Rassegna stampa 15 aprile

 

Giustizia: nella ricostruzione c'è rischio di infiltrazioni mafiose 

di Meo Ponte

 

La Repubblica, 15 aprile 2009

 

I documenti sono emersi dalle stesse macerie da cui vigili del fuoco hanno strappato i corpi martoriati di più di 20 studenti. Progetti di ristrutturazione e revisione presentati nel 2003, poi nel 2004 e infine nel 2005. E mai realizzati. Quelle carte sgualcite ritrovate dai pompieri tra le rovine della Casa dello Studente e consegnate alla Squadra Mobile potrebbero rappresentare il primo indizio per la Procura della Repubblica de l’Aquila.

Ieri gli investigatori hanno sequestrato altri reperti anche tra quanto resta della Prefettura e di alcune case in Via XX Settembre e Via Gualtieri d’Ocre, il cui crollo ha causato diverse vittime. Alfredo Rossini, il capo della Procura della Repubblica dell’Aquila, ha infatti un piano preciso per quella che definisce "la madre di tutte le inchieste".

E per individuare i primi responsabili la Procura ha chiesto l’acquisizione degli atti della commissione parlamentare istituita a suo tempo per comprendere come l’ospedale progettato nel 1960 fu realizzato soltanto nel 2000 e messo in funzione senza l’obbligatorio collaudo. In più Rossini non nasconde la sua preoccupazione per quello che sarà il dopo-terremoto.

"Qui arriverà un fiume di soldi per la ricostruzione. Molto appetibile per mafia e camorra. È scontato ipotizzare che le organizzazioni criminali che non sono estranee all’Abruzzo cercheranno di infiltrarsi. Ne ho parlato con il procuratore nazionale dell’Antimafia Piero Grasso che mi ha espresso le sue preoccupazioni al riguardo. E se per ora non abbiamo ancora scoperto tracce mafiose evidenti è perché la ricostruzione è ancora da iniziare".

Da parte sua Grasso aggiunge: "L’Abruzzo non è tradizionale terra di mafia. Le eventuali infiltrazioni camorristiche o più in generale mafiose, dovrebbero risultare più visibili". Interviene anche il ministro dell’Interno Roberto Maroni: "Assicuro che vigileremo perché la criminalità organizzata se ne stia lontana. Trovo giusto l’allarme lanciato dal procuratore Grasso e dallo scrittore Roberto Saviano circa la nascita del cosiddetto "partito del terremoto", che va sicuramente evitata".

Ma del fatto che nella regione ci sia una presenza discreta di mafia e camorra Rossini è consapevole. È stato lui a coordinare l’inchiesta che alcuni mesi fa a Tagliacozzo ha scoperto che al vertice di una piramide di società immobiliari facenti capo alla Sirco srl che gestiva un residence extralusso e un gigantesco campeggio c’era il figlio di Ciancimino. A Vasto la polizia ha portato alla luce un giro di estorsioni orchestrate dalla camorra napoletana. Nella Marsica i carabinieri del Reparto Operativo hanno rilevato la presenza di elementi dei clan campani, tra cui alcuni esuli da Scampia.

Giustizia: nuove Brigate Rosse; arresti domiciliari per Banelli

 

Corriere della Sera, 15 aprile 2009

 

Il Tribunale di Sorveglianza accoglie un ricorso della difesa. La prima pentita delle nuove Br lascia il carcere fiorentino di Sollicciano.

Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, accogliendo un ricorso della difesa, ha concesso gli arresti domiciliari a Cinzia Banelli, pentita delle nuove Brigate Rosse, fino a oggi detenuta nel carcere fiorentino di Sollicciano. La richiesta di detenzione domiciliare era stata avanzata dai legali dell’ex Compagna So più di un anno fa anche alla luce del fatto che il Viminale aveva dato il suo via libera per l’ammissione al programma di protezione riservato ai pentiti e ai collaboratori di giustizia.

Il tribunale di sorveglianza di Roma, però, aveva espresso parere negativo ritenendo l’istanza prematura anche perché all’epoca la Banelli aveva beneficiato solo di un permesso, troppo poco per poter prendere in considerazione la domanda di detenzione domiciliare in un luogo riservato. E così la Banelli, condannata a 12 anni di reclusione a Roma per l’omicidio di Massimo D’Antona e per alcune rapine di autofinanziamento e a 10 anni e cinque mesi a Bologna per il delitto di Marco Biagi, è rimasta ancora in cella.

I difensori della Banelli hanno sempre insistito sul’atteggiamento collaborativo che l’ex militante brigatista ha avuto con magistrati e investigatori, arrivando a ripudiare la lotta armata e a dare un taglio netto con il passato. Ex dipendente ospedaliera, la Banelli, sposata e mamma di un bimbo, fu arrestata il 24 ottobre del 2003 assieme ad altri militanti delle Br.

Giustizia: D’Antona; le vittime per la legge italiana non esistono

 

Agi, 15 aprile 2009

 

"Vorrei ricordare giornalmente queste cose al presidente francese Sarkozy che non ha concesso l’estradizione a Marina Petrella per motivi umanitari. Vorrei dirlo al presidente brasiliano Lula che non concede l’estradizione a Battisti come se nelle carceri italiane si applicasse la tortura".

Così Olga D’Antona, vedova di Massimo D’Antona (consulente del Ministero del Lavoro ucciso dalle Nuove Br il 20 maggio del 1999), ha commentato gli arresti domiciliari a Cinzia Banelli intervenendo a Radio 24. La D’Antona si è detta "amareggiata, pur rispettando la decisione dei magistrati".

"Le vittime - ha proseguito - per la legge italiana non esistono. Quando per esempio si concede il rito abbreviato a queste persone, una scelta vergognosa, le vittime vengono addirittura private della possibilità di assistere al dibattimento. E non è che si chiede alle vittime se siano d’accordo. Nel processo italiano - ha concluso la D’Antona - le vittime non hanno titolo, sono quasi di disturbo perché se poi vengono intervistate possono dire cose sgradevoli".

Giustizia: uomini e topi; discariche di una società indifferente

di Chiara Saraceno

 

La Repubblica, 15 aprile 2009

 

Quei luoghi al di là del vivibile sono i depositi di ciò che la normalità non riconosce: ecco perché agli emarginati va dato un senso di appartenenza.

Quando alla fine degli anni Quaranta, grazie al libro di Carlo Levi "Cristo si è fermato ad Eboli", si "scoprirono" le condizioni di vita degli abitanti dei Sassi di Matera, la coscienza pubblica ne fu fortemente turbata. Uomini, donne e bambini vivevano in abitazioni ricavate da grotte nella montagna, spesso in una promiscuità stretta con i loro animali, e prive di elementari condizioni igieniche. In un paese pur ancora molto povero e provato dalla guerra, ma che faceva i primi passi nella democrazia, sembrava inaccettabile che qualcuno vivesse in simili condizioni di degrado ambientale, che facevano sì, tra l’altro, che Matera avesse il non invidiabile primato della mortalità infantile in Italia. Ne seguì una delle politiche di reinsediamento più illuminate del dopoguerra, anche se non mancarono successivamente critiche. E molti altri luoghi rimasero in non dissimili condizioni di degrado.

Anni dopo, i Sassi di Matera, da simbolo di un degrado estremo e inaccettabile, divennero patrimonio culturale dell’umanità, sotto l’egida dell’Unesco. Perché essi testimoniavano di una pluricentenaria storia di civiltà e di intelligente uso delle risorse disponibili, prima del degrado dovuto alla progressiva marginalizzazione economica di chi vi abitava e all’assedio di nuovi insediamenti abitativi, che ne avevano rotto l’equilibrio ecologico.

I tombini, i vagoni ferroviari abbandonati, gli scavi, gli edifici fatiscenti in cui si riparano i disperati dell’immigrazione, non diventeranno mai patrimonio culturale dell’umanità, come non lo diventeranno i molti luoghi in cui una umanità rifiutata, "di scarto", vive negli interstizi - letteralmente - della vita di noi "civili".

Essi non rappresentano la fase degradata, o anche solo superata, di un processo di umanizzazione del territorio e di costruzione di una vita associata. Rappresentano piuttosto i luoghi di transito, o di deposito, di ciò che una società rifiuta, getta via, non riconosce come propri: che si tratti di cose o di persone. Queste condizioni non riescono neppure a mobilitare la coscienza civile e politica, salvo che sotto forma di rifiuto, di difesa - comprensibile, si badi bene - da un degrado che rischia di allargarsi anche negli spazi fisici e sociali limitrofi.

Perciò solo o prevalentemente sotto forma di sgomberi, ronde, centri di detenzione e così via. Abitanti clandestini di luoghi "asociali", queste persone diventano esse stesse il simbolo di un’asocialità percepita come pericolosa per gli altri, quindi da rimuovere. Così, cacciate da un posto, troveranno qualche cunicolo da un’altra parte, in nuove discariche di rifiuti materiali e umani; o verranno sostituite da altri nell’avvicendarsi di flussi migratori che la crisi economica mondiale, con il perdurare di conflitti di vario genere, non farà che accelerare.

La soluzione trovata allora per gli abitanti dei Sassi di Matera non è ovviamente adatta per affrontare questi problemi. Non solo perché là si trattava di abitanti con una lunga storia di insediamento locale, qui invece di una popolazione mobile, (nelle intenzioni) di passaggio, la cui presenza è spesso irregolare. Non si tratta di creare nuovi insediamenti abitativi. E neppure di abbandonare ogni velleità di regolare i processi migratori, accogliendo al meglio chiunque decida di venire nel nostro paese. Si tratta piuttosto di trovare una via di mezzo tra la faccia feroce dell’espulsione, della richiesta di denuncia dei clandestini a ospedali e scuole, delle regole rigide sui requisiti in caso di ricongiungimento familiare, e l’indifferenza con cui consideriamo le discariche umane cui passiamo accanto, fino a che non ci toccano, e spaventano, da vicino.

L’Italia è uno dei paesi in cui editti rigidissimi più o meno efficaci si accompagnano a una tolleranza di condizioni di vita inimmaginabili nella maggior parte dei paesi europei. Sarà perché, sia pure non sempre e dappertutto, c’è un livello piuttosto elevato di comportamenti illegali diffusi, di un utilizzo abusivo e poco civilizzato degli spazi comuni da parte dei cittadini. Sarà perché manca un’attenzione sistematica per le condizioni di miseria e in generale non esistono politiche di contrasto alla povertà e al degrado sociale.

Dai poveri ci si aspetta che "si arrangino" come possono. Forse per questo qui è più facile che i migranti più disperati "si arrangino" anche così: vivendo come rifiuti umani. Purché rimangano nascosti e non disturbino e fino a che qualcuno non solleva un tombino decidendo, per quella notte, di "vedere" e far vedere.

È giusto chiedere un miglior controllo del territorio e impedire che si creino sotto-mondi privi di ogni regola, di decoro e decenza. Ma per farlo occorre restituire ai disperati che si adattano a queste condizioni il senso che appartengono, appunto, alla società degli umani: stranieri forse, ma non estranei, la cui umanità non è un nostro problema.

Una società in cui il controllo non si esercita in modo casuale e arbitrario, e in cui il bisogno di nutrire, vestire, accompagnare è sentito ed esercitato non solo come un dovere di umanità essenziale, ma come uno strumento indispensabile per il mantenimento dell’ordine e della coesione sociale: che oltre al controllo ha anche bisogno della fiducia e del rispetto reciproco.

Giustizia: L’Aquila; preoccupazione e proposte per i processi

di Mauro W. Giannini

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 15 aprile 2009

 

Dopo la solidarietà e le donazioni, magistrati ed avvocati si attivano con iniziative diverse per fronteggiare i problemi concreti della giustizia abruzzese a seguito del terremoto. Infatti a L’Aquila il palazzo di giustizia è inagibile e solo alcuni uffici sono stati spostati nella sezione minorile, con difficoltà di trasportare i fascicoli e l’intera documentazione, mentre molti studi legali sono inagibili o irraggiungibili a seguito del sisma e quindi viene di fatto impedita l’attività forense.

Dall’assemblea straordinaria indetta dall’Anm distrettuale abruzzese a Pescara, e cui ha partecipato anche un esponente del Csm, sono scaturite anche importanti decisioni operative, che coinvolgono la Regione Abruzzo, il Csm, magistrati, avvocati, parlamentari di maggioranza e opposizione. L’iniziativa più importante e con i maggiori effetti pratici è infatti l’istituzione di un Tavolo permanente dei capi degli uffici giudiziari, il Csm, l’Anm, l’avvocatura abruzzese, i rappresentanti del personale, con la Protezione civile, per individuare e gestire caso per caso, con la maggiore tempestività e operatività possibili, le soluzioni più idonee per ogni problema e per ogni ufficio giudiziario. L’impegno è quello di convocare la prima riunione a L’Aquila già questa settimana o, al più tardi, la prossima.

Dal canto suo, la Camera penale dell’Aquila, dopo una precisa ricognizione delle problematiche afferenti l’esercizio dell’attività forense post terremoto, ha chiesto al Ministro interventi normativi urgenti e l’Unione Camere Penali ha dato il suo sostegno alla richiesta. I penalisti aquilani fanno rilevare che "devono essere segnalati due distinti tipi di difficoltà: da un lato si è verificato che magistrati, pur (ovviamente) al corrente della tragedia che ha colpito il territorio aquilano, hanno palesato difficoltà nel concedere rinvii delle udienze che vedevano impegnati, in qualità di difensori, avvocati del Foro dell’Aquila, sul presupposto che l’impedimento del singolo individuo non sarebbe necessariamente provato; d’altro canto, è chiaro che non tutti i giudicanti delle varie sedi territoriali italiane possono essere al corrente del fatto che il difensore assente senza allegazione di impedimento alcuno, sia un avvocato aquilano, impossibilitato non solo a comunicare tramite i comuni strumenti il proprio impedimento, ma finanche a rammentare l’esistenza dell’impegno professionale per impossibilità di accedere agli studi legali e al materiale ivi contenuto, agende, fascicoli, etc."

La Camera penale de L’Aquila fa rilevare che la giustificazione dell’assenza concernente difensori di provenienza aquilana "non può essere lasciata al caso e all’occasionale decisione del singolo giudicante" e pertanto si dovrebbe disporre che, su tutto il territorio nazionale, "in caso di assenza apparentemente immotivata del difensore, unita all’assenza di notizie in merito alla provenienza del medesimo, il Giudice provveda - tramite un semplice controllo in atti o, al più, tramite il locale Consiglio dell’Ordine - ad accertare l’origine del difensore e, in caso di acclarata provenienza dal territorio aquilano, a disporre il rinvio dell’udienza ritenendo provato l’impedimento" sulla base del cosiddetto fatto notorio. Attualmente infatti la legge dispone che sia il difensore a giustificare la propria assenza, ma in questo caso per molti avvocati farlo potrebbe risultare impossibile.

I penalisti rilevano che in questo caso "il proseguimento dell’udienza in assenza del difensore nominato, darebbe luogo ad una serie di nullità e, dunque, impugnazioni successive destinate certamente al successo, con indiscutibile aggravio della funzione" e chiedono "che identiche regole dovrebbero essere esplicitamente previste per i difensori di parte civile, ad evitare una discriminazione che apparirebbe tanto più censurabile in considerazione delle regole europee in materia di tutela della vittima del reato".

I penalisti citano poi una nota del Ministero secondo cui "è stata istituita, su indicazione del Guardasigilli, l’unità di crisi, composta da due magistrati e quattro funzionari dell’amministrazione, che sarà coadiuvata dal personale dell’ufficio tecnico comunale, dai vigili del fuoco e della protezione civile. L’unità di crisi si occuperà della gestione del personale, del recupero dei fascicoli di più urgente trattazione, con particolare riguardo verso quelli con imputati detenuti, del recupero di tutti gli altri fascicoli, nonché della programmazione delle prossime udienze non differibili". L’unità di crisi dovrebbe organizzare il recupero dei fascicoli esistenti presso il Palazzo di Giustizia.

I penalisti de L’Aquila ritengono indispensabile "l’emissione di un provvedimento governativo che preveda una sospensione come minimo semestrale dei processi in corso presso tutte le istituzioni giudiziarie aquilane (Tribunale e Corte d’Appello, civili e penali), pena un caos che coinvolgerà l’intero Distretto di Corte d’appello abruzzese" e suggeriscono di pensare a misure finalizzate alla gestione non solo delle urgenze ma di tutti i fascicoli, civili e penali, conservati presso il Palazzo di Giustizia e ad una riorganizzazione che tenga conto delle date di udienza già fissate e che l’unità di crisi lavori in stretto coordinamento con il Consiglio dell’Ordine Forense e/o con la Camera Penale aquilana, in considerazione del fatto che nessuno degli avvocati aquilani è attualmente in possesso delle proprie agende, dei propri computer e dei propri fascicoli: "il coordinamento con il CdO e con la Camera Penale consentirà di contattare i legali di volta in volta interessati dalla trattazione delle cause, comunicare date d’udienza e mettere a disposizione dei medesimi i fascicoli ove necessario".

Altri due suggerimenti dei penalisti aquilani per affrontare la crisi, sono "organizzare un servizio telefonico collegato all’unità di crisi, tenuto conto del fatto che tutti i legali italiani che seguono processi ubicati su territorio aquilano sono completamente sprovvisti di notizie in merito alla celebrazione di udienze" e "in via prioritaria il recupero dei fascicoli relativi ai procedimenti di gratuito patrocinio dei difensori aquilani, attualmente giacenti con la massa degli altri all’interno del Tribunale dichiarato inagibile, e che si provvedesse ad istituire una corsia preferenziale per il pagamento degli onorari già liquidati, al fine di consentire -in particolare ai giovani avvocati del Foro- di accedere ad un introito ad essi comunque già dovuto e, nella presente situazione, tanto più indispensabile", vista la situazione economica che grava la popolazione della provincia a seguito del sisma.

Genova: fallito tentativo evasione di ecuadoriano dal carcere

 

Apcom, 15 aprile 2009

 

Sventato tentativo di evasione, a Pasqua, dal carcere di Pontedecimo a Genova. Protagonista un cittadino ecuadoriano, recluso da pochi giorni. Secondo una prima ricostruzione della vicenda, l’uomo avrebbe cercato inutilmente di rimuovere la grata della propria cella, poi, nel tentativo di dileguarsi, avrebbe saltato il muro perimetrale della Casa Circondariale.

A impedire la fuga, l’agente di polizia penitenziaria di turno che ha dato l’allarme, riuscendo a catturare il detenuto che verrà giudicato per direttissima per il reato di tentata evasione. Secondo Michele Lorenzo, segretario regionale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, se fossero state ascoltate le proteste degli operatori, che da tempo denunciano carenze di organico, si sarebbe potuto evitare l’episodio.

 

I sindacati di polizia penitenziaria: inascoltati

 

La situazione carceraria italiana è nota - sovraffollamento dei detenuti, carenza di personale di polizia penitenziaria - e la Liguria non fa eccezione. Il tentativo di fuga di un detenuto da uno degli istituti genovesi è solo l’ultimo episodio che mette in luce i limiti del sistema carcerario. Episodio piccolo ma sufficiente, visto il reiterarsi di situazioni di rischio, per far tornare i sindacati liguri di polizia penitenziaria a parlare.

Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, per voce del segretario regionale Michele Lorenzo evidenzia che situazioni come quella relativa al tentativo di fuga avvenuto il giorno di Pasqua potrebbero essere evitate se maggiore attenzione fosse data ai rilievi del sindacato. Il segretario del Sappe denuncia infatti la cronica mancanza di idonei organici, "da tempo - aggiunge ai cronisti - segnaliamo che vi è un solo agente di turno per più piani detentivi, non può assicurare la sua presenza contemporaneamente".

Poi Michele Lorenzo continua "carenza d’organico e caotica amministrazione, sono elementi che pregiudicano l’andamento di un delicato sistema come quello penitenziario". E il Sappe sottolinea anche i dati relativi al carcere di Pontedecimo, quello dove è avvenuto il tentativo di fuga: "a fronte di una capienza di 97 detenuti ne sono ospitati 150", sul fronte degli organici il sindacato dice manchino ben 61 tra poliziotti e poliziotte.

Ma anche fuori dalle carceri la vita dei lavoratori delle forze di polizia e sicurezza non è facile. Il Slp, sindacato italiano lavoratori di polizia aderente alla Cgil, in un comunicato firmato dal segretario provinciale di Genova Roberto Traverso ha infatti denunciato il mancato pagamento degli straordinari.

Traverso sottolinea: "Da dicembre 2008 poliziotti, carabinieri e finanzieri non percepiscono l’indennità di lavoro straordinario". Poi aggiunge: "Non è più accettabile che i lavoratori del comparto sicurezza, continuamente sotto pressione per l’aumento dei carichi di lavoro e la vertiginosa diminuzione di risorse umane ed economiche imposta dal governo, debbano subire la beffa di non percepire il lavoro straordinario prestato mesi e mesi fa".

Reggio Emilia: all’Opg aperto uno spazio per bambini in visita

 

Redattore Sociale - Dire, 15 aprile 2009

 

Inaugurata l’area colloqui con i minori, decorata e ristrutturata da dieci pazienti trasformati in "muratori" grazie un percorso di formazione promosso da provincia ed Enaip.

Da oggi l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia ha una nuova area riservata ai colloqui tra i pazienti e i loro figli minori. Uno spazio a misura di bambino, decorato e ristrutturato da dieci pazienti dello stesso Opg. Che si sono trasformati in "muratori" grazie a un percorso di formazione di 230 ore, per consentire ai visitatori di vivere il momento del ricongiungimento familiare in modo più sereno e meno angoscioso. "L’attenzione ai diritti dei minori nella nostra città - ha commentato l’assessore provinciale al Lavoro Gianluca Ferrari inaugurando la struttura - si estende anche al di fuori degli spazi solitamente vissuti dai bambini. In questi anni la Provincia ha contribuito alla realizzazione di luoghi adeguati all’infanzia in una serie di realtà apparentemente lontane dal mondo infantile, come ad esempio il carcere, il centro per l’impiego di Reggio Emilia, e oggi anche l’Ospedale psichiatrico giudiziario".

I dieci pazienti coinvolti nel percorso di formazione "Aliante", finanziato dalla Provincia di Reggio e gestito dall’Enaip, hanno imparato a realizzare piccole opere murarie e decorazioni e acquisito competenze sulla tinteggiatura e la manutenzione in generale. Sono stati poi fatti alcuni lavori in muratura per migliorare alcuni uffici e rendere la nuova area colloqui con i minori più allegra, accogliente e riservata. "Questo percorso di lavoro - dice Ferrari - ha consentito ai pazienti di sentirsi valorizzati nella partecipazione ad attività di miglioramento del proprio ambiente, e anche di esserne particolarmente gratificati per l’utilizzo che i bambini possono in questo modo fare dell’area allestita. La cura del contesto in cui si vive, la cura verso sé e verso gli altri rappresentano dei passi fondamentali nella terapia per le patologie mentali". All’inaugurazione erano presenti, con i pazienti, anche la direttrice dell’Opg Rosalba Casella e il direttore dell’Enaip Alessandro Sacchi.

Avellino: educazione a legalità; gli studenti visitano le carceri

 

Il Mattino, 15 aprile 2009

 

Gli studenti delle scuole medie inferiori "Carducci-Trezza", "Giovanni XXIII" e "Balzico" in visita alla Casa Circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi. È l’ulteriore tappa del progetto formativo "Educazione alla Legalità, Sicurezza e Giustizia Sociale". Soddisfatto l’assessore Daniele Fasano.

Continuano gli incontri per gli studenti delle scuole medie inferiori cavesi aderenti al progetto di formazione "Educazione alla Legalità, Sicurezza e Giustizia Sociale", la cui attuazione è volta ad affrontare tematiche e problematiche connesse all’illegalità diffusa nei nostri territori.

Dopo i momenti di confronto tenutisi nel corso dei precedenti incontri, lo scorso 7 aprile si è dato il via ad una serie di visite alla casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi. Al primo appuntamento hanno preso parte i ragazzi della Scuola Media "G. Carducci-Trezza", mentre il 16 ed il 23 aprile sarà la volta rispettivamente della "Giovanni XXIII" e della "A. Balzico".

Il progetto nasce dall’idea di educare i ragazzi ai principi democratici del rispetto delle leggi, nonché ai valori di solidarietà, giustizia e responsabilità, che sono parti costituenti del vivere civile. "Esperienze come questa, che permettono ai ragazzi di visitare le case circondariali, sono fondamentali dal punto di vista pedagogico, poiché rendono più marcato il confine tra finzione e realtà", ha affermato Daniele Fasano, assessore alla Qualità dell’Istruzione, che indica l’esperienza del carcere come un possibile deterrente per il compimento di reati. Nuovi appuntamenti sono in programma il 2 maggio per la Scuola Media "G. Carducci-Trezza", il 9 maggio per la "Giovanni XXIII" ed il 16 maggio per la "A. Balzico", giorni nei quali si terranno gli incontri conclusivi.

Savona: consiglieri comunali chiedono la chiusura del carcere

 

Secolo XIX, 15 aprile 2009

 

Dopo l’udienza in Commissione Immigrazione del direttore del Sant’Agostino, che nei giorni scorsi ha descritto la tragica situazione del carcere savonese (celle esaurite, capienza superata, condizioni al limite dell’accettabile), 4 consiglieri comunali (Reginaldo Vignola, Livio Giraudo e Federico Larosa di maggioranza più Alfredo Remigio di minoranza) hanno presentato un ordine del giorno provocatorio per chiederne l’immediata chiusura.

"Stante l’infinita attesa per la costruzione del nuovo carcere tra Savona e Quiliano, chiediamo di chiudere subito la struttura attuale e trasferire altrove i detenuti perché le sue condizioni non sono più tollerabili". Alla fine, però, gli stessi consiglieri hanno accettato di ritirare la mozione dal consiglio di ieri per riaffrontare l’argomento in commissione servizi sociali.

Roma: oltre le sbarre, pezzo di città dimenticato da Alemanno

 

L’Unità, 15 aprile 2009

 

Alemanno parla tanto di sicurezza ma dovrebbe occuparsi di promuovere azioni di recupero nei confronti dei detenuti, altrimenti chi ha commesso reati, quando esce dal carcere, in un contesto degradato come quello presente, rischia di non avere alternative se non tornare a delinquere". E invece Alemanno del carcere e dei carcerati - parola di Lillo Di Mauro, presidente della Consulta cittadina per i problemi penitenziari -, se ne sta occupando molto poco. "In un anno non ha mai trovato il tempo di ricevermi", denuncia Di Mauro, che un incontro con il sindaco sulla situazione delle carceri romane lo aveva chiesto all’indomani delle elezioni.

"Occuparsi della popolazione carceraria della sua città per un sindaco non è un optional, lo impone la legge 328 e tanto più lo impone lo stato delle carceri romane, di nuovo sovraccariche dopo l’indulto e penalizzate dai tagli imposti dall’ultima finanziaria al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria".

E invece: "Mentre con la precedente amministrazione avevamo elaborato un Piano carcere per la promozione della popolazione carceraria, con l’attuale amministrazione di quel piano, quanto mai necessario in questo momento, non c’è più traccia", attacca Di Mauro, che conta con pena tutto ciò che intanto, in questo anno di mancata programmazione, i detenuti romani hanno perso.

A cominciare dal kit che il Comune consegnava loro come viatico all’uscita dal carcere: quattro buoni pasto, cinque biglietti metro bus, qualche prodotto per l’igiene personale, una scheda telefonica, la guida per sapere dove mangiare, dormire, lavarsi. "Da qualche tempo ai detenuti non viene più distribuito nulla", denuncia Di Mauro.

E così anche i corsi per stranieri, promossi dall’assessorato alle Politiche scolastiche, non sono più stati finanziati. Altra iniziativa dell’amministrazione Veltroni fu l’intesa promossa perché l’ufficiale anagrafico potesse recarsi in carcere e registrare il riconoscimento da parte dei detenuti di eventuali figli illegittimi: "Anche quella di fatto non è più attiva". E ancora: "La biblioteca di Rebibbia non fa più parte del sistema delle biblioteche del Comune di Roma e questo la penalizza".

"Il punto è che invece nel carcere manca tutto, anche i mediatori culturali, indispensabili per i detenuti stranieri: anche quelli prima erano finanziati, ora non più, e con il regime di tagli imposto alle azioni positive in carcere il Comune avrebbe grandi spazi di intervento". E invece: "Nulla, in un anno ho registrato solo un assoluto silenzio, anche quando ho chiesto al Comune di interessarsi dei problemi dei minori detenuti a Casal del Marmo: ho scritto al Comune e ho scritto alla Provincia, solo da quest’ultima ho avuto risposta".

Un atteggiamento miope: "Se calcoli che molti detenuti fuori dal carcere hanno una famiglia che vive in situazioni di disagio, non occuparsi di loro significa lasciare senza sostegno migliaia di persone", osserva Di Mauro: "La verità è senza l’associazionismo le carceri romane imploderebbero"?

 

Numeri

 

355 detenute nel carcere di Rebibbia femminile. Più 20 madri con bambini dai 0 ai 3 anni. Capienza regolamentare: 296. 1446 detenuti nel carcere di Rebibbia. Capienza regolamentare 1009. Nella sezione reclusione i detenuti sono 333, la capienza regolamentare è di 289. 889 detenuti nel carcere di Regina Coeli. Capienza regolamentare 823

Roma: l'Osapp; noi educhiamo alla legalità con esempi concreti

 

Il Velino, 15 aprile 2009

 

"Per educare alla legalità, e per promuoverne il rispetto, soprattutto nelle scuole e tra i giovani, è necessario mettere in campo tutte le forze migliori del paese, e francamente non riusciamo a capire come mai quando si parla di forze dell’ordine non si consideri l’apporto che può garantire la Polizia penitenziaria".

A sostenerlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma della Polizia penitenziaria, a proposito dell’iniziativa promossa e lanciata oggi da Maurizio Costanzo con il nome "La legalità conviene". "Per i ragazzi sono necessari esempi concreti, anche attraverso la forza comunicativa che può offrire il carcere - aggiunge Beneduci - e a nostro avviso questo non è tanto sbagliato. Pensiamo che una visita negli istituti di pena italiani, più frequentemente del solito rispetto a quanto già si fa normalmente, basterebbe a dare un risultato, comunque conforme, riguardo la sensibilizzazione che il Costanzo si appresta a raggiungere con tale iniziativa. "Certamente un poliziotto penitenziario che è costretto a raccontare quello che vede, e ad accompagnare i ragazzi in un tour quantomeno emozionale, siamo sicuri sortisca più effetti di tante lezioni nelle aule scolastiche".

Bologna: Associazione Avoc impegnata in carcere della Dozza

 

Asca, 15 aprile 2009

 

Il Centro Italiano Femminile Emilia Romagna, nell’ambito del progetto "Tra passato, presente e futuro il pensiero, l’azione e l’impegno civile del Centro Italiano Femminile in Emilia Romagna" promuove nella giornata di mercoledì 15 aprile 2009 alle ore 16 presso la sede di Via Del Monte 5 a Bologna un incontro con la Dr.ssa Maria Luisa Cavallari, operatrice di Avoc-Bologna.

Il Centro Italiano Femminile è impegnato da anni, nell’ambito della sua funzione socio-assistenziale alla Dozza dove alcune insegnanti hanno prestato docenza. L’incontro è mirato alla conoscenza della situazione sociale, culturale e assistenziale delle detenute e dei detenuti della Casa Circondariale "Dozza" con particolare riferimento all’azione di reinserimento dei detenuti nella società al termine della pena e dell’opera svolta dai volontari nella prospettiva della realizzazione di una sinergia tra Avoc e Centro Italiano Femminile di Bologna.

Palermo: detenuto scrive a Il Grande Fratello; noi i veri reclusi

 

Ansa, 15 aprile 2009

 

Come pseudonimo ha scelto 38, un numero - spiega - che gli porta fortuna. Ha 20 anni, da quattro è detenuto nel carcere minorile Malaspina di Palermo. Insieme ad altri tre ragazzi dell’istituto di pena, fa parte di una sorta di redazione nata nell’ambito del Progetto In&Out, finalizzato, tra l’altro, al reinserimento nella società dei minori in carcere. Trentotto e i suoi compagni, con l’aiuto dei giornalisti della redazione Ansa di Palermo, sono gli autori di una newsletter dal titolo "Il nostro giornale", un trimestrale telematico attraverso il quale i detenuti del Malaspina provano a raccontarsi.

L’idea della lettera aperta ai protagonisti de Il Grande Fratello nasce da un incontro tra Trentotto, gli altri tre "cronisti" della redazione, e i giornalisti dell’Ansa. Le riflessioni del giovane detenuto, che ha voluto rivolgersi ai ragazzi del noto reality, segnano il suo "debutto" in un’iniziativa con cui si tenta di dar voce a chi, per forza di cose, non ha voce all’esterno.

Padova: a scuola torna sensibilizzazione contro alcol e droghe

 

Redattore Sociale - Dire, 15 aprile 2009

 

Torna per il quarto anno consecutivo la campagna "Voglio una vita responsAbile" realizzata dal comune in collaborazione con gli istituti superiori della città. Oltre 2 mila saranno i giovani coinvolti nei 10 giorni dedicati alla prevenzione

Ricomincia dalle scuole l’impegno di sensibilizzazione dei giovani sui rischi legati al consumo di alcol e droghe. Torna infatti per il quarto anno consecutivo a Padova la campagna "Voglio una vita responsAbile" realizzata dal comune di Padova in collaborazione con gli istituti superiori della città. Oltre duemila saranno i giovani coinvolti nei dieci giorni dedicati alla prevenzione attraverso incontri con esperti, spettacoli e manifestazioni, in calendario dal 15 al 24 aprile.

"Obiettivo dell’iniziativa - spiega Claudio Piron, assessore comunale alle Politiche scolastiche e giovanili - è di sensibilizzare le giovani generazioni sui rischi legati a comportamenti di vita o a situazioni eccessive, in cui si sceglie di essere dipendenti dalle droghe, dall’alcol, dalla velocità". Piron sottolinea poi che "questa è un’occasione utile per monitorare i segnali di malessere e difficoltà che provengono dal mondo giovanile, per definire insieme percorsi e strumenti che possano portare a un progetto condiviso di contrasto alle dipendenze, accompagnando i giovani nella riflessione sulla responsabilità che ciascuno di noi ha nei confronti della propria vita e di quella degli altri".

Il progetto entrerà nelle scuole attraverso una serie di incontri con gli operatori del Ser.T, e con i volontari di "Daccapo - Associazione trauma cranico onlus", che presenterà il progetto "Mi sono risvegliato… e ho ricominciato daccapo". "Con questa iniziativa vogliamo cogliere l’occasione di sensibilizzare sulla disabilità acquisita in seguito a un grave trauma portando anche nelle scuole la testimonianza di un traumatizzato che racconta la propria esperienza" raccontano i volontari.

Oltre agli incontri saranno proposti anche due spettacoli, coinvolgendo giovani artisti sul tema dell’alcol e delle dipendenze: il Teatro Invisibile presenterà un progetto teatral-visuale che si propone come "un breve viaggio teatrale che partendo dalla relazione con se stessi, il proprio corpo, le persone e gli spazi indaga il rapporto che si può creare con l’alcol e le droghe". Mentre Giorgio Sangati e Lorenzo Marangoni presenteranno "Alcool Quiz", una performance interattiva ideata come un quiz, cui parteciperanno in forma attiva gli studenti.

Sono previsti anche altri due appuntamenti in calendario a maggio: il primo è per domenica 17 con la quarta edizione di "Artisti in piazza", per coinvolgere i giovani proponendo loro un diverso modo di divertirsi. Lunedì 18 invece in Prato della Valle avrà luogo la manifestazione "2 Ruote a rischio 0", prove di guida sicura e simulazioni di diverse situazioni di guida, con dimostrazioni di incidenti stradali e crash test.

Libro: "Camosci e girachiavi"; una storia del carcere in Italia

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.info, 15 aprile 2009

 

Christian De Vito: "Il carcere si legge guardando alla società. Quello di oggi, frammentario e separato".

Sarà presentato oggi, alle ore 17.30 presso la Fondazione Basso (via della Dogana Vecchia 5, Roma) il volume di Christian G. De Vito Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia. Durante l’incontro, organizzato dall’associazione Antigone, interverranno alla presenza dell’autore Patrizio Gonnella, Guido Neppi Modona, Massimo Pavarini, coordinati dalla giornalista del Sole 24 Ore Donatella Stasio.

Nello strano gergo carcerario, infantilizzante e spaccone allo stesso tempo, con il termine "camosci" vengono indicati spregiativamente i detenuti. Perché? Forse in parte per sottolineare la continua possibilità di fuga del recluso, forse in parte per accusare chissà chi di proteggere eccessivamente i delinquenti nelle carceri, quasi si trattasse di una specie a rischio da porre sotto la tutela delle associazioni ambientaliste.

Ben più ovvio decifrare l’origine del termine "girachiavi" riferito agli agenti di custodia. A chi adopera un approccio storico, il carcere offre un ottimo punto di visuale per guardare ai cambiamenti avvenuti nell’intera società. Il libro di De Vito, attraverso una dettagliatissima ricostruzione documentale, ci racconta così la storia italiana dal dopoguerra a oggi.

 

Christian G. De Vito, il tuo lavoro si basa su materiale documentario amplissimo e dettagliatamente utilizzato. Come hai proceduto nella tua ricerca? Quali sono state le fonti utilizzate principalmente?

Gli istituti penitenziari sono vere e proprie miniere dal punto di vista della documentazione storica. Gli archivi delle carceri conservano, per la parte successiva alla seconda guerra mondiale, i registri di matricola, i registri disciplinari e quelli degli "eventi critici", ma anche la corrispondenza delle direzioni con gli uffici centrali dell’Amministrazione penitenziaria e con gli Ispettorati Distrettuali (dal 1990 Provveditorati Regionali). Si tratta di fonti eccezionali: ci si trovano fotografie di squadre di calcio formate da detenuti, relazioni e documentazione fotografica su evasioni e tentativi di evasioni, come pure lettere censurate, relazioni "programmatiche" di funzionari penitenziari e un ampio materiale relativo agli agenti di custodia, rispetto ai quali non meno interessanti sono le fonti conservate nelle Scuole di formazione e aggiornamento del personale di polizia penitenziaria. Sono peraltro miniere finora largamente inesplorate, soprattutto per quanto riguarda il periodo successivo al 1945.

 

Perché? Mancanza di interesse o difficoltà di accesso?

La difficoltà deriva anche dal fatto che raramente sono state versate presso gli archivi di Stato competenti, per problemi di spazio o semplicemente per disinteresse. Con grave rischio per la memoria collettiva: quando studiavo nel carcere di San Vittore, piantonato da un agente per diverse ore al giorno, ho visto buttare alcuni registri di matricola degli anni della seconda guerra mondiale che si erano rovinati a causa di una perdita di acqua. Ci sono però anche degli esempi positivi, che dovrebbero essere moltiplicati: fondi archivistici consistenti sono stati versati ad esempio presso gli archivi di Stato di Torino, Roma, Perugia e Firenze (quest’ultimo relativo all’Ispettorato Distrettuale). Io ho faticosamente rintracciato alcuni di questi archivi e li ho sistematicamente studiati. È stato un lavoro appassionante.

 

Hai utilizzato anche fonti esterne all’Amministrazione penitenziaria?

Sì. Il tutto è divenuto tanto più interessante quando ho potuto incrociare le fonti istituzionali con quelle prodotte da soggetti esterni all’amministrazione penitenziaria: ad esempio per la fase delle lotte dei detenuti negli anni Settanta. È incredibile quanto materiale abbiano conservato gli ex attivisti: lettere, volantini ciclostilati, manifesti murali manoscritti, appunti di riunioni. E tanti libri e opuscoli a volte altrimenti assolutamente introvabili. Ecco, ho avuto la fortuna di incontrare persone disponibilissime a tirarlo fuori dalle proprie cantine e dalle soffitte. Per non dire poi dell’importanza delle testimonianze che mi hanno regalato appunto ex attivisti, ma anche ex detenuti, personale penitenziario, ex cappellani, suore che erano in servizio nelle sezioni femminili fino agli anni Settanta: queste fonti orali sono state un tassello fondamentale per la mia ricerca, per quello che hanno voluto dire per la mia comprensione di eventi, reti di relazioni e anche - mi viene da dire - atmosfere.

 

Le contestazioni degli anni Settanta e le leggi emergenziali che ne seguirono costituiscono un punto di svolta per il sistema penitenziario italiano. Cosa succede in quegli anni?

Il carcere registra in maniera fedele quelle che sono le trasformazioni sociali che avvengono "fuori". Il tumultuoso e contraddittorio processo che di solito si denomina "miracolo economico" ha modificato profondamente anche la popolazione detenuta e, mediato da altri fattori culturali, giuridici e politici, ha contribuito a riempire le carceri di immigrati meridionali e a modificare gli stessi comportamenti delittuosi, assai più che in precedenza legati ad una dimensione urbana (pensiamo ai rapinatori delle "batterie", ma anche alle trasformazioni della criminalità mafiosa e, per altro verso, alla piccola criminalità legata alla condizione di esclusione sociale). È questo tipo di popolazione detenuta che, verso il 1968-69, viene a contatto con la ventata di contestazione che proviene dall’esterno. C’è ancora la censura, ma "radio carcere" funziona assai bene nel trasmettere nuove idee e nuove pratiche. Gli anni fino al 1974 - non solo in Italia peraltro - sono segnati da proteste di massa che incidono, sia pure indirettamente, sul percorso della riforma penitenziaria. Ma anche oltre le proteste e le rivolte, c’era allora una diffusa insubordinazione nelle carceri, la cui memoria oggi è largamente rimossa ma che è possibile ricostruire attraverso fonti archivistiche ufficiali e memorie di ex-detenuti ed ex-operatori penitenziari.

 

Una insubordinazione che si manifesta in che modo?

È una fase in cui le porte delle celle nelle sezioni erano aperte per molte ore al giorno, simbolo di un effettivo contro-potere dei detenuti, per quanto sempre precario perché osteggiato dai meccanismi istituzionali e dalla minaccia e pratica della repressione. La stagione dell’emergenza spazzò via questa atmosfera di insubordinazione. Già attorno alla metà degli anni Settanta si ha un forte inasprimento della repressione - con morti e feriti tra i detenuti che protestano - poi nel 1977 vengono le carceri speciali e uno scontro frontale tra gli apparati dello Stato da un lato e i militanti delle organizzazioni clandestine dall’altro. Sulla scena penitenziaria sequestrata da questi attori "forti", scompaiono così di fatto i detenuti comuni e solo con la metà degli anni Ottanta si tornerà a guardare a loro, in un clima politico-sociale completamente modificato: appariranno allora deboli e privi di voce, associati sempre più a "utenti" da assistere che a protagonisti della propria vicenda. È che la composizione sociale della popolazione detenuta è cambiata ancora: i tossicodipendenti e poi gli immigrati divengono rapidamente maggioranza tra i detenuti, in conseguenza della costruzione di vere e proprie politiche "carcerogene" dirette a questi settori della popolazione. La tendenza si accentua a partire dagli anni Novanta e prosegue anche oggi, associandosi ad un aumento del numero dei detenuti apparentemente inarrestabile.

 

Cosa possiamo dire allora del carcere di oggi?

Non è facile fare la storia del presente. Né basta coniugare il tempo verbale al passato, come pure ho fatto, provando a mettere una certa distanza e a guardare, oltre gli eventi che si susseguono ogni giorno, ad alcuni processi più generali che sono in corso. Nel parlare dell’oggi c’è un problema di fonti e poi, ovviamente, c’è una questione di coinvolgimento personale, che io peraltro non ho voluto nascondere: sono stato attivo in questi ultimi anni in gruppi e associazioni per la promozione dei diritti dei detenuti e questa esperienza segna anche il punto di vista che ho assunto nello scrivere delle vicende più recenti della storia penitenziaria. L’auspicio è peraltro che gli studi sull’argomento si moltiplichino, come parte anche di una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica alla "questione carcere": ci sarà allora modo di approfondire le ricerche e di ridiscutere anche le tesi del mio lavoro.

 

Ci sono infatti nel tuo libro chiavi di lettura che ci aiutano a comprendere l’universo penitenziario attuale, nonostante le difficoltà di cui parlavi poco fa.

Due di esse mi pare possano servire come base per la descrizione del carcere di questi anni. Io ho parlato come di un carcere "frammentato", sia per quelle trasformazioni della popolazione detenuta alle quali ho accennato sopra, sia perché oggi dentro un medesimo istituto penitenziario possono esserci sezioni aperte e reparti di massima sicurezza, "buone prassi" e violenze, in un’ottica di differenziazione crescente nella quale la "flessibilità della pena" confina con meccanismi di controllo sulla popolazione detenuta. Le radici di tutto ciò sono sufficientemente antiche: il dibattito su specializzazione degli stabilimenti e individualizzazione della pena risale già alla fine dell’Ottocento e poi prosegue dentro la criminologia clinica degli anni Cinquanta; ma con l’istituzione delle carceri di massima sicurezza nel 1977 e poi con la legge Gozzini del 1986 questo meccanismo mi pare insieme sempre più esteso e accelerato. C’è poi un altro elemento che provo a descrivere rispetto al carcere di oggi, ed è quello del crescente scollamento tra l’immagine che l’istituzione penitenziaria proietta all’esterno e la realtà quotidiana del carcere. Anche qui, è evidente che c’è una continuità di fondo, che ha a che vedere con la materialità stessa del carcere, da sempre diviso dal "fuori" con muri di cinta, sbarre e cancelli. Questa separazione tuttavia era stata intaccata negli anni Settanta proprio a partire dalle mobilitazioni dei detenuti e da una diffusa sensibilizzazione esterna. Oggi invece è tornata forte, nonostante il gran numero di volontari, operatori e anche detenuti che quotidianamente varcano la fatidica soglia: basterebbe riflettere sulla distanza tra l’idea del carcere come "hotel a cinque stelle" che si trova così spesso nel dibattito pubblico e la realtà delle sezioni sovraffollate e indecenti note a chiunque entra in un istituto penitenziario.

 

Cosa ha portato a questa nuova e profonda separazione?

È un processo che non può essere spiegato se non guardando a ciò che sta avvenendo fuori dal carcere, in termini di politiche securitarie e trasformazioni politico-sociali complessive. Si entra quindi in una questione ben più ampia: quella del rapporto tra carcere e società, che è poi il centro della mia ricerca.

Teatro: Godot; dal carcere di Arezzo al palcoscenico di Milano

 

La Repubblica, 15 aprile 2009

 

Un’attesa lunghissima, infinita, di qualcuno o qualcosa che forse non arriverà mai. C’è una somiglianza profonda tra la condizione di chi è in carcere e quella di Vladimiro e Estragone, i due clochard sperduti nell’attesa dell’ignoto di Aspettando Godot.

Forse proprio per questo il regista Gianfranco Pedullà ha deciso di mettere in scena il capolavoro beckettiano con la sua compagnia, il Teatro Popolare d’Arte di Arezzo, dove lavorano fianco a fianco attori professionisti ed ex carcerati, usciti dalla Casa Circondariale di Arezzo dove Pedullà fa teatro ormai da sedici anni grazie a un progetto speciale della Regione Toscana che sostiene, oltre alla sua compagnia, un’altra eccellenza di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo a Volterra.

Lo spettacolo arriva stasera al Teatro Libero con il suo carico di metafora poetica ed esperienza di vita vissuta, perché accanto al Vladimiro di Marco Natalucci e al Pozzo di Nicola Rignanese, da sempre spalla di Antonio Albanesea in n teatro e in televisione, c’è l’Estragone di Daniele Bastianelli, ex detenuto che con il teatro ha trovato una vita nuova fuori dal carcere, e un lavoro vero.

"Quella di Arezzo è una casa circondariale - spiega il regista - dove i detenuti sono in attesa di giudizio. Il luogo dove si attende il proprio destino, niente di più vicino alle atmosfere di Beckett. Il nostro Godot è nato proprio lì, in carcere, da un progetto su Beckett di quattro anni fa, una sorta di antologia beckettiana. La coppia Valdimiro-Estragone funzionava così bene che abbiamo deciso di portarcela fuori dal carcere. Il nostro è un Godot di strada, un po’ clochard, che si porta dietro un po’ di carcere, ma con ironia. Sa di vita immediata, di periferia, è insieme aspro e comico.

Un Godot ai margini della società. Ma con una speranza: alla fine l’orizzonte si apre sul futuro, nel sorriso di Tito Anisuzzaman, un ragazzo del Bangladesh, che annuncia l’arrivo di Godot. Un sorriso pieno di vita e futuro rispetto alla crisi del nostro Occidente, un ventata di terzo mondo in positivo, con tutta l’energia di un mondo nuovo". Su una scena semplice, una pedana che rimanda al gioco del teatro nel teatro, l’immancabile alberello e un poeticissimo cambio di luci a segnare lo scorrere lento del tempo, Daniele Bastianelli, 50 anni, umbro di Terni, una condanna per spaccio ormai scontata, è Estragone: "Se me l’avessero detto quindici anni fa che avrei fatto l’attore, mi sarei messo a ridere - racconta -. Di teatro non sapevo niente, la terza media l’ho presa in carcere.

Per me l’incontro con il teatro è stato l’incontro con Gianfranco Pedullà. All’inizio l’ho visto come un mezzo per uscire, per scontare la pena residua fuori, lavorando con la compagnia. Ma adesso è un lavoro. Non tanto l’attore, non ho fatto la gavetta e lo considero un hobby, anche se mi dicono che sono bravo. Ma quello del tecnico e del macchinista sì. Il mio Estragone? Gli ho dato molto di me. La mia voglia di andare avanti, di continuare a vivere". Milano, Teatro Libero, via Savona 10, da stasera al 20 aprile, ore 21, domenica ore 16, ingresso 19 euro, tel. 028323126.

Immigrazione: Inmp; nessun essere umano nasce clandestino!

 

Redattore Sociale - Dire, 15 aprile 2009

 

Seminario dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà.

Aumenta "l’esercito di disperati" che raggiunge l’Italia non solo attraverso il mare in cerca di una vita migliore: quasi 37 mila nel 2008 e 4.000 nei primi tre mesi del 2009 solo a Lampedusa.

"Nessun essere umano è illegale o nasce clandestino, povero, sì". Una condizione drammatica per migliaia di persone che ogni anno lasciano la propria terra in cerca di una vita migliora. Tra il 2004 e i primi 6 mesi del 2008 sono arrivate dal mare in Italia 89.366 persone, con una media di quasi 20.000 all’anno; 20.455 gli arrivi nel 2007, 36.952 nel 2008 e 4.000 nei primi tre mesi del 2009 solo a Lampedusa.

Un "esercito di disperati" che "aumenta di Paese in Paese", pronti a rischiare la morte pur di allontanarsi dalla povertà, senza speranza, della loro condizione. Per molti però la nuova vita è ancora di privazioni "essendo catalogati come clandestini senza legge né diritti".

In Italia sono 650 mila gli irregolari, secondo l’Ismu. Ma non tutti arrivano via mare; nel 60% dei casi si tratta di stranieri che entrano regolarmente e restano dopo la scadenza del visto (over stayers) e un altro 25% arriva illegalmente da altri Paesi Schengen, approfittando dell’abolizione dei controlli alle frontiere.

Se ne parla domani a Roma nel seminario "Clandestino quale destino per il clan degli sbarchi", promosso dall’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà all’Ospedale San Gallicano. Al centro del dibattito le diverse problematiche sociali, mediche, antropologiche legate agli "invisibili".

Presentato il monitoraggio di Save the children sulla situazione dei minori che arrivano a Lampedusa (dei 2.200 minori sbarcati da maggio a dicembre, solo 1721 sono stati trasferiti in comunità) e un report sull’attività del servizio socio-sanitario itinerante per i migranti, dell’associazione "Medici per i diritti umani", con particolare attenzione alla situazione dei ragazzi afghani a Roma.

E oltre ai dati, una riflessione sul peso sociale del linguaggio utilizzato. "L’etimologia stessa della parola, dal latino "clam-des-tínus" colui che si nasconde di giorno e che odia la luce, testimonia un uso improprio assunto oggi dal termine, utilizzato ormai nel linguaggio comune in un’accezione non solo errata ma anche offensiva nei confronti delle persone cui si rivolge, perché è presente la forte connotazione negativa insita nel termine nel ricondurre l’idea di qualcuno, che operando nell’oscurità e nell’illegalità, è sempre in agguato per fare del male".

Immigrazione: nel Cie di Lampedusa, manganellati senza pietà

 

Redattore Sociale - Dire, 15 aprile 2009

 

Per la prima volta i tunisini detenuti sull’isola raccontano cosa successe il giorno dell’incendio nel centro. Ancora difficili condizioni di sovraffollamento. Dopo le convalide differite, ora aspettano tutti il 26 aprile.

Manganellati dalla polizia, "senza pietà". Ferite alla testa, fratture alla mano e contusioni alle gambe. Per la prima volta, parlano i detenuti del Centro di identificazione e espulsione di Lampedusa, raggiunti telefonicamente da Redattore Sociale. Denunciano gli abusi di alcuni agenti delle forze dell’ordine, le condizioni di sovraffollamento, ma anche la diffusa somministrazione di psicofarmaci e provvedimenti di respingimento differiti che non hanno tenuto conto delle settimane pregresse di detenzione scontate in condizioni del tutto arbitrarie. Nel Cie si trovano attualmente oltre 600 tunisini più un centinaio di marocchini. Molti sono detenuti da oltre tre mesi.

I pestaggi. "Ci hanno picchiato coi manganelli, ci hanno lanciato gas lacrimogeni. E noi eravamo senza niente. Eravamo in un angolo, e c’era gente che dormiva ancora. Una cosa mai vista". Mo. ricorda così la mattina del 18 febbraio 2009. Quel giorno un incendio distrusse completamente uno dei padiglioni del Cie di Lampedusa. Il fuoco venne appiccato da alcuni detenuti tunisini, in risposta alle cariche della polizia - più di un centinaio di agenti in tenuta antisommossa - che avevano ferito diverse persone. F. ha assistito alla scena: "Li hanno trattati in un modo selvaggio. Senza pietà".

"C’erano poliziotti dappertutto - dice un altro testimone sotto anonimato, M. - tutti che picchiavano con i manganelli. Davanti a me, c’era uno che sanguinava e un poliziotto che l’ha manganellato sulla testa. Un altro aveva la mano rotta. E c’era uno che non riusciva a camminare sul piede". Gli scontri sarebbero iniziati davanti alla mensa, dove quattro o cinque agenti avrebbero aggredito - secondo M., che era presente sul luogo - alcuni tunisini che li avevano attaccati verbalmente.

Da lì la protesta si è allargata alle centinaia di persone presenti ed è esplosa con il lancio di almeno quattro gas lacrimogeni e le cariche. Ma anche nelle ore immediatamente successive. Y. ne parla come di qualcosa di noto: "Tutti sanno che quel giorno la polizia picchiò i tunisini, anche le organizzazioni che lavorano qui. La polizia era così arrabbiata. Alcuni li prendevano in due sotto braccio, e li portavano in bagno, uno alla volta. Poi chiudevano porte e finestre e li picchiavano".

Gli psicofarmaci. La somministrazione di farmaci antidepressivi e calmanti nel Cie di Lampedusa sarebbe una pratica diffusa, secondo i detenuti intervistati. "La gente è troppo nervosa, prendono dei calmanti. Sono in molti. Li vedi perché hanno la bocca storta. Le medicine sono forti", dice M. Altri invece lamentano la scarsità di medicinali.

"Per qualsiasi malattia, ti danno sempre la stessa pasticca - dice Mo". Y. invece è convinto che a volte vengano messi dei calmanti nel cibo della mensa. "Era un paio di mesi fa. Un paio d’ore dopo pranzo eravamo tutti così stanchi che volevamo dormire.. abbiamo pensato che ci fosse qualcosa nel cibo".

Il sovraffollamento. Il centro è ancora sovraffollato: ospita più di 700 persone in una struttura pensata per 381 posti e in parte distrutta dall’incendio. "Nella mia camera - dice F. - siamo 21 persone in 12 letti. La gente dorme sotto i letti, su dei materassini. Oppure in due sullo stesso letto. E alcuni dormono ancora nei corridori".

Niente rispetto a fine gennaio, quando il centro era arrivato a ospitare più di 1.900 persone. "All’epoca - dice Mo. - le condizioni erano terribili. Docce e toilette erano fuori uso. In una camerata eravamo oltre 100 persone. Dormivamo in due su ogni materasso e in due sotto il letto, per terra, i piedi davanti alla testa dell’altro".

Le convalide. Il decreto che ha trasformato il centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola in un Cie è entrato in vigore il 26 gennaio. A partire da quello stesso giorno, la Questura di Agrigento ha iniziato a rilasciare i provvedimenti di respingimento ai 1.134 detenuti presenti. Nel giro di due settimane, Giudici di pace del Tribunale di Agrigento e avvocati d’ufficio hanno provveduto alla convalida di quei provvedimenti, e quindi al trattenimento per 60 giorni degli stranieri.

Sessanta giorni che però non hanno tenuto conto del periodo di detenzione già scontato. L’udienza di convalida del trattenimento di Y. e Mo. si è tenuta il 30 gennaio 2009. I due erano detenuti nel Cie da tre settimane, dal loro arrivo il 9 gennaio. I 60 giorni di trattenimento però sono iniziati dal 31 gennaio. Così 21 giorni di detenzione arbitraria, senza la convalida di un giudice, diventano la norma alla frontiera d’Italia, alla frontiera del diritto.

L’attesa. Dopo le proteste che portarono all’incendio del 18 febbraio scorso e dopo un recente sciopero della fame, allo scadere dei due mesi di trattenimento, nel centro è iniziato il conto alla rovescia. Il 26 aprile scade infatti il decreto 11/2009 che aveva prolungato a sei mesi il termine della detenzione nei Cie, normalmente di 60 giorni. La norma è stata bocciata dalla Camera lo scorso 8 aprile. E se il Governo non varerà un altro decreto, dal 27 aprile i detenuti del centro torneranno in libertà.

Immigrazione: Lampedusa; così nasce un Centro di Espulsione

 

Redattore Sociale - Dire, 15 aprile 2009

 

Il 24 gennaio 2009 il Centro di prima Accoglienza è stato trasformato in un Centro di Identificazione e Espulsione. Una scheda per ricostruire i passaggi più importanti degli ultimi convulsi mesi.

Il primo centro di accoglienza per immigrati fu istituito a Lampedusa nel 1998, con lo status di Cpta (Centro di permanenza temporanea e assistenza), in una struttura nei pressi dell’aeroporto. Nel marzo 2006 prende il via il progetto Praesidium. Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur), Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e Croce rossa italiana (Cri) hanno accesso per la prima volta ai detenuti del centro.

Il 16 febbraio 2007, con decreto interministeriale, il centro diventa un Cspa (centro per il soccorso e la prima accoglienza). Il 16 aprile 2007 la gestione del centro passa dalle Misericordie alla cooperativa "Lampedusa accoglienza", dove convergono la cooperativa Sisifo di Palermo e Blu coop di Agrigento.

Il primo agosto del 2007 viene inaugurata la nuova struttura in Contrada Imbriacola (con una capienza di 381 posti, estensibili, all’occorrenza, a 804). Il centro offre una prima accoglienza ai migranti intercettati in mare, e lì vengono fatte le pre-identificazioni di migranti irregolari e richiedenti asilo politico quindi smistati nei vari centri sul territorio italiano.

Dal 29 dicembre 2008, il ministero dell’Interno blocca i trasferimenti da Lampedusa verso gli altri Centri e annuncia l’imminente avvio dei pattugliamenti congiunti delle coste libiche per il contrasto dell’immigrazione. Il 9 gennaio 2009 Maroni visita Lampedusa.

Il 14 gennaio, con decreto ministeriale, viene disposto l’immediato trasferimento sull’isola della Commissione territoriale di Trapani per il riconoscimento della protezione internazionale, che esamina le richieste d’asilo presentate dai profughi. Pochi giorni dopo la Commissione fa ritorno a Trapani.

Il 21 gennaio 2009 il ministero dell’Interno emana un decreto con il quale si individua la vecchia base Nato Loran come centro di identificazione e espulsione (Cie) dell’isola. Il 24 gennaio, 1.300 detenuti riescono a uscire dal centro di Contrada Imbriacola e si uniscono ad una manifestazione dei lampedusani contro il nuovo Cie.

Il 24 gennaio 2009 un secondo decreto modifica "provvisoriamente" la natura del Cspa di contrada Imbriacola: da Cspa a Cie. Mentre la base Loran viene temporaneamente utilizzata come Cspa, mentre procedono i lavori per il suo allargamento, poi sospesi per un esposto di Legambiente al Ministero dell’Ambiente. Il decreto entra in vigore il 26 gennaio, data da cui iniziano a decorrere i 60 giorni allo scadere dei quali il centro di contrada Imbriacola sarebbe dovuto tornare ad essere un Cspa. Ma alla fine di marzo un altro decreto ne autorizza la proroga per altri due mesi.

Il 26 gennaio la questura di Agrigento comincia ad emanare i primi provvedimenti di respingimento, nonostante siano trascorse già diverse settimane dall’arrivo sull’isola dei migranti trattenuti. Da quel momento, a Lampedusa vengono inviati, a turnazione, giudici di pace e avvocati d’ufficio del Tribunale di Agrigento per provvedere alla convalida dei 1.134 decreti di respingimento e dei provvedimenti che dispongono il trattenimento.

Il 5 febbraio il Senato boccia l’articolo del pacchetto sicurezza (ddl 733) che proponeva di prolungare da 2 a 18 mesi il limite della detenzione nei Cie.

Il 18 febbraio i tafferugli tra alcuni poliziotti e alcuni cittadini tunisini nella mensa del Cie fanno esplodere la rabbia dei 900 detenuti. La polizia carica e lancia lacrimogeni. Alcuni trattenuti incendiano le stanze. Un intero padiglione del centro va a fuoco.

Il 24 febbraio 2009 viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto anti-strupri (11/2009), che porta a sei mesi il limite del trattenimento. Il 27 marzo iniziano a scadere i termini di 60 giorni dei detenuti al Cie di Lampedusa che per primi hanno avuto la convalida del trattenimento. Rimangono ancora in detenzione in virtù del decreto 11/2009 in vigore fino al 26 aprile 2009.

Sudan: AI; impiccati nove detenuti, confessarono sotto tortura

 

Ansa, 15 aprile 2009

 

Nove uomini dal Darfur sono stati impiccati per l’assassinato di un giornalista sudanese nel 2006. Amnesty protesta: le confessioni dei nove sono state estorte con la tortura.

Gli uomini sono stati giustiziati in un carcere della capitale sudanese, Khartoum, di fronte ai parenti del giornalista, Mohammed Taha. L’esecuzione ha sollevato le proteste di Amnesty International, secondo cui quelle accuse non sarebbero valide. Le confessioni dei detenuti uccisi, sostiene l’organizzazione internazionale per i diritti umani, erano state ottenute per mezzo della tortura.

All’inizio si pensava che Taha fosse stato ucciso da estremisti islamici, già nel 2005 era infatti stato accusato di blasfemia per aver scritto un articolo mettendo in dubbio le origini del profeta Maometto. Secondo l’avvocato della sua difesa, però, Mohammed Taha potrebbe essere stato ucciso anche per un altro articolo controverso, che avrebbe scatenato le ire della comunità proveniente dalla regione del Darfur. Nell’articolo in questione, pubblicato sul quotidiano Al Wifaq, il giornalista aveva sminuito il numero degli stupri nel conflitto del Darfur e aveva anche insultato le donne della regione.

Kurdistan: AI; detenzione senza accusa e tortura nelle carceri

 

Ansa, 15 aprile 2009

 

Detenzioni senza accusa, tortura in carcere, violenze contro i giornalisti e contro le donne. Le forze si sicurezza che operano nel Kurdistan iracheno agiscono al di fuori della legge. È quanto emerge da un rapporto di Amnesty International pubblicato oggi.

La regione autonoma del Kurdistan "ha fatto alcuni passi in avanti importanti in materia di rispetto dei diritti umani - ha dichiarato Malcolm Smart, direttore del programma di Amnesty per il Nord Africa e il Medio Oriente - Allo stesso tempo, però, permangono alcuni gravi problemi, come la detenzione arbitraria, la tortura, gli attacchi ai giornalisti e alla libertà d’espressione, e la violenza contro le donne, che necessitano dell’intervento urgente del governo".

Il rapporto, che si basa su ricerche condotte nel 2008, riporta la diminuzione delle detenzioni senza accusa e senza processo, passate da migliaia a centinaia di casi, ma denuncia il fatto che in alcuni casi la detenzione si è prolungata per oltre nove anni. I ricercatori dell’organizzazione umanitaria hanno raccolto poi testimonianze di detenuti selvaggiamente picchiati o torturati con i cavi elettrici, mentre si danno anche casi di persone "scomparse".

Inoltre, Amnesty accusa le forze di sicurezza del Kurdish Democratic Party, il partito al potere del presidente Masoud Balzani, e del partito d’opposizione, il Patriotic Union of Kurdistan, di aver esercitato violenza e minacciato giornalisti, scrittori e accademici che hanno provato a denunciare la corruzione imperante. Nei confronti delle donne, riporta infine il rapporto, alcune leggi sono state introdotte per limitare i cosiddetti "delitti d’onore", ma il numero delle donne uccise resta comunque alto, mentre sembra farsi avanti l’uso di bruciare i corpi delle donne per mascherare i "delitti d’onore".

Stati Uniti: detenuto a Guantanamo telefona e denuncia abusi

 

Ansa, 15 aprile 2009

 

Mohammed Al Gharani Aveva detto di voler chiamare uno zio. Un giovane ciadiano di 21 anni, Mohammed al Gharani, detenuto nel carcere di Guantanamo, è riuscito con un trucco a telefonare all’emittente televisiva Al Jazeera e a farsi intervistare. Il testo dell’intervista è stato trascritto per interno ed è disponibile nel sito internet della televisione del Qatar.

Il giovane aveva detto alle guardie di voler telefonare ad uno zio invece è riuscito a mettersi in contatto con l’emittente e ha denunciato abusi. È la prima volta che un detenuto del carcere di massima sicurezza dove sono ospitati molti presunti terroristi riesce a farsi intervistare da giornalisti. Infatti, i reporter sono ammessi nella base cubana solo dopo aver firmato un impegno scritto che li obbliga a non parlare con i detenuti.

Secondo quanto dichiarato da Gharani, durante il periodo di detenzione (è detenuto a Guantanamo da quando aveva 14 anni) ha subito diversi pestaggi dai militari Usa. Inoltre, ha detto che un gruppo di soldati statunitensi gli avrebbero sparato addosso gas lacrimogeni.

Stati Uniti: ex detenuto aiuta i "colletti bianchi" a uscire prima

di Andrea Franceschi

 

Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2009

 

La crisi dei mercati e le inchieste giudiziarie hanno aperto le porte della prigione a molti colletti bianchi di Wall Street. Uno fra tutti il finanziere Bernard Madoff, autore della più grossa truffa finanziaria degli ultimi anni. Gente abituata a uno stile di vita certamente non morigerato che, da un giorno all’altro, si è trovata dietro le sbarre di un carcere. Un passaggio certamente non facile. Ma in cella si può sopravvivere. O quanto meno è possibile fare in modo di rendere la permanenza meno dura. Ma per farlo non serve rivolgersi a un avvocato. Ma di chi conosce alla perfezione le regole della vita dietro le sbarre. E soprattutto le "oscure norme" che regolano la burocrazia carceraria. Uno dei massimi esperti in questo campo si chiama Larry Levine.

Dopo essersi fatto 10 anni dietro le sbarre per traffico di stupefacenti e reati valutari, questo 47enne americano ha pensato di mettere a frutto la sua esperienza fornendo consulenza ai detenuti. Prima creando il sito www.americanprisonconsultans.com, e poi, con la crisi finanziaria, specializzandosi nei colletti bianchi, creando il sito www.wallstreetprisonconsultants.com e mettendo a punto un programma fatto apposta per loro: il "Fedtime". A lui, secondo il New York Post, si è anche rivolta Shana Madoff. La nipote del finanziere lo avrebbe contattato due settimane fa, "preoccupata della sua sicurezza personale" nel caso in cui dovesse finire in prigione.

Perché ci si rivolge a specialisti? Ad esempio per evitare finire in cella con omicidi e stupratori, evitando di finire in una struttura di massima sicurezza (normalmente ricettacolo dei peggiori delinquenti). Ma soprattutto facendosi ammettere al programma di recupero dalle tossicodipendenze. Negli Stati Uniti infatti, se si riesce a dimostrare di essere dipendenti da sostanze, legali (come farmaci o alcool) o illegali come gli stupefacenti, si può accedere al programma di disintossicazione.

Al momento questo è l’unico modo per ottenere riduzioni della pena (fino a un massimo di 12 mesi) oltre agli sconti per buona condotta. Sono in molti a fare questo tipo di richiesta (nel 2008 c’erano 7mila persone in lista d’attesa). Levine promette di entrare nel programma e massimizzare i possibili benefici. La sua parcella va da 900 a 5000 dollari. Quando era dietro le sbarre accettava porzioni di sgombro alla mensa del penitenziario.

 

 

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