del personale penitenziario locale, della comunità circostante e di noi stessi.

Tanto che, in occasione della discussione sulla legge quadro del volontariato, abbiamo proposto che, in situazione ragionevolmente accertata di non pericolosità, si potesse considerare un’attività volontaria di servizio come alternativa equivalente alla detenzione.

Ci siamo anche chiesti come sanare la posizione di quelle forse migliaia di latitanti all’estero, che avevano certamente chiuso col passato. Si poteva pretendere che spontaneamente venissero a costituirsi per condividere la nostra carcerazione per tempi lunghissimi, fino all’ergastolo? Allora, con una buona dose di utopia, abbiamo suggerito che venisse loro offerta almeno una possibilità di ricostruire un rapporto legittimo, come di pena espiata, con la giustizia italiana, mediante un prolungato servizio (ovviamente convenuto e verificato) all’estero presso qualche organizzazione non governativa internazionale.

Tutte ipotesi probabilmente in sé irrealistiche, che potrebbero essere meglio riformulate, ma che ricordo per dare un’idea di modalità diverse dall’automatica carcerazione retributiva. La grande domanda che ci si poneva in quegli anni, ma che dovrebbe essere sempre attuale, era: come avviare un percorso di riconciliazione?

Ci sono riusciti Paesi colpiti da tragedie ancora e molto più sanguinose delle nostre. Tenuto conto di tutte le differenze, qualcosa da loro potremmo imparare. Certo, gli atteggiamenti di Cesare Battisti, in ogni sua apparizione, non facilitano un ragionamento sereno. Mi dispiace molto riconoscerlo, ma si mostra proprio antipatico, arrogante; non capisco lo scopo di certe dichiarazioni che sembrano inutili, controproducenti, o messaggi oscuri come quelli sui servizi segreti francesi.

Scorrendo qualche sito internet, mi sono accorto dell’astio dei suoi amici nei miei riguardi. Ritornano interpretazioni distorte o falsificazioni, che circolavano in Francia nei loro ambienti, di mie vecchie interviste. Pensando di difenderlo, dicono sciocchezze.

Eppure non mi sento di sostenere: come mi sono fatto il carcere io, è giusto che se lo faccia anche lui. Mi chiedo se non ci sia qualcosa di guasto in una giustizia che costringe alla sola, secca alternativa tra la menzogna e l’ergastolo. Ho ascoltato un giudice di grande umanità ipotizzare che se Cesare si presentasse con l’atteggiamento di chi riconosce le proprie responsabilità, ricostruisce i fatti, non contesta le sentenze, esprime una comprensione sincera per il dolore delle vittime, il suo ergastolo potrebbe, dopo tanti anni e cambiamenti dalla commissione dei reati, ridursi con l’applicazione di benefici intervenuti nel frattempo e aprirsi non troppo tardi alle misure alternative.

Potrebbe. Ma con quale garanzia? Nessuna. Potrebbe, altrettanto, essere destinato al "carcere duro", previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, in condizioni di deprivazione recentemente aggravate, con l’impossibilità di accesso a misure di progressiva attenuazione. Comunque l’ergastolo potrebbe restare ergastolo o una somma di decenni da assorbire in pratica quasi tutto il resto della vita.

Anche chi ha perso un familiare, anche chi è rimasto invalido è condannato ad un dolore senza fine, nella vita. Ma non può essere questo il metro della pena. Come determinare un equivalente, un simmetrico della morte, o della sofferenza di una vittima, o dell’offesa sociale? Si rischia una rincorsa senza limite nel provocare altro male, si tornerebbe alla barbarie e ai supplizi.

Per quello che ho letto e sentito, le persone colpite con più violenza, negli affetti e nel corpo, dai delitti dei Pac, non hanno mai chiesto vendetta ma, molto civilmente, verità e giustizia. Non perché è ergastolo, ma perché è stabilito in sentenza, perché sia rispettata ed eseguita la sanzione decisa secondo le regole del nostro ordinamento. Perché sia affermata la riprovazione dei crimini, la responsabilità di chi li ha commessi e le conseguenze che devono derivarne.

Proprio nelle conseguenze, che sembrerebbero decise irreversibilmente, trovo un’incongruenza, un conflitto con l’esigenza di verità. Se la verità comporta l’estradizione e il carcere a vita, l’abbandono definitivo delle relazioni familiari, dei figli che restano per sempre senza padre, capisco anche il dibattersi in tutti i modi (magari controproducenti, antipatici) per evitarlo. Mi chiedo: è "giusto" che da una legittima pretesa di verità non possa derivare altro che questo male? Che non sia ipotizzabile un’altra specie di sanzione, anche dopo un tempo di carcere che non sia una distruzione, che rafforzi anche simbolicamente la riprovazione e che costringa ad un progetto riparatorio duro, faticoso, ma ricostruttivo? Se potessi dire quello che è vero sapendo che non ci saranno ripercussioni tremende sui miei figli e sulle persone innocenti a me vicine, ma che la mia vita dovrà riorganizzarsi in funzione del debito che riconosco di aver contratto, allora forse questa "giustizia" può stimolare e incontrarsi con la soddisfazione dell’altro mio debito, quello del racconto di come e perché è stato fatto quello che non avrebbe dovuto, che oggi vorrei ardentemente che non fosse successo.

Non vorrei banalizzare, faccio l’esempio che segue solo per rendere più chiara una possibilità. Cesare Battisti è un affermato scrittore. Potrebbe ridurre all’osso il guadagno dei suoi diritti per mettere l’importo residuo a disposizione di un fondo a favore delle vittime.

Al di là dell’esempio banale ed evidentemente da riformulare, penso anche al valore educativo di attività o contributi prolungati nel tempo, per non dimenticare il dolore invece di seppellirlo, con chi l’ha provocato, nel silenzio di una cella. Mi chiedo chi resterebbe danneggiato da una giustizia di riparazione.

Friuli: proposta di legge per un Garante regionale dei detenuti

 

Agi, 16 aprile 2009

 

Conferenza stampa dei Consiglieri regionali Pd, Idv-Cittadini e SA per presentare la loro proposta di legge che intende istituire il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Vuoi per mancanza di fondi, vuoi per costruzioni vetuste o troppo vicine al centro cittadino - hanno esordito - le carceri in Italia non riescono ad assicurare la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti.

Qualche numero può aiutare a comprendere la situazione: 5 gli istituti penitenziari in regione (nei quattro capoluoghi di provincia più Tolmezzo), 550 le persone in carcere (dovrebbero invece essere 450 ma ci sono state punte, negli anni, di 700), un terzo di loro è ancora in attesa di giudizio, per oltre il 50i tratta di extracomunitari, e i reati più comuni sono la droga, la prostituzione, i piccoli furti e il racket. L’effetto indulto è sparito, l’ora d’aria non aiuta a socializzare, gli spazi sono ridotti per qualsiasi genere di attività, la sala mensa spesso non c’è (così, ad esempio, a Trieste, si distribuiscono i pasti nelle celle dalle 11 alle 14) e comunque la preoccupazione che accomuna tutti i detenuti è una: il lavoro, trascorrere il tempo facendo qualcosa.

Austria, Danimarca, Ungheria, Norvegia, Olanda, Portogallo, Finlandia, Inghilterra e Scozia - hanno aggiunto - hanno provato a risolvere il problema istituendo il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale: un organo esterno e indipendente con il compito di operare a stretto contatto con magistrati, direttori delle carceri e carcerati, per far godere realmente i diritti sociali, sanitari e civili a chi si trova all’interno di strutture restrittive (prigioni ma anche istituti penali per minori, strutture psichiatriche giudiziarie, centri di prima accoglienza e di assistenza temporanea per stranieri, strutture sanitarie per il trattamento sanitario obbligatorio).

In Italia, il Garante esiste già in Toscana e altre otto regioni hanno predisposto progetti di legge analoghi. Ora, in Friuli Venezia Giulia, sono i consiglieri di opposizione a pensare a questa figura e a chiederne l’istituzione con una proposta di legge. Il Garante verrebbe eletto dal Consiglio regionale, a maggioranza assoluta, per rimanere in carica cinque anni.

Agrigento: casa-famiglia per le donne detenute con figli minori

di Francesco Di Mare

 

La Sicilia, 16 aprile 2009

 

Non c’è dramma peggiore per una donna dell’essere detenuta in una cella di un qualsiasi carcere e avere una figlia o figlio da crescere. Senza poterlo fare.

Una condizione che gli uomini non potranno mai capire, ma che spinge alcuni tra questi uomini impegnati nel settore delle carceri a darsi da fare, per cercare di alleviare le sofferenze di chi nella vita ha sbagliato tanto. E siccome gli errori dei genitori non possono essere pagati dai figli, ecco che ad Agrigento sta per prendere il via un’iniziativa inedita su scala regionale.

Ovvero la creazione di un luogo di detenzione che fa capo al carcere di contrada Petrusa, nel quale possono essere ristrette al massimo 4 o 5 donne, madri di figli al di sotto dei 3 anni. L’obiettivo è quello di consentire a donne con particolari situazioni, comprovate da apposite valutazioni, di potere continuare a crescere i propri figli, senza arrecare loro il danno del distacco dalla madre macchiatasi di un determinato reato. I vertici del carcere agrigentino hanno già individuato l’immobile dove realizzare questa sorta di "penitenziario-famiglia".

Sorgerà a Favara, ma sul luogo esatto dove le detenute madri verranno sistemate vige ad oggi il più stretto riserbo. I vertici del Petrusa stanno infatti limando gli ultimi dettagli tecnici e burocratici, prima di dare il via ufficiale all’iniziativa. Visto che nel penitenziario della città dei Templi la situazione abitativa dei detenuti è sempre pesante, con oltre 430 persone "ristrette" nelle celle, era impensabile ad oggi trovare spazi alternative per casi particolari. Ecco perché la scelta di individuare all’esterno un luogo sicuro, dove far trascorrere la detenzione - perché quella rimane in tutto e per tutto - alle donne con figli molto piccoli. In gergo di definisce "custodia attenuata" e non verranno ammesse deroghe particolari. Carcere era e carcere sarà. Le madri avranno la possibilità - e non sarà fortuna da poco - di poter accudire i loro piccini, senza il reciproco trauma del distacco. Restano da conoscere le modalità di permanenza dei bambini in un contesto che sempre carcere è. L’iniziativa verrà meglio sviscerata nei prossimi giorni dal direttore della casa circondariale Russo. In attesa di questa svolta storica per le carceri anche regionali, domani mattina al Petrusa sarà teatro.

La Compagnia del corpo della Polizia Municipale di Agrigenti si esibirà in una commedia, dinanzi ai detenuti. Sarà un momento di grande svago e distrazione dai pensieri di tutti i giorni. Verrebbe da dire quasi, che si tratterà di un momento di pura "evasione", anche se le porte del penitenziario rimarranno ovviamente sbarrate durante l’esibizione dei vigili urbani. Questi ultimi nelle insoliti vesti di attori, come altre volte hanno saputo fare riscuotendo il gradimento del pubblico che li ha visti esibire.

Verona: l'Università apre uno Sportello informativo in carcere

 

www.giornaleadige.it, 16 aprile 2009

 

Gli studenti della facoltà di Scienze della Formazione e Giurisprudenza dell’Università di Verona gestiranno uno sportello informativo all’interno del carcere di Montorio.

La nuova opportunità è frutto della collaborazione dell’Ateneo veronese, della Casa circondariale di Montorio e dell’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Verona e Vicenza. Una collaborazione nata per avvicinare gli studenti alla realtà del carcere offrendo loro la possibilità di conoscere più da vicino l’universo del sistema carcerario che spesso a motivo della sua complessità di gestione e inavvicinabilità resta un mondo a sé.

Lo sportello sarà affidato ad otto studenti provenienti dai corsi di laurea in Scienze della Formazione e Giurisprudenza dell’Ateneo scaligero che svolgeranno un periodo di tirocinio formativo all’interno della Casa Circondariale di Montorio nell’ambito della convenzione stipulata nel luglio 2008 tra Università di Verona, Casa circondariale e Uepe. I tirocinanti avranno la possibilità di acquisire alcune abilità relazionali e comunicative necessarie per operare all’interno di un servizio di ascolto. I tirocinanti forniranno ai detenuti un supporto al percorso di inserimento per consolidare nel detenuto un processo di crescita consapevole e di conoscenza oltre ad un utilizzo competente per l’accesso ai servizi pubblici e privati del territorio.

Gli studenti si attiveranno sulle tematiche relative all’impatto sociale e psicologico determinato dalla pena detentiva e svilupperanno percorsi di riflessione sui processi educativi e formativi utilizzando le risorse messe a disposizione dalla struttura penitenziaria: attività ricreative, scolastiche, formative e lavorative

La convenzione prevede un percorso formativo interfacoltà per gli studenti di Scienze della Formazione e Giurisprudenza che, adeguatamente assistiti da docenti e altri operatori, potranno vivere un’esperienza tesa ad arricchire sotto il profilo umano la loro preparazione professionale.

Gli studenti che attualmente stanno seguendo il corso interfacoltà "Carcere e mondo della pena: un contesto da umanizzare" si specchieranno con un universo, quello del sistema carcerario, che ha bisogno di essere conosciuto più da vicino.

Le lezioni alle quale stanno partecipando 24 studenti delle Facoltà di Scienze della Formazione e Giurisprudenza dell’Università di Verona sono sviluppate su differenti moduli (Fare tirocinio in carcere, L’esecuzione penale in Italia, I contesti dell’esecuzione penale, Altre figure professionali e figure di volontari che operano nel contesto penitenziario, Servizi di sportello).

Il corso intende mettere tutti i partecipanti nella condizione di riflettere sulle proprie considerazioni in ordine al mondo della pena, di conoscere le caratteristiche principali del sistema dell’esecuzione penale del nostro paese dal punto di vista giuridico e per le sue implicazioni di carattere sociale ed educativo, infine di conoscere le caratteristiche di alcune figure professionali e di volontari che operano nel contesto penitenziario. L’Università di Verona è la prima in Italia ad offrire una possibilità formativa di questo genere soprattutto in ordine allo stage formativo che verrà svolto all’interno del carcere.

Il coordinamento dell’intero percorso formativo è affidato ad una commissione mista, costituita da Giuseppe Tacconi, Giorgio Gosetti e Federica De Cordova docenti afferenti alla Facoltà di Scienze della Formazione e da Lorenzo Picotti, docente della Facoltà di Giurisprudenza.

Pavia: risarcimento detenuto suicida; il ministero chiede sconto

 

La Provincia Pavese, 16 aprile 2009

 

Il giudice di primo grado aveva deciso per il risarcimento, ma il Ministro della giustizia non ci sta. È stato presentato appello contro la sentenza che aveva condannato il ministero a pagare 140mila euro per un detenuto che nel 2003 si tolse la vita con una bomboletta di gas a Torre del Gallo. Gli avvocati dello Stato non hanno condiviso la sentenza pronunciata dal giudice Andrea Borelli, figlio del più noto Saverio.

Che aveva posto l’accento sull’omessa vigilanza al detenuto e aveva sottolineato come l’obbligo delle strutture di disciplina fosse proprio quello di "prendersi cura del corpo". Il procedimento contro il Ministero era partito nel 2003, quando la madre e le sorelle del detenuto Manuel Bosco, appoggiate dall’avvocato Fabrizio Gnocchi di Pavia, avevano avviato la trafila giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni per la morte del giovane. Bosco, finito in carcere per la rapina di uno scooter, si era tolto la vita aspirando il gas da una bomboletta dopo essersi chiuso nel bagno della cella.

Potenza: un’interrogazione parlamentare su agente aggredito

 

Apcom, 16 aprile 2009

 

Interrogazioni, interpellanze, mozioni, proposte di legge e altre iniziative dei consiglieri regionali della Basilicata. Qualcuna di questa interessa da vicino il mondo della Polizia Penitenziaria come quella di Sergio Lapenna (Fi-Pdl): l’ennesimo episodio di aggressione verificatosi presso la Casa circondariale di Potenza, istituto caratterizzato da un grave sovraffollamento, a fronte di una capienza di 150 detenuti ve ne sono attualmente circa 250, di cui si è reso protagonista un detenuto extracomunitario che ha colpito ripetutamente con pugni e calci il personale della polizia penitenziaria, mette in evidenza le gravi problematiche dell’istituto di pena.

Che le carceri italiane scoppiano è un dato già conosciuto, quello che forse pochi sanno è che anche nelle carceri della Basilicata si registra una fase di emergenza. Fino a quando esiste il sovraffollamento della popolazione detenuta non è possibile applicare il principio secondo cui la pena è rivolta alla rieducazione, principio che con questi numeri non è possibile attuare, anzi la mancanza di spazi determina l’inciviltà alla detenzione. Le difficili condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti aumentano le aggressioni al personale, le risse, i tentati suicidi e soprattutto gli atti di autolesionismo e, chi paga le maggiori conseguenze, è sempre il personale di Polizia penitenziaria, costretto - ha concluso Lapenna - a subire il grave disagio.

Saluzzo: detenuti con sim e cellulari... le indagini sono in corso

 

Targato Cn, 16 aprile 2009

 

Tre telefoni cellulari, una scheda telefonica ed una batteria per telefonino sono stati trovati all’interno del carcere di alta sicurezza di Saluzzo. La scoperta risale allo scorso 25 febbraio quando, all’interno delle cucine, gli agenti della polizia penitenziaria hanno sequestrato il materiale a tre detenuti reclusi nella sezione destinata ai reati comuni. Un telefono era stato nascosto dentro una saponetta tagliata a metà e poi scavata all’interno per ricavarne una sorta di tasca segreta. I tre detenuti, J.L., T.H. e M.V., rispettivamente di origine italiana romena e marocchina, hanno rifiutato di rivelare come e quando fossero entrati in possesso dei telefoni e delle schede e gli inquirenti non escludono che il materiale sequestrato fosse destinato ai detenuti reclusi nella sezione di Alta Sicurezza del carcere, la sezione riservata a persone che per titoli di reato e per la presenza di elementi di collegamento con la criminalità organizzata vengono sottoposti ad un particolare sistema di controllo.

Il regime di alta sicurezza si differenzia dal carcere duro del 41 bis per il fatto che ai detenuti giudicati responsabili di reati di particolare allarme sociale sono consentite tutte le normali attività di socializzazione, ma in un reparto riservato completamente separato da quello dove si trovano i responsabili di reati comuni; una sorta di carcere nel carcere. Gli inquirenti hanno rintracciato anche gli intestatari delle utenze dei tre telefoni, tutti cittadini stranieri residenti in Italia.

Vista la gravità del fatto, il Consiglio Interno del carcere ha subito preso i necessari provvedimenti nei confronti dei tre detenuti responsabili dell’infrazione del regolamento carcerario, disponendo l’isolamento per 15 giorni e chiedendo l’immediato trasferimento in altro carcere; una decisione che ora spetta al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dal momento che nessuno dei tre ha ritenuto di confessare la provenienza dei telefoni, nei loro confronti è scattata anche la denuncia per ricettazione, essendo il materiale di probabile provenienza illecita. Da parte degli inquirenti resta comunque alta l’attenzione su questo episodio, dal momento che nella sezione di alta sicurezza sono detenuti numerosi capi o affiliati di camorra, ‘ndrangheta e mafia.

Torino: "Voltapagina" e la Fiera del Libro si rivolge ai detenuti

 

Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2009

 

Torniamo a parlare della Fiera di Torino, anche perché ormai manca poco più di un mese al suo inizio e perché gli eventi che si svolgono al suo interno e fuori sono veramente tanti e tutti interessantissimi. Per esempio, avete mai sentito parlare di Voltapagina?

Si tratta di un progetto realizzato dalla Fiera assieme alla Casa di Reclusione di Saluzzo con il patrocinio del Comune di Saluzzo per coinvolgere i detenuti in un progetto educativo fondato sulla lettura e permettere loro di incontrare i grandi autori del salone di Torino. Quest’anno all’evento, giunto alla terza edizione, partecipano Daria Bignardi, Gianrico Carofiglio, Giuseppe Culicchia e Simonetta Agnello Hornby.

I detenuti hanno ricevuto i libri nei mesi scorsi, hanno così avuto modo di leggerli e discuterli nell’ambito di incontri con educatori e volontari, confrontandoli con le loro storie e i loro percorsi. A questo punto seguirà l’incontro con gli autori direttamente fra le mura del carcere. A questi incontri si può assistere ma, vista la location particolare in cui si svolgono, con particolari accorgimenti: le prenotazioni entro il 4 maggio. Per info: www.fieralibro.it.

Musica: nuovo album di "Presi per caso", intervista a Ferraro

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.info, 16 aprile 2009

 

Senza Passare dal Via!... Si intitola così il nuovo cd dei Presi per caso, che verrà presentato domani, giovedì 16 aprile, a partire dalle 21.45 all’Alpheus (via del Commercio 36, Roma). La mitica rock band nata nel carcere di Rebibbia è così alla sua terza incisione. Ne abbiamo parlato con Salvatore Ferraro, grande animatore dei Presi per caso.

 

Salvatore, innanzitutto raccontaci come nascono i Presi per caso.

Tutto nasce dentro le mura di Rebibbia nel 1997. La direzione quell’anno mise a nostra disposizione una sala con qualche amplificatore, qualche chitarra. Noi accogliemmo prontamente la proposta vista la necessità di... evadere da quel pozzo profondo di inerzia che è il carcere. Il progetto poi si sviluppò nel 2004 quando, ormai tutti fuori, a teatro portammo in scena "Radio Bugliolo", un musical carcerario che ebbe grandissimo successo.

 

Appunto. Voi lavorate sulla musica, ma anche sul teatro. Avete portato in scena spettacoli che sono piaciuto moltissimo al pubblico e alla critica. Da dove viene questa scelta multidisciplinare?

Deriva dal fatto che siamo in tanti, tutti diversi, tutti con la voglia di dire qualcosa sull’esperienza carceraria vissuta. E la scelta non può essere che questa: ciascuno porta il suo contributo con lo "strumento" con cui si trova più a suo agio: la chitarra, il piano, ma anche il gesto, la voce, la mimica, il turpiloquio: non ci sono limiti d’espressione. Il tutto filtrato dall’esperienza carceraria vissuta che uniforma il colore delle nostre esibizioni.

 

Come avete raggiunto la vostra formazione di musicisti e di attori?

Davvero "per caso". Una volta usciti di galera o dalle nostre vicende giudiziarie ci siamo semplicemente "sentiti" al telefono. Girava voce che qualcuno di noi aveva scritto un musical e tante canzoni molto ironiche sul carcere e che c’era la possibilità di portarle in scena per alcune settimane. Ci siamo guardati intorno ed eravamo già un’affiatatissima "banda" composta, tra musicisti e attori, da almeno quindici elementi.

 

Cosa puoi anticiparci di questo nuovo album che giovedì presenterete?

Il cd si sofferma molto sulla figura del recidivo. Tra canzoni molto comiche, ironiche e altre molto amare rappresentiamo la condizione tragica di questa figura "condannata" alla galera eterna, analizzando tutte le fasi della rieducazione in carcere e ponendo alla fine una domanda di base: e se invece di essere sbagliata la persona fosse sbagliata la cura?

 

Il carcere continua dunque a influenzare il vostro lavoro. Qual è, in questo senso, il messaggio sociale che i Presi per caso vogliono lanciare?

Più che lanciare un messaggio vogliamo raccontare una realtà. Farla conoscere bene, con tutti i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Bandite, però, le autocommiserazioni e i piagnistei. Noi raccontiamo il carcere con gag esilaranti, molta ironia, ferocia e solo una spennellata di amarezza. Al pubblico il messaggio arriva. E spesso una battuta comica riuscita è più convincente di ogni alta cosa.

Immigrazione: tra XVI e XX secolo... i clandestini eravamo noi

di Stefania Parmeggiani

 

La Repubblica, 16 aprile 2009

 

Il ministero dell’Interno nel 1942 cercò di fermare gli espatri a Bucarest dove i nostri connazionali erano malvisti. A Bombay chi aveva a che fare con la prostituzione veniva chiamato "italiano". Documenti di un’epoca nella quale a varcare le frontiere erano i poveri del nostro Paese, a volte criminali, spesso criminalizzati.

Quando i rumeni eravamo noi… e le cose andavano più o meno come oggi, solo a ruoli invertiti. Gli italiani andavano a Bucarest in cerca di fortuna, per lavorare come falegnami, nelle miniere o nelle fabbriche. Avevano un permesso di soggiorno in tasca, ma alla scadenza restavano oltre confine. Clandestini appunto. Come erano molti rumeni in Italia prima del loro ingresso nell’Unione Europea. Non graditi, come lo sono oggi che vengono guardati con rabbia e sospetto.

A metà del ‘900 non erano gli italiani a considerare i rumeni criminali, ma i rumeni a controllare le dogane per non essere invasi dagli italiani. I nostri connazionali creavano non pochi problemi: violenti, indisciplinati. La loro storia, fatta di stracci e pregiudizi, si è intrecciata con i tentativi italiani di evitare che gli indesiderabili lasciassero i confini nazionali e andassero a creare problemi alla dittatura amica del generale Ion Antonescu.

Cancellati dalla memoria di un Paese, facile a rovesciare i pregiudizi su altri, i problemi dell’emigrazione italiana in Romania escono dalla polvere degli Archivi di Stato grazie alla mostra "Tracce dell’emigrazione parmense e italiana fra il XVI e XX secolo". Oltre cento documenti, molti gli inediti. Tra questi una lettera con il timbro del ministero dell’Interno inviata il 28 agosto 1942 a tutti i questori del Regno, al ministero degli Affari esteri, al Governo della Dalmazia, alla direzione di polizia di Zara e all’alto commissario di Lubiana. Diramava un ordine preciso: evitare che gli italiani espatriassero in Romania.

Carmine Senise, uno dei partecipanti alla congiura del 25 luglio, l’uomo che propose di fare arrestare Mussolini a Villa Savoia, fu anche il capo della polizia che stigmatizzò il comportamento dei connazionali: "La legazione in Bucarest segnala che alcuni connazionali, giunti in Romania a titolo temporaneo, non lasciano il Paese alla scadenza del loro permesso di soggiorno provocando inconvenienti con le autorità di polizia romene anche per il contegno non sempre esemplare da loro tenuto e per l’attività non completamente chiara dai predetti svolta". La situazione lo preoccupava non poco: "Stante il crescente afflusso di connazionali in Romania si dispone che le richieste di espatrio colà vengano vagliate con particolare severità per quanto riguarda in special modo la condotta morale o politica degli interessati ed i motivi addotti, inoltrando a questo Ministero, Ufficio Passaporti, soltanto quelle che rivestano carattere di assoluta e inderogabile necessità".

D’altronde che tra gli emigrati non ci fossero solo lavoratori in cerca dell’America, ma anche avventurieri con pochi scrupoli è storia risaputa e testimoniata, in questa mostra, da altre missive, denunce e lamentele. La più antica è una lettera del console italiano in India che nel 1893 informava la madrepatria come a Bombay tutti coloro che sfruttavano la prostituzione venissero chiamati "italiani". Un’associazione di idee non certo lusinghiera.

I nostri connazionali, come tutti gli emigranti, non rappresentavano solo un problema di sicurezza, ma anche una risorsa economica, tanto che Mussolini, come testimonia una delle circolari esposte, vietò l’espatrio alla manodopera specializzata. Potevano partire solo operai semplici, braccia che rischiavano di finire nel tritacarne dell’immigrazione clandestina. Che esisteva allora come oggi. La mostra documenta una serie di espatri irregolari avvenuti tra il 1925 e il 1973: gli italiani arrivavano in Francia e in Corsica, ma anche in altri paesi, con permessi turistici e poi si fermavano ben oltre la scadenza, altri entravano con in mano un visto di transito, ma non lasciavano il paese in cui erano solo di passaggio. Altri ancora ottenevano passaporti falsi o raggiungevano l’America tramite biglietti inviati, ufficialmente, da parenti e amici. In realtà, una volta dall’altra parte dell’Oceano, ad attenderli erano agrari che li costringevano a turni di lavoro massacranti perché ripagassero, senza stipendio, il costo di quel viaggio della speranza. Anche questo "racket", documentato con materiale del 1908, contribuisce all’affresco di un’epoca, non troppo lontana, in cui i rumeni - criminalizzati, non graditi o sfruttati - eravamo noi.

Immigrazione: Ue; in Italia pochi progressi su lotta a razzismo

 

Corriere della Sera, 16 aprile 2009

 

Il governo italiano, nell’ ultimo anno, ha fatto "passi insufficienti nella giusta direzione sul fronte della lotta al razzismo, per assicurare eguali diritti alle popolazioni Rom e Sinti, per chiarire la propria posizione in merito alla politica migratoria adottata". E anche sul fronte della "mancata osservanza delle richieste della Corte di Strasburgo di sospendere l’esecuzione delle espulsioni verso Paesi sospettati di praticare la tortura".

Questo il giudizio espresso da Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in occasione della pubblicazione del suo secondo rapporto sull’Italia in meno di un anno. Rapporto che fa seguito alla missione compiuta dal commissario a metà dello scorso gennaio. Nel rapporto Hammarberg scrive "d’essere particolarmente preoccupato dai resoconti che continuano a evidenziare una tendenza al razzismo e alla xenofobia, che occasionalmente sfocia in atti estremamente violenti, rivolti principalmente contro immigrati, Rom e Sinti o cittadini italiani con origini straniere, anche in ambito sportivo".

Per il commissario Hammarberg, le autorità italiane dovrebbero "condannare queste espressioni con maggiore forza e reintrodurre pene più severe per questi reati". Hammarberg invece descrive come molto positivo il fatto che una parte della classe politica italiana presti maggiore attenzione nell’esprimere certe opinioni: "Un anno fa - afferma - reagii alle affermazioni fatte da alcuni esponenti politici perché le ritenevo ostili verso certe minoranze. Ora noto che i politici sono molto più attenti".

Immigrazione: il pacchetto sicurezza minaccia diritto alla salute

 

Comunicato stampa, 16 aprile 2009

 

Medici e operatori sanitari in piazza con i migranti il 19 aprile.

Il 19 aprile prossimo, in Piazza dell’Unità a Bologna, si svolgerà per il quarto anno consecutivo la Giornata per i Diritti e la Libertà dei Migranti, promossa dal Coordinamento Migranti di Bologna e Provincia. Le associazioni firmatarie, che a vario titolo si occupano di migrazione e diritto alla salute nel territorio bolognese, aderiscono all’iniziativa e saranno presenti con banchetti informativi. Rappresentanti delle associazioni prenderanno inoltre parte all’assemblea pubblica prevista per le ore 18.00.

Medici, studenti e operatori sanitari, che volontariamente si occupano di fasce marginalizzate e deboli della società, saranno in piazza per portare nuovamente all’attenzione quanto gli attuali provvedimenti in discussione in Parlamento, unitamente alla difficile congiuntura economica, costituiscano serie minacce per la salute dei migranti e della popolazione tutta. È noto infatti quanto le condizioni di marginalità, precarietà economica e discriminazione sociale - nelle quali sempre più si trovano confinati gli immigrati nel nostro paese - costituiscano fondamentali determinanti di salute.

Come già fatto nelle scorse settimane unitamente ad un’ampia parte della comunità sanitaria e dell’opinione pubblica, ci esprimiamo ancora con forza contro l’emendamento che cancella il divieto di segnalazione nei confronti degli immigrati irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie. L’approvazione di tale emendamento in via definitiva, contestualmente all’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale, configurerebbe di fatto un obbligo di denuncia, inaccettabile in quanto discriminatorio e lesivo del diritto fondamentale alla salute (oltre che contrario all’obbligo costituzionale sancito dall’art. 32 ed alla stessa deontologia medica).

Altre norme contenute nel "Pacchetto Sicurezza" sono da rigettare in quanto altrettanto ingiustificate, ingiuste e pericolose dal punto di vista sanitario: l’impossibilità per gli immigrati irregolari di registrare alla nascita i propri figli all’anagrafe, ad esempio, rende - come segnalato dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e dall’Associazione Culturale Pediatri in un appello congiunto - inesigibile per i minori qualunque diritto esponendoli di conseguenza a rischi inaccettabili.

In un senso più ampio, inoltre, l’attuale crisi economica avrà ripercussioni in termini di salute soprattutto sulle fasce deboli della società. Come operatori sanitari abbiamo dunque il dovere di segnalare quanto un mancato intervento, o peggio un intervento errato, possa andare ad aggravare i rischi per la salute e le loro prevedibili conseguenze.

Per questo chiediamo al Governo e ai Parlamentari che vengano stralciate le suddette norme a sfavore degli immigrati contenute nel Pacchetto Sicurezza, e più in generale che si rivaluti seriamente l’impianto normativo vigente relativo alle norme per la regolarizzazione che - soprattutto in un momento di crisi - rischia di "creare" un numero importante di immigrati irregolari a causa della perdita del posto di lavoro e conseguentemente del permesso di soggiorno. Immigrati irregolari per i quali, lo ricordiamo, sussistono tuttora gravi barriere di accesso ai servizi di prevenzione e cura (mancanza di accesso ad una medicina di base pubblica e diffusa sul territorio, costo delle prestazioni di secondo livello, competenza culturale del sistema sanitario nazionale ecc.).

Ci rivolgiamo anche alle istituzioni locali e regionali, affinché facciano quanto in loro potere al fine di sensibilizzare i rappresentanti politici nazionali alle tematiche prima descritte, e si adoperino per intraprendere azioni a livello territoriale volte a tutelare la popolazione tutta nell’interesse della stabilità sociale e della salute individuale e collettiva. Ricordiamo ad esempio il caso degli stranieri da poco entrati nella Comunità Europea (rumeni, bulgari), per i quali si è ancora in attesa di norme chiare e soprattutto applicate ed efficaci nella pratica per l’accesso alle prestazioni sanitarie essenziali all’interno del Sistema Sanitario Regionale.

La salute è un bene collettivo e va promossa e tutelata a livello di ogni individuo affinché tutti ne possiamo effettivamente fruire[Anna Rabi3]: questo - come operatori della salute - siamo chiamati a portare avanti, nelle parole e nei fatti, e per questo saremo domenica in piazza al fianco dei migranti e di tutti i cittadini che vorranno partecipare ad una giornata di festa e di civiltà.

 

Associazione Sokos

Gruppo Prometeo (Facoltà di Medicina e Chirurgia)

Salute Senza Margini

Fisioterapisti Senza Frontiere

Amiss (Associazione Mediatrici Interculturali in ambito Sociale e Sanitario)

Fiori di Strada

Droghe: scienza e narco-test; ma la certezza è solo nella pena

di Susanna Ronconi

 

Il Manifesto, 16 aprile 2009

 

Qualche mese fa, il direttore del Dipartimento politiche antidroga Giovanni Serpelloni invitava i genitori a effettuare sui figli il test del capello, per verificare se assumono sostanze, proprio come si fa dal dentista per il controllo delle carie (sic!).

Invito ribadito il 1 aprile, nel corso della trasmissione di Radio Due "28 minuti", accompagnato dalla raccomandazione di evitare il "fai da te" casalingo per rivolgersi ai professionisti. L’allarme crescente attorno a incidenti stradali causati sempre più - si dice - dall’uso di sostanze ha prodotto innovazioni normative che portano fino al carcere (e all’imputazione di omicidio colposo in caso di vittime) per chi è trovato positivo ai test, o che meno drammaticamente revocano la patente di guida: cosa che può avere effetti comunque importanti sulla vita delle persone, a cominciare da quella lavorativa.

Un ragazzino che voglia guidare il motorino deve passare attraverso l’analisi del capello, e una qualsiasi traccia positiva - non importa quando e quanto - glielo nega. In tema di lavoro, poi, le norme che autorizzano il test su alcune categorie che ricoprono mansioni delicate, da ovvia e dovuta prevenzione, si sono fatte larghe e indefinite, fino a consentire ai datori di lavoro di predisporre controlli indiscriminati e senza dover fornire troppe ragioni.

Tanto che i sindacati - che pure vedono in certi controlli una tutela anche per il lavoratore stesso - chiedono al governo la riapertura di un tavolo ad hoc per ridiscutere criteri e tutele. Il delicato bilanciamento tra prevenzione (anche per la incolumità di terzi) e garanzia della libertà e della privacy di ognuno è tema frettolosamente messo da parte, sull’assunto che il controllo è più efficace dell’azione basata sull’educazione.

Anche qui, come in tutte le politiche sulla cosiddetta "sicurezza", si predilige la rassicurazione alla sicurezza effettiva. C’è poi un problema assai concreto: tutto passa attraverso la misurazione "scientifica" dell’avvenuta assunzione di sostanze e - si deve o dovrebbe intendere - della conseguente alterazione che mette se stessi e gli altri "a rischio". Sull’ipotetico accertamento dello stato di alterazione ha già scritto in questa rubrica Pier Paolo Pani (28/1), spiegando con chiarezza che rilevare la presenza di metaboliti nelle urine o attraverso l’analisi del capello non significa avere l’evidenza del nesso assunzione-alterazione.

Tradotto rispetto all’alcool sarebbe come dire: possono guidare (o lavorare) solo gli astemi, invece che chi è sobrio al momento. Per di più, si scopre che perfino nella rilevazione dell’assunzione c’è poco di scientifico. È grazie a uno studio condotto dall’Istituto Superiore di Sanità italiano (ISS), insieme a ricercatori spagnoli, che oggi sappiamo della inattendibilità dei test, della fragilità di quell’assunto "scientifico" che dovrebbe essere la base della certezza del controllo e della sanzione.

È dal 2002 che l’ISS si dedica a migliorare la performance dei laboratori di analisi, quelli del Servizio sanitario nazionale e quelli di Medicina forense, con l’obiettivo di migliorare le tecniche e dunque l’attendibilità dei risultati a fronte di troppo ampi margini di errore.

Nel 2006 è stata condotta una nuova fase della ricerca, per verificare se gli interventi degli anni precedenti avessero dato buoni risultati. Tra i 32 laboratori inclusi, ben 14 hanno fornito esiti errati, sia falsi positivi che falsi negativi, e le conseguenze possono essere pesanti in entrambi i casi. Dunque il 40% dei centri pubblici sbaglia. Non sappiamo cosa accade in quelli privati, la ricerca non li ha analizzati perché si sono rifiutati.

E si può capire, con un guadagno fino a 200 euro per capello. La lettura della fonti possibili dell’errore non è a sua volta tranquillizzante: sbagliata preparazione del campione, uso di metodologie di analisi non validate scientificamente, errata valutazione dei dati quantitativi e qualitativi. Un’indeterminatezza davvero inquietante cui sono legate le sorti di milioni di persone, che nulla ne sanno, perché "test" e "scienza" continuano ad essere per i più parole che non si discutono. Le parole del potere.

Eritrea: sta diventando gigantesca prigione; evitare i rimpatri

 

Apcom, 16 aprile 2009

 

Il governo eritreo "sta trasformando il paese in una gigantesca prigione", ricorrendo a una politica di "detenzione e tortura sistematiche" e di "servizio militare prolungato" contro i suoi cittadini. È quanto denuncia oggi Human Rights Watch (Hrw).

"La detenzione e la tortura sistematiche dell’Eritrea verso i suoi cittadini e la politica di prolungare la coscrizione militare sta mettendo in crisi i diritti umani e sta spingendo un crescente numero di eritrei a fuggire dal paese", sottolinea l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo in una relazione diffusa oggi a Nairobi.

"Il governo eritreo sta trasformando il paese in una gigantesca prigione", ha commentato Georgette Gagnon, direttore per l’Africa di Hrw. L’organizzazione accusa il governo eritreo di "gravi violazioni dei diritti umani, come arresti arbitrari, tortura, condizioni di detenzione spaventose, lavoro forzato e gravi limitazioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto".

"La tortura, i trattamenti crudeli e degradanti e il lavoro forzato sono moneta corrente per i coscritti e i detenuti", denuncia ancora Hrw, sottolineando che i prigionieri sono "generalmente rinchiusi in celle sovraffollate" o "in cointainer marittimi che raggiungono temperature bollenti di giorno e rigide di notte". Un ex prigioniero politico detenuto sull’isola di Dahlak, nel Mar Rosso, ha raccontato a Hrw che pesava "44 chili quando ho lasciato Dahlak".

"La mia emoglobina era ridotta a zero. Vivevamo sotto terra, la temperatura era di 44°C; non c’era mai una parola di umanità - ha raccontato - a Dahlak si aspettano due cose: il trasferimento o la morte". Secondo Hrw, numerosi prigionieri sono detenuti per le loro opinioni politiche o religiose o perché hanno cercato di sottrarsi al servizio nazionale o di lasciare il Paese.

"L’Eritrea dovrebbe immediatamente dare spiegazioni su centinaia di prigionieri scomparsi e permettere a osservatori indipendenti di avere accesso alle sue prigioni", ha chiesto l’organizzazione. Secondo Hrw, sono "migliaia" gli eritrei che sono fuggiti dal Paese negli ultimi anni, cercando rifugio in particolare in Libia, Sudan, Egitto e Italia.

"Centinaia di eritrei sono stati rimpatriati a forza da Libia, Egitto e Malta in questi ultimi anni e sono stati messi sotto custodia e torturati al loro rientro", denuncia Hrw. "Gli eritrei non dovrebbero in alcuna circostanza essere rimpatriati, perché rischiano quasi certamente la detenzione e la tortura", è invece l’appello di Gagnon. Il servizio militare dura per legge 18 mesi, ma può essere prolungato per anni.

Iraq: 26 mila persone detenute, in carceri gestite da Baghdad

 

Apcom, 16 aprile 2009

 

Circa 26.200 persone sono detenute nelle carceri gestite dalle autorità irachene. Lo ha indicato il ministro dei Diritti umani di Baghdad, Wejdane Mikhail. Secondo gli ultimi dati del suo ministero, sono in carcere 782 minorenni e 422 donne. L’esercito degli Stati Uniti trattiene ancora quasi 13.000 detenuti che gradualmente trasferisce agli iracheni, conformemente all’accordo di sicurezza firmato a novembre tra Baghdad e Washington.

La settimana scorsa, le autorità irachene avevano annunciato che avrebbero passato al setaccio i fascicoli di migliaia di iracheni scarcerati nelle ultime settimane dopo un’ondata di attentati a Baghdad che ha ricordato i momenti peggiori delle violenze. Il ministro iracheno ha chiesto alle autorità di accelerare il riesame dei casi di scarcerazione di detenuti per ridurre la sovrappopolazione carceraria, ma ha tuttavia ritenuto che le condizioni di vita nei penitenziari siano migliorate durante l’anno scorso.

"Il problema più grave che riguarda i detenuti nelle carceri statunitensi è sapere se devono essere incriminati e presentarsi di fronte a un giudice", ha detto nel corso di una conferenza stampa, precisando che la maggior parte dei detenuti non è mai stata accusata. Conformemente al patto di sicurezza firmato a novembre tra Washington e Baghdad, l’esercito statunitense deve liberare i prigionieri iracheni che detiene o trasferirli alle autorità irachene se ritiene che questi imputati rappresentino un pericolo per la sicurezza.

Iraq: sergente Usa riconosciuto colpevole di uccisione 4 iracheni

 

Apcom, 16 aprile 2009

 

Un sergente maggiore statunitense è stato riconosciuto colpevole da una corte marziale in Germania dell’omicidio di quattro detenuti iracheni, mentre è stato assolto per un quinto omicidio.

Il sergente maggiore John Hatley, 40 anni, è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio nel 2007 di quattro detenuti che erano sospettati di aver organizzato un’imboscata contro soldati statunitensi a Baghdad. Altri due soldati statunitensi, Michael Leahy e Joseph Mayo, erano stati già condannati per la loro partecipazione a questi omicidi in processi precedenti, uno all’ergastolo, l’altro a una pena di 35 anni di reclusione. Secondo molte testimonianze, compresa quella di uno dei due sergenti già condannati, i quattro iracheni che erano stati catturati dall’esercito, ma che dovevano essere rilasciati in assenza di prove, furono giustiziati con un colpo alla testa e gettati in un canale nella zona sudovest della capitale irachena. I corpi non furono mai ritrovati.

Usa: il carcere di San Quintino punta al "business immobiliare"

 

Ansa, 16 aprile 2009

 

Il famoso carcere californiano di San Quintino probabilmente sarà sfrattato. La struttura, costruita nel 1850 su un promontorio isolato in mezzo al verde, gode di una vista magnifica sulla baia di San Francisco e, proprio la sua splendida posizione, ha stimolato le richieste del mercato immobiliare, assecondate da alcuni membri del Parlamento californiano.

"Un carcere di massima sicurezza non dovrebbe essere situato su una proprietà costiera che può valere miliardi di dollari", afferma il senatore Jeff Denham che ha proposto la vendita della prigione:" Potremmo costruire, con una parte dei ricavi della vendita, una prigione all’interno del territorio". Il carcere di San Quintino è situato su un’ampia proprietà di oltre 200 ettari e comprende circa 200 edifici, comprese abitazioni per 90 dipendenti della prigione.

La campagna di Denham e di altri parlamentari californiani è imperniata sugli alti costi di gestione di San Quintino (circa 260 milioni di dollari l’anno scorso) e sui lavori di manutenzione continua per una struttura nata oltre un secolo e mezzo fa. Il carcere ospita nel braccio della morte 648 condannati che vivono in condizioni di sovraffollamento. Il governatore Arnold Schwarzenegger ha stanziato 360 milioni di dollari per rendere più confortevole la vita dei condannati a morte.

Ma lo stanziamento è considerato uno spreco di denaro da coloro che si battono per una soluzione ancora più radicale: trasferire i prigionieri di San Quintino altrove per abbattere l’antiquato carcere e creare invece al suo posto un complesso immobiliare di lusso, con splendida vista sulla baia, e a breve distanza dalla elegante cittadina di Larkspur, nella Contea di Marin.

La vendita del terreno dove si trova il carcere potrebbe far confluire oltre un miliardo di dollari nelle affamate casse dello Stato californiano e questo ha reso l’iniziativa del trasferimento dei detenuti gradita a diversi parlamentari che, altrimenti, non l’avrebbero appoggiata con tanto vigore. La chiusura del carcere a beneficio del mercato immobiliare era già stata promessa nel 1971 da un altro governatore della California: Ronald Reagan. Ma non era stata mantenuta.

 

 

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