Rassegna stampa 14 aprile

 

Giustizia: il "Piano Ionta" arriverà tardi, le carceri scoppiano

 

Fp-Cgil Flash, 14 aprile 2009

 

Record di detenuti, dal dopoguerra: a fine marzo se ne contavano 61.057 (prima dell’indulto erano 60.710). E il 7 giugno, di questo passo, sfonderanno la soglia "tollerabile". Se il numero dei detenuti continuerà a crescere come nell’ultimo anno - circa 1.000 al mese - quel giorno sarà sfondato il tetto della "tollerabilità" delle nostre prigioni. Che già oggi, peraltro, ospitano 18mila carcerati più dei 43.177 posti disponibili regolamentari.

La politica di carcerizzazione sponsorizzata in nome della sicurezza - nonostante il calo dei reati - ha nuovamente riempito le prigioni, soprattutto di stranieri (il 38%, ma il trend è in crescita) e di tossicodipendenti (il 27%). Il governo ha affidato al capo del Dap, Franco Ionta, il compito di predisporre un "piano", che sarà presentato il 2 maggio e che prevede, tra l’altro, la dismissione di una serie di istituti medio-piccoli nonché la costruzione di nuove strutture. I tempi per la realizzazione del "piano" non saranno brevi.

Nel frattempo, le carceri scoppiano, aumenta l’aggressività verso i poliziotti da parte dei detenuti, aumentano gli atti di autolesionismo e i suicidi (19 nei primi tre mesi del 2009, di cui 10 nel solo mese di marzo). La Fp-Cgil protesta, anche perché mancano all’appello 5mila agenti da assumere, senza i quali non si possono utilizzare i posti disponibili già esistenti.

Una soluzione ci sarebbe: anche in Italia le statistiche dicono che conviene di più - ai fini della sicurezza collettiva - far scontare la pena con misure alternative al carcere piuttosto che chiusi a quattro mandate dentro una cella. Nel primo caso la recidiva è del 19%, nel secondo sale al 69%. Non solo: si calcola che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio, per la collettività, di circa 51 milioni di euro all’anno a livello nazionale. In tempi di crisi, non è poca cosa.

Giustizia: l'obbligo di spiegare il "perché" di un’intercettazione

di Vittorio Grevi

 

Corriere della Sera, 14 aprile 2009

 

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, risalente a febbraio ma depositata nei giorni scorsi (con riferimento all’inchiesta sulle "tangenti della Federconsorzi", avviata nell’ambito di una più vasta indagine condotta dalla procura della Repubblica di Potenza) ha fornito importanti insegnamenti su alcuni passaggi cruciali dell’odierna disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali. Con riguardo, in particolare, alla motivazione del decreto attraverso cui il giudice, dietro richiesta del pubblico ministero, autorizza le relative operazioni.

Insegnamenti importanti non solo perché precisano, con chiarezza e con rigore, in presenza di quali presupposti, e sulla base di quali motivi possa venire adottato - per specifiche esigenze investigative - un provvedimento per sua natura obiettivamente invasivo della privacy individuale.

Ma anche perché, grazie alle linee interpretative in tal modo definite, risulta palese come il nostro sistema processuale (imponendo al giudice il previo accertamento della sussistenza di "gravi indizi di reato", ed insieme della assoluta "indispensabilità" delle intercettazioni "ai fini della prosecuzione delle indagini"), già dì per sé preveda meccanismi più che idonei ad assicurare una adeguata tutela della sfera di riservatezza delle persone coinvolte nelle indagini. Dunque senza bisogno di esigere, allo scopo, quale presupposto di ogni decreto di intercettazione - come invece vorrebbe il disegno di legge presentato dal ministro Alfano, ora all’esame della Camera - l’accertamento di quei "gravi indizi di colpevolezza" a carico dell’indagato, che invece snaturerebbe profondamente la fisionomia di tale strumento investigativo, impedendone tra l’altro l’impiego nelle ipotesi in cui si proceda "contro ignoti": cioè proprio nelle situazioni più delicate, quando si debbano ancora individuare i possibili autori di un grave delitto.

Sottolineando che, per potersi far luogo ad intercettazione, è necessaria la sussistenza di "gravi indizi di reato" la Corte di cassazione esclude, anzitutto, che le conseguenti operazioni possano venire autorizzate anche soltanto per ricercare una eventuale notizia di reato.

La legge presuppone, infatti, che la notizia di reato già sia stata acquisita, ed anzi che si riferisca (in termini di gravità degli indizi) ad una specifica vicenda delittuosa, la quale dovrà risultare individuata senza equivoci nella motivazione del provvedimento: così da prevenire (come già in altra non lontana occasione aveva rilevato la medesima Corte, pronunciandosi a sezioni unite) il rischio di autorizzazioni "in bianco".

E, naturalmente, ciò implica che non sia corretto, in assenza di precisi indizi di un vincolo criminoso tra i diversi indagati, prendere le mosse da una ipotesi di reato associati vo (ad esempio l’associazione per delinquere, talvolta intesa quasi come una sorta di "contenitore" rispetto a fatti diversi e tra loro scollegati), allo scopo di giustificare la esecuzione di "intercettazioni a catena" non fondate su acclarate esigenze investigative.

Anche a quest’ultimo proposito, la Corte di cassazione si è soffermata sui contenuti della motivazione dei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni, ponendo in risalto come alla base di tali provvedimenti debbano essere sempre evidenziate le ragioni per le quali risulti indispensabile, ai fini delle indagini, intercettare una determinata persona, o comunque una determinata utenza.

Come dire, per usare la formula desumibile da un recente progetto di riforma del codice, che nei suddetti provvedimenti si dovrà comunque porre l’accento sul "collegamento tra le comunicazioni che si intendono intercettare ed i fatti per cui si procede". Quale che sia l’utenza da sottoporre a controllo (potrebbe anche trattarsi di una cabina telefonica, ovvero del telefono sito in un bar od in altro pubblico esercizio) occorre, in definitiva, che seppure in forma sintetica il giudice renda noto perché, in vista dello sviluppo delle indagini, proprio quella utenza debba essere necessariamente intercettata.

Giustizia: condannato l'ex ministro Castelli, risarcirà 100mila €

di Laura Martellini

 

Corriere della Sera, 14 aprile 2009

 

Nei mirino dei magistrati contabili gli incarichi di consulenza dell’allora Guardasigilli alla "Global Brain".

Una consulenza assegnata in maniera "irrazionale e illegittima". Per questo la Corte dei Conti ha condannato l’ex Guardasigilli Roberto Castelli a restituire all’erario 50.000 euro insieme con Settembrino Nebbioso, allora capo di gabinetto del dicastero e che attualmente riveste lo stesso incarico con Angelino Alfano. La vicenda risale ai primi del Duemila, quando il ministero affidò alla società Global Brain il compito di fare il punto sull’efficienza del sistema giudiziario. "Incarico senza macchie" secondo la difesa, che aveva ottenuto una prima vittoria nel procedimento penale, mai sfociato in un processo perché il Senato negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Castelli.

La Corte dei Conti, però, adesso batte cassa. Non solo per una consulenza assegnata senza alcun bando di gara, ma anche per la nomina tardiva della commissione che avrebbe dovuto vigilare sulla società. E che invece, secondo l’accusa, venne insediata quando il compito era pressoché concluso (per questa ragione, a Nebbioso vengono chiesti ulteriori 8.676 euro). Assolti Daniela Bianchini, Monica Tarchi e Marco Preioni: assegnati alla commissione, è stata accertata la loro estraneità.

Furono due le convenzioni stipulate con la Global Brain, e anche la seconda è costata a Castelli e Nebbioso (assolto invece per un altro capo d’imputazione) una ulteriore richiesta di danni per 47.473 euro (si sfiorano così i 100.000 totali). "Non si capisce l’utilità di un secondo incarico", viene argomentato in sentenza. Risposta: "Il primo studio andava sviluppato, alla società vennero addirittura tagliati i compensi".

Neanche un euro verrà chiesto indietro, invece, a Giovanni Tinebra, assolto "per difetto di colpa grave". Era il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che con la Global Brain stipulò altre due successive convenzioni, per il "miglioramento dell’assetto organizzativo". Riforma secondo l’accusa mai attuata. Ma perché allora spendere più di 100.000 euro? Per la difesa, il motivo è "nella carenza di personale interno qualificato. La decisione fu collegiale".

"Quel che più ci indigna - fa notare uno degli avvocati difensori, Dario Imparato - è che manca una legge che definisca una volta per tutte il ruolo del ministro, se politico o amministrativo. Perché se è la prima definizione a essere vincente, allora Castelli poteva scegliere chiunque, come consulente. E nessuno può dir niente".

Umbria: con arrivo detenuti "sfollati", carceri regionali in crisi

 

La Nazione, 14 aprile 2009

 

"La situazione delle carceri in Umbria deve essere approfondita in maniera seria e risolutiva". I sindacati degli agenti di Polizia penitenziaria sono d’accordo. Sfumature diverse, è ovvio, ma per dire la stessa cosa: servono uomini, forze nuove. Ancora di più ora, dopo l’arrivo nell’istituto di pena spoletino di oltre settanta detenuti in regime di 41 bis. Sono stati trasferiti in Umbria dopo l’evacuazione del penitenziario di L’Aquila, che si è resa necessaria a causa del terremoto.

"La situazione delle carceri in Umbria deve essere approfondita in maniera seria e risolutiva". I sindacati degli agenti di Polizia penitenziaria sono d’accordo. Sfumature diverse, è ovvio, ma per dire la stessa cosa: servono uomini, forze nuove. Ancora di più ora, dopo l’arrivo nell’istituto di pena spoletino di oltre settanta detenuti in regime di 41 bis. Sono stati trasferiti in Umbria dopo l’evacuazione del penitenziario di L’Aquila, che si è resa necessaria a causa del terremoto.

Personaggi del calibro di Salvatore Madonia che sono sottoposti al cosiddetto carcere duro. A Spoleto è stato da poco ristrutturato e aperto un nuovo padiglione nel quale ora sono ospitati i detenuti arrivati da L’Aquila. Il problema però non è logistico, ma di sicurezza e di carichi di lavoro.

"Il sistema carcerario umbro è al collasso per mancanza di agenti di custodia - attaccano Enzo Gaudiosi, coordinatore regionale dell’Ugl-Coordinamento sicurezza, e Francesco Petrelli, responsabile di settore -. Da tempo si aspetta nuovo personale così da permettere l’apertura definitiva della seconda sezione di Capanne e del secondo padiglione di Spoleto". Quello aperto proprio la settimana scorsa e che ora ospita i 41 bis.

"Anche a Terni - continua l’Ugl - sono iniziati i lavori per la creazione di un’altra sezione. Ed è proprio a Terni che la situazione per carenza di personale è la più disagiata. Anche le rassicurazioni avute riguardo l’arrivo di dieci nuovi agenti di custodia hanno vita breve. Altrettanti poliziotti, infatti, lasceranno la struttura di Vocabolo Sabbione per l’apertura del carcere di Rieti".

L’Ugl fornisce anche dei numeri che rendono più concrete le parole: "Il rapporto che attualmente esiste tra il numero dei detenuti presenti e gli agenti di custodia in servizio è di 0,567 a Terni, 0,849 a Perugia e 1,255 a Spoleto. A dimostrazione - dicono ancora Gaudiosi e Petrelli - che quando parliamo di sofferenza a Vocabolo Sabbione non andiamo oltre i fatti". Anche il Sap è dello stesso parere: occorre personale. "Sappiamo che agenti di custodia saranno aggregati al carcere di Spoleto, in seguito al trasferimento dei detenuti da L’Aquila - spiega Massimo Montebove, portavoce nazionale del Sindacato autonomo di Polizia -. L’aggregazione, però, è un provvedimento temporaneo: in Umbria, e ora a Spoleto in particolare, serve personale fisso, che non venga assegnato per ripianare un’emergenza. Per capirci: a Perugia l’organico è sotto di una cinquantina di agenti, a Terni di quaranta".

Pisa: detenuto tunisino viene trovato impiccato nella sua cella

di Paola Zerboni

 

La Nazione, 14 aprile 2009

 

Un’altra morte in cella, un altro suicidio dietro le sbarre del carcere Don Bosco di Pisa, dove ieri mattina, prima di mezzogiorno, quando le guardie penitenziarie hanno fatto la macabra scoperta, un giovane detenuto straniero, di nazionalità tunisina, si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della finestra, trasformate in forca artigianale utilizzando una corda fatta con le lenzuola e una cintura. Inutili i tentativi di rianimare l’uomo, il cui decesso, secondo la prima ricostruzione del medico legale, risalirebbe ad alcune ore prima.

Forse addirittura dalla nottata precedente, quando gli altri detenuti erano immersi nel sonno e nessuno ha udito gli ultimi rantoli dell’impiccato. Dopo la scoperta, l’avviso alla procura e l’arrivo del magistrato di turno che ha disposto il trasferimento della salma all’obitorio di medicina legale, dove forse già stamani potrebbe essere effettuato l’esame autoptico.

Non è certo la prima volta che accade, dentro le mura del carcere di Pisa. Bocche cucite dall’interno della casa circondariale. Il direttore della casa circondariale, Vittorio Cerri, conferma l’accaduto, ma preferisce non rilasciare dichiarazioni, né rivelare dettagli sull’identità del detenuto suicida, sull’ala del carcere in cui si trovava recluso e sulle modalità della morte. Sul suo corpo, da un primo esame, non sarebbero stati riscontrati segni particolari, ma gli investigatori non escludono alcuna ipotesi. Certezze si avranno solo con l’autopsia che potrebbe essere eseguita già questa mattina.

Ma non è la prima volta, appunto. Solo due mesi fa, uno dei medici che prestano servizio all’interno del Don Bosco per conto dell’Asl, aveva rivelato come dall’inizio dell’anno già cinque detenuti avessero tentato di togliersi la vita. Colpa - aveva denunciato la dottoressa - del sovraffollamento delle loro celle e delle pessime condizioni di vita, soprattutto nel cosiddetto reparto "terra A", invaso dai ratti e spesso allagato per le infiltrazioni che derivavano dalle tubature dell’acqua ormai ridotte a un colabrodo.

Ma l’ultimo suicidio andato a segno, dietro le sbarre del Don Bosco, risale a metà settembre 2008, quando un detenuto riuscì a trasformare la sua cella in una camera a gas, utilizzando il fornellino in dotazione per scaldare le vivande. Anche in quel caso il personale di custodia si rese conto dell’accaduto solo dopo diverse ore. Anche in quel caso la magistratura aprì un’inchiesta, per accertare l’esatta dinamica e le cause di quella morte misteriosa. E dopo sette mesi, le morti misteriose salgono a quota due.

Milano: nel carcere di Bollate, gli orti sono coltivati in verticale

di Cinzia Sasso

 

La Repubblica, 14 aprile 2009

 

Pomodorini, ciuffi di insalata, naturalmente le erbe aromatiche, a cominciare dal prezzemolo fino al basilico. Apri la porta che dà sul balconcino dell’appartamento ed ecco il tuo orto: alto due metri, largo uno e 20; dodici piani di lattughino, ciliegini, origano e magari nasturzi, astri e tageti, così da mischiare il buono col bello, l’utile con il dilettevole. Tutti lì, a portata di mano, arrampicati sulla parete.

Arriva da un luogo che più chiuso non si può, il carcere, quella che rischia di essere l’idea più originale del salone del Mobile 2009: l’orto in piedi. L’hanno pensata, messa a punto e mostrata in anteprima, a Bollate, dentro la casa di reclusione dove il lavoro davvero cerca di nobilitare l’uomo, a cominciare dagli uomini che hanno sbagliato e che invece di trascorrere il tempo di detenzione nel vuoto della noia, lavorano dalla mattina alla sera.

Cascina Bollate è una delle iniziative di lavoro del carcere, una cooperativa sociale nata nel 2007, all’interno della quale giardinieri liberi e detenuti lavorano insieme e l’orto in piedi è la loro invenzione di quest’anno: dal 22 al 27 aprile, quando a Milano caleranno architetti e designer da tutto il mondo per la 48 esima edizione del Salone del Mobile, da Entrata Libera in Corso Indipendenza 16, nello spazio di Bruno Rainaldi - 800 metri quadrati dedicati al design - sarà in esposizione l’orto verticale.

Tecnicamente si tratta di un pannello di substrato fertile rivestito in fibra di cocco con tante tasche dentro alle quali piantare e coltivare verdure o fiori con radici poco profonde. Ricorda, per chi ama frequentare il salone e sa di design, l’erbale di Driade, ma ha l’ambizione di diventare qualcosa di più di un bell’oggetto.

C’è anche una variazione sul tema: è l’orto seduto cioè un pouf a forma di cubo che sulle quattro pareti laterali (a parte quella superiore, su cui ci si siede, e quella inferiore, su cui poggia a terra) ha le coltivazioni. Gli orti sono in produzione e saranno in vendita a 750 euro al pannello. Mentre a New York sui terrazzi degli appartamenti si costruiscono gli orti, e a Londra diventano un fenomeno non solo di costume i giardini trasformati in campi coltivati, dal chiuso del carcere parte questa proposta per avere un pezzo di campagna in città. Perché basta davvero un terrazzino per veder crescere, quasi come fossero in piena terra, fiori di campo, piante annuali, erbacee perenni e piccoli arbusti.

A presentare la novità, che è anche un modo per far conoscere l’iniziativa di lavoro dei detenuti, saranno Anna Peyron, la signora delle rose di Castagneto Po, Susanna Magistretti, presidente della cooperativa Cascina Bollate e Secondino Lamparelli, dell’azienda che ha realizzato i pannelli, la Reviplant. Per la Magistretti, che ha insegnato il giardinaggio ai milanesi più esigenti, questa commissione col design è un simbolico ritorno alle origini e un omaggio al padre, Vico.

Cascina Bollate, come racconta il direttore del carcere Lucia Castellano, è una delle eccellenze del lavoro (che pure è molto diffuso: su 700 detenuti, 500 sono occupati) dietro le sbarre e questa non è la sua prima uscita: tre volte la settimana (mercoledì e venerdì mattina, sabato pomeriggio), a Bollate, sono in vendita i prodotti coltivati nei diecimila metri e nelle due serre della prigione. E non sono prodotti qualsiasi: ci sono colture biologiche e specie che è impossibile trovare sul mass market.

Milano: il 18 aprile l’Uisp porta Vivicittà nel carcere di Bollate

 

Comunicato stampa, 14 aprile 2009

 

Il 18 aprile alle ore 10.30 si disputerà Vivicittà anche nel carcere di Bollate, con la partecipazione di circa 270 detenuti di cui - per la prima volta - anche 30 detenute.

L’U.I.S.P., Unione Italiana Sport per Tutti, organizza anche quest’anno Vivicittà la gara podistica competitiva e non - in 34 città italiane, 25 nel mondo e in 20 Istituti Penitenziari.

Alla gara aderiscono con entusiasmo già dal 2004 anche i detenuti del Carcere di Bollate.

L’interesse per la competizione è cresciuta di anno in anno e per quest’edizione il numero degli iscritti è di 270 detenuti contro i 250 dello scorso anno; per la prima volta parteciperanno anche 30 detenute. Sono una cinquantina quelli che si allenano costantemente e tutte le fasce d’età sono rappresentate.

La gara che si svolgerà all’interno dell’Istituto di Pena, sarà disputata sabato 18 aprile con partenza alle ore 10.30 su un percorso di 12 km. e verrà regolamentata dai giudici Fidal. Tutti i partecipanti saranno dotati di maglietta e relativo pettorale. All’arrivo saranno premiati i primi tre classificati.

Il percorso si snoderà nei viali interni del Carcere , tra le serre, i campi da calcio e il maneggio e quel giorno anche la fatica della corsa allevierà la pesantezza della detenzione, donando la gioia di una festa collettiva. Vivicittà in carcere è una gara particolare e per realizzarla è decisiva la collaborazione tra Comitati Uisp di Milano, la Direzione del Carcere, gli educatori, la polizia penitenziaria.

 

Il direttore D.ssa Lucia Castellano

Roma: il Cappellano di Regina Coeli; la mia Pasqua tra detenuti

 

Radio Vaticana, 14 aprile 2009

 

La testimonianza di padre Vittorio Trani, Cappellano del carcere romano di Regina Coeli

In questi giorni di Pasqua, i cristiani vivono la gioia della Resurrezione del Signore. E ovunque si respira un clima di serenità, da trascorrere in famiglia. Ma ci sono anche coloro che non possono godere di questa atmosfera serena: sono i detenuti, le persone in carcere, come quello romano di Regina Coeli. Come si vivono, allora, i giorni pasquali, in questo luogo di detenzione? Isabella Piro lo ha chiesto al cappellano di Regina Coeli, padre Vittorio Trani: "È un po’ come gli altri contesti. Noi abbiamo fatto la benedizione delle carceri e delle celle, con l’impegno dei sacerdoti di venire incontro ad un colloquio per le confessioni. Abbiamo fatto la Via Crucis, la Santa Messa in Coena Domini. Siamo, quindi, una parrocchia sui generis, ma non si trascura nulla delle cose che si celebrano negli altri contesti".

 

I familiari dei detenuti, che in questi giorni ovviamente sono separati da loro, come vivono - per quella che è la sua esperienza - questi giorni di festa?

Per loro è doppiamente un momento difficile, perché io immagino una mamma, una moglie, che ha a casa dei bambini, senza il marito. E poi c’è l’aspetto pesante nel sapere che il proprio caro è solo in un contesto di limitazione di libertà. In questi giorni tutti cercano di venire per il colloquio in carcere, il più vicino possibile alla Pasqua. Rimane sempre, però, un fatto che non toglie la pesantezza del carcere.

 

Come trasmettere la speranza a chi è dietro le sbarre?

Il ricordare all’uomo in difficoltà che il Signore ci ha redenti, ci ha salvati, è morto per noi, che ci ama, che ci ha rivelato il volto del Padre, rappresenta un messaggio importante soprattutto per coloro che si trovano a vivere un’esperienza simile. Questo del carcere è un calvario molto forte, molto pesante.

 

Da tanti anni lei è cappellano a Regina Coeli: c’è una storia in particolare che le è rimasta nel cuore?

L’esperienza di un ragazzo che rubò ad una signora la catenina e la sera questa signora, che apparteneva ad un movimento cristiano molto impegnato, pregando con il marito disse: "E se questo giovane che ha rubato avesse in questo modo chiesto aiuto a noi, perché è nella disperazione?". E così inviarono al ragazzo una lettera, quando si trovava a Regina Coeli, il quale me la fece vedere. Inizialmente, il ragazzo diceva "questi sono matti".

Loro gli scrivevano: "Siamo qui, ti abbiamo scoperto, conosciuto, attraverso questa forma sbagliata, e ti vogliamo amare, vogliamo esserti vicino, ti vogliamo aiutare". L’immissione di un rapporto d’amore dentro l’esperienza di una vita negativa di questo ragazzo l’ha trasformato. Adesso è un papà di famiglia splendido. Io dico sempre che il dinamismo dell’amore in questo contesto è sempre vincente, perché è un mondo dove gran parte del male è legato alla mancanza di amore.

 

Qual è il suo augurio per tutti i detenuti di Regina Coeli e non solo?

Che non perdano la speranza, perché il Signore rimane vicino sempre, soprattutto quando la vita si fa in salita. E per loro l’esperienza detentiva è veramente una salita molto difficile.

Trapani: due ergastolani condannati per "tentata corruzione"

 

Asca, 14 aprile 2009

 

Due ergastolani di origine campana, Giuseppe Castaldi e Massimiliano Esposito, di cinquantuno e trentasette anni, sono stati condannati dal Tribunale di Trapani rispettivamente a due anni ed un anno e quattro mesi di reclusione per istigazione alla corruzione. Erano accusati di avere tentato di corrompere, con la complicità di alcuni familiari, un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di San Giuliano al fine di fare introdurre nel penitenziario aragoste fresche, caviale ed altri generi alimentari.

Immigrazione: l’Ue; no alle "classi ghetto" per alunni stranieri

di Alessandra Miguozzi

 

Italia Oggi, 14 aprile 2009

 

No alle classi speciali per gli stranieri, no alle classi ghetto. L’appello arriva da Bruxelles dove i deputati hanno approvato la relazione del liberal democratico Hannu Takkula in cui c’è scritto nero su bianco che il parlamento europeo raccomanda agli stati membri di "evitare di creare scuole simili a ghetti" ovvero di mettere i migranti tutti nella stessa classe.

Una scelta che in Italia, sia a livello nazionale - sotto forma di mozioni parlamentari - che locale, è stata caldeggiata in particolare dalla Lega Nord. Il documento non è vincolante, ma esprime una posizione politica forte: i deputati (431 sono stati i voti favorevoli, 55 i contrari e 94 le astensioni) premono su Commissione e Consiglio Ue affinché sia avviato uno scambio delle buone pratiche e perché gli stati membri adottino una agenda comune su questo tema.

Intanto il Parlamento Ue ha fornito le sue linee guida: servono politiche "inclusive" e sforzi maggiori per integrare gli immigrati tra i banchi. Va insegnata loro la lingua del paese ospitante (ma anche quella madre, magari con ore ad hoc), servono insegnanti preparati per affrontare il fenomeno migratorio. Classi ad hoc per gli immigrati, invece, danneggiano l’apprendimento e l’inserimento. Sempre il Parlamento si è occupato anche di diritto ad una istruzione di alta qualità per tutti i cittadini Ue.

E dei finanziamenti per gli istituti paritari religiosi. Nella relazione che doveva essere inizialmente votata, quella del deputato Pat Schmitt (Ppe/De), c’era un passaggio in cui si chiedeva "parità di finanziamenti per tutti i tipi di scuole, in proporzione alle loro dimensioni e a prescindere dalla loro filosofia educativa" e si sottolineava, anche in quest’ottica, "il ruolo importante degli istituti scolastici religiosi". Parole saltate nel testo arrivato in aula dove è stata votata una risoluzione diversa per via dell’opposizione dei liberal democratici e dei socialisti. "Questo è un tema che riproponiamo ogni anno",spiega Mario Mauro, Ppe/De, vice presidente del Parlamento Ue e ex responsabile nazionale Scuola di Forza Italia, "e ogni anno rosicchiamo

qual cosina in più. D criterio sui finanziamenti che viene annunciato nel testo definitivo, per quanto riduttivo, non ci lascia del tutto insoddisfatti". Nel documento si sostiene, infatti, che l’istruzione pubblica deve restare principalmente un settore finanziato dallo Stato e che andrebbe concesso un sostegno supplementare agli istituti d’istruzione pubblici che si trovano in situazioni finanziarie più sfavorevoli. Tuttavia si guarda con favore alle "iniziative che puntano a sviluppare una fruttuosa collaborazione con il settore privato e a esplorare nuovi metodi di finanziamento complementare".

La risoluzione votata guarda anche al ruolo chiave di scuola e università come "strumento per la ripresa economica". Per questo il Parlamento chiede che i programmi scolastici siano ammodernati e che i giovani siano preparati alla flessibilità nel mercato del lavoro. Si sollecita anche l’apprendimento delle lingue straniere: almeno l’80% degli alunni del primo ciclo dell’insegnamento secondario dovrebbe impararne almeno due.

Immigrazione: nigeriana va in ospedale; processata ed espulsa

di Alessandro Braga

 

Il Manifesto, 14 aprile 2009

 

Nella specialissima gara alla delazione da parte dei medici, che la norma contenuta nel pacchetto sicurezza attualmente all’esame del parlamento vorrebbe istituzionalizzare, non poteva certo mancare il Veneto. Nella fattispecie Treviso. Per essere ancora più precisi, Conegliano Veneto. La terra d’origine del sindaco sceriffo per antonomasia, Giancarlo Gentilini, mica poteva deludere il suo illustre compaesano.

E del resto il primo firmatario della proposta è il leghista Federico Bricolo, che a Verona ha i suoi natali. Allora, anche se un po’ in ritardo rispetto ad altre partì d’Italia più celeri nel recepire le "belle novità" legislative del governo, ecco apparire in classifica anche il Veneto, con il suo caso. Quello di una ragazza nigeriana che, arrivata al pronto soccorso per farsi curare, si è vista recapitare una bella lettera di espulsione dal territorio italiano.

La legge fortemente voluta dalla Lega nord non è ancora in vigore, ma le sue prime "vittime" le ha già fatte. Prima è arrivata Napoli, con la vicenda di Kante, la giovane ivoriana denunciata mentre era all’ospedale Fatebenefratelli del capoluogo campano per partorire. Poi, la "doppietta" lombarda, Brescia e Pavia.

Nella "Leonessa d’Italia" Baccan Ba, un ragazzo senegalese di 32 anni, ha aspettato quattro giorni prima di andare all’ospedale per un mal di denti che gli faceva patire le pene dell’inferno per paura di essere espulso. Quando si è convinto a farsi curare, una zelante guardia giurata lo ha portato al commissariato. Si è dovuto tenere il mal di denti e, in aggiunta, si è beccato un "foglio di via". Nella patria dei "bata lavar" (i tipici agnolotti in brodo dell’Oltrepò) Carlos, ventunenne boliviano, irregolare, ha passato dieci giorni con dolori lancinanti all’addome prima che i suoi amici lo convincessero a farsi ricoverare in un ospedale della città lombarda. È già stato operato cinque volte ed è ancora in sala di rianimazione, gravissimo. Non si sa se sopravvivrà. Fosse andato subito a farsi curare, se la sarebbe cavata con un’operazione di routine e qualche giorno di degenza. A chiudere la lista degli episodi, almeno per ora, Conegliano Veneto.

La ragazza, vent’anni, nigeriana, viveva un po’ dove le capitava. Spesso nei pressi della stazione della cittadina veneta. Se era fortunata, la ospitava qualche amico. Qualche sera fa si è sentita male mentre era a casa di connazionali e ha pensato che, se fosse andata all’ospedale, l’avrebbero curata. Del resto, per definizione un ospedale serve proprio a quello. Allora, intorno all’una di notte, si è recata al pronto soccorso dell’ospedale santa Maria dei Battuti di Conegliano.

Visitata dal medico di turno, la ragazza è stata tenuta sotto osservazione per un paio d’ore. Per tutto il tempo, alle pressanti richieste del personale ospedaliero, che voleva sapere le sue generalità, ha risposto picche. E allora lo zelante medico non ha trovato di meglio da fare che chiamare il 113, per avvisare gli agenti che nell’unità operativa era stata presa in carico una "paziente ignota". Per giustificarsi, il dottore ha dichiarato che le generalità servivano per "fugare il rischio di eventuali problemi sanitari", riscontrabili attraverso un controllo dei database in possesso dell’ospedale.

Il primario del pronto soccorso dell’ospedale, il dottor Enrico Berardi, ha immediatamente preso le distanze dal collega: "Non ne sapevo nulla - ha detto - approfondirò il caso. Ma se è vero che un collega del mio reparto ha denunciato una paziente perché clandestina, ha avuto un comportamento scorretto, al di fuori delle regole che disciplinano il rapporto tra medici e ammalati".

Trasportata al commissariato, la ragazza ha ceduto, e ha detto come si chiamava. Così i poliziotti hanno scoperto che la giovane aveva già ricevuto un ordine di espulsione emesso dalla questura di Agrigento. Dopo essersi sottoposta all’esame delle impronte digitali, la fanciulla ha dovuto passare una notte al fresco.

Il mattino successivo, il processo per direttissima. A nulla sono servite le spiegazioni, tra le lacrime, della giovane, che ha dichiarato davanti al giudice di essere scappata dalla Nigeria per sfuggire alla morte. Al termine dell’udienza si è ritrovata con in mano un nuovo foglio di espulsione. Dovrà lasciare il territorio italiano entro pochi giorni, senza accompagnamento.

Droghe: preside liceo a processo per "istigazione" a uso cannabis

 

Notiziario Aduc, 14 aprile 2009

 

Il preside di un liceo è stato rinviato a giudizio dal tribunale di Trani per istigazione all’uso di stupefacenti: aveva detto ad una classe del quinto anno che non vi sono prove scientifiche sulla nocività della cannabis e sul fatto che crei dipendenza anche a lungo termine.

I fatti descritti dall’accusa spiegano che il preside avrebbe espresso parere favorevole alla legalizzazione della cannabis. Il tutto mentre i carabinieri stavano facendo una lezione sui cosiddetti effetti devastanti della marijuana.

Siamo alla follia censoria, contro la libertà di insegnamento, di espressione e di informazione. Non potrebbe essere diversamente, visto che la politica e l’informazione sulle droghe è lasciata quasi esclusivamente in mano a militari e poliziotti, piuttosto che a scienziati e medici.

Quello che ha detto il preside lo difendiamo e se questa follia censoria fosse applicata alla lettera, anche siti Internet come il nostro, dove facciamo informazione quotidiana sulle droghe, dovrebbero essere denunciati per "istigazione al consumo": chiediamo, e da anni ci adoperiamo, per la legalizzazione della marijuana, ritenendo che la proibizione provochi maggiori danni di quanto le sostanze possano mai infliggere.

Gli unici effetti nocivi individuati dagli oltre 17mila studi sulla marijuana, riguardano la salute neuropsichiatrica degli adolescenti, ma anche in questo caso non è scientificamente dimostrato quanto la sostanza sia causa oppure solo fattore scatenante di una patologia già esistente.

Ricordiamo anche che tabacco e alcool - sostanze legali - creano maggiore dipendenza della marijuana e producono nel mondo circa 4 milioni di vittime ogni anno, mentre non si registrano decessi per cannabis. Ciò che è stato scientificamente e statisticamente dimostrato, è che militari e poliziotti non dovrebbero fare informazione sugli stupefacenti nelle scuole, perché provocano risultati contrari a quelli auspicati.

Un enorme programma statunitense basato proprio sulle lezioni di poliziotti (il D.A.R.E.), non solo non ha dato risultati positivi nelle migliaia di scuole dove è stato attuato, ma addirittura ha spinto i soggetti più curiosi e vulnerabili a provare droghe nuove. Insomma, da denunciare per istigazione al consumo sono i carabinieri e i poliziotti che vanno a pontificare nelle scuole e quei politici che ce li mandano.

Haiti: i soldi dell'ex dittatore Duvalier per umanizzare le carceri

 

Ansa, 14 aprile 2009

 

Migliorare le condizioni di vita nelle carceri utilizzando i soldi confiscati all’ex dittatore, Jean Claude Duvalier, che trasformò le prigioni "in veri e propri campi di sterminio". Ad Haiti, è stata questa la proposta della Commissione episcopale nazionale "Giustizia e pace" e del Centro ecumenico per i diritti umani, alla notizia che a breve circa sette milioni di franchi svizzeri, confiscati al clan Duvalier e congelati dal 2002 in banche della confederazione elvetica, saranno ridistribuiti al Paese.

In una nota, sottoscritta anche dal Gruppo di sostegno rimpatriati e rifugiati (Garr), i firmatari ricordano che "la dittatura dei Duvalier, tra le più brutali della seconda metà del XX secolo, utilizzò sistematicamente la detenzione in condizioni abominevoli come uno dei mezzi più efficaci per controllare la popolazione e mantenersi al potere" e che "oltre 20 anni dopo l’uscita di scena di Duvalier - presidente di Haiti dal 1971 al 1986 - gli sforzi per instaurare lo Stato di diritto non sono stati rivolti come si sarebbe dovuto verso il sistema penitenziario" dove i reclusi vivono "in condizioni inqualificabili, ampiamente documentate e denunciate". A fronte di ciò - spiega la nota - destinare denaro al miglioramento delle carceri rappresenta "un gesto di profonda umanità che sarà sostenuto da tutta la nazione".

Cina: entro due anni "stop" a tortura ed abusi contro i detenuti

 

Asia News, 14 aprile 2009

 

Pubblicato il primo Piano per realizzare i diritti umani in Cina. Obiettivo primario la tutela dei detenuti, ma anche la lotta alla disoccupazione. Favorevoli molti esperti, ma scettici sull’ effettiva attuazione. Ma altri osservano che è importante la sola ammissione che ci sono diritti umani fondamentali diversi dalla sussistenza.

Il Consiglio di Stato ha pubblicato ieri il primo "Piano di azione nazionale per i diritti umani della Cina" che indica gli obiettivi del prossimo biennio. Al primo posto una maggior tutela fisica e morale per arrestati e detenuti. Al di là delle critiche per le molte "omissioni", il Piano può costituire un mutamento epocale della politica cinese.

Il Piano promette di proibire le confessioni estorte con la tortura prevedendo un "esame fisico" prima e dopo l’interrogatorio, nonché di vietare punizioni corporali, insulti e altri abusi contro i detenuti. Inoltre afferma il diritto dei detenuti di presentare proteste scritte o di parlare con il pubblico ministero per denunciare abusi. Viene pure ribadito il diritto a incontrarsi e comunicare con l’avvocato e il diritto del legale a poter svolgere nel miglior modo la difesa.

Il programma vuole rassicurare l’opinione pubblica del Paese, allarmata perché dall’8 febbraio ci sono state almeno 6 morti "sospette" di detenuti. In un caso le autorità carcerarie hanno cercato di coprire un omicidio compiuto da un altro detenuto. L’ultimo episodio è la morte di Chen Hongqiang, l’11 aprile nel carcere di Fuzhou (Fujian), che scontava 10 giorni di detenzione per uso di stupefacenti.

Il Piano vuole anche aumentare i redditi, creare 180 milioni di nuovi posti di lavoro, costruire case da vendere a prezzi popolari e proteggere meglio i diritti economici della popolazione. Gruppi per la tutela dei diritti umani criticano il documento per le molte omissioni, anche con riguardo al diffuso uso della "detenzione amministrativa" e dei campi di rieducazione-tramite-lavoro e delle prigioni "fantasma" dove è detenuto senza accuse chi presenta petizioni o minaccia gli interessi delle autorità. Alcuni esperti dicono che si tratta di un’operazione che vuole mitigare le contestazioni interne e internazionali per gli abusi contro i diritti, anche per l’approssimarsi del 20° anniversario del massacro dei dimostranti pro-democrazia il 4 giugno 1989 a piazza Tiananmen.

Joshua Rosenzweig, dirigente a Hong Kong della Fondazione Dui Hua che difende i diritti umani, lo definisce "un passo importante" verso una migliore tutela dei diritti, anche se avverte che senza cambiamenti concreti per il rispetto dei diritti si resta al livello delle buone intenzioni.

Ma molti osservano che da sempre Pechino afferma che i diritti umani come concepiti in Occidente non sono applicabili alla diversa realtà cinese e ancora nelle premesse il Piano indica come prioritaria "la protezione dei diritti del popolo alla sussistenza" (mangiare, abitare, vestirsi): per cui affermare come necessaria la tutela dei diritti dei detenuti indica un significativo cambiamento di visuale. L’agenzia Xinhua osserva che "il governo ha ammesso che ‘la Cina ha davanti una lunga strada nel tentativo di migliorare la situazione dei diritti umani’".

Il Piano promette anche di consentire ai giornalisti e ai siti internet una maggiore libertà nella raccolta delle notizie "nel rispetto della legge". Come pure di "accrescere il livello di garanzia dei diritti civili e politici della popolazione" attraverso una maggior democrazia e rispetto delle leggi, ma non specifica come.

Usa: un reality sui detenuti scagionati grazie alla prova del Dna

 

Ansa, 14 aprile 2009

 

Il ricco filone dei reality show si arricchisce di una nuova serie che ha sollevato critiche e polemiche ancor prima di andare in onda. Dallas Dna Unit, programma statunitense che racconta la storia di persone ingiustamente incarcerate e scagionate grazie alla prova del Dna, è stato infatti accusato di speculare sul dolore dei detenuti nel nome dell’intrattenimento.

Il reality è stato sviluppato da Craig Watkins, procuratore generale della Contea di Dallas, Texas, che dal 2007 ha assistito 10 persone condannate e rivelatesi poi innocenti. Secondo Watkins il programma "renderà la giustizia migliore", ma molte associazioni che difendono i diritti dei detenuti si sono mostrate scettiche.

Per Jeff Blackburn, dell’Innocence Project of Texas, "la trasmissione serve solo a favorire la carriera politica di Watkins", mentre Rob Warden, direttore esecutivo della Northwestern University’s Center of Wrongful Convictions, ha messo in guardia dagli ostacoli etici sollevati da un’iniziativa del genere. Il reality verrà prodotto in Texas perché nella contea di Dallas è stato registrato il più alto numero di persone scagionate dopo il test del Dna. Tra di loro anche Johnnie Linsday, protagonista della prima puntata in onda il 28 aprile, condannato per stupro nel 1981 e liberato dopo aver trascorso 26 anni in carcere.

 

 

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